Libertinismo e ateismo nel Seicento

Item

Title
Libertinismo e ateismo nel Seicento
Creator
Lorenzo Bianchi
Date Issued
1979-11-01
Is Part Of
Studi Storici
volume
20
issue
4
page start
881
page end
886
Publisher
Fondazione Istituto Gramsci
Language
ita
Format
pdf
Relation
La « governamentalità», in « Aut Aut », 167-168, pp. 12-29
Rights
Studi Storici © 1979 Fondazione Istituto Gramsci
Source
https://web.archive.org/web/20230919062433/https://www.jstor.org/stable/20564655
Subject
governmentality
power
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LIBERTINISMO E ATEISMO NEL SEICENTO

Lorenzo Bianchi







Nell'ambito del « libertinage érudit » il Theophrastus redivivus occupa
un posto privilegiato ed emblematico. Questo lunghissimo manoscritto
in lingua latina — opera di un anonimo autore francese e riscoperto
dallo Spink alla Bibliothèque Nationale di Parigi — riassume infatti l'in-
sieme dei temi del « libero pensiero » circolanti nella prima metà del
XVII secolo (la data della stesura dell'opera, indicata nel manoscritto, è
il 1659) e li porta a estreme conseguenze di stampo naturalistico e ateistico.
Se già è difficile in sede storiografica dare un giudizio complessivamente
unitario del libero pensiero, l'analisi del Theophrastus redivivus non faci-
lita un lavoro in questa direzione. Opera essenzialmente erudita ma in-
sieme esplicitamente atea, arsenale di polemica antireligiosa da cui attinge-
ranno numerosissimi autori, essa è tuttavia il prodotto di un intellettuale
isolato, estraneo agli esiti filosofici dei contemporanei Descartes, Gassendi
o Hobbes, e il lavoro appare il risultato di una persona che « sotto molti
aspetti è un uomo del Cinquecento piú che del Seicento » (J. S. Spink,
Il libero pensiero in Francia da Gassendi a Voltaire, trad. it. di L. Ro-
berti Sacerdote, Firenze, 1974, p. 78). Rispetto a questa valutazione
dello Spink piú categorici e definitivi appaiono i giudizi di H. Busson
e di R. Pintard che accusano il Theophrastus redivivus di essere un testo
vecchio e fuori del proprio tempo, mentre piú problematica e interlocu-
toria risulta la valutazione di E. Garin che propone una saldatura tra
tematiche rinascimentali e filosofia moderna e riscontra questo intreccio
di temi diversi « proprio nell'area del pensiero libertino della metà del
Seicento » (E. Garin, Dal Rinascimento all'Illuminismo, Pisa, 1970,
pp. 86-87).
È sulla scia di queste indicazioni gariniane che procede il lavoro di Tullio
Gregory (T. Gregory, Theophrastus redivivus. Erudizione e ateismo nel
Seicento, Napoli, 1979) che — nella disamina di quello che può conside-
rarsi il primo testo esplicitamente e programmaticamente ateo della cultura
moderna — ricostruisce, attraverso l'analisi di questo « classico » della
letteratura erudita, uno spaccato di tutta quanta la cultura libertina del
Seicento.
Opera di erudizione il Theophrastus redivivus lo è fin dal titolo, e non
solo per l'uso della lingua latina, quanto per la forma dell'esposizione la quale, ricollegandosi a un testo definitivamente perduto di Teofrasto, la
« historia eorum quae de deo dicuntur », vuole riproporlo e riaggiornarlo
nell'intento di ricostruire una storia del pensiero che fin dall'antichità
classica mostri l'eternità del mondo, la falsità delle religioni e il radicale
ateismo dei filosofi. E atei risultano non solo Diagora e Evemero, Aristo-
tele e Epicuro, Lucrezio, ma anche Platone che dai Padri della Chiesa al
Rinascimento fu letto come precursore del pensiero cristiano; mentre tra
gli autori rinascimentali si annoverano Pomponazzi, Machiavelli, Vanini e
Bodin, ma anche Cardano e Campanella. L'erudizione risulta ormai filtro
critico, strumento di una concezione della storia che espelle ogni approccio
teologico e ogni residuo provvidenzialistico e permette di giungere a quelle
conclusioni estreme che vengono a collocare l'anonimo autore del Theophra-
stus redivivus in quella corrente libertina sostenitrice di un radicale na-
turalismo (insieme a Vanini e Cyrano de Bergerac, Théophile de Viau e
all'abate Meslier) che, per l'atteggiamento di intransigente opposizione,
si differenzia dal « libero pensiero » di un La Mothe Le Vayer o di un
G. Naudé, espressione piuttosto di aristocratico scetticismo e di colta
incredulità.
L'itinerario che Gregory percorre nella ricostruzione dei temi centrali
dell'opera è puntuale e circoscritto (numerose e estese sono le citazioni
dal manoscritto) e tutti i temi sono affrontati con l'ausilio di precisi rife-
rimenti ai testi che l'anonimo autore ha letto, usato e, in molti casi,
« adattato » per mezzo di trascrizioni tendenziose e di abili incastri di
citazioni; emblematica in proposito è l'appendice relativa a Le citazioni
di Machiavelli che se per un verso sottolinea le « manipolazioni » operate
al fine di accentuare ulteriormente le tematiche atee e antireligiose, per
un altro si presenta come una inedita testimonianza della fortuna e della
diffusione di Machiavelli nel pensiero libertino del Seicento.
Quella di Machiavelli è una presenza centrale collegata alla critica delle
religioni, di cui si coglie la natura essenzialmente politica; la religione è
allora utile per il mantenimento del potere, ma il « credere » è ben
distinto dall'« intelligere », e il filosofo che comprende l'utilità politica
della religione, dà una spiegazione naturale di questo fenomeno e viene ad
abbracciare un ateismo integrale. t cosí possibile delineare una storia
naturale della religione che si basa su considerazioni evemeristiche e
naturalistiche: la religione è un prodotto umano abilmente sfruttato a fini
politici, ma insieme le religioni stesse sottostanno a un ciclico succedersi,
a un nascere e perire collegato a quel processo di generazione e corru-
zione che interessa tutta la natura.
Si presenta qui un altro dei grandi filoni che confluiscono nel trattato:
quel naturalismo italiano, in particolar modo padovano, che ha trovato
in Pomponazzi affermazioni estreme proprio in campo religioso. Non è
un caso infatti che si riprendano alcune delle pagine piú significative del
De incantationibus, come non è un caso che l'opera pomponazziana abbia
goduto di una particolare fortuna e diffusione proprio in ambito francese a cavallo tra XVI e XVII secolo. Ma se in Pomponazzi, pur in una cor-
nice di diffuso naturalismo, esistevano ancora elementi prodigiosi o ma-
gici, ora si considerano tutte le religioni come equivalenti e ugualmente
sottoposte alle influenze astrali, e si sottolinea inoltre con forza il carat-
tere politico connesso al fenomeno religioso. Si realizza cosí, dal De in-
cantationibus al Theophrastus redivivus, quel « processo di dissacrazione
del, fenomeno religioso che si congiunge a una dissacrazione della natura
e della storia, elementi questi non marginali nella formazione della
cultura moderna » (T. Gregory, op. cit., p. 151).
L'accentuazione del carattere politico piú che astrologico, nell'analisi delle
religioni, porta a valutarne l'utilità ai fini del mantenimento dell'ordine
politico; ma, e qui si seguono le tracce di Bodin, se le religioni non hanno
nulla di divino e servono solo per governare e controllare il popolo, si
deve anche permettere una pluralità di chiese e di confessioni. La tolle-
ranza, quella stessa che ora in Francia si esercita nei confronti dei calvi-
nisti, è ormai richiesta nell'interesse stesso dello Stato. L'eco della Riforma
e delle controversie religiose è presente, ma ciò che si propone per il fi-
losofo è piuttosto una aristocratica separatezza che non lo impegna nella
vita civile, ma — recuperando motivi epicurei e stoici — lo coin-
volge in una libertà di pensiero e in una felicità tutte interiori. La pos-
sibilità di una « repubblica di atei » che in Bayle assumerà valenze di
grande tensione intellettuale e politica è qui del tutto esclusa; la distin-
zione tra sapiente e volgo rende necessario per quest'ultimo la credenza
in una mitologia religiosa mentre relega il primo in un autonomo spazio
dove la ragione stessa non diventa momento di progresso ma mezzo di
individuale liberazione dalle paure cui soggiace il popolo. La stessa con-
trapposizione tra una originaria uguaglianza esistente nello stato di natura
e una successiva diseguaglianza introdotta dalle scienze e dalle arti e san-
cita dalla violenza delle leggi e dall'organizzazione politica istituita dai
legislatori, è sintomo non tanto di una critica politica alle tensioni nuove
che l'epoca della manifattura immette, quanto piuttosto di un rifiuto
della contemporaneità e di una regressione — mitica quanto la religione
che si vuole criticare — a un inesistente stato naturale. L'autore del
Theophrastus redivivus non si sottrae insomma a una filosofia consola-
toria che è tale in quanto rifiuta il mondo esterno rinchiudendosi in un
aristocratico « bene vivere ».
Questi temi, ben presenti nell'accurata ricostruzione di Tullio Gregory,
meritano comunque un qualche sviluppo. t allora possibile ritrovare nel-
l'autore del Theophrastus redivivus — pur senza voler scomodare tutto
il dibattito sul « libertinage érudit » tematiche che toccano trasversal-
mente la storia del pensiero nella prima metà del XVII secolo; cosí nelle
pagine del manoscritto si possono leggere non solo un nuovo e mo-
derno — storico — uso di pensatori antichi e moderni o una critica radi-
cale e politica della religione, ma si possono cogliere nodi che ridefiniscono
categorie generali della produzione intellettuale di quegli anni. Due ci sembrano allora le possibili direzioni da seguire: per un verso quella
che, con termini foucaultiani, è stata definita la tematica della « gover-
namentalità » (M. Foucault, La « governamentalità », in « Aut Aut »,
167-168, pp. 12-29), per un altro quella tematizzazione di una sfera auto-
noma per i « sapienti » che presuppone un « volgo » naturaliter relegato
in attività produttive.
Nel passaggio dallo Stato di giustizia del Medio Evo, allo Stato ammini-
strativo dei secoli XV e XVI, e infine alle grandi concentrazioni statali
dei secoli XVII e XVIII si verificherebbe per Foucault quella tendenza
a accentuare un tipo di potere — il governo — su altri, e di conseguenza
si verrebbero a elaborare nuove strumentazioni e nuovi dispositivi di
controllo e di sicurezza. È su questa tematica del governo, allora, che dal
XVI al XVIII secolo — da Il principe di Machiavelli all'articolo Économie
politique di Rousseau — si muove tutta una letteratura. Su questi temi
intervengono anche pensatori « libertini », molti dei quali, del resto,
erano legati alla corte, e Foucault ricorda come La Mothe Le Vayer elabori
una tipologia di governo basata sulla distinzione tra politica, economia e
morale, dove la prima è relativa allo Stato, la seconda alla famiglia e
l'ultima al governo di se stessi.
Ma questa stessa tematica interessa gran parte dei protagonisti del « li-
bero pensiero ». G. Naudé nelle sue Considérations politiques sur les
coups d'estat (1639) porta a esiti estremi il machiavellismo del Seicento
riducendolo a mera tecnica al servizio del potere; la religione è ricon-
dotta a strumento politico, da utilizzare in modo spregiudicato: « infine,
per quanto riguarda la politica in senso stretto, la quale è oggetto prin-
cipale del nostro studio, bisogna che ci soffermiamo piú a lungo su questo
argomento, mostrando le maniere usate dai principi e dai loro ministri per
trarre profitto dagli spiriti prigionieri della superstizione, manovrando
con la religione e servendosi di essa come del mezzo piú facile e piú
sicuro che avessero a disposizione per avere successo nelle imprese piú
difficili e piú importanti » (G. Naudé, Considerazioni politiche sui colpi
di stato, tr. it. di P. Bertolucci, Torino, 1958, p. 148).
La contiguità tematica con le affermazioni del T heophrastus redivivus re-
lative all'uso politico della religione sono evidenti e non a caso; il tema
stesso del potere non è infatti estraneo ai problemi storici che si pone-
vano alla Francia del XVII secolo: sono la crisi economica degli anni
Venti e insieme l'eco delle rivolte contadine e urbane della prima metà
del secolo ad affacciarsi nelle pagine di questi autori. Il movimento li-
bertino stesso si può dire che registri questa separazione che interviene
nel corpo sociale e politico e il suo radicale scetticismo esprime questo
antagonismo sociale non immediatamente risolvibile. Questa è del resto
la contraddizione fondamentale dei libertini: additare al potere le tecniche
di controllo politico (tipico in questo l'uso della religione) ma sottrarre
se medesimi da quegli sconvolgimenti e da quelle ridefinizioni sociali
che intervengono con l'epoca della manifattura. È questo nodo del resto che ci permette di leggere e di interpretare il rifiuto del presente che
molti libertini compiono nei confronti del loro tempo; diniego questo che
è piú esplicito nell'anonimo autore del Theophrastus redivivus che in un
Naudé o in un La Mothe Le Vayer, legati piuttosto all'ambiente raffinato
e erudito della corte quando non — come nel caso di La Mothe — di-
rettamente coinvolti nella vita politica (era precettore del Delfino e autore
di opuscoli in appoggio al governo di Richelieu).
La tematica del rimpianto — che è propria di una precisa situazione sto-
rica — accomuna piuttosto il Theophrastus redivivus alle opere di Cyrano
de Bergerac, ma non tanto per la giustificazione dell'ateismo a cui si ap-
proda con Cyrano, quanto per il rifiuto di una realtà sociale (emblematica
la visione « fantastica » degli Estats et empires de la Lune e degli Estats
et empires du Soleil) che assume la valenza di non integrazione nel nuovo
potere politico. Lo spaesamento nei confronti del nuovo stato nazionale
non significa comunque rifiuto aprioristico di alcuni problemi storici (primo
fra tutti l'uso della religione a fini di controllo e di « governo ») ma ri-
manda piuttosto a una visione tutta aristocratica della filosofia. Il po-
tere, l'ordine, va mantenuto anche tramite la religione, ma questo ordine
è estraneo al filosofo che gode di una autonomia culturale e morale. Si
impone qui con forza la presenza di quei temi rinascimentali che pure rin-
chiudevano il filosofo in posizioni di esclusivo isolamento — basterebbe
pensare alla presenza nella cultura del Rinascimento del mito di Pro-
meteo (il filosofo è come Prometeo e diffonde nel mondo il fuoco della
sapienza).
Si affaccia ora chiaramente — e veniamo ad accennare alla seconda dire-
zione di ricerca — il tema della separazione tra intellettuali e comunità.
Anche qui si riscoprono in modo preciso origini rinascimentali e — per
rimanere a un autore che il Theophrastus redivivus conosce e utilizza —
bisogna tornare a Pomponazzi per rintracciare una organica formulazione
di questo problema. La scelta che è data al filosofo di vagliare tra pos-
sibilità bestiale e divina, indipendentemente dall'immortalità dell'anima,
cela in realtà una divisione tra chi partecipa della ragione e chi ne fa un
uso inadeguato e sovente inferiore a molte specie animali. In Pomponazzi
poi questo distacco tra filosofi e comunità si dilata fino all'enunciazione
di una naturale e universale differenziazione di « classe »; se infatti « non
è peccato presso i cristiani che una pecora sia divorata dal lupo, cosí
non è peccato che il povero sia sfruttato dal ricco, perché come è impli-
cito nella perfezione dell'universo che la pecora sia divorata dal lupo, cosí
è presupposto che il povero sia sfruttato dal ricco. Infatti l'universo e la
città non stanno bene senza ricchi, come l'universo non sta bene senza
lupi; ma come il lupo non può esistere senza divorare la pecora o un
altro animale innocente, cosí il ricco non può esistere se non rapina i
beni dei poveri » (P. Pomponazzi, De fato, a cura di R. Lemay, Lugano,
1957, p. 365). Lo stesso ricorrere alla ratio assume cosí il carattere peculiare di un materialismo disincantato nei confronti della morale, con un atteggiamento di fondo simile a quello rintracciabile in numerose formula-
zioni libertine.
Colpisce in queste affermazioni l'enunciazione — tutta borghese — dí
una differenza di classe naturale e universale, e quindi immodificabile, tale
per cui l'« astuzia della ragione » nella « governamentalità » viene non
solo tollerata ma sollecitata. Il concetto di natura serve qui da suppono
per una precisa operazione di avallo ideologico. Questa tematica ci ri-
porta cosí alle pagine del Theophrastus redivivus, ma non tanto ai nume-
rosi luoghi relativi all'uso della religione a fini di governo, quanto
alla conclusiva Peroratío operis ad sapientes saeculi in cui si riassume
la personale filosofia dell'autore. La felicità e la libertà trovano ora in
se stesse il loro fine e al filosofo spetta un tranquillo godimento del pre-
sente, che è silenzio nei confronti del mondo (i versi ovidiani « bene qui
latuit, bene vixit » ritornano non a caso in gran parte della letteratura
libertina). Ma questa meditatio che il sapiente si attribuisce cela una
precisa stratificazione sociale; il filosofo può infatti trascorrere nell'ozio
la propria vita in quanto altri svolgono le « occupationes »: « namque vita
in occupationibus quibus vulgo detinetur, tota molestia est, in otio ad
quod a natura inclinatur et invitatur, gaudium, pax, tranquillitas et fe-
licitas » (cit. in T. Gregory, op. cit., p. 196). Solo tramite la sottomis-
sione della stragrande maggioranza degli uomini si possono assecondare
le inclinazioni naturali verso la pace, la tranquillità, la felicità. La distin-
zione tra ricchi e poveri a cui alludeva Pomponazzi è esplicitamente
accettata e risolta: appare condizione necessaria per l'otium del sapiente.
La violenza (sociale) sancisce la libertà (individuale), mentre l'uso spre-
giudicato della religione e della morale permettono il funzionamento e
il governo della società.
Questi momenti che si sono voluti privilegiare non esauriscono certo la
rosa dei problemi di questo trattato, dove le istanze « politiche » (recu-
perate in gran parte dal naturalismo rinascimentale e da Machiavelli) non
devono comunque far dimenticare l'universo ancora precopernicano in
cui si muove il suo autore. Il tema della conoscenza storica, che T. Gre-
gory ripercorre analiticamente in relazione alla critica delle religioni, viene
allora a saldarsi alla questione dell'origine della scienza moderna, se è
vero che le teorie scientifiche e la nuova filosofia del Seicento nascono
in stretta correlazione con concezioni metafisiche, teologiche e mitiche.
in questa direzione e in particolare nei rapporti tra pensiero libertino e
tematiche centrali del pensiero moderno che la valutazione del « libertinage
érudit » deve allora essere piú cauta e piú articolata di quanto sovente
non lo sia stata, e merito indiscusso di Gregory è anche quello di ri-
cordare come « è solo in questa prospettiva (di saldatura tra tradizione
rinascimentale italiana e scienza e filosofia moderna) che può intendersi
il significato di un'opera come il Theophrastus redivivus » (T. Gregory,
op. cit., p. 11).