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Title
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Storici e discontinuità
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Creator
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Angelo Torre
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Date Issued
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1999-04-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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34
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issue
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100
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page start
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65
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page end
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88
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Il sapere e la storia: due risposte sull'epistemologia, Italy, Savelli editori, 1979
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Microfisica del potere: interventi politici, Italy, Einaudi, 1982
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Rights
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Quaderni storici © 1999 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230920070623/https://www.jstor.org/stable/43779890?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=1999&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Aa6a769175d8e828ad033c2a820eac841
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Subject
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history of present
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history
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archeology
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archive
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extracted text
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STORICI E DISCONTINUITÀ
1. Telling the Truth about History I è un libro politico. Gli
obiettivi polemici e i fini che si propongono le tre affermate stori-
che che ne sono autrici 2, insieme con le ipotesi che si formulano e
la «vera collaborazione» (p. XI) di cui è frutto, ne fanno un possi-
bile esempio per una storiografia civica militante ormai in estinzio-
ne, almeno nella cinica provincia culturale italiana.
L'opera costituisce una riflessione nitida e un'esposizione cri-
stallina del ruolo che la storiografia può ancora ricoprire nel dila-
gante scetticismo che contraddistingue negli USA il panorama
educativo e culturale attuale. Il libro vi fa riferimento fin dal titolo
con il duplice richiamo alla «verità» sia in quanto oggetto della
ricerca storica, sia in quanto operazione critica nei confronti delle
regole e dei risultati della professione storica negli ultimi due se-
coli. L'argomento del libro è dunque la crisi attuale della disci-
plina, che le autrici (d'ora in poi A.H.J.) intendono come una di-
retta conseguenza del rovesciamento dello statuto politico ed epi-
stemologico della ricerca storica prevalso fino alla fine degli anni
sessanta di questo secolo. Ovviamente, A.H.J. sono in possesso di
un antidoto, che propongono al lettore nella parte conclusiva del
libro. Nonostante i riferimenti del lavoro siano principalmente
nordamericani, il suo interesse per il pubblico italiano consiste
nella ricostruzione (sia pur sommaria) dei contorni della crisi at-
tuale della storiografia, tanto della ricerca storica quanto della di-
dattica della storia: un argomento di cui si è parlato poco e male
nel nostro paese, per difetto di informazioni e per indifferenza dei
praticanti, dei mediatori culturali e degli studenti.
Negli Stati Uniti, invece (così come per altro in Inghilterra e in
Francia), la crisi è stata ed è tuttora vasta e acuta, e si compendia
in una marea montante di scetticismo, meglio conosciuto con il
termine di relativismo culturale che si è tradotto in una pluralizza-
zione delle verità possibili a seconda delle identità sociali e cultu-
rali dei soggetti della storia (ricerca e didattica della storia). Se-
QUADERNI STORICI 100 / a. XXXIV, n. 1, aprile 1999
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condo A.HJ., non si tratta soltanto di scelte ideologiche: lo scetti-
cismo attuale sarebbe una conseguenza diretta della vistosa
democratizzazione della società americana. Essa si è tradotta nel-
l'allargamento dell'educazione superiore (da due a tredici milioni
di studenti nei college e nelle università degli Stati Uniti tra 1947
e 1988), nella reinterpretazione in senso multiculturale della storia
nazionale e nello spodestamento della scienza dalla sua posizione
di ancella della «verità». La generazione postbellica ha detronizza-
to lo statuto «assoluto» della scienza, della storia scientifica e della
storia nazionale. Li ha sostituiti con sociologie della conoscenza,
con la considerazione di popoli diversi dai bianchi occidentali,
con interpretazioni storiche fondate su identità di gruppo o di
genere.
Un atteggiamento «revisionista», dunque, che diversamente dai
revisionismi nostrani è qui inteso come un effetto della democra-
tizzazione, e non come una reazione ad essa, e con il quale le tre
autrici professano un rapporto di empatia. La partecipazione che
esse dimostrano appare indubbiamente ispirata dal buon senso.
Lo scetticismo e il suo corollario moderno, il relativismo, afferma-
no pericolosamente che la verità di un giudizio è relativa alla posi-
zione della persona che lo formula, ed è impossibile una verità
esterna ad essa. Per le tre autrici sarebbe invece praticabile uno
«scetticismo salutare» (p. 4) che si schieri sì contro il potere, ma
non contro la verità, e auspichi una verità non assoluta circa il
passato. Per raggiungere questa rassicurante prospettiva occorre
considerare il modo in cui gli storici hanno scritto nel passato e
nel presente, e criticare le due specie esistenti di relativismo: quel-
lo di sinistra (contro il potere) e quello conservatore di destra
(contro l'interpretazione multiculturale della storia). Ma il vero an-
tidoto è politico: l'arma vincente contro lo scetticismo è una «pra-
tica democratica della storia che incoraggi lo scetticismo verso le
visioni dominanti, ma instilli allo stesso tempo fiducia nella realtà
del passato e nella sua conoscibilità» (p. 11).
2. Il nesso strettissimo che A.M. vedono fra sviluppo della
scienza, nascita della storia professionale e interpretazione nazio-
nale della storia è la chiave per attribuire un senso ben preciso
alla crisi revisionistica in corso: scienza storia e nazione si intrec-
ciano indissolubilmente nella nozione di «modernità», e per que-
sto motivo la crisi relativistica assume connotati che la fanno defi-
nire (e auto-definirsi) post-moderna.
Fino alla fine degli anni sessanta di questo secolo la storiogra-
fia ha goduto di uno statuto «forte» all'interno di un «assolutismo
Storici e discontinuità 67
intellettuale» che traeva la sua legittimità dalla rivoluzione scienti-
fica del Sei e Settecento. Da quel rinnovamento intellettuale, che
A.H.J. identificano sostanzialmente con il newtonianesimo, sareb-
be derivato un modello assoluto di conoscenza, al cuore del quale
stavano la fede nella ragione e l'ideale eroico della lotta all'igno-
ranza. Il modello era dapprima convalidato dal consenso di una
cerchia specifica di pari ma finì per legittimarsi attraverso un at-
teggiamento dapprima scettico e poi ostile nei confronti delle
Chiese, della teologia e dello stato. In questa visione mitica Illu-
minismo, Rivoluzione industriale e Rivoluzioni politiche trasfor-
marono il mondo materiale e mentale e consentirono di rappre-
sentare il rapporto tra scienziato e mondo naturale in termini di
trasparenza governata dalla razionalità. Allo stesso tempo, la tec-
nologia divenne la misura della distanza degli europei dal resto
del mondo.
L'estensione dei principi della razionalità al dominio della sto-
ria è, ovviamente, una conseguenza di quella rivoluzione intellet-
tuale. Essa è visibile nello slittamento semantico del termine «mo-
derno»: da sinonimo di «attuale» esso diventa sinonimo di «non
obsoleto», o migliore. Le condizioni sono propizie ad attribuire
un orientamento al tempo storico e a formulare teorie degli stadi
di sviluppo dell'umanità (raccoglitori, pastori, contadini, mercanti)
che la cultura scozzese propone come «philosophical history». Se-
guono, in un intreccio ben noto, la reazione romantica e il suo
contributo alla concezione neo-provvidenzialistica della storia
(cammino verso la rivelazione dello spirito delle nazioni) che l'i-
dealismo hegeliano tingerà di metafisica (la verità sta nella storia)
e il positivismo piegherà all'affermazione della verità assoluta della
scienza.
In questo clima, verso la metà dell'Ottocento, la scientifizzazio-
ne e la professionalizzazione della storia ebbero l'effetto di fissare
un modello paradigmatico di percorso evolutivo dell'umanità, che
A.H.J. chiamano teoria della modernizzazione: essa trovò in Marx,
Durkheim e Weber i patrocinatori di uno sviluppo inusitato della
ricerca storica. Sia pure con accenti diversi, le scuole storiche ad
essi ispiratesi danno vita a una storiografia che insiste sulla unicità
del processo di sviluppo umano, e che A.H.J. definiscono sociale.
Le interpretazioni della storia americana rappresentano una illu-
strazione persuasiva di questo paradigma (pp. 91-127), che qui
non è possibile seguire per esteso.
3. La seconda parte del libro descrive la detronizzazione del
modello assoluto di scienza. Dello spodestamento sono responsa-
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bili almeno tre movimenti convergenti: il moltiplicarsi delle inter-
pretazioni della storia americana, l'individuazione di un modello
«normale» di scienza e la sua critica, e infine la crisi del concetto
stesso di modernità. Le battaglie ideologiche sull'interpretazione
della storia americana nella prima metà del secolo, e soprattutto la
storia sociale negli anni sessanta, con la sua enfasi demografica e
comunitaria, hanno prodotto una immagine anticonvenzionale del
passato: secondo A.H.J. essa è minacciosa per lo status quo, in
quanto fonda la pluralità dei comportamenti su basi culturali spe-
cifiche di ogni comunità etnica e sociale. Nello stesso tempo, è
mutato l'atteggiamento nei confronti del modello scientifico asso-
luto, e in una direzione congeniale, sia pur inavvertitamente, allo
sviluppo del relativismo. La scoperta kuhniana che l'organizzazio-
ne normale della scienza si fonda su teorie generali, paradigmati-
che, sarebbe secondo A.H.J. il sintomo di tutta una serie di rottu-
re: per ricordarne solo alcune, l'emergere nella generazione degli
anni sessanta di una interpretazione sociale della storia della scien-
za, la reinterpretazione critica di figure eroiche come Newton e
Darwin, e le stesse nuove direzioni della filosofia della scienza. In
tal modo, esse sostengono, si è allontanata e offuscata l'immagine
unitaria e assoluta del legame tra verità e conoscenza.
La crescente consapevolezza delle componenti ideologiche tan-
to della ricostruzione storica, quanto del lavoro scientifico ha avu-
to per A.H.J. conseguenze dissolutive: non solo per la ricerca sto-
rica, ma più in generale, per la fiducia nella possibilità della cono-
scenza. Esse si sono unite alla critica «postmoderna» all'oggettività
delle scienze sociali. La difficoltà della questione è evidente per
A.H.J. già a un livello di definizione dei termini: se infatti «mo-
derno» si riferisce a un modo di vita, genericamente legato all'in-
dustria e all'urbanismo, «modernismo» (almeno in questa sede) è
un movimento artistico e letterario interessato all'essenza di tale
modo di vita. Il post-modernismo, invece, secondo le autrici fa ri-
ferimento a un orientamento anti-modernista in arte e architettura
che trova le sue ragioni altrove: soprattutto, in quella critica teore-
tica alle assunzioni della modernità nel campo filosofico, artistico e
della critica letteraria, le cui origini risalirebbero addirittura al Sei
e Settecento, e che A.H.J. chiamano post-strutturalista 3.
Per questa via la storia e le scienze sociali sono state crescen-
temente toccate da un atteggiamento critico nei confronti dell'og-
gettività della conoscenza e della stabilità del linguaggio. Un at-
teggiamento per nulla unitario: si va dall'identificazione tout-court
della modernità con la scienza 4, alla critica foucaultiana alle «po-
litiche generali» della verità che ogni società sarebbe in grado di
Storici e discontinuità 69
elaborare, e che conduce a identificare la scienza con un discorso
scientifico. Per A.H.J., tuttavia, l'atteggiamento post-modernista
trova un minimo di coerenza (paradossale, ovviamente) nella du-
plice critica al concetto di «soggetto» e di «realtà». Con il primo
A.H.J. intendono, per brevità, una concezione unitaria del sé,
quel minimo di solidità necessaria per cogliere l'autonomia delle
azioni umane: senza un soggetto, insistono, le politiche basate sul-
le identità non sarebbero possibili, e neppure le politiche di au-
toaffermazione culturale. Per A.H.J. la critica al concetto di «real-
tà» nasconde la convinzione dell'impossibilità di ogni conoscenza
certa e intende, in genere, sottolineare il fatto che nessun insieme
di fenomeni oggettivi può esistere a prescindere dal discorso in
cui viene espresso.
Nel racconto di A.H.J., la natura della verità storica, l'oggetti-
vità e la stessa forma narrativa della storia, come sono stati prati-
cati fin qui, sono accusati dai postmodernisti di non essere altro
che invenzioni della immaginazione capitalistica occidentale. Que-
sto attacco si accompagna alla proclamazione della necessità di un
atteggiamento antistoricistico, che si rifà a Nietzsche, Heidegger e
non è immune da contaminazioni irrazionalistiche. Nelle parole di
A.H.J. il postmodernismo esprimerebbe così la «disillusione intel-
lettuale per marxismo, comunismo, capitalismo e ogni altra attesa
di liberazione, in sé null'altro che ennesimo strumento di control-
lo». È già possibile intuire, a questo punto, gli elementi di una
genealogia del postmodernismo: un vago senso del legame tra co-
noscenza e volontà di potere che si può ascrivere a Nietzsche, una
dichiarazione del fallimento di tutte le narrative emancipatorie
delle avanguardie, l'attacco heideggeriano all'uomo come centro
dello storicismo, e, infine, la critica decostruzionista.
4. Per critica decostruzionista, A.H.J. intendono essenzialmen-
te la combinazione tra la riflessione di Jacques Derrida e quella di
Michel Foucault nell'affermare l'incapacità dell'uomo di superare i
vincoli del linguaggio per afferrare la realtà: da Foucault derive-
rebbero la convinzione che ogni discorso sulla verità fa riferimen-
to al progetto di autonomia del soggetto elaborato dall'Illumini-
smo, e la concezione trasgressiva di ogni critica della verità. A
Derrida sarebbe invece da ascrivere l'idea che la de-costruzione
della verità sia in se stessa un valore, poiché farebbe emergere la
verità in quanto strategia discorsiva. La verità sarebbe un disposi-
tivo insieme espressivo e repressivo: espressivo in quanto farebbe
del linguaggio una struttura autoreferenziale, non solo perché sen-
za rapporti con la realtà, ma perché creatrice della realtà stessa;
70 Angelo Torre
repressivo in quanto il linguaggio stesso avrebbe la funzione di na-
scondere la realtà. Questa consapevolezza ha la conseguenza di
trasferire il livello della realtà dalle cose alle parole, e di sottovalu-
tare o addirittura ignorare qualunque intervento soggettivo (atti-
vo), autoriale, del discorso.
Da questa analisi della rivolta intellettuale derivano anche le
conseguenze per la storiografia: l'emergere di una «cultura! histo-
ry» (p. 217) che si oppone tanto alla storiografia marxista, quanto
alle «Annales» e alle altre storiografie della modernizzazione. Al
centro starebbe ormai la mente (mind) come deposito delle pre-
scrizioni sociali, luogo di formazione delle identità sociali e di ne-
goziazione linguistica del significato della realtà. L'interesse dello
storico si sarebbe ormai spostato dalle produzioni umane ai codici
con cui esse vengono comunicate. A tali codici avrebbero accesso
solo i partecipanti della messa in scena sociale, che avrebbero an-
che il potere di mutarli incessantemente. Lo sguardo dello storico
«culturale» rende relativo il concetto di razionalità degli attori e lo
trasferisce dalla sfera «economica» a quella simbolica, e fa del
concetto di cultura la chiave esplicativa (o quanto meno descritti-
va) di una storiografia orientata verso l'antropologia e la teoria let-
teraria, in una vena che ha contagiato gli stessi avversari: i marxi-
sti, in particolare, hanno abbandonato le spiegazioni economiche e
sociali e si sono ormai convertiti al culturalismo grazie alla sco-
perta dell'eredità gramsciana.
Le conseguenze per la pratica storiografica sono state enormi.
Intanto, il profilarsi di posizioni di forte rifiuto. Per alcuni, che
A.H.J. chiamano i tradizionalisti, si è trattato di un rifiuto analogo
a quello opposto a tutte le forme precedenti di innovazione cultu-
rale. Ma al postmodernismo si sono opposti anche gli storici socia-
li, in quanto bersaglio delle sue critiche. A.H.J. sottolineano inve-
ce la prossimità di molte storiche femministe, e in particolare di
Joan W. Scott 5, che hanno negato la capacità dell'esperienza di
produrre conoscenza (p. 226). Accanto a queste polemiche, A.H.J.
indicano tendenze più diffuse, quali la crescente confusione tra te-
sto e contesto, tra ciò che va spiegato e ciò che permette di spie-
garlo: in questo senso, sostengono giustamente, il postmodernismo
costituisce una minaccia per qualsiasi forma di teoria sociale (p.
227). Inoltre, per analogia con gli sviluppi dell'antropologia cultu-
rale, il riconoscimento che lo studioso costruisce il proprio testo
avrebbe condotto alla sfiducia nei confronti delle macrospiegazioni
e all'adozione di atteggiamenti di ironia e ripiego. Tra questi
A.HJ. annoverano la microstoria (p. 228), senza tuttavia sostanzia-
Storici e discontinuità 71
re le loro affermazioni se non attraverso la generica segnalazione
di una ripresa di interesse per la narrazione.
Ma la conseguenza più vistosa del postmodernismo sulla sto-
riografia è consistita per le autrici nella riproposizione della narra-
zione come questione fondamentale e centrale per la disciplina: la
forma narrativa sarebbe intrinsecamente ideologica, totalitaria e a-
(se non anti-) critica. La storia, si è sostenuto, non genera identità.
Inoltre, tutti i livelli del racconto storico sarebbero condannabili:
essi mostrano come la storiografia non sia che un modo burocrati-
co e ideologico di organizzare il reale, una forma di propaganda
fondata sulla mitologia dell'intreccio (le cose hanno un inizio, un
centro e una fine). Ed è infatti su questo piano che si abbozza la
risposta di Appleby, Hunt e Jacob: la critica della narrativa può
nascondere due atteggiamenti distinti. Se si vuole sostenere che
l'esperienza non produce conoscenza, allora nessun dialogo è pos-
sibile. Se invece si vuole affermare che lo storico è incapace di
catturare tutto il passato, allora è necessario, e salutare, riconosce-
re la parzialità dello storico. Essa deriva dal fatto che molto di
rado l'assunzione di un punto di vista prospettico viene resa espli-
cita e analizzata. Inoltre, le categorie interpretative assunte dagli
storici sono «porose» (p. 253), spesso fuorvianti e in ogni caso ca-
paci «to reveal more about present-day categories than about what
people in the past thought or did» (ibid.).
Ma questa consapevolezza non deve mutare l'oggetto dello sto-
rico. Perciò, A.HJ. ribadiscono con fierezza che la distanza tra
narrativa e realtà non invalida la narrazione storica in sé: le parole
implicano in ogni caso gli oggetti cui si riferiscono, e narrare co-
stituisce una legittima operazione di attribuzione di significato. Per
questo, la narrazione è ineludibile, poiché restituisce significato al-
l'azione e la rende quindi comprensibile. In fondo, anche il post-
modernismo è una meta-narrativa: ha una mitologia, ma soprattut-
to ha un oggetto. Il fatto che esso sia ancora indecifrabile non ne
inficia l'esistenza.
Da questa lettura del postmodernismo derivano le conclusioni
e le proposte operative di A.H.J. La crisi attuale della storiografia
va messa in relazione con la fine della Guerra fredda: il confronto
politico duale che essa sottintendeva ha imprigionato la conoscen-
za nella gabbia della ragione di stato, producendo una nozione di
segreto che ha soffocato la dimensione di dibattito scientifico, che
avevamo ereditato dall'Illuminismo. È questa scomparsa ad aver
reso plausibili le sociologie della conoscenza che hanno condotto
al relativismo e alla sua politica di «segregazione mentale» fondata
sull'identità storica delle etnie, dei generi e delle classi. L'unica
72 Angelo Torre
speranza degli storici, anzi, il futuro stesso della disciplina, consi-
stono per le autrici in una rivitalizzazione dell'arena pubblica e del
dibattito scientifico che la caratterizza. Tale ripresa di discussione
dovrebbe appuntarsi su posizioni teoriche non lontane dalla tradi-
zione americana. Da un lato si tratterebbe di ribadire l'esistenza di
un rapporto tra asserzioni e realtà attraverso i principi tradizionali
del pragmatismo americano. Naturalmente, si tratta di un pragma-
tismo purgato della vecchia logica assolutistica, che A.H.J. chiama-
no «practical realism» (p. 249): sulla base di H. Putnam 6, esse
pensano a un realismo capace di riconoscere la mediazione del lin-
guaggio e di vederne la corrispondenza con la realtà. Per A.H.J. le
convenzioni linguistiche nascono dal fatto che gli esseri umani do-
tati di immaginazione e comprensione, usano il linguaggio in ri-
sposta a ciò che è esterno a loro. La struttura della grammatica è
un artificio linguistico, ma si sviluppa attraverso un'interazione
con il mondo oggettivo, attraverso una lotta per nominare le cose
con cui gli esseri umani dovrebbero in ogni caso fare i conti, an-
che se le cose non avessero nome: fatti e convenzioni si implicano
reciprocamente. Lo storico a cui pensano è così caratterizzato:
«The historian is someone who reconstructs a past pieced together
from records left by the past, which should not be dismissed as a
mere discourse on other discourses» (p. 250).
Si tratta di una definizione che agli occhi delle autrici vorrebbe
aprire una breccia nella tradizionale, e futile, contrapposizione fra
testo e realtà, a cui le stesse A.H.J. aderiscono. Esse infatti oppon-
gono alla critica postmodernista una lettura delle fonti che, grazie
alla semiotica di Charles Peirce 7, associ sistematicamente «the
true conception of a thing and the thing itself» (ibid.). Non si può
non consentire, ma a patto di riconoscere la necessità di definire
che cosa sia la «cosa» la cui concezione noi accogliamo nella no-
stra analisi.
5. Ho cercato di dare il massimo spazio alle autrici per rispet-
tare il più possibile la loro argomentazione. E, prima di discutere
brevemente alcune delle loro posizioni, vorrei ribadire il merito
«politico» di questo libro. Intanto, è meritoria e sorprendente la
volontà di esporre senza censure a un largo pubblico lo stato della
propria disciplina, una decisione che in Italia esporrebbe gli autori
(autrici) al rischio di denunce e controdenunce 8. Negli USA è evi-
dentemente ancora possibile riflettere sullo stato di una disciplina
accademica in quanto ambito scientifico, connotato da contenuti e
problemi teorici, e da conflitti intorno a tali problemi. È questo il
segno della persistenza di un'abitudine alla discussione pubblica
Storici e discontinuità 73
di un'affermazione scientifica o di un atteggiamento intellettuale,
che dovrebbe far riflettere. Certamente, l'impegno civile che qui
viene assunto dalle autrici, è presumibilmente legato a precisi
gruppi di interesse e a orientamenti di metodo all'interno della
corporazione degli storici americani — si fa ad esempio riferimento
costante ad ambiti di discussione della didattica universitaria della
storia, dietro le quali non è implausibile immaginare forze sociali e
culturali all'interno delle università statunitensi. Ma la battaglia
politica è ancora condotta in nome di una nozione di bene pub-
blico che non sembra possibile scindere dai contenuti scientifici, o
teorici, o di metodo.
Questa nozione di bene pubblico è per A.H.J. tanto concreta,
da consentire loro di individuare un campo specifico nel quale il-
lustrare la propria ipotesi: tale campo è la storia della nazione
americana. Si tratta di una scelta senza dubbio legata al largo pub-
blico cui A.M. intendono rivolgersi, e forse ancor di più al peso
specifico che la storia nazionale può vantare all'interno della sto-
riografia e, più in generale, del mondo accademico americano. Ma
quel che mi colpisce è che A.HJ. riescano ancora a individuare,
appunto, quel riferimento del discorso storico: per A.M. la storia
ha un oggetto, ed è la storia nazionale, sia pure una nazione dila-
tata a un sub-continente. C'è da chiedersi se questa non sia una
semplice forzatura, un prezzo pagato all'impegno civile che costi-
tuisce, non dimentichiamolo, la più forte giustificazione del lavoro.
Non mi sentirei di affermare ad esempio che i protagonisti della
storia sociale statunitense degli anni sessanta avessero in mente
esclusivamente la storia degli Stati Uniti. Sono stato infatti abitua-
to a pensare a una preminenza del problema metodologico (e que-
sta può essere stata a sua volta una mia proiezione «militante»).
Ma ci si può anche chiedere se l'accettazione della nazione quale
banco di prova della storiografia non derivi da qualche altro as-
sunto delle autrici, e non sia legata, ad esempio, al loro approccio
all'analisi del postmodernismo. Un approccio che, come vedremo,
presta il fianco a diverse accuse, prima fra tutte quella di riduzio-
nismo.
Il secondo grande merito del lavoro è quello di affrontare
esplicitamente e senza perifrasi i termini di una crisi profonda che
scuote il mondo storiografico americano da un ventennio, e che
non sembra per ora destinata a placarsi o a risolversi. Da questo
punto di vista, il libro anzi suggerisce termini nuovi di riferimento.
Mi pare infatti che finora il problema sia stato dibattuto soprattut-
to da storici e teorici della letteratura, o dei cultural studies, e che
le risposte degli storici siano state episodiche e flebili 9: le si ri-
74 Angelo Torre
trovano in un genere letterario, a metà strada tra la rassegna e il
contributo teorico, straordinariamente diffuso nelle riviste storiche
americane e anglosassoni. Un genere letterario che, come ben sap-
piamo, consente di solito all'autore di portare acqua al proprio
mulino, costruendo nemici ad hoc, molto comodi per legittimare
proprio la posizione teorica che si vuole spiegare o chiarire. Una
tattica che fa perdere vieppiù quel rapporto fra storia e verità che
il nostro secolo ha distrutto e che, nella circostanza attuale, ha tra
l'altro l'effetto di fare il gioco dei relativisti: da questo punto di
vista la proposta di un «practical realism» non mi pare più signifi-
cativa della proposta di storia decostruzionista avanzata da Alun
Wunslow t°, o della storia filosofica di Gérard Noiriel ".
Il problema mi pare di altro ordine: in quale contesto, e in
quale cronologia collocare i fenomeni di cui si parla. Le cronolo-
gie finora usate dagli storici per analizzare il postmodernismo sono
esterne, e sono banali strategie di legittimazione di chi parla. Da
questo punto di vista il tentativo di A.H.J. si discosta inizialmente
dal comportamento abituale, perché associa ambiti di osservazione
differenti, e ne ipotizza connessioni reciproche. Su questo piano,
molte osservazioni risultano pertinenti, e c'è da rimpiangere che la
prospettiva adottata dalle autrici non abbia consentito di svilup-
parle come avrebbero meritato. Tra queste va certamente annove-
rata l'ipotesi formulata all'inizio del libro, secondo cui lo scettici-
smo sarebbe l'effetto perverso dell'accesso al sistema educativo su-
periore di gruppi sociali ed etnici che prima ne erano esclusi. Si
tratta di un problema che sarebbe suscettibile di analisi ben più
articolate, magari improntate ai metodi della vecchia e ormai de-
sueta storia sociale: non sarebbe stato inutile, ad esempio, sapere a
quali ritmi della scolarizzazione sia corrisposta la diffusione di at-
teggiamenti scettici, e con l'ingresso di quali gruppi sociali ed etni-
ci sulla scena universitaria essa abbia coinciso, e con quale distri-
buzione geografica ecc. Si potrà obiettare che si tratta di un com-
pito forse superiore alle ambizioni del libro, ma mi pare che esso
sia soprattutto estraneo ai gusti delle sue autrici: un po' di vecchia
storia dell'istruzione e qualche dose, anche piccola, di sociologia
dell'educazione (penso a Bourdieu) avrebbero giovato.
Anche con questi limiti, l'approccio scelto dalle autrici sembra
suggerire un'angolatura inedita e utile per parlare di postmoderni-
smo: la relazione tra storia delle pratiche scientifiche e storia delle
pratiche storiografiche. Un approccio che in Italia mi pare sconti
un'arretratezza profonda: non perché manchino storici dell'una e
dell'altra disciplina, ma per il fatto che in Italia la storia della
scienza non mi pare aver ancora conquistato l'attenzione generale
Storici e discontinuità 75
degli storici, in particolare di quelli sociali e politici. La storia del-
le pratiche storiografiche, dal canto suo, resta inevitabilmente sof-
focata dalla storia della filosofia: un'angolatura che fa perdere di
vista il fatto che prima della sua professionalizzazione, la storio-
grafia era praticata anche da scienziati (Leibnitz fra tutti), e che la
sua stessa periodizzazione è legata alla storia delle pratiche scienti-
fiche, in particolare la storia naturale 12. Ma soprattutto il nesso tra
pratica storiografica e pratica scientifica è più forte di quanto gli
storici siano disposti ad ammettere, e il peso che A.H.J. attribui-
scono alla nascita di una storia sociale delle pratiche scientifiche
nella disgregazione del modello normale, assoluto, di scienza, sem-
bra del tutto adeguato.
6. Non sono convinto, tuttavia, che questa identificazione, o
questa incorporazione della storia della storiografia nella storia
della scienza risolva tutti i problemi, e in particolare quello, che
oggi mi pare capitale, della specificità del mestiere di storico.
A questo proposito colpisce l'assenza di Arnaldo Momigliano
tra i riferimenti di A.H.J.: si tratta infatti di uno degli storici che,
in questo secolo, più precocemente si è occupato del relativismo,
che per primo ne ha compreso la dirompente novità ". Certamen-
te, si tratta di un'assenza che suona come una scelta di campo:
come è noto, lo storico italiano ha indirizzato la sua discussione
del relativismo proprio in direzione di Hayden White (uno degli
autori che A.H.J. discutono con maggior vigore se non con mag-
gior pertinenza 14). Anzi, si potrebbe dire che ha fatto di White la
cartina di tornasole della svolta relativistica della seconda metà de-
gli anni settanta. Non senza incertezze e ripensamenti: è quanto-
meno curioso notare come, almeno fino al 1977, il materiale edito
di Momigliano rifletta un certo rispetto per il filosofo gentiliano 15:
egli lo ricorda con distanza ma senza ostilità nel 1974 nella sua
rivisitazione dello storicismo 16, e ancora nel 1977 ne loda un pe-
netrante saggio su Vico 17.
È solo con il 1980 che l'atteggiamento di Momigliano muta.
Le argomentazioni che avvicinano la storia alla retorica vengono
da lui identificate come intrinsecamente relativistiche: White non è
citato in modo esplicito, ma compare nella bibliografia del saggio.
Il relativismo è poi indicato come il «punto cruciale» della relazio-
ne tra storiografia moderna e storiografia classica, e come la vera
«novità» del secolo XX 18, e viene associato alla «perdita di autori-
tà dello storico, qualunque storico, in quanto portatore della veri-
tà». A quel punto la battaglia di Momigliano contro White diven-
ta esplicita. E del 1981 l'articolo a lui dedicato su «Comparative
76 Angelo Torre
Criticism» 19. Al 1982 risale il celebre articolo sulla storia in un'età
di ideologie 20, dove si inizia a fare la storia dell'atteggiamento
scettico impersonato da White (a partire da Isocrate). Momigliano
è così in grado di mettere in relazione la «presente crisi di credibi-
lità della storia con il cambiamento della posizione della storia nel
diciannovesimo secolo»: la sua funzione pedagogica. Per finire,
con l'articolo del 1985 sui rapporti tra medicina, retorica e storia,
Momigliano fa una confessione più ampia: «non siamo più certi di
essere capaci di comprendere il passato. "L'invenzione della sto-
ria" è diventata un elegante luogo comune. Se i nostri critici inter-
pretano il discorso storico come metaforico o ideologico o piutto-
sto semplicemente come privo di fondamento, la questione che ci
pongono è se noi storici siamo capaci di raccogliere informazioni
autentiche sul passato». Perciò, si individua in Erodoto il banco di
prova di «quel che chiediamo alla storia», bersaglio obbligato di
ogni teoria scettica che miri a dimostrare appunto l'«invenzione
della storia». Ma questo implica, per Momigliano, «affrontare con
coraggio» il rapporto tra lo storico in quanto studioso di un con-
testo e lo storico in quanto utilizzatore di categorie che gli pro-
vengono dal proprio, relativo, universo culturale. Questo proble-
ma, riconducibile alla formazione crociana di Momigliano, lo ren-
de sensibile ad alcune delle stesse proposte decostruzioniste: nel
caso che stiamo esaminando, ad esempio, il merito di aver ripro-
posto la questione va, sorprendentemente, a «uno dei più sensibili
interpreti della presente situazione»: Dominick La Capra 21. Ma
c'è di più: Erodoto è «il prototipo dello storico creativo», che sco-
pre «un mondo illimitato da esplorarsi con senso di responsabili-
tà». Immediatamente dopo questo giudizio, affiora un altro riferi-
mento sorprendente: Erodoto costituisce un modello analogo a
quello di chi «fino a ieri fu il più originale tra gli storici nostri
contemporanei»: Michel Foucault 22.
Ho ricordato questi momenti — ben noti — della riflessione di
Momigliano sullo scetticismo perché mi interessava vedere come
la sua forte opposizione all'opera di White sia nata in conseguenza
di una svolta, o di una illuminazione dello storico italiano a pro-
posito di una «situazione» di forte mutamento, che avrebbe pro-
dotto la «novità» del XX secolo. Non è ovviamente questa la sede
per ricostruire tale situazione (probabilmente il congiungersi degli
atteggiamenti scettici con quelli revisionisti a proposito dell'Olo-
causto). Ma quel che mi pare più interessante, e che mi sembra
mancare nell'opera di A.H.J., è proprio il fatto che Momigliano
abbia indicato la possibilità di un intervento da storici (-che) di
fronte alla novità rappresentata dallo scetticismo: lo storico italia-
Storici e discontinuità 77
no, infatti, ha esplicitamente invitato gli storici a occuparsi, in
quanto storici, della nascita dello scetticismo 23, e si può dire che
questo sia stato uno dei motivi dominanti del suo itinerario di ri-
cerca, a partire dal celebre intervento sull'antiquaria, che data al
1950.
Per questi motivi il libro di A.H.J. rischia di essere molto de-
ludente per chi sia interessato all'indagine storica della genesi del
decostruzionismo. La genealogia del postmodernismo e del deco-
struzionismo offerta da A.H.J. è infatti del tutto esterna a una
prospettiva storica. I materiali, le riflessioni e le stesse cronologie
sono importate dall'esterno, e si perde totalmente il senso di quel
che può essere, oggi, la professione della (dello) storica. Intendo
dire che la lettura degli autori cari al postmodernismo mi sembra
condotta nei termini un po' scontati a cui ci hanno abituati gli
studi di letteratura comparata. Il problema mi pare consista nel-
l'accettazione da parte delle tre autrici del percorso analitico dei
cultural studies (e quindi una lettura degli storici in termini di cri-
tica letteraria). Mi sono chiesto il motivo di questo scarso interesse
per un'analisi storica della genesi dei cultural studies, un atteggia-
mento di resa senza condizioni di fronte a quello che è, invece, un
interessante, forse cruciale problema storico 24.
7. Senza un simile interesse, il rischio è di dare letture ridutti-
ve e fuorvianti. In un caso almeno, quello di Foucault, l'esito sem-
bra proprio questo. Del pensatore francese A.H.J. assumono alcu-
ni luoghi comuni (valore trasgressivo della critica della ragione,
critica del linguaggio, negazione del soggetto e dell'autore ecc.),
ma non cercano in alcun modo di contestualizzare e di dare una
lettura da storiche della sua opera. La pubblicazione dei Dits et
écrits di Foucault 25 rende ora meno ardua un'impresa che in que-
sta sede non è possibile neppure abbozzare. Vorrei tuttavia tentare
di formulare qualche domanda e rendere esplicita qualche curiosi-
tà riguardo al ruolo di Foucault nella genesi del postmodernismo.
Un ruolo che, mi pare, implichi fin dall'inizio, e profondamente,
gli storici e alcune delle loro categorie operative più importanti: il
concetto di continuità.
Intanto, va chiarito che bisognerebbe chiedersi di quale Fou-
cault si stia parlando: non soltanto l'acume di Momigliano, ma an-
che lavori più interni ed empatici con il pensatore francese, come
la biografia intellettuale di Paul Rabinow e Hubert Dreyfus 26, fan-
no rilevare l'esistenza di rotture, di svolte nodali all'interno del
suo percorso di ricerca. Una di queste, che riguarda forse più da
vicino gli storici e il mestiere di storico, si colloca sicuramente ne-
78 Angelo Torre
gli anni, o forse nei mesi, compresi tra la pubblicazione di Les
mots et les choses 2' e L'ordine del iliscorso. Si tratta del periodo in
cui i rapporti fra Foucault e gli storici (Mandrou e Braudel in par-
ticolare) sono più stretti, in cui le recensioni favorevoli da parte
degli storici si sprecano, e in cui si intravede nel filosofo francese
un approccio praticabile alla storia intellettuale o delle mentali-
tà 28. Ma è un periodo in cui egli stesso appare molto interessato
all'ambiente degli storici: da un lato è fortemente colpito dalla rie-
dizione della Méditerranée di Braudel, e progetta addirittura di
scrivere un lavoro su di essa 29, insieme a un lavoro di storia della
storiografia, che riappare periodicamente tra i suoi progetti 30.
Lunga durata e strutture geomorfologiche erano probabilmente al
centro della riflessione che Foucault conduceva in quei mesi sulla
storia, ma non bisogna dimenticare che altri interessi, più affini al
suo percorso di ricerca, si profilano nella traccia biografica di cui
ora disponiamo: l'estate 1967, ad esempio, appare interamente oc-
cupata dalla lettura di Panofsky 31, di cui lo attrae l'analisi delle
immagini come fattori capaci di generare e costruire l'esperienza
Ma si tratta anche del periodo di gestazione di Archéologie du
savoir: libro chiave, il cui «fallimento» dal punto di vista metodo-
logico è addirittura stato invocato per spiegare la svolta e l'esisten-
za di «due» Foucault ". Ma ciò che interessa qui è che si tratta
del periodo di più intensa riflessione foucaultiana sulla disconti-
nuità in storia ": tale riflessione, che sfocia nell'adesione alla criti-
ca di Nietzsche al metodo storico, rivela a mio parere il vero con-
tenuto della polemica di Foucault. Rileggiamo le sue parole, più
volte ripetute e infine poste all'inizio dell'Archéologie: «sono alcu-
ne decine di anni che l'attenzione degli storici si è portata di pre-
ferenza sui lunghi periodi. Come se, al disotto delle peripezie poli-
tiche e dei loro episodi, essi si accingessero a mettere in luce gli
equilibri stabili e difficili a rompersi, i processi insensibili, le rego-
lazioni costanti, i fenomeni tendenziali che culminano e si rove-
sciano dopo continuità secolari, i movimenti di accumulazione, le
lente saturazioni, i grandi zoccoli immobili e muti che lo sviluppo
dei racconti tradizionali aveva ricoperto di un intero spessore di
eventi». Foucault dimostra di conoscere gli «strumenti» che hanno
permesso di distinguere diversi strati sedimentari: i modelli di cre-
scita economica, gli sviluppi e le regressioni demografiche, le oscil-
lazioni del clima. Insomma, la strumentazione delle «Annales» de-
gli anni sessanta. Ma lo stesso testo consente di essere più precisi:
quel che nel 1968 colpisce il pensatore francese è il fatto che si sia
andati «dalla mobilità politica alle lentezze proprie della "civiltà
materiale"», che si siano «moltiplicati» i livelli di analisi, ciascuno
Storici e discontinuità 79
con «specifiche rotture» e «una delimitazione che gli è propria».
E, «nella misura in cui si scende verso gli strati più profondi, le
scansioni diventano più larghe».
È impossibile non riconoscere in queste parole la fraseologia
braudeliana degli anni sessanta, quella del dialogo, o del compro-
messo, con lo strutturalismo di Strauss 34. Foucault riconosce a
Braudel il merito di aver mutato la tradizionale domanda della
storia: «quale legame stabilire tra eventi discontinui?». Ora ci si
troverebbe di fronte a un nuovo «complesso di difficili domande».
Egli ne individua tre: «Quali strati bisogna isolare gli uni dagli al-
tri? Quale tipo e quale criterio di periodizzazioni bisogna adottare
per ciascuno di essi? Quale sistema di relazioni... possiamo descri-
vere [?] dall'uno all'altro?». L'atteggiamento di Foucault, riletto
oggi, è solo apparentemente ambiguo: egli ribadisce tutta la sua
distanza da questa procedura, che definisce paradossale, poiché
«rompe delle unità solo per stabilirne altre; poiché scandisce delle
serie e duplica i livelli».
Queste nuove procedure, tuttavia, riflettevano per Foucault
una vera e propria trasformazione della funzione degli storici, che
egli rilevava in un mutare del loro rapporto con la discontinuità.
Infatti la domanda tradizionale — qual è il legame tra eventi di-
scontinui — rivelava nello storico il tentativo di «cancellare dalla
storia» proprio la discontinuità al fine di far apparire «la continui-
tà dei concatenamenti». Ora, e, potremmo aggiungere, grazie alle
«Annales» e a Braudel, Foucault può constatare «la trasformazio-
ne del discontinuo [...] da una fatalità esteriore che bisogna ridur-
re, a un concetto operatorio che si utilizza». In sintesi, i nuovi sto-
rici propongono «un certo uso regolato della discontinuità per l'a-
nalisi delle serie temporali». Potremmo dire che la storiografia
economica e sociale ha individuato diversi livelli dell'organizzazio-
ne sociale, ne ha isolato le caratteristiche e gli andamenti, ma ha
fissato le discontinuità tra i livelli e non tra i fenomeni. Al loro
interno, infatti, i «fatti» risultano concatenati da dinamiche e da
temporalità che sono fissate in anticipo: così, ad esempio, la storia
dello spazio è in anticipo legata al tempo lungo, ecc.
8. A distanza di trent'anni, è impossibile non riconoscere l'a-
cutezza dell'analisi di Foucault. Come sarebbe apparso chiaro solo
alla metà degli anni settanta 35, le «Annales» delle inchieste collet-
tive e dei livelli di cultura, delle mentalités intese come entità psi-
cologiche e non culturali 36, ma soprattutto della «longue durée»
braudeliana, avevano unilateralmente sezionato e irrigidito il muta-
mento storico. In ogni caso, mi pare che la nozione di discontinui-
80 Angelo Torre
tà si ponga come un vero termine di confronto fra Foucault e gli
storici: un terreno di discussione che definisce un rapporto conte-
stuale su cui si è sorvolato un po' sbrigativamente. Alcuni indizi
fanno pensare che il lavoro intorno a queste categorie non si sia
interrotto. Per non fare che un esempio, ancora nel 1979-80, in
occasione della preparazione della raccolta di storiografia «fou-
caultiana» su L'impossible prison37, egli afferma di lavorare nel
senso di una «événementialisation» della storia: di cercare delle
«ruptures d'évidence». Invece di riferire le pratiche (discorsive) a
una costante storica o a un tratto antropologico, secondo Foucault
era necessario far rilevare le «singolarità», ovvero «montrer que ce
n'était pas si nécessaire que a» 38. Il bersaglio polemico sembra
ancora una volta la longue durée braudeliana: l'«événementialisa-
tion», per Foucault, avrebbe il pregio di far ritrovare le connessio-
ni e le rotture che a un momento dato hanno potuto funzionare
come evidenza, universalità o necessità. Una capacità che Foucault
chiama di «demoltiplicazione causale», e che oppone alla pratica
(storiografica) della constatazione delle «rotture senza ragione in
una continuità inerte». Nel libro di cui stiamo parlando, egli pren-
de le distanze dall'interpretazione corrente dell'incarcerazione
come un «fait d'institution», e vi contrappone una lettura come
elemento singolare di un processo di penalizzazione, di inserzione
progressiva nelle forme della punizione legale. Il progetto, in
estrema sintesi, era di «costruire intorno all'avvenimento singola-
rizzato un poliedro di intelligibilità».
9. Perspicacia e acutezza della critica foucaultiana agli storici,
dunque. Ma non si può non riconoscere, allo stesso tempo, la par-
zialità e l'insufficienza della sua analisi. Essa parte infatti da un
certo momento dell'indagine storica, quello stesso che, qualche
anno dopo, avrebbe attratto l'attenzione di Hayden White 39: il
trattamento dei «dati» presuppone infatti che vi sia accordo su
che cosa è un dato, o meglio che un dato esista, nel senso che se
ne possa isolare l'esistenza 40. La critica foucaultiana al concetto di
dato è ancora una volta non solo parziale, ma direi soprattutto
esterna: è la critica di un consumatore di storia e non di un suo
produttore 41: oggettiva, cioè si appropria, dell'aspetto di una atti-
vità altra dal quale si ritiene legittimato 42.
Un aspetto dell'argomentazione foucaultiana mi pare in grado
di far percepire i limiti della sua operazione, la parzialità e l'insuf-
ficienza della sua analisi. Si tratta di un aspetto che egli si porta
appresso proprio come un'eredità dei suoi amici-nemici, gli storici
delle «Annales» labroussiane 43 e braudeliane. In una importantis-
Storici e discontinuità 81
sima intervista del 1967, Sur la fapn d'écrire l'histoire 44, E appare
ancora prigioniero della continuità: sostiene ad esempio di aver
cercato, nelle sue opere degli anni sessanta, di tradurre un muta-
mento in una continuità. La modelità gli era sembrata allora la
«forma del passaggio». O meglio, vede la discontinuità soltanto
tra differenti «couches d'événements», o «domaines»: egli parla ad
es. del proprio interesse a metter in relazione la «couche autono-
me des discours [...] avec d'autres couches, de pratiques, d'institu-
tions, de rapports sociaux, politiques». Il libro sulla follia e quello
sulla clinica hanno voluto mettere in relazione «des domaines dif-
férents».
Allo stesso tempo egli cerca di distanziarsi, credo per la prima
volta, dalla storia sociale, e forse dalla storia tout-court: parla infat-
ti della sua distanza dagli storici perché si domandano solo che
cosa un testo dice «véritablement», e non che cosa dice «réelle-
ment»: una formula ambigua, che in realtà nasconde l'idea che
dica «altro» da quello che dice. La nuova critica dovrebbe invece
servirsi del testo «comme d'un ensemble d'éléments [...] entre les-
quels on peut faire apparaitre des rapports absolument nou-
veaux». Questi elementi sono, in senso proprio, «cose», dotate di
vita propria, che Foucault chiama «materiali».
La reificazione dei testi fa della storia una scienza dell'accumu-
larsi dei discorsi: Foucault sta evidentemente pensando all'archeo-
logia del sapere: questa dovrà occuparsi non soltanto de «la lan-
gue qui permet de dire», come potrebbe fare con un approccio
strutturale, ma «des discours qui ont été dits». Qui l'oggetto della
polemica è davvero lo strutturalismo: la differenza tra le società
senza storia e le società cosiddette storiche non è la presenza o
l'assenza dei discorsi, ma il modo di connettersi dei discorsi. Nelle
prime essi si giustappongono, si dimenticano, si trasformano; nelle
seconde essi «s'additionnent». Questo è davvero uno snodo cru-
ciale — «tout discours apparait sur fond de disparition de tout évé-
nement». In altri termini, il discorso appare, si forma, come resi-
duo di un avvenimento. Perciò l'archivio che questi detriti costrui-
scono, è uno stock di materiali inerti.
Il disinteresse foucaultiano per la formazione dei discorsi (o
delle pratiche) gli fa in tal modo perdere la possibilità di un ap-
proccio costruzionista 45, dinamico e configurazionale alla produ-
zione di pratiche, di simboli e dispositivi simbolici. Un approc-
cio che consentirebbe di accentuarne la loro sostanziale disconti-
nuità. È chiaro che questo approccio implicherebbe una lettura
dei contenuti di rivendicazione del materiale storico, di vedere
cioè le dinamiche interne di produzione della documentazione,
82 Angelo Torre
non in quanto materiali inerti, e archiviati in quanto inerti, ma
in quanto materiali dinamici, correlati a un momento genetico
trascritto da una fonte. In questa scelta di Foucault è evidente
una polemica contro gli storici: essi parlano solo della società,
non riescono a prendere sul serio i materiali discorsivi. Ma è
chiaro a sua volta che il suo approccio prescinde dalla genesi
delle cose dette, e ha perciò come conseguenza la riduzione del-
la discontinuità agli esiti.
In altri termini, l'individuazione dei termini reali della polemi-
ca di Foucault con gli storici che egli stesso aveva apprezzato per
tutti gli anni sessanta, conduce a identificare delle categorie criti-
che dell'indagine storica, e a cogliere in tutta la sua ambiguità la
critica foucaultiana. La discontinuità che egli ha avuto il merito di
individuare come elemento di crisi della storiografia economica e
sociale delle «Annales» di Labrousse e Braudel, è una discontinui-
tà monca, perché non è indagata nella sua dimensione genetica.
10. Se si volesse davvero condurre una riflessione senza reti-
cenze su tutte le implicazioni dell'«uso regolato della discontinui-
tà» adottato dalla storia sociale degli anni sessanta, allora lo sguar-
do dovrebbe volgersi alla produzione di dati da parte degli storici,
e non solo sulla loro procedura retorica di comunicazione. Sembra
decisivo sapere dove si situa questa discontinuità, se nella vita del-
le relazioni e negli intercorsi sociali che lo storico studia, o al li-
vello della documentazione sulla quale sola si posa il suo sguardo,
o su entrambi gli ambiti di osservazione.
Mi chiedo se l'analisi della discontinuità — sociale e scritturale
— rivelata dalle fonti non possa arricchire l'oggetto stesso della no-
stra disciplina, non possa cioè prefigurare l'esistenza di un rappor-
to tra realtà e documentazione che non si può ridurre a quello
della corrispondenza dell'una con l'altra.
Per non pensare dunque l'archivio come l'esistenza accumulata
dei discorsi è necessario prestare attenzione ai processi di trascri-
zione documentaria attraverso i quali gli attori trovano la propria
legittimazione. Solo in tal modo, credo, possiamo tracciare delle
alternative storiografiche (e non critico-letterarie) al percorso fou-
caultiano.
Il percorso che intravedo a questo punto mi sembra indirizzar-
si verso la «singolarità» delle configurazioni in cui vediamo gene-
rarsi le azioni e le pratiche. Attraverso questo percorso mi sembra
possibile, e già praticato da qualche lavoro empirico, puntare ver-
so la definizione della discontinuità sociale. Maurizio Gribaudi ha
mostrato in una serie di lavori recenti come le stesse categorie
Storici e discontinuità 83
professionali del mondo moderno siano il prodotto di discontinui-
tà sociali e documentarie. Per capire una categoria professionale
nella Francia dell'Ottocento, ad esempio, dobbiamo considerarla
all'interno dell'insieme del quale, nell'esperienza di relazione dei
suoi appartenenti, essa fa parte. La tassonomia professionale della
società francese è prodotta da una successione discontinua di in-
siemi diversi. Nello stesso tempo, tuttavia, la gamma di nomi uti-
lizzati per esprimerla resta costante 46: un mestiere, una professio-
ne mutano di significato (e di posizione nella gerarchia degli sta-
tus) perché muta l'insieme delle categorie alle quali i suoi
praticanti sono e si considerano prossimi.
Ma dall'altro canto, mi sembra necessario andare più in là, e
vedere come le configurazioni aprano un percorso di ricerca che
può condurci alla individuazione delle discontinuità culturali. John
Shearman 47 ha mostrato qualche anno fa, ad esempio, i risultati a
cui può pervenire un'analisi delle opere d'arte condotta in termini
che non esiterei a chiamare configurazionali. Invece di limitarsi a
uno studio delle opere dopo la loro creazione, occorre secondo lo
storico anglo-americano studiare le intenzioni dell'artista nell'indi-
rizzare il proprio lavoro al pubblico, e del pubblico nell'indirizzar-
si al lavoro dell'artista. In questo senso, precisare per quale colloca-
zione, cioè per quale contesto, un'opera d'arte è stata pensata, è
per lo storico della cultura altrettanto, se non più importante delle
discussioni, o delle recezioni, all'interno delle quali si situa. L'op-
zione è espressa in modo cristallino da Shearman a proposito della
collocazione del Perseo di Benvenuto Cellini nella Loggia. Egli in-
dividua nella concezione della statua da parte dell'artista un «con-
versational mode» che qualifica in modo «transitivo» l'opera d'ar-
te già nel momento della sua creazione, che non può prescindere
dalla competenza critica del suo pubblico. Ne deriva un'alternati-
va di metodo che mi pare di assoluto rilievo: Non importa quanto,
per esempio, i Signori di Firenze possano aver promosso il David di
Michelangelo a emblema della libertà civica mutando la sua proget-
tata collocazione all'ingresso del governo repubblicano in Palazzo
Vecchio, e non importa neppure quanto gli storici desiderino oggi
ratificare la sua lettura in questo solo senso; il fatto è che i fiorentini
con inventiva e caparbietà la leggevano in altro modo. Ne deriva
che la collocazione di un'opera d'arte, quella rispetto alla quale è
concepita e quella effettiva, è un elemento portante, costruttivo,
del suo significato. Di più, lo spettatore è implicato a priori nelle
sue possibili reazioni alla nuova presenza di ciò che sta per essere
concepito: lo spazio è uno spazio condiviso 48.
84 Angelo Torre
Conseguentemente, noi possiamo leggere un contesto, perciò,
come una successione retrospettiva di materiali inerti perché or-
mai privi di dinamica (lo storico li considera a partire dal momen-
to in cui scompaiono come fatti, direbbe Foucault). Ma è un fatto
che i contemporanei leggevano quegli stessi materiali come «avve-
nimenti singolari», l'aggiunta o la sottrazione dei quali a un de-
terminato spazio ne mutava il significato mentre mutava il signifi-
cato di tutti gli altri.
Quella che viene richiesta allo storico è dunque una «rotazione
di matrici», il fatto di porsi all'interno della configurazione che ha
generato ciò che egli osserva quando è ormai avvenuto, nella cor-
nice documentaria che lo legittima o lo stigmatizza. L'assenza di
retrospettiva che in tal modo lo storico si conquisterà, farà emer-
gere la creatività e il cambiamento come caratterizzazioni intrinse-
che, imprescindibili, del significato delle azioni. Ogni azione rifà il
mondo, anche se tende semplicemente a conservarlo così com'era.
È a partire da queste stesse considerazioni che, su tutt'altro piano,
Daniel Miller ha letto tra gli aggregati domestici di una via di
Londra il consumo di massa contemporaneo. Questo può essere
studiato attraverso ciò che i singoli compratori fanno e dicono di
fare quando acquistano, nel corso di ogni singolo acquisto. In
questa prospettiva il consumismo si rivela esattamente il contrario
dell'edonismo individualistico a cui così spesso è associato; allo
stesso modo, esso appare relativamente indipendente dalle compo-
nenti di reddito e di rango. Piuttosto, il consumo è una rappre-
sentazione della carta delle attese che gravano sugli individui e che
si manifestano nei loro ambiti sociali di riferimento, in particolare
nella famiglia: sono l'espressione dell'amore per gli altri, del sen-
tirsi obbligati nei loro confronti. Il consumo si sviluppa attraverso
una dialettica di risparmio e di gratificazione, di procrastinazione
e di eccesso: è un omologo del sacrificio. Per il tramite di oggetti
di volta in volta diversi, i compratori interpretano contestualmente
i desideri di ciascun familiare. Così facendo, sostanziano e riaffer-
mano l'esistenza di forze collettive, in altri termini della trascen-
denza.
Se cercassimo di adattare il linguaggio antropologico di Miller
a quello della discussione del postmodernismo che abbiamo qui
utilizzato, dovremmo dire che solo il riconoscimento della discon-
tinuità delle attestazioni (qui: i diversi atti di acquisto e gli oggetti
scelti, messi in relazione con il discorso di chi compra) consente
di afferrare la pratica di oggettivazione soggiacente: l'interpretazio-
ne di una configurazione di rapporti e la legittimazione dell'attore
al suo interno attraverso un oggetto.
Storia' e discontinuità 85
11. Ciò che in tal modo si viene delineando sono non solo ap-
procci (costruzionistici e configurazionali), ma oggetti nuovi. Essi
possono essere riassunti sotto l'etichetta della discontinuità, e rin-
viano alle dinamiche delle azioni e alla loro matrice configurazio-
nale.
Il nesso tra genesi di documentazione e istanze di trascrizione
impone in altri termini di leggere il «dato» insieme con il giaci-
mento documentario in cui si trova, per vedere le dinamiche di
legittimazione degli attori sociali. Genesi delle fonti, configurazioni
sociali, pratiche di oggettivazione rinviano dunque alla disconti-
nuità. Ma lo stesso discorso può essere fatto (Shearman e Miller a
mio avviso lo dimostrano) per il mondo delle cose, da quelle co-
muni a quelle investite di contenuti estetici alti. È chiaro che que-
sto localismo della produzione delle idee è un fattore di disturbo
per una storiografia ancora legata allo sguardo retrospettivo. Qui
mi pare che si ponga una opzione di metodo. Quel che dobbiamo
decidere non è se ripiegarci verso la micro narrativa storica, come
sostengono A.H.J., ma se leggere in termini di discontinuità il
comportamento, o la prerogativa di un attore, gli interlocutori che
sceglie, e con cui decide di definire la propria situazione. Non si
tratta solo di associare, come auspicano A.H.J., il riferimento con-
testuale e i dispositivi linguistici dei singoli episodi frammentari
rintracciati.
La discontinuità è vitale per gli storici: perché vi sono immersi,
ne dipendono, e perché è la sostanza della documentazione (mate-
riale e simbolica) e dell'intercorso sociale che essa trascrive. Can-
cellarla, come pretendeva di fare la storiografia rankiana, o rego-
larla, come pretendeva la storiografia braudeliana e annalista, im-
plicano un'autocensura che mina alla base l'analisi storica.
In caso contrario, come nel caso di A.H.J., si imbocca la stra-
da, a mio parere cieca, di ridurre la decostruzione delle attestazio-
ni all'accettazione del punto di vista del soggetto (lo storico come
i suoi testimoni). L'oggetto della storia resta lo stesso, e il proble-
ma della crisi della disciplina si riduce a una rivitalizzazione illu-
ministica dell'arena pubblica — cioè il confronto fra i saperi etnici
e di genere — come sede della verità condivisa e condivisibile.
Mi pare invece che sia necessario imboccare una direzione op-
posta, e cioè quella di riconoscere l'inadeguatezza dell'oggetto tra-
dizionale della storia, e di ridefinirlo attraverso un «sapere delle
attestazioni» (la geografia e la struttura delle fonti, intese nel senso
più largo possibile di «attestazioni») che riconosca la discontinuità
delle configurazioni sociali che in esse si esprimono. Solo a queste
condizioni mi pare possibile attingere l'esperienza degli attori so-
86 Angelo Torre
ciali del passato, e la loro capacità di interpretarla. La posta in
gioco è la lettura dei processi di mutamento di questi oggetti com-
plessi, non la riproposizione politicamente corretta di oggetti
abusati.
Note al testo
New York-London 1994.
2 Joel Appleby è una storica del liberalismo, presidentessa degli storici americani nel
1991-92; ben note al pubblico italiano sono Lynn Hunt, storica della rivoluzione francese e
alfiere della «nuova storia culturale», e Margaret Jacob, storica della scienza nell'età dei
Lumi.
3 Sul postmodernismo cfr. E JAMESON, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo
capitalismo, Milano 1989 (ed. originale 1984); più recenti ID., The Cultural Turn. Selected
writings on the Postmodern, 1983-98, ibid., 1998 e P. ANDERSON, The Origins of Postmo-
dernity, London 1998; su postmodernismo e consumo cfr. M. FEATHERSTONE, Consumer
Culture and Postmodernism, London-New York 1991, pp. 65-128.
4 F.R. ANKERSMIT, Historiography and Postmodernism, in «History and Theory», 28
(1989), p. 140 e la successiva discussione, con i contributi di P. ZAGORIN e altri.
5 P. DI CORI (a cura di), Altre storie. La critica femminista alla storia, Bologna 1996,
cerca di fare il punto della situazione. Una dura presa di posizione polemica di J. Scorr è
in «History and Theory», 34, 4 (1995), pp. 329-334, in un Forum dedicato a Telling The
Truth (interventi di R. MARTIN e C. STROUT, pp. 322-339).
6 Su H. Putnam, C. Peirce e R. Rorty cfr. RJ. BERNSTEIN, The Resurgence of Pragma-
tism, in «Social Research», 59 (1992), pp. 812-840.
A.H.J., pp. 250 e 283-284. Di Peirce cfr. Semiotica, Torino 1980.
8 Un esempio in R. ROMANELLI, Giudizi e pregiudizi. Alcuni commenti in tema di con-
corsi per ricercatori, in «Quaderni storici», 76 (1991), pp. 305-314.
9 P. NovicK, That Noble Dream. The «Objectivity Question» and the American Hi-
storical Profession, Cambridge 1988. Cfr. anche la discussione tra L. STONE, P. JovcE e G.
SPIEGEL su «Fast and Present», 134-136 (1992-93).
1° A. WUNSLOW, Deconstructing History, London 1997, oppone a una storia ricostru-
zionista/costruzionista una storia «decostruzionista» fondata sul riconoscimento del fatto
che «Language constitutes history's content as well as the concepts and categories deployed
to order and explain historical evidence through our linguistic power of figuration» (p.
181). Cfr. capp. 7, Foucault and History, e 8, Hayden White and decostructionist history.
" G. NOIRIEL, Sur la «crise» de l'histoire, Paris 1996, pp. 91-171.
12 E. GRENDI, Storia di una storia locale: perché in Liguria (e in Italia) non abbiamo
avuto una local hístory?, in «Quaderni storici», 82 (1993), pp. 141-198, e ín part. pp.
144-153.
13 A. MOMIGLIANO, The Place of Ancient Historiography in Modem Historiography, in
Entretiens sur l'Antiquité Classique, t. XXVI, Genève 1980, ora in ID., Sui fondamenti della
storia antica, Torino 1984, pp. 46-70.
14 Anche la retorica è in rapporto con la verità: C. GINZBURG, Aristotele, la storia, la
prova, in «Quaderni storici», 85 (1994), pp. 5-17.
15 C. GINZBURG, Unus testis, in «Quaderni storici», 80, 1992, pp. 529-548.
16 A. MOMIGLIANO, Historicism revisited, (1974), in Sesto contributo alla storia degli
studi classici e del mondo antico, Roma 1980, ora in ID., Sui fondamenti cit., pp. 455-465: il
riconoscimento della pertinenza di alcune osservazioni di W. «non significa essere d'accor-
do» con lui; allo stesso tempo Momigliano riconosce che W. sviluppa acutamente la tesi del
carattere retorico delle classificazioni rankiane, ed è d'accordo sul fatto che la storicità e
Storici e discontinuità 87
presenzialità delle categorie interpretative dello storico costituiscano un criterio della sua
selezione dei fatti.
17 A. MOMIGLIANO, Two English Books on Vico (1977), ibid., ora in ID., Sui fonda-
menti cit., pp. 230-252.
18 MOMIGLIANO, The Place cit., p. 65.
19 A. MOMIGLIANO, The rhetoric of History and the History of rhetoric: on Hayden
White's Tropes, in «Comparative Criticism», 3 (1981), pp. 259-268, ora in Sui fondamenti
cit., pp. 465-477.
2° A. MOMIGLIANO, History in an Age of Ideologies, in «The American Scholar», 51, 4
(1982), pp. 495-507, poi in Settimo contributo alla Storia degli Studi Classici e del Mondo
Antico, Roma 1984, ora in A. MOMIGLIANO, Tra storia e storicismo, Pisa 1985, pp. 57-74, in
part. pp. 58-60.
21 MOMIGLIANO, La storia tra medicina e retorica, ivi, pp. 22-23.
22 Sottolineatura mia. È, non a caso, come vedremo, il Foucault di Archeologia del
sapere (Milano 1971), che M. cita nell'articolo del 1980 ricordato sopra n. 15. Un Foucault
controverso su cui torneremo fra breve.
23 Fin da Storia antica e antiquaria cit. (1950).
24 G. Spiegel ha proposto ad esempio l'ipotesi di un nesso tra decostruzionismo e
«seconda generazione postbellica».
25 A cura di D. DEFERT e F. EWALD, 4 v., Paris 1994. Cfr. in particolare la Chronologie
dei singoli volumi.
26 H.L. DREYFUS e P. RABINOW, Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneu-
tics, Brighton 1983.
27 Paris 1967.
28 G. NOIRIEL, Foucault and History: The Lessons of a Disillusion, in «Journal of Mo-
dern History», 66 (1994), pp. 547-68.
29 Manca questo riferimento in Noiriel 1994, ora in Chronologie, I, p. 30.
3° Ibid.
31 È molto curiosa la coincidenza della lettura di Foucault con il lavoro di Bourdieu
sullo stesso autore. A. TORRE, Percorsi della pratica, in «Quaderni storici», 90 (1995), pp.
191-221.
32 DREYFUS E RABINOW, Michel Foucault cit., pp. 79-103.
33 E stesso la situa al maggio 1967, in relazione alla pubblicazione del numero di
«Esprit» sullo strutturalismo, ideologia e metodologia. Ma è anche un periodo di lettura di
Nietzsche (p. 31: «je lizarde N. et je crois commencer à m'apercevoir pourquoi ga m'a
toujours fasciné: une morphologie de la volonté de savoir qu'on a laissé de coté en faveur
de la volonté de puissance»). Queste riflessioni si sono tradotte in una importantissima in-
tervista Sur les Mons d'écrire l'histoire, in «Les lettres frangaises», 87 (15-21 giugno 1967),
ora in Dits cit., vol. I, pp. 585-600. Queste riflessioni si sono tradotte nella Réponse au
Cercle d'épistémologie, in «Cahiers pour l'analyse», 9 (1968), e nella Réponse à une que-
stion, in «Esprit», 5 (1968) (trad. it. in M. FOUCAULT, Il sapere e la storia, a cura di M.
Ciampa, Milano 1979, in particolare pp. 21-27). Le citazioni successive rispettivamente dal-
le pp. 21-25. L'argomentazione sarà ripresa con minor incisività in ID., L'ordine del discorso,
Torino 1970.
34 A. TORRE, Antropologia sociale e ricerca storica, in La storiografia contemporanea. In-
dirizzi e problemi, a cura di P. Rossi, Milano 1987, pp. 206-239 individua questo problema
lungo tutto il secondo dopoguerra.
35 C. GINZBURG, Il formaggio e i vermi, Torino 1975 ed E. GRENDI, Il «daumardismo»:
una via senza uscita?, in «Quaderni storici», 29-30 (1975), pp. 729-737.
36 G.E.R. LLOYD, Smascherare la mentalità, Roma-Bari 1991; A. PROSPERI, Prefazione a
R. HERTZ, La preminenza della destra e altri saggi, Torino 1994, e E. GRENDI, Ripensare la
microstoria?, in «Quaderni storici», 86 (1994), pp. 539-549.
37 Recherches sur le système pénitentiaire au XIXe siècle, réunies par Michelle Perrot,
Paris 1980, Table ronde du 20 mai 1978, pp. 40-59.
38 Ivi, p. 43.
39 H. WHITE, Metahistory, Baltimore 1973 (trad. it. Napoli 1977).
4° La concezione foucaultiana dei dati è espressa soprattutto a partire dall'Ordine del
discorso ed esplicitata in Hommage a Jean Hippolyte, (trad. it. in Microfisica del potere, Tori-
no 1977, pp. 43-44). Si tratta di «un rapporto di forze che s'inverte, un potere confiscato,
88 Angelo Torre
un vocabolario ripreso e rovesciato E...] una dominazione che s'indebolisce E...] un'altra che
fa il suo ingresso mascherata». A parte la loro mutuazione da Nietzsche, va notata la loro
contrapposizione non alla nuova storiografia, ma a quella delle «decisioni, regni, trattati,
battaglie» un po' anacronistica nella Parigi di fine anni sessanta. In ogni caso, si tratta di
«dati» parimenti arbitrari.
41 È uno dei rischi dell'interdisciplinarità: per un'esemplificazione a proposito dei rap-
porti fra antropologia e storia cfr. J. e J. COMAROFF, Ethnography and the historical imagina-
tion, Bulder 1992, pp. 13-31 in particolare.
42 Sull'oggettivazione cfr. D. MILLER, Teoria dello shopping, Roma 1998 e Consumer
behaviour and Material Culture, London 1987.
43 R. LUTZ, Die Erben von Bloch und Febvre. Annales-Geschichtsschreibung und nou-
velle histoire in Frankreich, 1945-1980, Stuttgart 1994; J.-Y. GRENIER e B. LEPETIT, L'expé-
rience historique: à propos de C.-E. Labrousse, in «Annales ESC», 6 (1989), pp. 1337-1360.
44 NOIRIEL, Foucault and History cit. Le citazioni successive sono tratte da FOUCAULT,
Sur la facon cit., pp. 591-598.
45 Non so se E abbia avuto in mente P. BERGER e T. LUCKMANN, Li realtà come co-
struzione sociale, Bologna 1969. Su questi temi v. ora D. CEFAI, Phénoménologie et Sciences
Sociales. Alfred Schutz: Naissance d'une anthropologíe philosophique, Genève 1998.
46 M. GRIBAUDI, Les discontinuités du social. Un modèle configurationnel, in Les formes
de l'expérience. Une autre histoire sociale, Paris 1995, pp. 187-225, in partic. tavv. 4 e 5 e
pp. 214-221. Cfr. ora Prémisse a Espaces, Temporalités, Stratifications, Paris 1999.
47 J. SHEARMAN, Only Connect Art and the Spectator in the Italian Renaissance,
Princeton 1992 (trad. it. Milano 1995); le cit. seguenti dalle pp. 46-48 dall'ed. ingl.
48 SHEARMAN, Only Connect cit., pp. 59-106.