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Foglie celebrative di Pio IX Tra gli oggetti botanici a carattere politico di maggior suggestione troviamo le due foglie di castagno con immagini e iscrizioni celebrative di Pio IX, conservate nelle collezioni del Museo civico di Bologna. Entrambe racchiuse in una cornice, la prima raffigura un uomo con in una mano una bandiera su cui è riportato lo slogan che più di ogni altro ha caratterizzato il paesaggio sonoro del lungo Quarantotto, «Viva Pio IX!», mentre nell’altra tiene una corona d’alloro; la seconda, invece, riproduce lo stemma papale sormontato da triregno e chiavi. Dal punto di vista tecnico, l’oggetto è stato prodotto “scarnificando” le foglie, ovvero eliminandone le parti molli con una soluzione basica di acqua e lisciva dopo averle rinchiuse in una maschera traforata, allo scopo di evidenziarne lo “scheletro” e le nervature (xilema), e al tempo stesso garantirne la conservazione nel tempo, ponendole al riparo dalla macerazione e dall’attacco dei parassiti. Descritto per la prima volta in Europa dall’anatomista olandese Frederick Ruysch (1638-1731), il procedimento, mutuato dall’ambito scientifico, nel corso della seconda metà dell’Ottocento fu al centro di una vera e propria moda, sintomo dell’emergere di una passione botanica che si espresse non solo attraverso la diffusione delle pratiche di erborizzazione al di fuori dei circuiti accademici, ma anche tramite la realizzazione dei cosiddetti phantom bouquets, fenomeno diffuso soprattutto in ambito anglosassone e che conobbe un impiego anche in chiave “politica” e celebrativa – si pensi alla serie Skeleton Leaves, i ritratti fotografici realizzati da John P. Soule a personaggi quali Lincoln, Washington, Wilson, etc.
In Italia, uno dei primi e più abili preparatori di “scheletri fogliari”, che riuscì anche a tradurre a stampa, fu il parmense Tommaso Luigi Berta, le cui realizzazioni sono conservate in parte nella Biblioteca Palatina e in parte nell’Orto Botanico di Parma. Come ricordava Enrico Dal Pozzo di Mombella nella memoria dedicata agli studi botanici del Berta, letta all’Accademia delle Scienze di Bologna il 18 aprile 1985, «Molti anni di studio perseverante perfezionarono la sua scoperta, la quale […] consiste = nel togliere esattamente ad ambe le pagine di una foglia senza punto lacerarla “l’epidermide ricoperta dalla pellicola epidermica” e poscia mondarla di tutta la sostanza parenchimatosa che riempie gli spazi vuoti fra i vasi, e similmente ogni qualvolta la finezza del tessuto lo permetta, separare “li strati delle reti vascolari”. […] Poscia gli venne anco trovato il modo di tirare copia su stampa de’ suoi scheletri; e così poté presentare a naturalisti l’importante scoperta in ogni splendore di sua bellezza, scoperta che vasto campo aprirà alla botanica, ove venga conosciuta, e da suoi cultori praticata» (Dal Pozzo di Mombella 1850, p. 9).
Autodidatta, appassionato studioso e della biologia vegetale e pioniere della fisiotipia, nella sua Memoria sull’anatomia delle foglie delle piante, edito nel 1829, Berta precisava appunto come «Gli scheletri veramente perfetti delle foglie non debbono lasciar apparire la menoma traccia di parenchima» (Berta 1829, p. 6, nota 4). Ed è proprio all’utilizzo di questa pratica, peraltro non priva di una certa complessità, che si deve la conservazione nel tempo e quindi la successiva musealizzazione di queste “tarsie vegetali”, prodotte in occasione delle manifestazioni in onore di Pio IX nel 1846-1847, dunque con una funzione eminentemente celebrativo-propagandistica, sebbene resti difficile determinare con precisione il loro concreto utilizzo nello spazio pubblico dell’epoca. Come è noto, alla vigilia dei moti del 1848, che rappresentarono un momento di eccezionale mobilitazione e attivismo politico a livello continentale, Giovanni Maria Mastai Ferretti, da poco eletto al soglio pontificio, fu protagonista di uno straordinario investimento politico-religioso, che ne fece un simbolo di emancipazione e progresso agli occhi dell’opinione pubblica italiana ed europea (Veca 2017). Un investimento “ideale” che ebbe riflessi anche sul piano materiale, sfociato nella produzione di gadgets di vario tipo: spille, monete, medaglie, bandiere, foulard, statuette che riportavano il segno distintivo del nuovo papa (Veca 2018). Un segno che ritroviamo anche su un oggetto apparentemente inusuale, che mostra in maniera quanto mai efficace il collegamento tra botanica e attualità politica.
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Bandiera tricolore con motivo floreale L’elemento botanico si ricollega a uno dei temi patriottici per eccellenza, ovvero il tricolore. Nelle collezioni del Museo del Risorgimento di Faenza è conservata una bandiera che reca al centro un fiore a cinque petali (due rossi, due bianchi, uno verde), a cui è a sua volta incastonata una stella a cinque punte. Sotto il fiore – molto simile a una viola – è presente l’iscrizione «Viva l’Italia». L’esistenza di questa bandiera nelle collezioni del museo faentino è segnalata fin dalla sua fondazione, in occasione della Esposizione Regionale Romagnola di Ravenna del 1904. L’oggetto ha una storia particolare: si dice sia stato sottratto nel 1861 dal maggiore Clemente Querzola, originario di Faenza, che prese parte a tutte le guerre di indipendenza, ai briganti della Capitanata, che l’avevano sottratta alla Guardia Nazionale. Nel 1860-1861, infatti, in quella particolare zona della Puglia fu scossa da una serie di proteste e disordini, sfociati in un’apposita campagna contro il brigantaggio (Capone 2015).
Come è noto, il tricolore italiano quale bandiera nazionale nacque il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia, su proposta del deputato del Parlamento della Repubblica Cispadana, Giuseppe Compagnoni. A quell’epoca le sue bande erano disposte talvolta verticalmente all’asta, talaltra orizzontalmente. In seguito, al principio del secolo successivo, esso assunse la forma quadrata con tre quadrati racchiusi uno nell’altro. Abolito alla caduta del Regno Italico, il tricolore fu ripreso nella sua variante rettangolare dai patrioti del 1821 e del 1831 e durante i moti del 1848 divenne il simbolo di una riscossa nazionale che attraversò tutta l’Italia. La particolarità della rappresentazione sulla bandiera conservata presso il museo faentino consiste nel fatto che essa riconduce alla radice etimologica del termine tricolore, ovvero alla sua origine botanica, seguita alla volgarizzazione del termine latino viola tricolor, nome scientifico di quella particolare varietà floreale meglio nota come viola del pensiero. Il vocabolo è, di fatto, una delle numerose «mutuazioni francesi» del Risorgimento italiano, sia dal punto di vista dei colori che da quello semantico: un «francesismo araldico […] tra i più tangibili di un’influenza culturale e politica oltramontana così profonda da lasciare tracce indelebili in molti altri aspetti del processo di nation building» (Tomasin 2010, p. 59). Ma la connessione tra il tricolore e il mondo floreale non si arrestava all’ambito della rappresentazione visuale. Nel corso dell’Ottocento, infatti, si assistette alla diffusione di un gran numero di stornelli, canzoni e poesie popolari in onore del vessillo nazionale con precise allusioni botaniche. Il brigidino, uno dei più famosi Stornelli italiani raccolti da Francesco Dall’Ongaro (datato «Siena, 4 agosto 1847»), così recitava: «E lo mio amore se n’è ito a Siena, / M’ha porto il brigidin di due colori. / Il bianco gli è la fè che c’incatena, / Il rosso l’allegria de’ nostri cori. / Ci metterò una foglia di verbena, / Ch’io stessa alimentai di freschi umori, / E gli dirò che il rosso, il verde, il bianco / Gli stanno bene, colla spada al fianco. / E gli dirò che il bianco, il verde e il rosso, / Vuol dir che Italia il suo giogo l’ha scosso. / E gli dirò che il bianco, il rosso, il verde / È un terno che si gioca e non si perde» (Dall’Ongaro 1963, p. 15). Con il termine brigidino, infatti, si indicavano all’epoca le coccarde, per la somiglianza con certi dolci popolari toscani che dovevano il loro nome alle monache di Lamporecchio, devote a Santa Brigida. Dello stesso autore lo stornello intitolato La camelia toscana (Firenze, 1847), lo stornello giocava sul mettere insieme i colori della dinastia Austro Lorenese, il bianco e il rosso, col verde delle foglie, e leggenda vuole che Garibaldi lo cantasse a Montevideo prima di salpare per l’Italia: «Bel fior che in rosso e in bianco vi tingete / E fra due verdi foglie vi posate, / Ditemi da qual terra esule siete? / Ditemi in che stagion vi colorate?» (Dall’Ongaro 1963, p. 20). Lo stesso tema si ritrova nei versi di Giuseppe Regaldi, composti nel febbraio del 1848: «Bella Italia, su’ tuoi gioghi / Fioccan nevi e freme il gelo; / Pur ti diè nel verno il cielo / Dell’aprile il primo onor; / Ti diè un fiore – tricolore, / Che d’Italia è il più bel fior» (Regaldi 1848, p. 103). Un altro celebre canto popolare dell’epoca, quello del Giovanettin dalla pupilla nera, riproponeva il tema botanico: «– Giovanottin dalla pupilla nera, / Dimmi, qual’ è [sic] il color di tua bandiera? / – Se una rosa vermiglia e un gelsomino / A una foglia d’allôr metti vicino, / I tre colori avrai più cari e belli / A noi che in quei ci conosciam fratelli; / I tre colori avrai che fremer fanno / L’insanguinato imperator tiranno. / Beato il dì che li vedrà Milano! / Sono Italiano» (Anonimo 1887, p. 140). Al contrario, la parodia di un rispetto popolare diffuso a Firenze e a Livorno alludeva all’insegna gialla e nera dell’Austria: «Tonino che tornò da Barlassina / Portommi un fiorellin di due colori: / Il giallo, un’itterizia malandrina, / Il nero, il lutto delli nostri cori. Io v’unirò una zampa di pollina / Usa a raschiar ne’ più fetenti odori, / E gli dirò che il dindio, il giallo e il nero / Emblema son d’un aborrito impero. / E gli dirò che il dindio, il nero e il giallo / Treman perché l’Italia torna in ballo; / E gli dirò che il nero, il giallo e il pollo /Andranno, quanto prima, a rompicollo» (Martini 1892, pp. 25-26). Il collegamento fiore-tricolore si ritrova poi in una serie di oggetti di uso quotidiano, come il ventaglio tricolore a forma di fiore conservato presso le collezioni del Museo del Risorgimento – Leonessa d’Italia di Brescia.
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Sciallo di Cattaneo e Mazzini
Nel Museo del Risorgimento di Genova, dentro la teca dedicata alla morte di Giuseppe Mazzini, è esposto un panno di lana ripiegato a mo’ di cuscino , con un breve testo ricamato in seta:
Questo Panno / che fu di / CARLO CATTANEO / e ne ravvolse la salma / il / 6 Febbraio 1869 ebbe caro / come suo ricordo / GIUSEPPE MAZZINI / e lui coprì / malato e morto / il / 10 Marzo 1872 / Ag[ostino] Bertani
Accanto, una didascalia recita:
Scialle quadrettato bianco e nero / Panno di lana (509 ) / Ha ricamata l’iscrizione “Questo Panno…” / Lo stesso panno ravvolse anche la salma di Maurizio Quadrio, / morto il 14 novembre 1876.
Lo sciallo è immancabile nell’iconografia della rappresentazione della morte di Cattaneo e Mazzini. L’avere avvolto i due leader del Risorgimento repubblicano con l’apparenza di un sudario ne esprime plasticamente la vicinanza e al panno fa acquistare un significato che va ben oltre il valore elementare di coperta.
Comunemente definito sciallo (nell’uso settentrionale del sec. XIX) o scialle, in realtà si tratta di un plaid, o meglio un maud , sullo Scottish Register of Tartans chiamato Shepherd o Falkirk, ovvero una coperta di lana grezza a due colori naturali (chiaro e scuro) realizzata secondo un motivo semplice e primitivo, una scacchiera di piccoli quadrati regolari chiari e scuri, precedente l’uso delle policromie consuete tra i tartan scozzesi, prevalentemente usato nelle Lowlands, le contee scozzesi prossime al confine con quelle inglesi.
Le sue misure sono 280 x 150 cm, cui bisogna aggiungere 10 cm di frangia sui quattro lati, e il peso è di poco inferiore agli 800 gr. Il quadrato di base del motivo a scacchiera ha il lato di circa 4 mm ed è composto da 4 fili. Sulla parte posteriore presenta numerosi rammendi e qualche buco da camola.
Numerose anche le toppe, fatte di un eguale tessuto, applicate ad arte in modo da non apparire nella parte anteriore. Su un bordo lungo risulta tagliato un rettangolo di stoffa di misura 14 x 4 cm. Su tutto il bordo inferiore (considerando superiore quello dove è stata ricamata la scritta in seta) si nota un raddoppiamento del tessuto come se al panno fosse stata giustapposta un’intera striscia di tessuto.
Riguardo alle toppe, indistinguibili dallo sciallo per qualità e colore, si può ipotizzare il ricorso a un plaid del tutto analogo, oppure, pare plausibile, a una striscia dello stesso plaid ricavata sul bordo inferiore: ciò che spiegherebbe il raddoppiamento come effetto della ricongiunzione della parte terminale comprendente la frangia. In questo caso, la lunghezza originaria potrebbe essere prossima a 300 cm.
L’assenza di cuciture mediane e la larghezza del tessuto ben più ampia della misura media di circa 70 cm ottenibile con il tradizionale telaio manuale scozzese lascia pensare a una fabbricazione col telaio meccanico. Sui lati del maud non si trova alcun segno – cifra o marchio – che permetta di risalire alla manifattura che lo ha prodotto. Peraltro, il modello Shepherd risulta nell’elenco della ditta William Wilson and Son, di Bannockburn (Stirling), la principale manifattura di tartan nel corso del sec. XIX, ed era comunemente prodotto a Hawick (Scottish Borders).
I documenti finora consultati non permettono di capire come la coperta sia arrivata in casa Cattaneo, se attraverso un acquisto, un dono o un’eredità: non ne è stata trovata notizia nei carteggi di Cattaneo e Bertani, né se ne trova nell’epistolario di Mazzini consultato in riferimento al periodo 1868-1872.
Avvolto il corpo di Cattaneo e quello di Mazzini, lo sciallo, ormai non più solo un semplice plaid, diventa negli anni un oggetto di memoria da custodire e tramandare. Probabilmente ne esiste un’ampia eco popolare se il Caffaro, quotidiano genovese, il 15 febbraio 1876, annunciando la morte di Maurizio Quadrio, fedele continuatore di Mazzini, avvenuta tre giorni prima, riporta:
Egli è morto in Roma, avvolto nello stesso sciallo che avvolse, nelle ore d’agonia, Cattaneo e Mazzini. Gli amici di tutta la vita si univano ancora nella morte.
Ma la notizia sarò smentita pochi giorni più tardi (26 febbraio)
Secondo Giulio Andrea Belloni, biografo di Quadrio, si tratta dal giornale romano L’Emancipazione
Lo scialle che avvolse Cattaneo è conservato dal deputato Bertani e non servì pel nostro Maurizio.
Smentita degna di attenzione, trattandosi del periodico diretto dallo stesso Quadrio, ma non sufficiente, visto che la falsa notizia ha avuto riverberi fino ai nostri giorni. Si veda il catalogo dei documenti esposti nelle sale mazziniane, stampato nel 1972, che riporta: Scialle di lana di Carlo Cattaneo che coprì Mazzini malato e la sua salma, e, successivamente, quella di Maurizio Quadrio , o il successivo catalogo generale del 1987 , fino ad arrivare alla didascalia citata in apertura.
Dopo la morte di Mazzini, lo sciallo passa nelle mani di Agostino Bertani che, in seta bianca, vi fa ricamare la scritta di autenticazione riportata in apertura. E la fa ricamare nella parte alta a sinistra, in modo che, piegato, lo sciallo possa assumere la foggia a cuscino mantenuta fino a oggi.
Del ricamo non sappiamo né quando né a chi Bertani l’abbia commissionato; resta solo il cartamodello conservato presso il Museo del Risorgimento di Milano, insieme con una successiva nota anonima:
Questa è l’epigrafe scritta da Bertani per lo sciallo che coprì prima Cattaneo poi Mazzini ed è a questo sciallo che Bertani allude nel suo testamento. Ricordo lasciato ad Adriano Lemmi, 1885.
Col medico milanese il tessuto ha cambiato destinazione d’uso: non più panno per avvolgere, ora più simile a un cuscino funebre, diventa oggetto di memoria e, sempre più, reliquia.
Nel testamento, steso nel 1882 e confermato il 5 giugno 1885 – anno precedente la morte –, lo sciallo figura tra i pochi beni descritti lasciati dal medico:
Lascio all’amicissimo mio Adriano Lemmi, di Livorno, abitante in Firenze, Via della Scala N° 50, od a Roma, Via Nazionale N° 54, la cassetta che è nel mio salotto in Genova, di vari legni americani, contenente il panno che avvolse C. Cattaneo e G. Mazzini, affinché egli, patriotta inarrivabile e mai chiassoso, lo conservi e lo faccia conservare da’ suoi figliuoli, caro pegno di dolore, e ricordo di ammirazione ed esempi da seguirsi per il bene della patria nostra.
Donato dagli eredi Lemmi al Comune di Genova, al quale fa capo l’Istituto Mazziniano, lo sciallo alla fine del 1932 è stato collocato nel sacrario mazziniano, dove è ancora conservato, mentre della cassetta e dell’autografo non resta traccia.
La storia dello sciallo racconta una ‘carriera’ sorprendente: da semplice coperta a mensuale d’altare, addirittura fino a bandiera: nientemeno che “alter ego” del Tricolore! Coime ha annotato Pietro Barbèra nel 1915:
Ben, dunque, fecero gli amici di Mazzini coprendo amorosamente la salma di lui con lo stesso drappo che coprì quella di Carlo Cattaneo; nella nostra fantasia lo scialle scozzese si trasforma in bandiera e diventa il tricolore italiano.
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L’iconoclastia del quotidiano. Le monete ferdinandee sfregiate (1848) La rivoluzione in tasca
Nel corso delle mobilitazioni dell’Ottocento europeo, l’iconoclastia è una strategia fondamentale nella conquista degli spazi d’azione da parte della popolazione. Il confronto visuale con il potere è parte integrante dei meccanismi di sorveglianza delle società rivoluzionarie: lo sfregio e l’abbattimento di monumenti rappresenta un momento di ribaltamento della sovranità. Nel corso del XIX secolo, il rapporto con la materialità muta sensibilmente, in quanto innesca delle dinamiche che rivelano la vitalità delle immagini e le conseguenze della loro potenza nelle azioni degli attori ordinari. Le manifestazioni iconoclaste della rivoluzione del Lungo Quarantotto definiscono un pattern di violenza rituale che racchiude in sé la straordinarietà dell’evento e l’ordinarietà della forma di negoziazione di potere messa in campo dalle popolazioni. In effetti, in un panorama ricco di simboli del potere, gli individui sviluppano un’autocoscienza politica che porta questi ultimi a sfidare le monarchie nelle azioni quotidiane. Il Regno delle Due Sicilie, nel corso del biennio 1848-1849, è teatro di una larga partecipazione popolare alla rivoluzione antiborbonica che coinvolge, a ritmi differenti, le varie province meridionali. La violenza reazione da parte della monarchia di Ferdinando II, in seguito ai sanguinosi eventi del 15 maggio a Napoli, sancisce la definitiva rottura tra il fronte costituzionale-liberale e la monarchia duosiciliana. In effetti, già dal gennaio 1848 la Sicilia proclama la propria indipendenza rispetto al Regno continentale: il governo provvisorio di Ruggero Settimo istituisce una campagna volta alla rimozione della memoria borbonica e all’avvicinamento dell’isola al progetto unitario italiano. Tuttavia, i progetti cospirativi del Mezzogiorno devono scontrarsi con l’esercito monarchico che riesce, tra la seconda metà del 1848 e gli inizi del 1849, a sedare la mobilitazione assestando diversi colpi alle frange rivoluzionarie. Un ulteriore evento che amplia il divario tra società meridionale e monarchia borbonica è il bombardamento di Messina del settembre 1848: la distruzione della città siciliana rappresenta nella memoria rivoluzionaria un momento traumatico per l’efferata violenza dell’esercito reale.
La risposta della popolazione meridionale a Ferdinando II è visibile nella costruzione di un immaginario collettivo “demoniaco” del sovrano borbonico: l’appellativo Bomba o Bombardatore riecheggia nelle satire realizzate sia nei confini del Regno delle Due Sicilie, sia in altri contesti della penisola. La lotta mediatica è altresì innescata dai giornali siciliani, che rilanciano continuamente appelli alla popolazione e al governo provvisorio per la rimozione delle effigi borboniche dagli spazi pubblici. Il 19 settembre 1848, il giornale palermitano La Forbice lancia un monito contro gli stemmi gigliati di Ferdinando II, ancora presenti per le vie della città:
«LO STEMMA ABORRITO. L’odio implacabile che destò ne’ cuori de’ Siciliani l’infame bombardatore, soffrir non potendo nemmeno gli stemmi della scellerata razza borbonica, distrusse statue, iscrizioni, pitture e tutto ciò che ne richiamava la memoria; pure chi lo crederebbe?
Sussistono tuttora i segni borbonici nella vasta e popolata piazza marina in Palermo, a basso rilievo sulla fabbrica dell’antica Gran Guardia. Rabbrividisce il cittadino alla vista di quello emblema che ricorda il più scellerato oppressore, l’assassino, il carnefice de’ nostri fratelli. Togliete, per Dio, quell’obbrobrio da nostri cechi, recidete quei funesti gigli e se havvi tra mille uno solo che li vagheggi, ravvisi in questo esempio la sua fine»
Un altro giornale palermitano, La Costanza, il 12 ottobre del 1848 inaugura una vera e propria campagna di “piccola iconoclastia” finalizzata allo sfregio sistematico delle monete con l’effige ferdinandea. In un avviso a tutta la cittadinanza siciliana è riportato:
«Avete tutti veduto la nuova impronta fatta sulla moneta di argento, vogliam dire su quella ov’è rappresentata l’effigie del Bombardatore? – Ferdinandus II Bomba Dei gratia Rex: questa è la dicitura che vi si legge […] in taluni scudi la parola Bomba si trova come isfregio nel collo del Tiranno […] In sulle prime che si videro comparire, era in tutti un affollarsi, un ricercarle, un volerle. Ma ora che circolano per vicos et plateas sono possedute da quanti noi siamo […] Diremo solo che i Siciliani, sempre arguti e vivaci, per rendere vieppiù universale l’odio che nutrono contro costui ed anche per muovergli un po’ di guerra finanziera, pensarono d’invitare tutti quelli che possiedono delle piastre con l’effigie di tal sovrano a portarle ad un’officina espressamente fondata ove s’imprimerà gratuitamente la parola Olim nel mezzo a Ferdinando II e Dei gratia, e Bomba nel collo dell’effigie».
Già dal settembre del 1848, il giornale La Forbice diffonde il progetto di iconoclastia monetaria pubblicando un piccolo articolo contro l’immagine del sovrano:
«Avendo osservato che all’amatissimo ex re delle Due Sicilie ne scappò una dalle mani, hanno voluto compensarlo della perdita; onorandolo con un nuovo titolo. Quindi, oltre al titolo di Re di Gerusalemme i Siciliani hanno decretato che Ferdinando birbone fosse chiamato Bomba […] giusto al collo della testa di quell’adorato sovrano»
Il medesimo giornale, il 21 ottobre 1848, lancia un appello di un cittadino palermitano che mette a disposizione la propria officina per la “marchiatura” rivoluzionaria delle monete:
«Il cittadino Gaetano Barrile, appartenente al Corpo dei Graduati Penzionisti, ha pubblicato un avviso, in cui si offre ad imprimere gratis il titolo di Bomba in tutte le monete d’argento, che portano la effige del Re di Napoli»
L’intento dei rivoluzionari siciliani è simulare la morte del sovrano attraverso lo sfregio della moneta di Ferdinando II: l’apposizione del motto Bomba sul collo del re raffigura una decapitazione immaginata che innesca meccanismi di sostituzione mediatica del potere. Inoltre, l’iconoclastia nei confronti di un dispositivo mobile come le monete è altresì fondamentale per la circolazione degli ideali antiborbonici sia nella Sicilia, sia nel resto del Regno. In effetti, negli anni successivi al Lungo Quarantotto, caratterizzati da una dura repressione poliziesca delle autorità borboniche, le monete “deformate” sono ritrovate in altre province delle Due Sicilie. Un esempio è fornito dal ritrovamento effettuato da un esattore fondiario presso il comune di Deliceto, in provincia di Foggia, nel 1851. Nel rapporto inviato al Giudice circondariale di Capitanata si legge: «trovansi inciso sotto la testa del nostro Augusto Sovrano (D.G.) colla scritta Bomba e strisciata al quanto con la idea di non farvi apparire le lettere». Nella medesima zona, anche le autorità del piccolo centro di Castelnuovo della Daunia ritrovano delle monete sfregiate sul volto del sovrano: «tra le monete aveva avuta una pezza sfregiata, avendo il naso tagliato e le corna la immagine impressa della moneta». Morte figurate e circolazione sono gli elementi che donano potenza all’iconoclastia contro le monete reali. La possibilità per gli attori ordinari di poter attaccare il volto del sovrano attraverso oggetti “da tasca” configura un nuovo livello di protagonismo rivoluzionario. In questo senso, la mobilitazione passa dalle piazze alla dimensione privata degli individui, che mantengono vive le attività cospirative con gesti quotidiani che confermano la rottura definitiva tra la monarchia borbonica e la maggior parte dei sudditi delle Due Sicilie tra Quarantotto e Seconda Restaurazione.
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oggetto di prova La divina commedia (title)
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