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Foglie celebrative di Pio IX Tra gli oggetti botanici a carattere politico di maggior suggestione troviamo le due foglie di castagno con immagini e iscrizioni celebrative di Pio IX, conservate nelle collezioni del Museo civico di Bologna. Entrambe racchiuse in una cornice, la prima raffigura un uomo con in una mano una bandiera su cui è riportato lo slogan che più di ogni altro ha caratterizzato il paesaggio sonoro del lungo Quarantotto, «Viva Pio IX!», mentre nell’altra tiene una corona d’alloro; la seconda, invece, riproduce lo stemma papale sormontato da triregno e chiavi. Dal punto di vista tecnico, l’oggetto è stato prodotto “scarnificando” le foglie, ovvero eliminandone le parti molli con una soluzione basica di acqua e lisciva dopo averle rinchiuse in una maschera traforata, allo scopo di evidenziarne lo “scheletro” e le nervature (xilema), e al tempo stesso garantirne la conservazione nel tempo, ponendole al riparo dalla macerazione e dall’attacco dei parassiti. Descritto per la prima volta in Europa dall’anatomista olandese Frederick Ruysch (1638-1731), il procedimento, mutuato dall’ambito scientifico, nel corso della seconda metà dell’Ottocento fu al centro di una vera e propria moda, sintomo dell’emergere di una passione botanica che si espresse non solo attraverso la diffusione delle pratiche di erborizzazione al di fuori dei circuiti accademici, ma anche tramite la realizzazione dei cosiddetti phantom bouquets, fenomeno diffuso soprattutto in ambito anglosassone e che conobbe un impiego anche in chiave “politica” e celebrativa – si pensi alla serie Skeleton Leaves, i ritratti fotografici realizzati da John P. Soule a personaggi quali Lincoln, Washington, Wilson, etc.
In Italia, uno dei primi e più abili preparatori di “scheletri fogliari”, che riuscì anche a tradurre a stampa, fu il parmense Tommaso Luigi Berta, le cui realizzazioni sono conservate in parte nella Biblioteca Palatina e in parte nell’Orto Botanico di Parma. Come ricordava Enrico Dal Pozzo di Mombella nella memoria dedicata agli studi botanici del Berta, letta all’Accademia delle Scienze di Bologna il 18 aprile 1985, «Molti anni di studio perseverante perfezionarono la sua scoperta, la quale […] consiste = nel togliere esattamente ad ambe le pagine di una foglia senza punto lacerarla “l’epidermide ricoperta dalla pellicola epidermica” e poscia mondarla di tutta la sostanza parenchimatosa che riempie gli spazi vuoti fra i vasi, e similmente ogni qualvolta la finezza del tessuto lo permetta, separare “li strati delle reti vascolari”. […] Poscia gli venne anco trovato il modo di tirare copia su stampa de’ suoi scheletri; e così poté presentare a naturalisti l’importante scoperta in ogni splendore di sua bellezza, scoperta che vasto campo aprirà alla botanica, ove venga conosciuta, e da suoi cultori praticata» (Dal Pozzo di Mombella 1850, p. 9).
Autodidatta, appassionato studioso e della biologia vegetale e pioniere della fisiotipia, nella sua Memoria sull’anatomia delle foglie delle piante, edito nel 1829, Berta precisava appunto come «Gli scheletri veramente perfetti delle foglie non debbono lasciar apparire la menoma traccia di parenchima» (Berta 1829, p. 6, nota 4). Ed è proprio all’utilizzo di questa pratica, peraltro non priva di una certa complessità, che si deve la conservazione nel tempo e quindi la successiva musealizzazione di queste “tarsie vegetali”, prodotte in occasione delle manifestazioni in onore di Pio IX nel 1846-1847, dunque con una funzione eminentemente celebrativo-propagandistica, sebbene resti difficile determinare con precisione il loro concreto utilizzo nello spazio pubblico dell’epoca. Come è noto, alla vigilia dei moti del 1848, che rappresentarono un momento di eccezionale mobilitazione e attivismo politico a livello continentale, Giovanni Maria Mastai Ferretti, da poco eletto al soglio pontificio, fu protagonista di uno straordinario investimento politico-religioso, che ne fece un simbolo di emancipazione e progresso agli occhi dell’opinione pubblica italiana ed europea (Veca 2017). Un investimento “ideale” che ebbe riflessi anche sul piano materiale, sfociato nella produzione di gadgets di vario tipo: spille, monete, medaglie, bandiere, foulard, statuette che riportavano il segno distintivo del nuovo papa (Veca 2018). Un segno che ritroviamo anche su un oggetto apparentemente inusuale, che mostra in maniera quanto mai efficace il collegamento tra botanica e attualità politica.
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Bandiera tricolore con motivo floreale L’elemento botanico si ricollega a uno dei temi patriottici per eccellenza, ovvero il tricolore. Nelle collezioni del Museo del Risorgimento di Faenza è conservata una bandiera che reca al centro un fiore a cinque petali (due rossi, due bianchi, uno verde), a cui è a sua volta incastonata una stella a cinque punte. Sotto il fiore – molto simile a una viola – è presente l’iscrizione «Viva l’Italia». L’esistenza di questa bandiera nelle collezioni del museo faentino è segnalata fin dalla sua fondazione, in occasione della Esposizione Regionale Romagnola di Ravenna del 1904. L’oggetto ha una storia particolare: si dice sia stato sottratto nel 1861 dal maggiore Clemente Querzola, originario di Faenza, che prese parte a tutte le guerre di indipendenza, ai briganti della Capitanata, che l’avevano sottratta alla Guardia Nazionale. Nel 1860-1861, infatti, in quella particolare zona della Puglia fu scossa da una serie di proteste e disordini, sfociati in un’apposita campagna contro il brigantaggio (Capone 2015).
Come è noto, il tricolore italiano quale bandiera nazionale nacque il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia, su proposta del deputato del Parlamento della Repubblica Cispadana, Giuseppe Compagnoni. A quell’epoca le sue bande erano disposte talvolta verticalmente all’asta, talaltra orizzontalmente. In seguito, al principio del secolo successivo, esso assunse la forma quadrata con tre quadrati racchiusi uno nell’altro. Abolito alla caduta del Regno Italico, il tricolore fu ripreso nella sua variante rettangolare dai patrioti del 1821 e del 1831 e durante i moti del 1848 divenne il simbolo di una riscossa nazionale che attraversò tutta l’Italia. La particolarità della rappresentazione sulla bandiera conservata presso il museo faentino consiste nel fatto che essa riconduce alla radice etimologica del termine tricolore, ovvero alla sua origine botanica, seguita alla volgarizzazione del termine latino viola tricolor, nome scientifico di quella particolare varietà floreale meglio nota come viola del pensiero. Il vocabolo è, di fatto, una delle numerose «mutuazioni francesi» del Risorgimento italiano, sia dal punto di vista dei colori che da quello semantico: un «francesismo araldico […] tra i più tangibili di un’influenza culturale e politica oltramontana così profonda da lasciare tracce indelebili in molti altri aspetti del processo di nation building» (Tomasin 2010, p. 59). Ma la connessione tra il tricolore e il mondo floreale non si arrestava all’ambito della rappresentazione visuale. Nel corso dell’Ottocento, infatti, si assistette alla diffusione di un gran numero di stornelli, canzoni e poesie popolari in onore del vessillo nazionale con precise allusioni botaniche. Il brigidino, uno dei più famosi Stornelli italiani raccolti da Francesco Dall’Ongaro (datato «Siena, 4 agosto 1847»), così recitava: «E lo mio amore se n’è ito a Siena, / M’ha porto il brigidin di due colori. / Il bianco gli è la fè che c’incatena, / Il rosso l’allegria de’ nostri cori. / Ci metterò una foglia di verbena, / Ch’io stessa alimentai di freschi umori, / E gli dirò che il rosso, il verde, il bianco / Gli stanno bene, colla spada al fianco. / E gli dirò che il bianco, il verde e il rosso, / Vuol dir che Italia il suo giogo l’ha scosso. / E gli dirò che il bianco, il rosso, il verde / È un terno che si gioca e non si perde» (Dall’Ongaro 1963, p. 15). Con il termine brigidino, infatti, si indicavano all’epoca le coccarde, per la somiglianza con certi dolci popolari toscani che dovevano il loro nome alle monache di Lamporecchio, devote a Santa Brigida. Dello stesso autore lo stornello intitolato La camelia toscana (Firenze, 1847), lo stornello giocava sul mettere insieme i colori della dinastia Austro Lorenese, il bianco e il rosso, col verde delle foglie, e leggenda vuole che Garibaldi lo cantasse a Montevideo prima di salpare per l’Italia: «Bel fior che in rosso e in bianco vi tingete / E fra due verdi foglie vi posate, / Ditemi da qual terra esule siete? / Ditemi in che stagion vi colorate?» (Dall’Ongaro 1963, p. 20). Lo stesso tema si ritrova nei versi di Giuseppe Regaldi, composti nel febbraio del 1848: «Bella Italia, su’ tuoi gioghi / Fioccan nevi e freme il gelo; / Pur ti diè nel verno il cielo / Dell’aprile il primo onor; / Ti diè un fiore – tricolore, / Che d’Italia è il più bel fior» (Regaldi 1848, p. 103). Un altro celebre canto popolare dell’epoca, quello del Giovanettin dalla pupilla nera, riproponeva il tema botanico: «– Giovanottin dalla pupilla nera, / Dimmi, qual’ è [sic] il color di tua bandiera? / – Se una rosa vermiglia e un gelsomino / A una foglia d’allôr metti vicino, / I tre colori avrai più cari e belli / A noi che in quei ci conosciam fratelli; / I tre colori avrai che fremer fanno / L’insanguinato imperator tiranno. / Beato il dì che li vedrà Milano! / Sono Italiano» (Anonimo 1887, p. 140). Al contrario, la parodia di un rispetto popolare diffuso a Firenze e a Livorno alludeva all’insegna gialla e nera dell’Austria: «Tonino che tornò da Barlassina / Portommi un fiorellin di due colori: / Il giallo, un’itterizia malandrina, / Il nero, il lutto delli nostri cori. Io v’unirò una zampa di pollina / Usa a raschiar ne’ più fetenti odori, / E gli dirò che il dindio, il giallo e il nero / Emblema son d’un aborrito impero. / E gli dirò che il dindio, il nero e il giallo / Treman perché l’Italia torna in ballo; / E gli dirò che il nero, il giallo e il pollo /Andranno, quanto prima, a rompicollo» (Martini 1892, pp. 25-26). Il collegamento fiore-tricolore si ritrova poi in una serie di oggetti di uso quotidiano, come il ventaglio tricolore a forma di fiore conservato presso le collezioni del Museo del Risorgimento – Leonessa d’Italia di Brescia.
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Sciallo di Cattaneo e Mazzini
Nel Museo del Risorgimento di Genova, dentro la teca dedicata alla morte di Giuseppe Mazzini, è esposto un panno di lana ripiegato a mo’ di cuscino , con un breve testo ricamato in seta:
Questo Panno / che fu di / CARLO CATTANEO / e ne ravvolse la salma / il / 6 Febbraio 1869 ebbe caro / come suo ricordo / GIUSEPPE MAZZINI / e lui coprì / malato e morto / il / 10 Marzo 1872 / Ag[ostino] Bertani
Accanto, una didascalia recita:
Scialle quadrettato bianco e nero / Panno di lana (509 ) / Ha ricamata l’iscrizione “Questo Panno…” / Lo stesso panno ravvolse anche la salma di Maurizio Quadrio, / morto il 14 novembre 1876.
Lo sciallo è immancabile nell’iconografia della rappresentazione della morte di Cattaneo e Mazzini. L’avere avvolto i due leader del Risorgimento repubblicano con l’apparenza di un sudario ne esprime plasticamente la vicinanza e al panno fa acquistare un significato che va ben oltre il valore elementare di coperta.
Comunemente definito sciallo (nell’uso settentrionale del sec. XIX) o scialle, in realtà si tratta di un plaid, o meglio un maud , sullo Scottish Register of Tartans chiamato Shepherd o Falkirk, ovvero una coperta di lana grezza a due colori naturali (chiaro e scuro) realizzata secondo un motivo semplice e primitivo, una scacchiera di piccoli quadrati regolari chiari e scuri, precedente l’uso delle policromie consuete tra i tartan scozzesi, prevalentemente usato nelle Lowlands, le contee scozzesi prossime al confine con quelle inglesi.
Le sue misure sono 280 x 150 cm, cui bisogna aggiungere 10 cm di frangia sui quattro lati, e il peso è di poco inferiore agli 800 gr. Il quadrato di base del motivo a scacchiera ha il lato di circa 4 mm ed è composto da 4 fili. Sulla parte posteriore presenta numerosi rammendi e qualche buco da camola.
Numerose anche le toppe, fatte di un eguale tessuto, applicate ad arte in modo da non apparire nella parte anteriore. Su un bordo lungo risulta tagliato un rettangolo di stoffa di misura 14 x 4 cm. Su tutto il bordo inferiore (considerando superiore quello dove è stata ricamata la scritta in seta) si nota un raddoppiamento del tessuto come se al panno fosse stata giustapposta un’intera striscia di tessuto.
Riguardo alle toppe, indistinguibili dallo sciallo per qualità e colore, si può ipotizzare il ricorso a un plaid del tutto analogo, oppure, pare plausibile, a una striscia dello stesso plaid ricavata sul bordo inferiore: ciò che spiegherebbe il raddoppiamento come effetto della ricongiunzione della parte terminale comprendente la frangia. In questo caso, la lunghezza originaria potrebbe essere prossima a 300 cm.
L’assenza di cuciture mediane e la larghezza del tessuto ben più ampia della misura media di circa 70 cm ottenibile con il tradizionale telaio manuale scozzese lascia pensare a una fabbricazione col telaio meccanico. Sui lati del maud non si trova alcun segno – cifra o marchio – che permetta di risalire alla manifattura che lo ha prodotto. Peraltro, il modello Shepherd risulta nell’elenco della ditta William Wilson and Son, di Bannockburn (Stirling), la principale manifattura di tartan nel corso del sec. XIX, ed era comunemente prodotto a Hawick (Scottish Borders).
I documenti finora consultati non permettono di capire come la coperta sia arrivata in casa Cattaneo, se attraverso un acquisto, un dono o un’eredità: non ne è stata trovata notizia nei carteggi di Cattaneo e Bertani, né se ne trova nell’epistolario di Mazzini consultato in riferimento al periodo 1868-1872.
Avvolto il corpo di Cattaneo e quello di Mazzini, lo sciallo, ormai non più solo un semplice plaid, diventa negli anni un oggetto di memoria da custodire e tramandare. Probabilmente ne esiste un’ampia eco popolare se il Caffaro, quotidiano genovese, il 15 febbraio 1876, annunciando la morte di Maurizio Quadrio, fedele continuatore di Mazzini, avvenuta tre giorni prima, riporta:
Egli è morto in Roma, avvolto nello stesso sciallo che avvolse, nelle ore d’agonia, Cattaneo e Mazzini. Gli amici di tutta la vita si univano ancora nella morte.
Ma la notizia sarò smentita pochi giorni più tardi (26 febbraio)
Secondo Giulio Andrea Belloni, biografo di Quadrio, si tratta dal giornale romano L’Emancipazione
Lo scialle che avvolse Cattaneo è conservato dal deputato Bertani e non servì pel nostro Maurizio.
Smentita degna di attenzione, trattandosi del periodico diretto dallo stesso Quadrio, ma non sufficiente, visto che la falsa notizia ha avuto riverberi fino ai nostri giorni. Si veda il catalogo dei documenti esposti nelle sale mazziniane, stampato nel 1972, che riporta: Scialle di lana di Carlo Cattaneo che coprì Mazzini malato e la sua salma, e, successivamente, quella di Maurizio Quadrio , o il successivo catalogo generale del 1987 , fino ad arrivare alla didascalia citata in apertura.
Dopo la morte di Mazzini, lo sciallo passa nelle mani di Agostino Bertani che, in seta bianca, vi fa ricamare la scritta di autenticazione riportata in apertura. E la fa ricamare nella parte alta a sinistra, in modo che, piegato, lo sciallo possa assumere la foggia a cuscino mantenuta fino a oggi.
Del ricamo non sappiamo né quando né a chi Bertani l’abbia commissionato; resta solo il cartamodello conservato presso il Museo del Risorgimento di Milano, insieme con una successiva nota anonima:
Questa è l’epigrafe scritta da Bertani per lo sciallo che coprì prima Cattaneo poi Mazzini ed è a questo sciallo che Bertani allude nel suo testamento. Ricordo lasciato ad Adriano Lemmi, 1885.
Col medico milanese il tessuto ha cambiato destinazione d’uso: non più panno per avvolgere, ora più simile a un cuscino funebre, diventa oggetto di memoria e, sempre più, reliquia.
Nel testamento, steso nel 1882 e confermato il 5 giugno 1885 – anno precedente la morte –, lo sciallo figura tra i pochi beni descritti lasciati dal medico:
Lascio all’amicissimo mio Adriano Lemmi, di Livorno, abitante in Firenze, Via della Scala N° 50, od a Roma, Via Nazionale N° 54, la cassetta che è nel mio salotto in Genova, di vari legni americani, contenente il panno che avvolse C. Cattaneo e G. Mazzini, affinché egli, patriotta inarrivabile e mai chiassoso, lo conservi e lo faccia conservare da’ suoi figliuoli, caro pegno di dolore, e ricordo di ammirazione ed esempi da seguirsi per il bene della patria nostra.
Donato dagli eredi Lemmi al Comune di Genova, al quale fa capo l’Istituto Mazziniano, lo sciallo alla fine del 1932 è stato collocato nel sacrario mazziniano, dove è ancora conservato, mentre della cassetta e dell’autografo non resta traccia.
La storia dello sciallo racconta una ‘carriera’ sorprendente: da semplice coperta a mensuale d’altare, addirittura fino a bandiera: nientemeno che “alter ego” del Tricolore! Coime ha annotato Pietro Barbèra nel 1915:
Ben, dunque, fecero gli amici di Mazzini coprendo amorosamente la salma di lui con lo stesso drappo che coprì quella di Carlo Cattaneo; nella nostra fantasia lo scialle scozzese si trasforma in bandiera e diventa il tricolore italiano.
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L’iconoclastia del quotidiano. Le monete ferdinandee sfregiate (1848) La rivoluzione in tasca
Nel corso delle mobilitazioni dell’Ottocento europeo, l’iconoclastia è una strategia fondamentale nella conquista degli spazi d’azione da parte della popolazione. Il confronto visuale con il potere è parte integrante dei meccanismi di sorveglianza delle società rivoluzionarie: lo sfregio e l’abbattimento di monumenti rappresenta un momento di ribaltamento della sovranità. Nel corso del XIX secolo, il rapporto con la materialità muta sensibilmente, in quanto innesca delle dinamiche che rivelano la vitalità delle immagini e le conseguenze della loro potenza nelle azioni degli attori ordinari. Le manifestazioni iconoclaste della rivoluzione del Lungo Quarantotto definiscono un pattern di violenza rituale che racchiude in sé la straordinarietà dell’evento e l’ordinarietà della forma di negoziazione di potere messa in campo dalle popolazioni. In effetti, in un panorama ricco di simboli del potere, gli individui sviluppano un’autocoscienza politica che porta questi ultimi a sfidare le monarchie nelle azioni quotidiane. Il Regno delle Due Sicilie, nel corso del biennio 1848-1849, è teatro di una larga partecipazione popolare alla rivoluzione antiborbonica che coinvolge, a ritmi differenti, le varie province meridionali. La violenza reazione da parte della monarchia di Ferdinando II, in seguito ai sanguinosi eventi del 15 maggio a Napoli, sancisce la definitiva rottura tra il fronte costituzionale-liberale e la monarchia duosiciliana. In effetti, già dal gennaio 1848 la Sicilia proclama la propria indipendenza rispetto al Regno continentale: il governo provvisorio di Ruggero Settimo istituisce una campagna volta alla rimozione della memoria borbonica e all’avvicinamento dell’isola al progetto unitario italiano. Tuttavia, i progetti cospirativi del Mezzogiorno devono scontrarsi con l’esercito monarchico che riesce, tra la seconda metà del 1848 e gli inizi del 1849, a sedare la mobilitazione assestando diversi colpi alle frange rivoluzionarie. Un ulteriore evento che amplia il divario tra società meridionale e monarchia borbonica è il bombardamento di Messina del settembre 1848: la distruzione della città siciliana rappresenta nella memoria rivoluzionaria un momento traumatico per l’efferata violenza dell’esercito reale.
La risposta della popolazione meridionale a Ferdinando II è visibile nella costruzione di un immaginario collettivo “demoniaco” del sovrano borbonico: l’appellativo Bomba o Bombardatore riecheggia nelle satire realizzate sia nei confini del Regno delle Due Sicilie, sia in altri contesti della penisola. La lotta mediatica è altresì innescata dai giornali siciliani, che rilanciano continuamente appelli alla popolazione e al governo provvisorio per la rimozione delle effigi borboniche dagli spazi pubblici. Il 19 settembre 1848, il giornale palermitano La Forbice lancia un monito contro gli stemmi gigliati di Ferdinando II, ancora presenti per le vie della città:
«LO STEMMA ABORRITO. L’odio implacabile che destò ne’ cuori de’ Siciliani l’infame bombardatore, soffrir non potendo nemmeno gli stemmi della scellerata razza borbonica, distrusse statue, iscrizioni, pitture e tutto ciò che ne richiamava la memoria; pure chi lo crederebbe?
Sussistono tuttora i segni borbonici nella vasta e popolata piazza marina in Palermo, a basso rilievo sulla fabbrica dell’antica Gran Guardia. Rabbrividisce il cittadino alla vista di quello emblema che ricorda il più scellerato oppressore, l’assassino, il carnefice de’ nostri fratelli. Togliete, per Dio, quell’obbrobrio da nostri cechi, recidete quei funesti gigli e se havvi tra mille uno solo che li vagheggi, ravvisi in questo esempio la sua fine»
Un altro giornale palermitano, La Costanza, il 12 ottobre del 1848 inaugura una vera e propria campagna di “piccola iconoclastia” finalizzata allo sfregio sistematico delle monete con l’effige ferdinandea. In un avviso a tutta la cittadinanza siciliana è riportato:
«Avete tutti veduto la nuova impronta fatta sulla moneta di argento, vogliam dire su quella ov’è rappresentata l’effigie del Bombardatore? – Ferdinandus II Bomba Dei gratia Rex: questa è la dicitura che vi si legge […] in taluni scudi la parola Bomba si trova come isfregio nel collo del Tiranno […] In sulle prime che si videro comparire, era in tutti un affollarsi, un ricercarle, un volerle. Ma ora che circolano per vicos et plateas sono possedute da quanti noi siamo […] Diremo solo che i Siciliani, sempre arguti e vivaci, per rendere vieppiù universale l’odio che nutrono contro costui ed anche per muovergli un po’ di guerra finanziera, pensarono d’invitare tutti quelli che possiedono delle piastre con l’effigie di tal sovrano a portarle ad un’officina espressamente fondata ove s’imprimerà gratuitamente la parola Olim nel mezzo a Ferdinando II e Dei gratia, e Bomba nel collo dell’effigie».
Già dal settembre del 1848, il giornale La Forbice diffonde il progetto di iconoclastia monetaria pubblicando un piccolo articolo contro l’immagine del sovrano:
«Avendo osservato che all’amatissimo ex re delle Due Sicilie ne scappò una dalle mani, hanno voluto compensarlo della perdita; onorandolo con un nuovo titolo. Quindi, oltre al titolo di Re di Gerusalemme i Siciliani hanno decretato che Ferdinando birbone fosse chiamato Bomba […] giusto al collo della testa di quell’adorato sovrano»
Il medesimo giornale, il 21 ottobre 1848, lancia un appello di un cittadino palermitano che mette a disposizione la propria officina per la “marchiatura” rivoluzionaria delle monete:
«Il cittadino Gaetano Barrile, appartenente al Corpo dei Graduati Penzionisti, ha pubblicato un avviso, in cui si offre ad imprimere gratis il titolo di Bomba in tutte le monete d’argento, che portano la effige del Re di Napoli»
L’intento dei rivoluzionari siciliani è simulare la morte del sovrano attraverso lo sfregio della moneta di Ferdinando II: l’apposizione del motto Bomba sul collo del re raffigura una decapitazione immaginata che innesca meccanismi di sostituzione mediatica del potere. Inoltre, l’iconoclastia nei confronti di un dispositivo mobile come le monete è altresì fondamentale per la circolazione degli ideali antiborbonici sia nella Sicilia, sia nel resto del Regno. In effetti, negli anni successivi al Lungo Quarantotto, caratterizzati da una dura repressione poliziesca delle autorità borboniche, le monete “deformate” sono ritrovate in altre province delle Due Sicilie. Un esempio è fornito dal ritrovamento effettuato da un esattore fondiario presso il comune di Deliceto, in provincia di Foggia, nel 1851. Nel rapporto inviato al Giudice circondariale di Capitanata si legge: «trovansi inciso sotto la testa del nostro Augusto Sovrano (D.G.) colla scritta Bomba e strisciata al quanto con la idea di non farvi apparire le lettere». Nella medesima zona, anche le autorità del piccolo centro di Castelnuovo della Daunia ritrovano delle monete sfregiate sul volto del sovrano: «tra le monete aveva avuta una pezza sfregiata, avendo il naso tagliato e le corna la immagine impressa della moneta». Morte figurate e circolazione sono gli elementi che donano potenza all’iconoclastia contro le monete reali. La possibilità per gli attori ordinari di poter attaccare il volto del sovrano attraverso oggetti “da tasca” configura un nuovo livello di protagonismo rivoluzionario. In questo senso, la mobilitazione passa dalle piazze alla dimensione privata degli individui, che mantengono vive le attività cospirative con gesti quotidiani che confermano la rottura definitiva tra la monarchia borbonica e la maggior parte dei sudditi delle Due Sicilie tra Quarantotto e Seconda Restaurazione.
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oggetto di prova La divina commedia (title)
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Ventaglio filonapoleonico Il ventaglio reca sul bordo la seguente scritta:
“Incendie de la Flotte Anglaise”
La Flotte Anglaise incendiée par le feu grégeois, et par celui des nouvelles tours flottantes, armées de bouches à feu pour protéger sur les côtes la descente des Français à marée basse; les vents favorables dirigent d’eux mêmes les milliers de ballons qui s’enflammant à une hauter combinée font pleuvoir sur les Vaisseaux anglois un déluge de feux
e sul bordo inferiore al centro la scritta:
Descente en Engleterre [sic]
Il ventaglio di propaganda e sedizioso
La moda dei ventagli come supporti di propaganda visiva, anche in forma satirica, e come prova di affiliazione politica esplose durante la Rivoluzione francese e proseguì negli anni del Consolato e dell’Impero (si vedano ad esempio il ventaglio stampato a Parigi da un’incisione di Jean-Baptiste Louvion con l’allegoria della pace che la Francia reca all’Austria https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b10467211n e quello che celebra la pace di Lunéville dell’anno Vl https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b10467202p ). Nel repertorio bonapartista si conoscono ad esempio ventagli allusivi con le stecche di tartaruga che terminano a forma di aquila e nastri tricolori, come l’inequivocabile esemplare risalente al regno di Carlo X, nella seconda metà degli anni Venti (Collezione privata, Firenze): [INSERIRE RIFERIMENTO]
Nel Risorgimento italiano il ventaglio svolse questa funzione soprattutto nelle fasi di maggior mobilitazione ed entusiasmo patriottico, anche per celebrare vittorie militari e alleanze politiche. Ventagli patriottici del periodo 1846-1860 sono conservati e spesso anche esposti in musei civici e del Risorgimento, come a Brescia e Bergamo, a Casa Mazzini a Genova, nelle Raccolte Civiche milanesi (rinvio alle relative schede). Di materiale più o meno pregiato, prodotti in serie o pezzi unici se ricamati dalle artigiane – modiste, ricamatrici – o direttamente dalle proprietarie, similmente alle ventole per lumi essi offrivano un racconto sintetico ed iconico, anche grazie al cromatismo tricolore, di facile comprensione, che le donne potevano esibire o nascondere a seconda dei contesti e delle circostanze. Ciò spiega anche l’attenzione delle polizie della Restaurazione nelle operazioni di sequestro di ventagli sediziosi, operazioni che negli anni Venti presero di mira proprio quelli a tema celebrativo napoleonico.
La mongolfiera tra realtà e immaginario politico, tra Rivoluzione francese e Risorgimento
Grazie all’invenzione dei fratelli Montgolfier realizzata con successo nel 1783 e replicata in una dimostrazione davanti al re a Versailles https://collection.sciencemuseumgroup.org.uk/objects/co64807/montgolfier-balloon https://collection.sciencemuseumgroup.org.uk/objects/co8022297/print-ascent-of-a-montgolfier-balloon , le prime prove di volo con il pallone aerostatico vennero compiute dall’aeronauta Pilâtre de Rozier a Parigi nei giardini della Folie Titon, una dimora nel Faubourg St. Antoine che Jean-Pierre Révellion aveva trasformato nel 1784 in manifattura di papiers peints (l’antenata della carta da parati). Qui, nell’aprile del 1789, un’insorgenza degli operai esasperati dal rincaro dei prezzi e dal timore della riduzione dei salari fu di fatto il primo episodio della Rivoluzione francese. La mongolfiera divenne ben presto un’icona ricercata dal pubblico assetato di novità, al punto che molti artigiani vi si ispirarono per realizzare oggetti e accessori: intorno al 1785 il mobiliere Jean-Baptiste Demay costruì una sedia con lo schienale a forma di mongolfiera che ebbe molto successo e che oggi è conservata al Musée Carnavalet di Parigi (https://www.parismuseescollections.paris.fr/fr/musee-carnavalet/oeuvres/chaise-a-la-montgolfiere) .
Il volo aerostatico fece spesso parte degli spettacoli en plein air dei primi decenni dell’Ottocento, come documentato da stampe e litografie anche di ambito italiano (https://graficheincomune.comune.milano.it/graficheincomune/immagine/Albo+F+31,+tav.+15 ) . Un episodio di uso politico dei palloni aerostatici si verificò nel Risorgimento, durante le Cinque Giornate di Milano, dal momento che proprio a dei palloncini di fabbricazione artigianale, fatti con carta, colla e spago, l’abate Antonio Stoppani nel marzo del 1848 affidò dal seminario di Porta Venezia l’invio di messaggi destinati agli abitanti delle campagne intorno a Milano, per avvisarli che la città era insorta e che occorreva impedire l’arrivo di armi e cibo agli austriaci. L’unico pallone sopravvissuto dei numerosi lanciati in quelle giornate, veri oggetti/vettori politici fatti anche di stoffa e carta tricolore, era conservato al Museo del Risorgimento di Milano quando venne distrutto nel bombardamento dell’agosto 1943. Restano invece al Museo alcuni dei messaggi che riuscirono a raggiungere i dintorni nordorientali della città, favorendo l’afflusso di rinforzi.
L’invasione che non ci fu
Immaginaria ma neanche tanto, l’invasione napoleonica dipinta su questo raro ventaglio costituì un vero incubo per l’Inghilterra. Ipotizzata via mare, nonostante l’inferiorità della marina da guerra francese rispetto a quella britannica, essa portò alla costruzione di una serie di batterie difensive lungo le coste, anche dell’Irlanda, ritenuta una possibile destinazione di approdo. Il disegno napoleonico di attraversare il Canale prese corpo tra il 1803 e il 1805, durante la Terza Coalizione, dopo la rottura della pace di Amiens, e portò alla creazione del campo di addestramento di Boulogne, dove confluirono anche ufficiali e sottufficiali italiani: in quel contesto molti fra loro maturarono un embrionale sentimento di identità italiana, testimoniato dalle lettere ai familiari. L’impresa si rivelò tuttavia proibitiva via mare visto l’intenso pattugliamento della Manica da parte della flotta britannica, e lo scacco inferto a Bonaparte divenne ben presto oggetto di satira nella stampa inglese. In ambito francese non si rinunciò tuttavia all’idea di utilizzare le macchine aerostatiche – allora agli albori – incoraggiando il lavoro di progettazione degli ingegneri. Napoleone, che già sotto il Direttorio aveva beneficiato dell’uso di un pallone e di aerostati per le sue operazioni, probabilmente accarezzò l’idea di un’invasione dal cielo, che nel ventaglio visionari protagonista di questa scheda si realizza tramite uno squadrone di palloni in volo verso le coste britanniche. Immagine di non immediata decifrabilità, essa conferma come la fantasia e la mediatizzazione legate a quell’impresa abbiano prodotto un vero e proprio oggetto politico “del desiderio” napoleonico, capace in qualche modo di prefigurare quella guerra dal cielo (la cosiddetta “battaglia d’Inghilterra”) o lo sbarco sulle coste nemiche, che sappiamo essersi drammaticamente realizzate nel corso della seconda guerra mondiale.
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Fazzoletto da collo stampato raffigurante al centro la testa di Napoleone e ai quattro angoli salici piangenti Un accessorio sedizioso per (rim)piangere Napoleone
Il fazzoletto da collo o foulard carré in seta (materiale più pregiato del cotone), utilizzato già in Ancien Régime per trasportare piccoli oggetti e come accessorio ornamentale maschile e femminile, appartiene alla serie dei manufatti tessili detti “del lutto” collegati al culto di Napoleone post-mortem e al relativo revival in occasione del rimpatrio delle spoglie a Parigi nel 1840. Oggetto sedizioso assai diffuso, il fazzoletto si prestava infatti a essere indossato o ad avvolgere a sua volta oggetti politici preziosi in segno di «dolore politico» e di militanza filonapoleonica, senza però venire immediatamente percepito da occhi ostili, mentre poteva essere esibito in contesti amicali di uguale sentimento. Simile funzione avevano altri accessori, generalmente maschili, come cravatte, gilets e bretelle con ricamati simboli napoleonici zoomorfi o botanici quali l’aquila, le api o le violette. Analoga funzione per le donne poteva essere affidata ai ventagli.
Prodotti in genere in Francia, soprattutto dalle seterie lionesi, o, come in questo caso, in Svizzera, gli accessori erano destinati allo smercio anche nella penisola italiana, come documentato dai sequestri di casse e carichi nelle città di produzione effettuati dalla polizia, soprattutto negli anni Venti dell’Ottocento. Anche i cosiddetti marchands de nouveautés e, per gli esemplari in materiali meno costosi come il cotone, i venditori ambulanti specie in occasione delle fiere, erano canali di circolazione ed esportazione – anche di contrabbando – degli accessori di moda filobonapartisti. Tra i casi segnalati nelle carte di polizia, il sequestro di foulards con l’immagine di Napoleone e del figlio rinvenuti nel 1829 presso la marchand de nouveautés Marie Elisabeth Rommel, ad Arras, e il sequestro, sempre nel 1829, di fazzoletti con stampati simboli bonapartisti destinati allo smercio in Austria ma prodotti in Inghilterra, a Crayford, centro all’avanguardia per la manifattura di tessili stampati, anche grazie alle innovazioni messe a punto da David Evans (sul quale vedi https://followthethreadblog.com/wp-content/uploads/2020/06/David-Evans-Co-The-Last-of-the-Old-London-Textile-Printers.pdf) .
Trasfigurazione/apoteosi
La raffigurazione della testa di Napoleone al centro di un nembo circondata dalla scritta N-A-P-O-L-E.O-N allude all’eternizzazione della sua vicenda e al fenomeno di trasfigurazione/assunzione in cielo tipico della lettura martirologica post-mortem. Il tema dell’immortalità o della resurrezione del personaggio – spesso ritratto nell’atto di uscire dalla tomba di Sant’Elena, con evidente richiamo cristologico – è ricorrente su altri supporti prodotti in Francia ma circolanti anche nella penisola italiana, come tabacchiere e oggetti fermacarte, di numerose stampe e, in area italiana, del dipinto del pittore parmigiano Francesco Scaramuzza, San Napoleone martire (primi anni Trenta dell’Ottocento), destinato all’oratorio della rocca di Sala Braganza (Parma), nel quale Napoleone ascende al cielo sorretto da due angeli in un gioco cromatico delle vesti che evoca il tricolore italiano (la scheda del bozzetto preparatorio è consultabile al link: https://www.museoglaucolombardi.it/opera/61622/) . I salici piangenti posti ai quattro angoli del fazzoletto simboleggiano i salici della Valle dei Gerani di Sant’Elena, luogo della sepoltura di Napoleone, le cui foglie avrebbero costituito reliquie botaniche raccolte da visitatori e quindi dai membri della spedizione che nel 1840 riportò a Parigi le spoglie del generale-imperatore. Il Museo Glauco Lombardi di Parma conserva un altro esemplare di foulard del lutto, sempre della manifattura Heim et fils di San Gallo, recante al centro la medesima immagine della testa di Napoleone sullo sfondo di nubi e di stelle, ma circondata dai busti di personaggi maschili e femminili legati alle vicende napoleoniche (https://www.museoglaucolombardi.it/opera/62036/
Visibile/invisibile
Similmente ad altri oggetti politici destinati al contatto col corpo, i fazzoletti o foulard, in particolare quelli a tema napoleonico, consentivano di coltivare con discrezione l’identità politica di chi li portava e potevano anche fungere da segno di riconoscimento all’interno dei circuiti della sociabilità della Restaurazione, tanto in Francia che nella penisola italiana. Tra esibizione e occultamento, questi oggetti, così come le tabacchiere nascoste nelle tasche o gli altri accessori indossati sotto le giacche e le marsine, veicolavano sentimenti di appartenenza e di “resistenza” rispetto ai governi restaurati che dovevano sfidare gli occhi e le orecchie di polizia e spie presenti in caffè, teatri e altri luoghi di incontro. Solo tra le pareti delle abitazioni private, tra convenuti affidabili, era possibile dare liberamente sfogo al proprio credo politico e alle speranze di un ritorno del Grand’Esule, coltivate sino al 1821 e poi trasferite sulla possibilità di un avvento del figlio, il duca di Reichstadt nella denominazione borbonica e asburgica, l’Aiglon o il principe di Parma per i bonapartisti, sino alla sua prematura morte nel 1832.
Bibliografia di riferimento: A. Arisi Rota, The Violet, the Eagle and Beyond: Collecting, Touching and Wearing Napoleonic Nostalgia in the Italian Risorgimento, in E. Francia, C. Sorba (eds), Political Objects in the Age of Revolution. Material Culture, National Identities, Political Practises, Roma, Viella 2021, pp. 47-59: pp. 51-52 (ill. p. 57): E. Francia, Oggetti risorgimentali. Una storia materiale della politica nel primo Ottocento, Roma, Carocci, 2021, cap. I; Emmanuel Fureix, La France des larmes. Deuils politiques à l’âge romantique, Paris, Champ Vallon, 2009; Sudhir Hazareesingh, The Legend of Napoleon, London, Granta, 2004; F. Sandrini (a cura di), Napoleone 1821. La morte di Bonaparte: scenari, reazioni, conseguenze nel ducato di Parma, Parma, STEP 2021, scheda ill. pp. 166-167.
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Calamaio napoleonico "Amitié" Napoleone seduto
Visione inusuale quella del condottiero seduto invece che a cavallo o statuariamente in piedi, nel caso di Napoleone essa appare ancora più stridente con l’epopea e il suo culto, anche tardivo. Napoleone pensieroso se non abbattuto, quasi accasciato nel cabinet dove si rinchiuse per tutta la giornata del 31 marzo 1814, rinvia alla famiglia di immagini legate alla prima abdicazione, quella avvenuta a Fontainebleau dopo l’insuccesso della cosiddetta “campagna di Francia” e che aprì la strada all’esilio all’Isola d’Elba. La posa tutt’altro che eroica, con il cappello gettato da un lato, e le mappe – ormai inutili – sparpagliate sul divano alle sue spalle, venne scelta da Paul Delaroche, seguendo la testimonianza del segretario dell’imperatore, Bourrienne, per il dipinto che realizzò nel 1840, in occasione del revival napoleonico legato al ritorno delle spoglie di Napoleone in Francia e conservato oggi al Musée de l’Armée di Parigi (per una descrizione dell’opera: https://www.musee-armee.fr/fileadmin/user_upload/Documents/Support-Visite-Fiches-Objets/Fiches-periode-napoleon/MA_napo-delaroche.pdf ). Dal quadro gemmarono diverse incisioni, tra cui quella realizzata da Gaspare Guzzi, attivo negli anni Quaranta soprattutto con incisioni su rame, che circolò nella penisola italiana (vedi foto, Milano, collezione privata). La simmetria tra il soggetto del calamaio e la coppia quadro-incisione è evidente. Al posto della spada posata su un tavolo guéridon, dettaglio significativo che compare nel quadro e nell’incisione, il calamaio sintetizza la sconfitta in un tamburo militare collocato a terra. La scritta dorata Amitié, dipinta sul fronte del calamaio e ormai poco leggibile, può riassumere il sentimento di persistente amicizia o fedeltà politica pur nella sconfitta incorporato dal manufatto. In altri oggetti politici, come fermacarte, pendole, statuette, Napoleone seduto evoca invece il momento di riflessione tipico della vigilia della battaglia.
Un oggetto del quotidiano
Il calamaio, realizzato in vari materiali di differente valore (porcellana, ceramica, bronzo ecc.), appartiene alla famiglia degli oggetti del quotidiano risemantizzati in chiave politica e collega un’attività abituale presso i ceti medioalti come la scrittura alla visualizzazione/tangibilità del sentimento politico del proprietario. Analoga funzione ebbe la produzione a tema napoleonico di fermacarte e tamponi per l’asciugatura dell’inchiostro, ma anche di utensili destinati anche ai ceti popolari, quali coltelli, pipe, boccali di birra con intagliata l’inconfondibile silhouette, ecc. Un ruolo a parte per la loro pervasività e replicabilità in versioni più o meno pregiate toccò alle tabacchiere. Gli oggetti sediziosi, di fattura più o meno raffinata, spesso prodotti in numero limitato da singoli artigiani, talvolta in produzione più seriale, costellano i rapporti di polizia della Restaurazione in Francia e nelle aree italiane a più forte presenza di circuiti bonapartisti, come la parte lombarda del Regno Lombardo-Veneto, facilmente permeabile alle reti napoleoniche esistenti nel Canton Ticino. Essi tornarono nel mirino delle autorità tra 1833 e 1834, in occasione dei sequestri nelle abitazioni o nelle camere da studenti dei sospetti di affiliazione alla Giovine Italia.
La nostalgia sul tavolo
Tenere in vista nello spazio domestico un oggetto carico di significato politico fu un’abitudine diffusa presso le fasce politicizzate dell’Ottocento italiano ed europeo. Nel caso dell’oggettistica di ispirazione napoleonica, nella tarda Restaurazione fu il sentimento della nostalgia a prevalere, capace comunque di alimentare un’onda lunga della leggenda destinata a percorrere tutto il secolo. Come ha scritto Gian Luca Fruci, la politicizzazione del quotidiano, tra tasca e tavolo da scrittura, fu un fenomeno diffuso che gli oggetti giunti sino a noi documentano per diverse fasi di mobilitazione rivoluzionaria e politica.
Bibliografia di riferimento:
G.L. FRUCI, Il Risorgimento in tasca (e sul tavolo), in Una nazione da inventare, a cura di R. Mancini e M. Pignotti, Firenze, Nerbini, 2011, pp. 92-102; A. ARISI ROTA, Il cappello dell’imperatore. Storia, memoria e mito di napoleone Bonaparte attraverso due secoli di culto dei suoi oggetti, Roma, Donzelli 2021, p. 88 [ill. tra p. 90 e p. 91].
F. SANDRINI (a cura di), Napoleone 1821. La morte di Bonaparte: scenari, reazioni, conseguenze nel ducato di Parma, Parma, STEP 2021, scheda ill. pp. 169-171;
A. ARISI ROTA, The Violet, the Eagle and Beyond: Collecting, Touching and Wearing Napoleonic Nostalgia in the Italian Risorgimento, in E. FRANCIA, C. SORBA (a cura di), Political Objects in the Age of Revolution. Material Culture, National Identities, Political Practises, Roma, Viella 2021, pp. 47-59; A. ARISI ROTA, Le fauteuil des derniers moments : de l’artisan chinois à Vincenzo Vela, histoire d’une « relique » napoléonienne, in “Parlement(s). Revue d’histoire politique”, 2/2023, N. HS 18, consultabile in open access: https://shs.cairn.info/revue-parlements-2023-3-page-158?lang=fr .
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La nazionalità è in ribasso, anche sulle tabacchiere dell'intendente Milanesio L'immagine caricaturale presenta al centro di una colonna le tre figure presenti nella tabacchiera nazionale di Milanesio. Didascalia e figure allegoriche che circondano questa immagine alludono alla crisi del progetto moderato al quale la tabacchiera faceva riferimento
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Tabacchiera nazionale "apocrifa" Su un lato ritratti di Pio IX, Carlo alberto e Leopoldo II; sull'altro ritratti di Vincenzo Gioberti, Cesare Baldo, Massimo d'Azeglio
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Tabatiere Nationale Su un coperchio era raffigurata una coccarda tricolore con al centro la scritta “Je vous apporte une cocarde qui fera le tour du monde 17 Juillet 1789 Lafayette 29 Juillet 1830" e poi in cerchio l’elenco delle principali vittorie francesi ottenute “sotto la coccarda tricolore”; sull'altro bandiere tricolori, aquila imperiale, le coq, un berretto frigio e un fucile decoravano la lista delle "principales villes où les couleurs nationales des Français ont été arborées des mains de la Victoire”
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« Tabatière constitutionnelle », ou « tabatière à la Charte », ou « tabatière-Touquet »
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Ricordo nazionale del giorno 29 ottobre 1847 giorno luminoso in cui Carlo Alberto emulo di Pio IX e Leopoldo II entrava per la via delle riforme
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Tabacchiera nazionale La Tabacchiera
Nel febbraio 1848 sui principali giornali torinesi apparve un avviso che annunciava l’imminente messa in commercio di una “Tabacchiera Nazionale”. Si trattava di una tabacchiera di cartone pressato , che presentava sui due coperchi litografie incollate e poi laccate: su una vi era l’immagine dei tre sovrani riformatori – Pio IX, Carlo Alberto, _Leopoldo II - , e sull’altro i ritratti di tre leader del liberalismo piemontese, Gioberti, D’Azeglio e Balbo. La tabacchiera poteva essere acquistata - come spesso avveniva per libri, periodici, stampe – attraverso una sottoscrizione presso due librai-editori torinesi, fratelli Reycend (la litografia in Piemonte) e Luigi Tognol; i librai delle province o di paesi esteri erano autorizzati a raccogliere le sottoscrizioni e inviarle ai due librai torinesi. Il costo dell’associazione variava a seconda se la stampa incollata era a colori o in bianco e nero, ma era in ogni caso contenuto. Si trattava dunque di un oggetto che poteva entrare nelle tasche di molti, come veniva sottolineato qualche anno dopo: “immaginatevi una bella scatolina rotonda, né alta, né bassa, né troppo grande, né troppo piccola, che bene potesse capire nelle tasche: e parimenti potesse fare bella mostra di sé sul tavolino; non così preziosa ed elaborata che sentisse dell’effeminatezza e del lusso; né per converso così ruvida e greggia, che sapesse dell’agricoltore; in breve una scatolina sul giusto mezzo, che ci confà con tutti i gusti, che si addice a tutte le condizioni; e tale era appunto la tabacchiera nazionale” (La Tabacchiera nazionale. Strenna dello Smascheratore. A suoi associati, Tipografia Zecchi e Bona, Torino, 1850, p. 15)
Promotore dell’iniziativa e autore dei disegni, era Antonio Milanesio.