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Title
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PER UNA STORIA SOCIALE DELL'OPINIONE PUBBLICA: OSSERVAZIONI A PROPOSITO DELLA TARDA ETÀ LIBERALE
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Creator
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Giuseppe Civile
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Date Issued
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2000-08-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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35
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issue
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104
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page start
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469
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page end
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504
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Microfisica del potere: interventi politici, Italy, Einaudi, 1982
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Il sapere e la storia: due risposte sull'epistemologia, Italy, Savelli editori, 1979
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Rights
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Quaderni storici © 2000 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230920124239/https://www.jstor.org/stable/43779932?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjo3LCJzdGFydHMiOnsiSlNUT1JCYXNpYyI6MTUwfX0%3D&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Aa3d3de9a38443275aa1ce03da49d0ec3
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Subject
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biopower
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culture
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institutions
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power
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non-discursive practices
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ideology
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extracted text
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PER UNA STORIA SOCIALE DELL’OPINIONE PUBBLICA: OSSERVAZIONI A PROPOSITO DELLA TARDA ETÀ LIBERALE
Chi vuole valutare oggi lo stato del discorso storico sul tema della formazione e della mutevole natura dell’opinione pubblica nel corso della nostra età contemporanea si trova davanti a un quadro singolare. Mentre sono ben consolidati, o in piena fioritura, temi e problemi che col nostro hanno molto a che fare, dalla storia dell’istruzione a quella della stampa, dall’associazionismo e la sociabilità all’invenzione della tradizione, la nazionalizzazione di massa eccetera, lo studio diretto dell’opinione pubblica resta in prevalenza sullo sfondo, sicché in proposito gli studi recenti non hanno prodotto nulla che sia anche lontanamente comparabile, in qualità o quantità, a quanto si è fatto per ciascuno di quegli argomenti.
Si potrebbero azzardare due ipotesi. La prima è che, pur non estraneo a evidenti suggestioni di aggancio col presente, il nostro tema si presti poco ad essere speso nel risorto progetto di una pedagogia civile e politica per gli italiani che informa buona parte del dibattito storiografico più recente1. La seconda è che a renderlo opaco contribuisca la natura ambigua del concetto stesso di opinione pubblica, il cui statuto sul terreno storiografico rimane incerto e ne fa un oggetto di ricerca difficilmente verificabile2.
Si può ricordare che questa incertezza viene da lontano. E dalla metà del secolo scorso che il modello originario dell’opinione pubblica, elaborato a partire dal secondo Settecento e carico di significati positivi, viene progressivamente scomposto e quindi smentito dalle trasformazioni del mondo occidentale, generando una catena di letture critiche che va da Tocqueville ad Habermas. Tuttavia, in un caso come quello italiano, sembra diffìcile collocare la formazione di un’opinione pubblica moderna prima di quella fase critica. Nella nostra storia preunitaria mancano tracce significative di un fenomeno socialmente diffuso come in Inghilterra, politicamente dirompente come in Francia, o precocemente concentrato sul tema della nazione come in Germania’. C’è il rischio di concluderne deduttivamente, confermando
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uno schema di giudizio abusato nel nostro senso comune storiografico, che in Italia anche l’opinione pubblica nasce tardi e male, magari in parallelo con una lettura corriva dell’abbraccio mortale fra capitalismo monopolistico e residui feudali.
Presumere di sciogliere i nodi metodologici e problematici connessi allo studio dell’opinione pubblica dopo la metà dell’Ottocento prima di affrontarlo nel concreto di una ricerca, implicherebbe un rinvio sine die della ricerca stessa. Tuttavia può essere utile esporre delle osservazioni, individuare delle piste di ricerca, elaborare degli espedienti, se il termine è lecito, che aiutino a tagliare, se non a sciogliere, una parte di quei nodi, e quindi a produrre risultati accettabili sul piano dell’analisi concreta di un caso. Il tutto magari con una premessa minimalista che ben si addice al mestiere dello storico, pur venendo da uno studioso che non è né storico né minimalista:
ce serait déjà un progrès considérable si l’on faisait precèder tout discours savant sur le monde social d’un signe qui se lirait ‘tout se passe comme si [...]’ et qui [...] rappellerait continument le statut épistémologique du discours savant4.
Due dati emergono con evidenza se si guarda al lavoro storico sul tema dell’opinione pubblica e dei suoi modi di formazione e di espressione5. Il primo è la netta prevalenza del lavoro svolto in proposito per il periodo che va dalla metà del Settecento ai primi decenni del secolo scorso. Il secondo è che gli studi, nel trascorrere dal Settecento al nostro secolo, sembrano riferirsi a una nozione di opinione pubblica non solo sempre più appiattita su quelle di consenso e di opzione politica, ma anche sempre meno problematica, e in qualche modo subalterna a un significato che si suppone implicito e diffuso a livello del senso comune. In sostanza quanto più i fenomeni cui quella nozione fa riferimento si complicano inoltrandosi nell’età contemporanea, tanto più essa mostra i segni di un impoverimento analitico.
In proposito si possono fare due osservazioni. È quasi ovvio che la fase originaria di un elemento cruciale della società contemporanea susciti un’attenzione privilegiata. Questa del resto è altrettanto viva già nella cultura coeva, offrendo così un ulteriore incentivo alla riflessione degli storici. Dalla law of opinion di Locke alle allarmate considerazioni di Tocqueville, la grande stagione dei classici sull’opinione pubblica segna lo stesso arco cronologico privilegiato dalla storiografia. In secondo luogo sembra pesare sulle scelte degli storici, in maniera più o meno esplicita, il riferimento al modello del giovane Habermas che, come è stato osservato di recente, «remains extraordinarily sugge-
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stive, stili thè most significant modem work on its subject»6. Come è noto nella sua opera sono stabiliti i requisiti di un’autentica opinione pubblica, intesa come il prodotto del libero e reciproco confronto di privati colti e raziocinanti riuniti appunto in un pubblico che formula giudizi su quanto inerisce alla sfera pubblica, e sono fissati anche i termini temporali nei quali essa ha operato fisiologicamente: approssimativamente gli stessi indicati prima.
Inizio e fine di questo periodo non sono naturalmente indicati in maniera puntuale. Risulta comunque evidente che, secondo Habermas, a partire dalla metà del XIX secolo il carattere autentico dell’opinione pubblica subisce un progressivo e irreversibile processo di decadenza che conduce, senza apprezzabili soluzioni di continuità, fino alla situazione del Novecento inoltrato in cui sia il concetto, che la realtà sociale cui rimanda, sono esposti a illimitate procedure di manipolazione7. Seyla Benhabib ha messo bene a fuoco criticamente questo punto: «At first sight thè message of thè Structural Transformation oftbe Public Sphere is aporetic: thè analysis traces thè “transformation” of a “category of bourgeois society”. However, this transformation is less an evolution than a “decline” of thè public sphere»8.
Vien fatto di pensare che l’accettazione più o meno esplicita di un modello che legge solamente in negativo le vicende dell’opinione pubblica dopo la metà dell’Ottocento abbia contribuito in maniera sostanziale a quell’impoverimento analitico cui si accennava prima. Inoltre assumere il secolo compreso fra 1850 e 1950 come un periodo nel quale i processi che riguardano l’opinione pubblica sono sostanzialmente continui impedisce di mettere correttamente a fuoco un dato la cui evidenza e la cui rilevanza non dovrebbero sfuggire: in gran parte dell’Europa i processi di formazione dell’opinione pubblica non si concludono coi primi decenni del secolo, ma proseguono, o si innescano con caratteri di sostanziale novità, per tutto il secondo Ottocento. Sembra lecito annoverare questi fra i motivi del declino qualitativo e quantitativo della storiografia sull’opinione pubblica segnalato prima. Un acuto osservatore delle vicende storiografiche come Geoff Eley ha sottolineato, in altri termini, qualcosa di simile. Se si esaminano, a partire dai secondi anni Sessanta, i principali contributi al dibattito sullo sviluppo politico comparato in Europa «they have remarkably litde to say to thè questions of thè public sphere and politicai culture formation raised by Habermas»9.
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1. La periodizzazione e il tardo Ottocento
In tema di periodizzazione va ricordato che anche l’età dell’oro per l’opinione pubblica è segnata da una cesura fondamentale. La comparsa dei sistemi politico istituzionali liberali modifica infatti una prima volta l’assetto e i confini della sfera pubblica, cioè del sistema di riferimento entro cui l’opinione si forma. La possibilità di interferire con la decisione politica attraverso il voto e la rappresentanza ne segna da quel momento il limite superiore, mentre l’identità del cittadino liberale a pieno titolo, con i suoi requisiti di qualità culturale e di raziocinio esercitato nell’affrontare le responsabilità di proprietario, tende a sovrapporsi a quella del membro di un pubblico colto e raziocinante. L’assunzione del caso inglese come modello di riferimento, l’individuazione come luogo sociale del pubblico di una classe media rigorosamente limitata verso il basso e prima responsabile che raziocinante, l’elevazione della partecipazione politica nelle forme istituzionali a sua espressione più alta, sono gli elementi cardine del modello liberale ottocentesco di opinione pubblica, che è difficile ritrovare già compiuti nella fase precedente.
La distinzione sembra scontata, ma Edoardo Tortarolo ha segnalato l’applicazione di «quest’idea liberale in senso lato» all’Europa di Antico regime e le conseguenze paradossali che ne discendono: l’attribuzione all’opinione pubblica della «concretezza di un fenomeno sociale e di una istanza reale nella vicenda politica della seconda metà del diciottesimo secolo», e «una costante prolessi nell’interpretare il riferimento all’opinione pubblica nei testi settecenteschi»10. Ma la latitudine del modello liberale si è estesa anche a valle dei primi decenni dell’Ottocento, e una maggiore consapevolezza di questo potrebbe giovare nella ricerca sull’età contemporanea. Il riferimento privilegiato ad Habermas, che pure tende a compattare l’età classica con le opzioni tematiche e cronologiche note, può infatti generare un effetto speculare a quello segnalato da Tortarolo: la sovrapposizione dell’ottica ideologica del liberalismo ottocentesco, con le sue specifiche enfatizzazioni ed idiosincrasie, a quella analitica degli storici d’oggi.
Proprio mettendo alla prova nella ricerca storica le indicazioni habermasiane, Alberto Caracciolo e Rosa Colombo avevano invece sottolineato la cesura fra i due secoli. Riferendosi al paradigmatico contesto britannico settecentesco, essi notavano che
l’irruzione di due esperienze rivoluzionarie fra loro diverse ma clamorose come quella americana - con la sua valenza politico religiosa - e quella francese -con la sua carica politico ideologica -, sembra aver alquanto deviato il corso
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di quel processo [...]. Il secolo XIX fu dunque il secolo del «politico», anzi delle grandi e compatte ideologie politiche: in tutto il mondo occidentale l’opinione pubblica divenne essenzialmente opinione e opzione politica".
Se dunque da un canto si identificava un forte elemento di distinzione fra i due secoli, dall’altro si ribadiva una lettura unitaria dell’Ottocento orientata in senso riduzionista: l’opinione pubblica come opinione politica tout court, e fortemente ideologizzata.
La letteratura anglosassone approssimativamente coeva all’Habermas di Storia e critica, operando in una tradizione storica e culturale affatto diversa, traeva riguardo allo sviluppo dell’opinione pubblica e quindi alla sua periodizzazione, conclusioni nettamente differenti. Speier osservava che «a closed and restricted public gradually developed into an open one, enlarging both its size and its social scope as illiteracy receded. This movement ran its full course only during thè nineteenth century»12; e Wilson, ragionando di opinione pubblica e middle class, scriveva che
it is thè time of revolution and international war since August 1914, that has produced thè crisis of uncertainty. It suggests that both public opinion and thè middle class have passed thè zenith of their practical influence and thè doctrinal support that they have received from thè intellectuals of Western Europe13.
In autori come questi la middle class di cui si parla è evidentemente assai diversa da quella dell’Inghilterra settecentesca, e la formazione dell’opinione pubblica appare come un processo continuo legato soprattutto ad un Ottocento lungo, che termina solo con il 1914. In questo caso manca l’accento sulla cesura del secondo Ottocento, sugli elementi di novità che lo caratterizzano e sulla sovrapposizione, in aree come l’Italia, fra questi e un processo che è ancora di formazione dell’opinione pubblica e, contemporaneamente, di accesso al pubblico di soggetti sociali che prima ne erano esclusi.
Certo il carattere fortemente empirico e positivistico di certa letteratura anglosassone è difficilmente comparabile con la rilevanza interpretativa del lavoro di Habermas, ma sostenere che in quella il concetto di opinione pubblica giunge a riassorbire «quell’opinione che prende forma di religione, costumanza, abitudine e semplice pregiudizio, e a cui nel XVIII secolo si contrapponeva criticamente l’opinione pubblica»14, significa non solo mettere fra parentesi la frattura fra due epoche storiche, per cui un’opinione di massa nel secondo Ottocento si forma spesso in antagonismo aperto con quella che Condorcet chia-
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mava «l’opinion populaire [...] qui reste celle de la partie du peuple la plus stupide et la plus miserable»15, ma riprodurre ancora tuia volta uno schema di giudizio tipico dell’ideologia liberale sul quale avremo occasione di tornare.
D’altra parte sul piano più strettamente storiografico, e in tempi recenti, per la stessa area nordamericana la periodizzazione habermasiana è stata contestata nel merito, e da diversi punti di vista, da Michael Schudson e da Mary P. Ryan16.
Si è detto che anche in vaste aree dell’Europa, in particolare meridionale e orientale, la formazione di ima sfera pubblica, e quindi al suo interno di una pubblica opinione, si verifica in termini sensibili proprio a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Secondo Eley le conseguenze principali di questa scansione temporale sono: 1) la coincidenza di questo processo con quello di emergenza della nazionalità, cioè con lo sviluppo di un pubblico per il discorso nazionalista; 2) la presenza, nel patrimonio culturale dei promotori di una pubblica opinione, del lascito ideologico della rivoluzione francese e delle sue conseguenze; 3) la coscienza, da parte degli stessi soggetti, del ritardo delle società in cui operano rispetto a quelle cui si ispira la loro azione; 4) quindi la costituzione di una sfera pubblica in base a stimoli in gran parte esterni, come risposta a una situazione di arretratezza piuttosto che di progresso, e con una strategia programmaticamente espansiva piuttosto che socialmente circoscritta17.
In casi come quello italiano forse non tutte queste considerazioni possono essere ritenute valide senza riserve. Ma ad esse si può certo aggiungere un dato sociologico di grande rilievo, e cioè che la nascita di un’opinione pubblica in questa fase avviene contemporaneamente al progressivo coinvolgimento in essa di parti della società molto più ampie di quella, fortemente omogenea, interessata nell’età classica. Con una semplificazione grossolana possiamo dire che accanto all’étóe borghese legata al retaggio dell’età classica, il pubblico colto e raziocinante di Habermas, bisogna porre fasce di piccola borghesia numerosa, i «ceti di frontiera» di cui ha parlato Paolo Macry18, la cui opinione come è noto assume valore strategico, e fasce altrettanto ampie delle classi popolari, ceti rurali e nuclei di proletariato urbano, sempre più coinvolte, talvolta loro malgrado, nell’ambito della vita pubblica.
Dunque senza riprendere post-datazioni radicali pure ragionevoli ma che lasciano addirittura da parte il periodo classico, come quella per cui Ernst Jùnger ha indicato nell’affare Dreyfuss l’atto di nascita dell’opinione pubblica19, si può concordare con Pombeni quando indica nel periodo tra anni Gnquanta e anni Ottanta del secolo una fase di transizione durante la quale l’opinione pubblica, già illuminista e
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liberale, va incontro ad una sostanziale trasformazione20. La successiva cesura della guerra, indicata anche dagli studiosi anglosassoni degli anni Cinquanta, resta tuttora valida come termine finale di questa fase. Non a caso Ortoleva, periodizzando la storia dei mezzi di comunicazione nel lungo Ottocento, segna date in gran parte sovrapponibili a queste: negli anni 1830-40 il telegrafo e il francobollo; fra il 1875 e il 1895 linotype, macchina da scrivere, fonografo, cinema, telefono, radiotelegrafìa; nel periodo 1920-35 stampa a rotocalco, reti di radiodiffusione circolare, cinema sonoro e a colori21. Da diversi punti di vista, insomma, la storia dell’opinione pubblica nel secolo scorso appare mossa e articolata, sicché ridurla ad un’unica cesura, che fa poi da spartiacque fra una fase positiva di crescita ed una negativa di decadenza, sembra un’operazione difficile da sostenere in sede analitica, e fortemente segnata ideologicamente.
Quali sono dtmque le principali trasformazioni del contesto, all’opera dalla metà del secolo, che finiscono per stravolgere i connotati dell’opinione pubblica classica, come si è sottolineato all’inizio? Si è accennato al dilatarsi progressivo del pubblico, inteso come l’insieme di coloro che concorrono a formare e condividere l’opinione, ma bisogna subito aggiungere che si estende ugualmente l’area dei temi che assumono carattere di pubblicità, nel doppio senso del divenire insieme oggetto di pubblica discussione e di possibile trasformazione o soluzione attraverso il confronto col pubblico potere. L’emergere all’orizzonte della coscienza collettiva della questione sociale e di quella dell’identità nazionale sono i due punti forti di questa espansione, ma accanto ad essi se ne potrebbero indicare a piacere molti altri: la questione fiscale e quella burocratica, la questione religiosa e quella delle soglie di acculturazione socialmente necessarie, e altre ancora fino a quella, classica, della cittadinanza e della partecipazione politica.
Un’opinione pubblica di questo genere, che raccoglie un ventaglio crescente di attori e di temi, è quella che appare ad Habermas disgregata e almeno parzialmente delegittimata perché discorde non solo nei giudizi, ma anche nel metro col quale elaborarli. In positivo potremmo dire che in questa fase un’opinione pubblica si forma non solo, come Eley sottolinea, sulla base di esperienze e di esigenze diverse e almeno potenzialmente conflittuali, ma anche attraverso processi e circuiti sociali differenti nella sostanza da quelli prevalenti nel periodo precedente.
Innanzitutto va ricordato che il pubblico depositario dell’opinione è allo stesso tempo più ampio ma meno cosmopolita, tanto che proprio in questo periodo lo stato nazionale si impone, a livello di scala, come il contenitore elettivo all’interno del quale si elaborano i processi
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di formazione dell’opinione pubblica. Questi poi tendono ora a svolgersi prevalentemente sulla base di una informazione non diretta, spesso anonima e altrettanto spesso non verificabile nell’esperienza immediata dei componenti del pubblico22. E evidente, in queste condizioni, l’assenza di quell’elemento qualificante della definizione classica che è il discorso inteso come dibattito razionale. Non ci troviamo più davanti a un sistema di comunicazione circolare, ma ad un altro dove invece prevale l’informazione trasmessa in un solo senso, escludendo la possibilità di replica e di dibattito. In più la crescente indeterminatezza della caratteristiche sociali e culturali del pubblico cui quella informazione è rivolta, non può non avere effetti specifici sui caratteri stessi dell’informazione. Ciò che dà fondamento ai contenuti dell’opinione in questa fase, siano essi informazioni o giudizi, è sempre più il loro carattere condiviso, l’essere patrimonio comune ed espresso di un pubblico anche questo anonimo e astratto. Al criterio di verità basato sull’esperienza diretta o sulla diretta trasmissione di esperienze altrui, e comunque su rapporti face to face, se ne affianca un altro che attribuisce non solo verità, ma anche rilevanza, a ciò che è «di pubblico dominio».
Alle spalle di queste trasformazioni stanno processi più complessivi: una maggiore incertezza dei confini tra stato e società indotta dalla doppia dinamica della pubblicizzazione del diritto privato e della privatizzazione del diritto pubblico, per dirla con Habermas nel cui schema quella distinzione, eccessivamente enfatizzata come notava Eley, è un caposaldo dell’opinione pubblica classica; la crescente prevalenza del social sul self di cui ha parlato Patrick Joyce25; il grande sforzo di discipUnarizzazione e di normalizzazione che secondo Foucault caratterizza il XIX secolo.
È davvero una peculiarità del nostro tempo che noi dobbiamo dare spiegazioni a tanta gente [...] Anche se ci fosse uno statista profondo e di ampie vedute, le sue acute idee e la sua visione di ampio respiro ci sarebbero inutili, se non fossimo in grado di procurar loro il consenso della massa di persone senza influenza, di quelli che non riescono ad essere eletti ai Comuni o ad essere scelti per le assemblee amministrative, che assistono alle deliberazioni della nazione [...] È inutile rivolgersi ad essi con le forme della scienza, o con rigorosa accuratezza o con il tedio di una discussione esaustiva. La moltitudine non sopporta i sistemi, vuole la brevità, è sconcertata dal formalismo24.
Questo passo, scritto nel 1855 da un osservatore tutt’altro che sprovveduto, mostra bene lo spiazzamento di un concetto classico e colto dell’opinione pubblica davanti alle trasformazioni in corso. D’altra
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parte, proprio nel numero dei «Quaderni Storici» dedicato alla nascita dell’opinione pubblica in Inghilterra già ricordato, Plumb25 aveva posto l’accento su processi dove l’elemento del discorso razionale passa in secondo piano, e vengono in evidenza forme di comunicazione unidirezionali sul piano discorsivo. Il suo scopo era indagare «come uomini e donne di condizione sociale decisamente bassa, digiuni di filosofìa, cominciassero [...] ad accettare, magari inconsciamente, la modernità del mondo, ad acquisire il gusto per il cambiamento e per le novità e a guardare al futuro con un senso di maggiore attesa». Plumb definiva questo tipo di processi «ciò che noi possiamo chiamare la «conoscenza sociale», cioè l’accettazione acritica delle idee»26.
Se questo avviene nel Settecento, in piena età classica per l’opinione pubblica, tanto più vale alla vigilia delle trasformazioni del secondo Ottocento, quando riflette Bagehot, e nei decenni successivi in contesti dissimili da quello inglese. Il carattere pubblico di una serie crescente di questioni, le nuove esigenze di organizzazione e di riproduzione della società, e con esse quelle dei nuovi termini delle condizioni quotidiane di vita dei soggetti sociali, accrescono la domanda di «conoscenze sociali» sempre più ampie, come direbbe Plumb, articolate allo stesso tempo in informazioni e criteri di giudizio. Questo tipo di opinione pubblica, più che esprimere una dimensione degradata dell’opinione illuminata, manifesta a livello analitico il suo nesso stretto con la sfera delle pratiche sociali. Così il secondo Ottocento lungo può essere anche letto come la fase del disvelamento di questo nesso, e della costruzione di un’opinione pubblica che si pone esplicitamente al confine tra il livello dei discorsi e quello delle pratiche.
2. Partendo da Habermas
Nel saggio già ricordato, Eley ha chiarito alcuni limiti del concetto habermasiano di sfera pubblica che possono forse essere sintetizzati come segue: 1) Habermas non solo prende in considerazione esclusivamente ima sfera pubblica borghese, ma la analizza come una realtà sostanzialmente autoreferenziale; 2) gli attributi di questa sfera, più che allo sviluppo storico concreto, si rifanno «to an ideal of criticai liberalism that remains historically unattained»27; 3) i confini tra stato e società nel periodo classico non sono tracciati con chiarezza, per l’aprioristica accettazione dell’immagine liberale di uno stato assolutamente estraneo a qualsiasi forma di interferenza nella vita privata e nei conflitti sociali e politici; 4) l’argomentazione di Habermas idealizza il ruolo del discorso razionale nella formazione della sfera pubblica, tra-
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scurando l’evidenza che «its institutions were founded on sectionalism, exclusiveness, and repression»28.
La conclusione dell’autore è che
We can’t grasp thè ambiguities o£ thè liberal departure - thè consolidation o£ thè classica! public sphere in thè period, say, between 1760 and 1850 -without acknowledging thè fragility of thè liberal commitments and thè element of contestation in this sense. It is only by extending Habermas’s idea in this direction - toward thè wider public domain, where autorithy is not only constitued as rational and legitimate but its terms may also be contested and modified (and occasionally overthrow) by society’s subaltern groups - that we can accomodate thè complexity29.
La motivazione di questi limiti e di quella che a tratti appare una sovrapposizione con l’ideologia liberale ottocentesca, come quando Habermas argomenta che sul piano politico alla crisi dell’opinione pubblica corrisponde quella del classico partito di notabili con l’avvento dei partiti di massa’0, è cercata da Eley nella appartenenza francofortese dell’autore, e nella sua esigenza di confronto politico con la Germania del dopoguerra e del miracolo economico. Fra la componente storica e quella critica dell’analisi habermasiana dell’opinione pubblica, è evidentemente la seconda «that really drives thè analysis»’1. Su un piano di maggiore generalità, ma in termini che soprattutto gli storici dovrebbero avere ben presenti, si è potuto osservare che
C’est d’ailleurs de ce cercle des attentes nonnatives et de leur déception qu’une sociologie critique a pu tirer parti pour dècrire unilatéralement le pouvoir comme domination, l’Etat corame lieu des controles sociaux, l’espace public comme lieu des manipulations médiatiques. Ce faisant, elle a utilisé comme ressource implicite, à des fins de description et de critique, le caractère normatif du concept d’espace public. Mais reconnaitre ce caractère normatif n’exclut pas qu’on fasse un usage descriptif du concept, ni qu’on soumette le processus d’émergence et de constitution d’un espace public historique à une description phénoménologique32.
Lo stesso Habermas, tornando a riflettere sul suo vecchio lavoro in occasione della recente riedizione tedesca e della quasi coeva traduzione in inglese, ne ha sottolineato il carattere critico piuttosto che storico e il predominante riferimento al welfare novecentesco. Sull’Ottocento, pur riconoscendo che fin dall’inizio un pubblico plebeo interferisce col pubblico borghese, e che di conseguenza il modello della sfera pubblica nello stato borghese costituzionale è concepito troppo rigidamente, ha però ribadito la cronologia ricordata, e la sostanziale con-
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tinuità del processo storico che porta dalle trasformazioni della seconda metà del secolo al welfare del secondo Novecento”.
In parallelo ad Eley, e schematizzando le obiezioni al modello habermasiano formulate da quella che l’autrice definisce una storiografia revisionista, Nancy Fraser ha segnalato quattro punti di dissenso: 1) non è vero che la sfera pubblica neutralizzi le differenze di status; 2) la proliferazione di una molteplicità di pubblici in competizione non è necessariamente un regresso; 3) non è vero che i discorsi all’interno della sfera pubblica siano necessariamente circoscritti a quanto riguarda il bene comune; 4) infine una sfera pubblica funzionante non richiede, come condizione necessaria, una separazione rigida fra stato e società civile. Di fatto se accettiamo l’idea che fin dall’inizio dell’età contemporanea siano in azione dei competing counterpublics, ad esempio un pubblico contadino popolare, un altro nazionalista, la classe operaia, un’élite femminile, sarà necessario prendere in esame il carattere e la qualità delle relazioni discorsive sia nelle relazioni reciproche che all’interno di ciascuno, così come l’eventuale accesso alla sfera pubblica di subaltern counterpublics, al cui interno gruppi subordinati elaborano interpretazioni alternative di identità, interèssi e bisogni’4.
Le proposte generali di Frazer tengono naturalmente conto anche della lettura, esplicitamente alternativa a quella di Habermas, che del fenomeno storico dell’opinione pubblica è stata proposta, in anni recenti, da storici francesi e americani a proposito della Francia fra Antico regime e Rivoluzione”.
Questa sembra partire dall’individuazione e l’analisi di una versione francese, per così dire, dell’opinione pubblica, costruita nell’ultimo quarto del Settecento esplicitamente in alternativa alla realtà d’oltre Manica, oggetto in Francia di un’analisi attenta e preoccupata. Contro i rischi di instabilità e di divisione interna suggeriti da quell’esempio, nasce l’esigenza di pensare l’opinione pubblica in maniera diversa, come un medium fra il modello inglese e l’assolutismo, una sorta di politica senza politica, e perché questo sia possibile, «la solution que le siècle invente, celle pour laquelle Habermas lui fait hommage d’avoir inventé le concept d’opinion publique est celle des physiocrates: pour que l’opinion publique ait certe infaillibilité qui emporte sans discussion l’assentiment de chacun, il faut et il suffit que l’opinion publique soit l’autre nom de l’évidence»’6. Sono i caratteri di questa versione, monistica e diretta dall’alto verso il basso, a prefigurare lo sbocco rivoluzionario e, al suo interno, quello totalitario.
Un secondo punto cruciale è nel rapporto fra opinione pubblica e Antico regime. La prima non è più l’espressione caratteristica di una
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classe in ascesa alla ricerca di uno spazio politico, ma piuttosto un nuovo concetto - strumento con una funzione largamente polemica cui ricorrono tutte le parti in causa nella crisi politica del secondo Settecento.
Questa caratterizzazione politica in prima istanza dell’opinione pubblica apre la strada alla revisione delle tesi di Habermas. In Francia l’opinione pubblica non è geneticamente un patrimonio borghese, il pubblico colto e raziocinante non è quindi sociologicamente identificabile in maniera rigorosa, e di conseguenza il modello oggettivante e intrinsecamente universalistico di Storia e critica viene ad essere rovesciato. Per dirla con Chartier:
Anche se, o piuttosto proprio perché è definita come un’entità concettuale, e non in termini sociologici, la nozione di opinione pubblica che riempie i discorsi di tutti gli ordini (politici, amministrativi, giudiziari) nei due o tre ultimi decenni dell’Ancien Regime, opera come un potente strumento di divisione e di legittimazione sociale. Essa costituisce, di fatto, l’autorità di tutti coloro che affermando di riconoscere soltanto i suoi decreti, con questa stessa azione si pongono come delegati ad esprimere i suoi giudizi37.
Costituire quello francese come un caso eccezionale sarebbe di per sé sufficiente ad inficiare una storia coerente dell’opinione pubblica, ma evidentemente non è di questo che si tratta, così come non siamo davanti alla riproposizione di una dicotomia fra l’Inghilterra laboratorio sociale e la Francia laboratorio politico. I risultati sono diversi perché diverso è il metodo, e i nostri autori sono espliciti nel rivendicarne le premesse. La prima è il rifiuto di subordinare la dimensione politico- culturale a quella sociale, intesa come una strutturazione oggettivamente e univocamente gerarchizzata della società. La seconda è la rivendicazione di una chiave di lettura in termini simbolici e linguistici per l’interpretazione di entrambe le dimensioni indicate, particolarmente forte in Baker che pare talvolta, anche in sede di enunciazione teorica, identificare i due piani38.
Stando così le cose, e per tornare al nostro tema specifico, sembra legittimo dilatare la valenza di alcuni punti della polemica postuma che Chartier ingaggia con Daniel Mornet nel suo Le origini culturali della Rivoluzione francese a proposito di opinione pubblica. Innanzitutto l’identificazione del processo di circolazione delle idee e delle informazioni come un fenomeno dinamico che non lascia intatti gli oggetti della circolazione. In secondo luogo la ricezione degli stessi oggetti come punto di partenza di un processo interpretativo che può dar luogo peraltro a interpretazioni mobili, molteplici e contraddittorie. Con queste premesse Chartier propone una definizione fortemen-
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te contestuale dell’opinione pubblica: si tratta di una nuova realtà concettuale e sociale costruita in un certo momento del XVIII secolo, e quindi in un contesto specifico, attraverso discorsi e pratiche altrettanto specifici”.
Potremmo partire di qui per proporre un compito generale a una storia analitica dell’opinione pubblica nel lungo secondo Ottocento: ricostruire i diversi discorsi e le diverse pratiche che presiedono alla sua costruzione e al suo funzionamento.
3. L’opinione pubblica fra pratiche e discorsi
Il riferimento alle pratiche sociali può essere alla moda ma non è certo univoco, come hanno dimostrato di recente un puntiglioso saggio di Angelo Torre e una risentita replica di Chartier*0. Torre si è fra l’altro soffermato sull’opera di Pierre Bourdieu, imo dei riferimenti principali di Chartier, per dimostrare come lo schema esplicativo delle pratiche da lui elaborato, basato come è noto sull’intreccio fra habitus e campi, finisca per essere uno di quei contorni metaforici che mettono fra parentesi l’azione sociale concreta41. Le sue osservazioni sono convincenti, ma credo che alcuni prestiti da Bourdieu, in particolare da Le sens pratique42, possano essere utili nell’affrontare l’opinione diffusa come pratica sociale.
Ricorderei innanzitutto la cesura fondante che separa la logica dell’oggettivazione analitica dalla prelogica della pratica, e quindi le forme di conoscenza savantes dalle forme di conoscenza pratica che sono il fondamento dell’esperienza ordinaria del mondo sociale. Una conseguenza di questa constatazione mi sembra cruciale per il lavoro storico in proposito: la formula regolatrice che permette di riprodurre l’essenziale delle pratiche trattate come modus operatum, non è il principio generatore delle pratiche stesse, il loro modus operandi, che richiede quindi un diverso tipo di ricostruzione.
D’altra parte la pratica non implica il controllo della logica che vi si esprime. Non si entra nel gioco delle relazioni sociali dopo averne studiate le regole, ma se ne fa un apprendistato diretto così come, secondo Wittgenstein, «il bambino non impara che esistono libri, che esistono sedie etc., etc., ma impara ad andare a prendere libri, a sedersi su sedie etc.»4’. Di conseguenza i soggetti sociali non agiscono in base a regole costanti e coscienti, ma a schemi pratici soggetti a variare secondo la logica delle situazioni. L’azione non è quindi qualcosa che si tratta necessariamente di decifrare come espressione di qualcos’altro. Essa può produrre senso al di fuori di qualsiasi intenzione di significare, e
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in questo caso compito dell’analisi dovrebbe essere appunto mostrare in che modo questo avvenga.
Non è difficile né arbitrario, mi sembra, stabilire ima concordanza fra questi assunti e quelli attraverso i quali Alain Cottereau esamina la procedura che egli definisce faire un précédent negli interventi dei collegi dei probiviri sulle relazioni industriali in Francia fino intorno al 1866, in un saggio di grande spessore metodologico che giustamente Torre ha indicato come un esempio di non elusiva storia delle pratiche sociali44.
Un altro tema elaborato da Bourdieu che può essere utile è quello del tempo della pratica. Tenere presente che tempo della scienza e tempo dell’azione sono divergenti, che chi è in gioco decide in funzione di una valutazione globale e istantanea dell’insieme, e che di conseguenza l’urgenza è una delle proprietà fondamentali della pratica, può aiutare chi se ne occupa in sede di analisi a non confondere i due piani, magari cercando risposte a problemi che la pratica non si pone affatto perché nel suo ambito sono insensati.
Le esemplari considerazioni di Bagehot sulle anomale esigenze della opinione pubblica possono essere rilette a questo punto. Il pubblico diffuso che emerge in quel periodo, la «moltitudine», richiede una «conoscenza sociale» che sostenga la produzione e l’interpretazione di pratiche e opere in un contesto sociale ed istituzionale che esclude sempre più il passaggio diretto dalla pratica alla pratica senza una mediazione di carattere discorsivo45. Ma si tratta appunto di un’esigenza legata strettamente al fare piuttosto che a un sapere astratto, che come tale implica una economia delle intenzioni e della logica, poiché una coerenza all’ingrosso può risultare spesso più funzionale di una coerenza perfetta.
La radicale contestualità della pratica, ha osservato ancora Bourdieu, fa sì che sia possibile mobilitare di volta in volta solo quel tanto di logica necessario, lasciando implicito l’universo di discorso a cui si fa riferimento. Di conseguenza, purché due applicazioni contraddittorie degli stessi schemi non si trovino praticamente a confronto, lo stesso elemento può vedersi attribuire proprietà differenti o anche opposte in riferimento a diverse pratiche.
Si può osservare di sfuggita che il tema oggi così avvertito del carattere plurimo e mobile dell’identità sociale46 è legato strettamente a questi aspetti e, loro tramite, a quello dell’opinione pubblica. L’incoerente compattezza dei quartieri operai di primo Novecento studiata da Maurizio Gribaudi47 costituisce uno splendido esempio di economia della coerenza, e casomai si può osservare che in età contemporanea il rischio della contraddizione conflittuale fra diversi schemi di riferimen-
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to è spesso ben presente. Dal conflitto collettivo fra identità di classe ed identità nazionale che attraversa le classi operaie in Europa alla vigilia della Grande guerra48, a quello squisitamente individuale tra ricorso al tribunale e soluzione privata di questioni in cui è in gioco l’onore della famiglia studiato da Reddy nella Francia di primo Ottocento49, contraddizioni grandi e piccole hanno un riferimento stabile in dibattiti e giudizi che si formano nella sfera pubblica. «It seems to me that public discursive arenas ar among thè most important and underrecognized sites in wich social identities are constructed, deconstructed and reconstructed», ha scritto Fraser50. Ed è proprio all’interno della sfera pubblica, e più precisamente della sua dimensione più strettamente politica, che operano meccanismi specifici di reductio ad unum delle identità plurime e mobili dei soggetti sociali. La politica, ha osservato Eley51, può essere letta come il tentativo di assegnare un centro a un’identità che è naturalmente decentrata, di addomesticarne l’infinitezza. L’indicazione empirica che ne discende, oltre a esplicitare la natura strettamente pratica di queste procedure, può essere direttamente assunta come valida per il nostro tema e per il periodo che qui ci interessa: «on what bases, in different places and at different times, does identity’s nonfixity become temporarily fixed in such a way as to enable individuals and groups to behave as a particular kind of agency, politicai or otherwise? How do people become shaped into acting subjects, understanding themselves in particular ways?»52.
Prendere in considerazione un’accezione pratica dell’opinione pubblica può evitare un’altra aporia: quella legata alla contrapposizione fra pubblico e popolo o, se si preferisce, fra autorità dell’opinione pubblica e tirannia della maggioranza, che percorre con contenuti diversi tutta l’età contemporanea. Espressione al tempo stesso di un’istanza normativa e della lotta concreta per la classificazione e la gerarchizzazione del campo sociale, questa contrapposizione rimanda ad un altro assunto del giovane Habermas: l’assoluta separatezza e l’incomunicabilità fra l’opinione pubblica in senso proprio e le altre due forme di opinione individuate, ma non analizzate, nella sua opera. Si tratta, come è noto, di quella plebea-giacobina, che si estinguerebbe con gli avvenimenti del 1848, e di quella acclamativa plebiscitaria riconducibile, nella sua pienezza, ai regimi totalitari di massa del Novecento. Se questa distinzione può avere senso sul piano teorico sembra però più interessante, per la ricerca storica, puntare alle aree di sovrapposizione e di interferenza fra forme diverse di opinione, partendo dall’ipotesi che la sfera pubblica non si esaurisce né con la delega alle istituzioni, né con il giudizio meramente discorsivo sul loro operato.
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Ancora una volta è innanzitutto il crogiolo della Francia al passaggio fra i due secoli che fornisce indicazioni in proposito. Se «la sfera politica pubblica, ‘borghese’ nel suo assetto, è come ossessionata dalla figura del popolo anonimo, inquietante e temibile, escluso ma invocato»5’, c’è «una politica situata fuori della politica che non è inerte», e in virtù della quale «lo spazio pubblico nuovo definisce una modalità alternativa della rappresentanza, che separa il concetto da ogni iscrizione istituzionale (che sia monarchica, parlamentare o amministrativa), e che postula l’evidenza di una unanimità, indicata dalla categoria di opinione pubblica»54. Questa però è una unanimità diversa da quella, cui si è accennato prima, ancorata al criterio dell’evidenza razionale e all’obiettivo di una politica senza politica. Come ha osservato Guilhaumou riferendosi in particolare al lavoro di Arlette Farge55, «il n’est plus question d’un usage public raisonné de la parole persuasive, d’un discours de globalité, comme dans la “sphère publique bourgeoise”, mais la multiplicité attestée des sujets actifs de la parole populaire impose la présence sur la scène politique d’un tribunal de l’opinion publique»56. Il nesso dei giudizi con la pratica e l’articolazione interna della sfera pubblica sono i punti cruciali del processo d’integrazione politica dal basso che matura nel biennio 1790-92.
Le siège en permanence, à Paris comme en Province, par les républicains, du pouvoir exécutif avant sa chute, le 10 aout 1792, la lutte au quotidien contre les agents royaux favorables en province aux actions anticostitutionelles, diversifient à l’extreme les espaces d’où un citoyen peut émettre un jugement autonome sur l’événement, produire un argument de droit, tracer une ligne de démarcation entre le juste et l’injuste d’après sa propre attente d’une nouvelle entente sociale. D’une «volonté individuelle» à l’autre se tisse la trame de l’opinion publique. Un «acte public», l’acte de faire parler la loi, de «dire le droit», selon l’expression du philosophe allemand Fichte, se retrouve en permanence au centre d’une telle expérience de la citoyenneté. Multiplié, diversifié, cet acte de langage permet l’émergence de la «volonté de tous», c’est à dire «l’opinion publique». La dissémination des discours publics est bien réfléchie sous le concept d’opinion publique; la diversité des «espaces publics autonomes» n’est pas immédiatement contradictoire avec l’idée de nation comme «centre d’unité»57.
Qualcosa di simile, anche se in maniera meno contratta e quindi meno clamorosa, si svolge contemporaneamente in Inghilterra dove, fra Settecento ed Ottocento, si verificano «una crisi del parlamento come struttura unica ed esclusiva nella vita politica della nazione inglese, e l’emergere, parallelamente ai canali istituzionalizzati della politica settecentesca, di una nuova nazione politica, caratterizzata da strut-
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ture organizzative autonome e soprattutto dall’utilizzazione estesa delle possibilità di mobilitazione dell’opinione pubblica offerte dai giornali»58; una realtà a lungo sottovalutata dalla storia politica per cui «l’attenzione esclusiva ai meccanismi di potere, di patronato e di clientela propri della politica inglese del Settecento, ha comportato una visione ristretta e miope dell’effettiva vita politica nazionale, limitando l’osservazione alle strutture della politica istituzionalizzata [...] e dimenticando l’esistenza di un’altra dimensione della politica, di altri canali di partecipazione e di espressione, che si erano sviluppati nel corso del Settecento e con i quali l’intero assetto politico costituzionale era destinato a fare i conti»59. A proposito dello stesso caso, rispetto al modello habermasiano, si è parlato di «constitution and re-constitution of thè public sphere», dal momento che «developmentally speaking, 18* century politics is best characterized by a modified version of Habermas’ concepì of thè public sphere»60. D’altra parte Cottereau ha ricordato che anche in Francia l’uso dell’espressione faire la loi resta corrente almeno fino al 1850, con riferimento anche all’attività regolatrice, parallela a quella delle istituzioni, di assemblee di comunità o di mestiere61, stabilendo quindi una continuità della «politica fuori della politica» oltre il periodo rivoluzionario.
Bisognerebbe dunque supporre che proprio nel periodo che separa il deperimento dell’opinione plebea dall’avvento di quella plebiscitaria, all’incirca quello che ci interessa più da vicino, l’opinione pubblica si manifesti nella maniera più compiuta col voto, seppure in forme che dopo l’età classica risultano alterate dalle trasformazioni di cui si è detto, rispecchiandosi nella rappresentanza parlamentare, espressione massima di quella opzione ideologico politica che secondo Caracciolo era l’opinione ottocentesca. Ma dietro questo assunto, più che una concreta verifica storica, sta ancora una volta o un ideale di stampo liberale, o la stessa logica di certi sondaggi che vuole tutti armati di giudizi su qualsiasi argomento, e «considera l’opinione pubblica come fosse una semplice somma di opinioni individuali che sarebbero state raccolte in una situazione che è, in fondo, quella della cabina elettorale, dove l’individuo esprime furtivamente un’opinione isolata», mentre «nelle situazioni reali le opinioni sono delle forze e i rapporti d’opinione sono conflitti di forza»62, sicché spesso l’esigenza di formulare un giudizio è eminentemente pratica, imposta da una situazione critica e comporta la scelta fra gruppi diversi, portatori delle diverse opinioni.
Si può ricordare a questo punto che ormai da tempo, e soprattutto in seguito alle indicazioni di Mosse, anche la storiografia sull’Ottocento si è interessata sempre più ai caratteri rituali e cerimoniali delle ma-
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nifestazioni pubbliche e alla simbologia che vi compare, cioè a un insieme di fenomeni in cui la dimensione pratica del fare politica, rispetto alla dimensione ideologica e intellettualistica dell’opzione, balza in primo piano. Anche su questo terreno oggi è più facile verificare che il pubblico del secondo Ottocento non è solo un oggetto passivo disgregato e manipolato, ma un soggetto, o meglio una pluralità di soggetti, che nella determinazione dell’opinione interviene in maniera attiva. Se la conclusione immediatamente più rilevante che scaturisce da questo tipo di ricerche è la smentita del carattere di Antico regime attribuito da Habermas alle forme dimostrative dell’opinione63, bisogna aggiungere che, a ben guardare, già il lavoro di Mosse64 implicava le conclusioni cui conduce la letteratura successiva. La «nuova politica», intesa come forma di partecipazione alternativa a quella dei canali istituzionali e dotata di un suo linguaggio specifico, a dispetto del nome risulta assolutamente coeva alle forme classiche dei regimi liberali e fa loro costantemente da contrappunto stabilendo una continuità, particolarmente evidente proprio nello studio di Mosse sulla Germania, fra l’opinione plebea giacobina e quella acclamativa plebiscitaria.
Una «modalità alternativa della rappresentanza, che separa il concetto da ogni iscrizione istituzionale», e, attraverso di essa, una «politica situata fuori della politica» sono costantemente attive e in un rapporto stretto con le istituzioni. Ma al di là di questo le loro forme concrete sono invece differenziate e discontinue, poiché le pratiche del faire la loi di cui parla Cottereau sono evidentemente diverse da quelle partecipative della «nuova politica» di Mosse, e poiché, anche da questo punto di vista, la seconda parte del secolo segna trasformazioni importanti. La progressiva espansione e specializzazione delle competenze dello stato ha infatti per risvolto una forma di statocentrismo che configura una antinomia possibile fra pubblicità per i cittadini e pubblicità per lo stato, in ima situazione in cui si allarga la divaricazione fra universi prossimi e controllabili e «l’univers second de l’opinion publique dans lequel le dénonciateur doit larguer sa dénonciation sans pouvir en influencer les effets ultérieurs»65. E una riformulazione del tema del carattere progressivamente unidirezionale e per certi versi inverificabile dell’informazione nel periodo che ci interessa, che non implica, ovviamente a questo punto, che questa non generi risposte. Ma per esaminare queste risposte, e per riempire anche a livello analitico quella divaricazione, torna utile una indicazione di Cottereau:
Habituellement, le vécu du citoyen est pensé à deux echelles: les lieux d’interconnaissance, et les grandes entités politiques anonymes. Peut-etre serait-il plus fécond de penser trois échelles, en ajoutant un type intermédiaire,
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irréductible aux deux extremes. Il s’agirait, non pas de corps intermédiaires, mais bien de publics intermédiaires, définis ainsi: des espaces publics de proximité, dans lesquels l’actìon collective, opérée au-delà de l’interconnaissance, puisse etre mise à l’épreuve selon des procédés d’interaction face à face, en recourant, au besoin, à des autorités accessibles [...] La notion d’espace public de proximité, ou intermédiaire, n’a d’interet que si elle invite à distinguer entre communauté locale et espace public locai. La relation de Fune à l’autre est celle d’une gestion d’héritage, d’une reprise concertée des formes passées, d’une remise à l’épreuve des formes de vie recues [...] De la sorte sont foumis autant de repères d’expérience, susceptibles d’aider à imaginer le pouvoir à grande échelle comme un pouvoir-agir de concert, sans succomber à l’angoisse de l’étrange66.
Si tratta di indicazioni dal forte richiamo normativo che però al tempo stesso, come del resto ha dimostrato lo stesso autore, possono rivelarsi estremamente utili anche sul piano della ricostruzione storica. Porsi come oggetto d’analisi degli spazi pubblici intermedi significa infatti da una parte prendere in considerazione domande e risposte dell’opinione pubblica non più soltanto generali e astratte, ma invece contestualizzate e finalizzate ad esigenze pratiche, d’altro canto significa anche indagarne il rapporto con la strutturazione precedente delle relazioni sociali di quel pubblico diffuso che solo nel tardo Ottocento, come si è detto, accede alla sfera pubblica, sulla base della distinzione cruciale fra contesto comunitario e spazio pubblico locale che è stata sottolineata anche da Fraser: «Community suggests a bounded and fairly homogeneous group, and it often connotes consensus. Public, in contrast, emphasizes discursive interaction that is in principle unbounded and open-ended, and this in turn implies a plurality of perspectives»67. .
D’altra parte forme rituali che possono preludere all’alienazione acclamativa dell’opinione, espressione elettorale dell’opzione politica, pratiche legate al faire la loi e sfere pubbliche intermedie non sono, ancora una volta, che attrezzi analitici per decifrare realtà in cui questi diversi aspetti si intrecciano. Citeremo qui due esempi significativi per la loro distanza. O’Gorman ha mostrato come, nell’Inghilterra fra Settecento e Ottocento, le campagne elettorali diventino momenti di confronto rivolti esplicitamente ad una platea molto più ampia di quella dei soli elettori, i messaggi rivolti al pubblico vadano oltre i temi specifici della campagna elettorale, il rituale verifichi esplicitamente la collocazione gerarchica nella comunità politica di elettori e non elettori68.
Hilda Sabato, studiando la formazione di una sfera pubblica a Buenos Aires fra 1850 e 1880, la ricerca invece su terreni paralleli a quello della partecipazione elettorale. In presenza di un suffragio ma-
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schile generalizzato ma non obbligatorio l’affluenza alle urne è costantemente bassa, e il voto fortemente manipolato. La sfera pubblica come «a key arena of politicai participation» si sviluppa allora in parallelo, con l’espansione della stampa e delle associazioni, e lo sviluppo di una cultura della mobilitazione. Le manifestazioni, occasioni ritualizzate anche in questo caso, diventano non solo luogo di espressione dell’opinione pubblica, ma mezzi per ottenere modifiche concrete della politica governativa69.
Si tratta di contesti e di periodi diversi l’uno dall’altro, ma è significativo che proprio su uno spettro di osservazione tanto largo l’attenzione degli storici converga su alcuni elementi comuni: la pluralità di espressioni politiche che si sovrappongono in momenti topici della vita istituzionale, l’ampiezza delle tematiche esposte e dibattute in queste occasioni insieme a quella della partecipazione sociale, il valore comunicativo dei rituali e della loro componente visiva, la scena pubblica come luogo fisico della politica e delle relazioni sociali.
Si è detto che può essere utile considerare l’opinione pubblica come un fenomeno liminare fra il campo dei discorsi e quello delle pratiche. Questa può essere una strada per tenerne insieme, sul piano metodico e analitico, le diverse facce: quella dei canali di formazione e dei loro contenuti con quella della ricezione, quella degli orientamenti di fondo del pubblico con quella dei suoi giudizi specifici. L’opinione serve per agire meglio, e questo è il versante della pratica, ma allo stesso tempo occorre sapere su quali terreni essa può tornare utile e con che regole e materiali può essere costruita. Per tenersi alla classica immagine del tribunale si può dire che questo, per funzionare, ha bisogno di codici, di una giurisprudenza e di un ambito in cui la sua competenza sia riconosciuta.
L’ampliamento contemporaneo del pubblico e della varietà delle questioni di suo dominio sono due dati cruciali del periodo che ci interessa, leggibili l’imo attraverso l’altro. Ma è in riferimento al secondo che la pertinenza dell’opinione pubblica col campo dei discorsi acquista la sua rilevanza.
Foucault è un autore di cui si continua a fare un largo consumo, soprattutto in ambito anglosassone e nell’area storiografica riconducibile al linguistic turn, le cui tematiche hanno una valenza innegabile rispetto a questo tema. Rinunciando per motivi di opportunità e di competenza a proporne un’assunzione generale o un’ennesima rilettura, vorrei servirmene per un altro prestito pragmatico, che richiede naturalmente un rinvio diretto e puntuale70.
Si potrebbe definire formalmente il contenuto dell’opinione pubblica come l’insieme dei discorsi che sono «dicibili pubblicamente» in
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un contesto spazio temporale dato. Si tratta naturalmente di un insieme mobile, per cui di ogni discorso che entra nella sfera pubblica bisognerebbe esaminare storicamente le condizioni di comparsa, il ruolo svolto, il gioco di valori e di sacralizzazioni che si porta dietro, gli investimenti in pratiche e comportamenti che implica; tutti elementi che hanno a che fare con la dossologia, quella descrizione dei fatti di opinione di cui parla Foucault e che rinvia ai principi di scelta, alla retorica o alla dialettica attraverso cui si manifestano, si nascondono o si giustificano, all’organizzazione e alla istituzionalizzazione dei campi polemici connessi, alle motivazioni che possono determinare gli individui ad accostarvisi71.
Se poi rileggiamo la crisi dell’opinione pubblica nel secondo Ottocento come un processo di trasformazione di questa specifica «formazione discorsiva», allora i punti guida elencati in proposito da Foucault diventano una precisa indicazione di lavoro per lo storico e rinviano a trasformazioni di merito già richiamate: analizzare lo spostamento delle linee che definiscono il campo degli oggetti possibili del discorso, il cambiamento di posizione e di ruolo dei soggetti che li dicono, il diverso funzionamento del linguaggio rispetto ai nuovi oggetti, le nuove forme di localizzazione e di circolazione del discorso nella società72. Un punto, quest’ultimo, che rimanda al tema della ricezione, sempre più passiva e manipolata nella lettura liberale e habermasiana, che qui diventa il tema dei limiti e delle forme della appropriazione. Anche in questo caso l’ordine del giorno del ricercatore si arricchisce: quali individui, quali gruppi, quali classi hanno accesso a tale o tal altro tipo di discorso? Come è istituzionalizzato il rapporto tra il discorso, colui che lo detiene e colui che lo riceve? Come si segnala e si definisce il rapporto fra il discorso e il suo autore? Come si svolge, tra classi, nazioni, collettività linguistiche, culturali o etniche, la lotta per l’assunzione dei discorsi7’?
L’idea di una ricezione differenziata e non passiva, per questo leggibile come appropriazione o, alla Chartier, come interpretazione, ha come corollario che non è lecito, nell’esaminare il processo di formazione dell’opinione pubblica, ipotizzare che contenuti e criteri di giudizio diffusi attraverso i vari canali di questa formazione si traducano direttamente nei contenuti e nelle forme dell’opinione stessa, soprattutto in casi in cui quella formazione è ancora primaria. Al contrario questa sarà sempre il prodotto, mai determinabile in anticipo, di una sintesi nella quale dati di lungo periodo e dati congiunturali interferiscono con le informazioni ricevute nel generare un risultato che non può che essere fortemente contestuale in termini territoriali, temporali e sociali74.
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Naturalmente un’ottica di questo genere è subordinata a qualche opzione forte. La prima che il potere non sia qualcosa di estremamente concentrato che agisce solamente dall’alto verso il basso, ma piuttosto qualcosa che non funziona che a catena, e nelle cui maglie gli individui non solo circolano, ma sono sempre in posizione di subirlo e di esercitarlo75; la seconda che non si attribuisca valore aprioristicamente negativo ai risultati di un’analisi che inevitabilmente, per dirla ancora con Foucault, frammenta quello che si pensava unito e scopre sotto l’aspetto unico di un carattere o di un concetto, in questo caso l’opinione pubblica, la proliferazione degli avvenimenti attraverso i quali si è formato76. Anzi, trattandosi dello studio di una realtà che è in gran parte di costruzione ottocentesca e la cui lettura storiografica, come si è cercato di far vedere, risente ancora fortemente dell’eredità del secolo scorso, l’altra indicazione foucaultiana secondo la quale il problema del XIX secolo è di «disfarlo a partire da ciò che lo ha prodotto»77, risulta anch’essa estremamente pertinente.
Rileggere l’età classica dell’opinione pubblica in chiave analitica, riconoscere come un dato da studiare la grande trasformazione cui essa va incontro nella fase successiva con un moltiplicarsi dei soggetti e dei discorsi che la riguardano, prendere in conto la sua valenza sul piano della pratica sociale possono essere, come si è cercato di spiegare fino ad ora, alcuni degli espedienti utili ad affrontare quei nodi problematici dai quali siamo partiti.
4. Alla ricerca dell’opinione pubblica
Se riconsideriamo in sintesi tutto il vasto territorio di relazioni cui si è ora accennato, in realtà semplicemente quella parte maggioritaria del campo politico che non si sovrappone al campo istituzionale e che evidenzia la tensione costante fra cittadini e poteri organizzati, vi vedremo spesso all’opera una forma di rappresentanza non istituzionalizzata che dovrebbe essere oggetto privilegiato di una storia dell’opinione pubblica e che potremmo chiamare, richiamandoci ancora una volta al caso francese, quella dei portavoce. Il portavoce è, per Chartier, colui che surroga la debolezza letteraria del popolo, rappresentandolo appunto con l’atto di dargli voce nella sfera pubblica78. Ma non si tratta dell’«homme éclairé [...] conducteur de l’évidence» e «révélateur de l’opinion» di cui parla Mona Ozouf sulla scorta di Condorcet79, né del professionista di una comunicazione scritta fredda e razionale e per ciò stesso diretta a un pubblico universale, cara a Kant come allo stesso Condorcet o a Malesherbes80, bensì di soggetti in grado di lega-
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re il quotidiano al politico attraverso le risorse della retorica giudiziaria, il ricorso a modelli di scrittura ricalcati sui generi di successo, la contaminazione fra temi della sfera pubblica e della sfera privata. Per ciò stesso si può dire che i portavoce, entità collettive o singoli individui, più che affermare una ragione universale con la loro rappresentanza «marquent de facon visible et perpétuée l’existence du groupe, de la communauté ou de la classe»81. Più cresce la partecipazione politica, dentro e fuori delle istituzioni, più l’azione dei portavoce si articola e si differenzia. Certo la caratterizzazione di questa figura fatta per gli anni della Rivoluzione è riferita a una situazione affatto peculiare e, per ciò stesso, carica di una forte valorizzazione normativa per poter essere utilizzata direttamente in altri contesti82. Tuttavia degli aspetti non secondari sembrano maggiormente flessibili, ed utilizzabili in una ricognizione più ampia: la figura del portavoce come quella di chi comunque incarna un modo d’agire distinto da quello dell’agente politico in senso stretto, identificato con le autorità costituite; la sua attitudine a introdurre concretamente le richieste del popolo nel campo politico attraverso ima capacità specifica di pensare, dire e mettere in atto i diritti; la differenziazione territoriale dell’azione legata alla capacità di farsi portavoce del popolo nel cuore stesso degli avvenimenti aprendo di fatto nuovi spazi di rappresentanza politica talvolta in conflitto con la lettera della legge; la possibile esistenza di portavoce anonimi e collettivi (la sezione 10 di Marsiglia nella primavera del 1793 di cui scrive Guilhaumou)83; tutti elementi che, in sintesi, consentono di «mettre l’accent, à travers la formation d’une opinion publique, sur la dissémination des discours publics» e «la fluidité des pratiques politiques»84.
L’Ottocento postrivoluzionario non è certo paragonabile al fervido fine Settecento francese, e tuttavia il forte processo di integrazione politica che lo caratterizza, connesso a quello sul quale si è insistito ripetutamente di formazione di un’opinione pubblica diffusa, autorizza credo a una ricerca di portavoce, forse tanto più funzionali quanto meno quei processi avvengono in forma rivoluzionaria, il cui ruolo di rappresentanza sia allo stesso tempo più molecolare, differenziato ed effimero di quello che, per lo stesso periodo, siamo soliti attribuire ai partiti.
Si tratterà verosimilmente di figure più simili a quelle delineate da Chartier che non da Guilhaumou, o direttamente ascrivibili a quella vasta categoria che Bourdieu vede oggi in concorrenza con gli scienziati sociali:
professionels de la production symbolique (écrivains, hommes politiques, journalistes) et, plus largement, [...] tous les agents sociaux qui, avec des forces
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symboliques et des succès très inégaux, travaillent à imposer leur vision du monde social (en usant des moyens qui vont du ragot, de l’insulte, de la médisance ou de la calomnie jusqu’aux libelles, aux pamphlets ou aux tribunes libres, sans parler des formes d’expression collectives et institutionnalisées de l’opinion comme le vote)
che tutti si appellano, per affermarsi, al senso comune85. Per Bourdieu il portavoce, come ogni altro tipo di rappresentante, è innanzitutto un detentore del potere della parola, legato alla delega che lo autorizza «a parlare e a scrivere in nome del gruppo, costituito in lui e attraverso lui», e che gli dà quindi accesso alla «magia degli enunciati performativi». Da questo punto di vista egli non si limita più a segnare l’esistenza di gruppi, ma «nell’alchimia della rappresentazione, nei diversi significati del termine, [...] costituisce il gruppo stesso che lo ha costituito»86.
Certo dal portavoce rivoluzionario aH’opinion maker il passo è lungo, e il mutamento di senso e di valore attribuito alla capacità performativa dei soggetti in gioco è in rapporto con le trasformazioni nel tempo della sfera pubblica. Resta però un dovere dello storico non attribuire a priori una direzione irreversibile al passaggio dall’uno all’altro modello, applicandosi a esaminare la natura del rapporto fra gruppo e portavoce di caso in caso senza dimenticare, come ha sottolineato Cottereau, che esistono anche processi attivi di delegittimazione, sicché se a proposito del linguaggio Bourdieu ritiene che esso presuppone dei locutori legittimi in luoghi legittimi, «on considère comment le langage peut poser des locuteurs légitimes dans des places légitimes (ou les re-poser, redisposer, etc.)»87. Saremmo in definitiva davanti a un tipo di mediazione specifico: legato a una forma di rappresentanza più o meno abusata ma comimque revocabile, e per questo caratterizzato da forme di comunicazione pubblica non tanto rivolte alla propaganda o alla persuasione in termini generali, quanto all’interpretazione di specifici avvenimenti.
C’è un’altra chiave di lettura, anch’essa potenzialmente assai fertile, con la quale si possono ripercorrere alcuni dei temi già toccati in precedenza. Si sa che la laboriosa costruzione di una sfera privata, nel corso soprattutto del XVIII secolo, è la premessa indispensabile alla nascita della pubblica opinione, come ha dimostrato proprio Habermas. Lo choc della Rivoluzione francese, con la sua invasione del privato, porrà alla cultura e alla politica dell’Ottocento liberale come compito primario quello di ridefinire la separazione tra le due sfere, un compito concretatosi anche nell’ideologia di un apparato statale assolutamente neutrale e con funzioni innanzitutto di garanzia. Ma nel corso successivo del periodo che forse con una certa approssimazione viene definito
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età liberale, gli stessi paladini del liberalismo vedono progressivamente cancellarsi la linea di confine faticosamente stabilita e difesa. Le contaminazioni fra stato e società, fra diritto pubblico e diritto privato, la crescita di forme intermedie organizzate fra i cittadini e il potere costituito, sono elementi base della crisi del secondo Ottocento alla quale questo saggio fa riferimento in maniera privilegiata. In altre parole la stabilità del confine fra pubblico e privato come un a priori delle società moderne è smentita irreversibilmente, e questo si svela sempre più come ima realtà mobile, frutto di una continua ridefinizione, per inclusione o esclusione, dell’insieme dei discorsi inerenti alla sfera pubblica e della configurazione che lega di volta in volta soggetti ed oggetti interessati88.
Dena Goodman ha sostenuto recentemente, e in maniera convincente, che per l’età classica sfera pubblica e sfera privata rappresentano in realtà due facce della stessa medaglia che è impossibile separare, anche perché nel diciottesimo secolo la loro configurazione è ancora allo stato nascente89. A maggior ragione per il secolo successivo la dinamica con cui discorsi diversi sono ammessi ad essere oggetto della pubblica opinione e il rilevamento di quella terra di nessuno all’interno della quale si sposta il confine tra pubblico e privato, acquistano importanza nel progetto di una storiografia analitica.
Non si tratta naturalmente di una constatazione inedita. Per fare qualche esempio recente, parlando proprio del tardo Ottocento Patrick Joyce ha osservato che in assenza di una precisa delimitazione di valori e di regole fra pubblico e privato c’è una costante interazione fra i due, e che i modi appropriati per una sfera trovano costantemente espressione anche nell’altra90. Geoff Eley ha indicato nell’approccio storiografico deH’Alltagsgeschichte una possibile strategia per trascendere nella ricerca le distinzioni convenzionali fra pubblico e privato, e tentare quindi di cogliere il nesso elusivo fra campo politico e campo culturale91. Catherine Lynch infine ha osservato, con un certo gusto del paradosso, che nei volumi sulla vita privata curati da Ariès e Duby le parti migliori sono quelle in cui si affrontano le relazioni fra mondo domestico e sistemi pubblici92.
Non saprei dire quanto quel giudizio sia fondato complessivamente, né che valenza dargli. Certo è che il volume sull’Ottocento, curato da Michelle Perrot95, pur proclamando in apertura il secolo scorso «età aurea del privato», è poi tutto percorso da affermazioni e puntualizzazioni che insistono esplicitamente sul tema richiamato. In realtà «il XIX secolo sembra aver compiuto un disperato sforzo per stabilizzare la frontiera fra pubblico e privato [...] Ma non appena questa sembra apparentemente stabile, eccola oscillare e spostarsi sotto la
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spinta di influenze molteplici e di impercettibili erosioni»94. D’altra parte se nella prima parte del secolo le istituzioni sembrano indifferenti o poco interessate alla società civile, da subito il privato sollecita una serie di interventi teorici, normativi o descrittivi nel pensiero politico ed economico, negli interessi sociali, morali e medici. In sintesi: «La società dell’Ottocento [...] è in continuo movimento e a questo movimento si associano le frontiere del pubblico e del privato»95.
L’uso della terminologia sembra in alcuni di questi passi un po’ sdrucciolevole, consentendo forse ingiustamente una lettura del potere ancora troppo legata alle istituzioni statali e una possibile ascrizione della società civile alla sfera privata, ma l’indicazione complessiva di una tematica cruciale per l’epoca mi sembra chiarissima.
A rivedere una lettura storiografica che nel primo Ottocento francese sottolinea un rifiuto della competenza politica popolare che porta alla repubblica borghese e alla restrizione della cittadinanza, si è dedicato recentemente con risultati brillanti Alain Cottereau. In un saggio già menzionato l’attività dei collegi dei probiviri rispetto alle relazioni industriali, dalla Restaurazione fino al Secondo impero, mostra una pratica di risoluzione di conflitti ritenuti in linea di principio di natura privata, senza il ricorso ai poteri costituiti e in un ambito circoscritto che però ha i caratteri distintivi dello spazio pubblico96. Più in generale Cottereau si è impegnato a documentare come, subito dopo la Rivoluzione, ci sia stata in Francia anche una reazione democratica al Terrore, impegnata a consolidare l’esistenza di spazi pubblici di diritto aperti proprio nella fase rivoluzionaria, e collegandola al concetto di spazio pubblico positivo costruito, non a caso, anche con forti riferimenti alle opere recenti di Habermas97.
Al di là della capacità, pure molto preziosa, di tematizzare strumenti concettuali come questi che conservano, per così dire, una doppia faccia normativa ed analitica, lavori come quelli di Cottereau sono molto importanti, dal nostro punto di vista, soprattutto perché cominciano a dare contenuti concreti in termini storici all’affermazione di Guilhaumou secondo la quale «dalla Rivoluzione Francese la figura normativa dello spazio pubblico al di là del suo referente sociologico, la borghesia, è onnipresente»98.
Su un piano affatto diverso, ma anche qui assumendo come premessa che la vita pubblica non vada identificata con la vita politica formale, ancora Lynch ha rivendicato la forte intersezione fra sfera famigliare e sfera pubblica. Citando Evans99 l’autrice ha ipotizzato a questo proposito la possibile proiezione sul secolo scorso di un’ottica privatistica della famiglia che è invece tipicamente novecentesca. Resta vero, come ha osservato Perrot, che il XIX secolo ha ancorato alla
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famiglia la frontiera fra pubblico e privato, ma la questione torna ad essere quella delle trasformazioni che attraversano il periodo, per cui quei confini sono costantemente in movimento e variano «secondo i tempi, i luoghi e gli ambienti»100. Già per il primo Ottocento francese, ad esempio, William Reddy studiando i casi di separazione fra coniugi ha messo in evidenza come siano in gioco contemporaneamente diverse visioni di quel rapporto: quella che si esprime nelle leggi e nelle istituzioni postrivoluzionarie, quella legata al concetto di onore tipico dell’aristocrazia o dei ceti popolari, quella infine legata al modello letterario dell’individualismo o al crescente gusto della stampa quotidiana per i melodrammi giudiziari101.
Che quelli concernenti non solo la famiglia ma anche specificamente la donna siano discorsi che nel corso dell’Ottocento emergono sempre di più nella sfera pubblica è un fatto accertato102. Si tratta non solo, e forse non tanto, del movimento specifico di rivendicazione dei diritti delle donne, ma di uno spettro di fenomeni più ampio e complesso. Si va dal livello espressamente simbolico, col ruolo della figura femminile nell’immaginario pubblico svolto dalla Marianna francese e legato alla sovrapposizione fra maternità della famiglia e maternità della patria cara ai repubblicani10’, all’impronta femminile che si può leggere nella svolta complessiva delle società europee nel tardo Ottocento. Se le donne confinate nel privato dalla fase costitutiva della sfera pubblica lavorano nei fatti in controtendenza con questa esclusione già a partire dalla Francia rivoluzionaria104, è il loro passaggio esplicito da una dimensione «naturale» alla sfera sociale durante il secolo scorso che coincide, come ha sottolineato Joyce105, con l’intervento e le riforme politiche sul vecchio terreno di pubblico e privato. Lo stesso autore ha ricordato, richiamandosi a Denise Riley106, che il social del tardo Ottocento è femminilizzato fin dall’inizio, un giudizio che coincide con quelli di Catherine Lynch che indica nel «maternalismo» una forza attiva nel delineare lo stato sociale europeo107, e di Leonore Davidoff, che ha riletto i tempi del rapporto pubblico privato durante il «lungo Ottocento» inglese alla luce della storia di genere108.
Spazi pubblici extra istituzionali, famiglia, genere, sono esemplificazioni tematiche di come l’analisi dei discorsi che avvengono all’interno dell’opinione pubblica ottocentesca possa legarsi concretamente a terreni già parzialmente dissodati da settori della storia sociale, e sostanzialmente lontani da quello, tendenzialmente ma pericolosamente egemone, sull’opzione politico ideologica.
Ciò implica, corollario importante, che l’uso delle fonti diventi altrettanto elastico. Accanto alla stampa sarà allora sensato porre testimonianze rese in sede giudiziaria, diari non necessariamente scritti per
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un pubblico e scambi epistolari109, tutti documenti dove talvolta l’opinione pubblica affiora senza che neppure chi parla o scrive se ne accorga.
Uno straordinario testimone del secolo scorso, Stendhal, aveva del resto già colto, e sintetizzato brillantemente, non solo il fatto che l’opinione pubblica segue da vicino il confine fra pubblico e privato, ma che in più essa tende a divenire un luogo elettivo del conflitto fra queste due dimensioni: «L’inconveniente del dominio della pubblica opinione, che d’altro canto rende liberi, è che essa si insinua in un campo che non la riguarda: la vita privata»110.
Nel secondo Ottocento, come sottolinea anche Perrot111, quel gusto della stampa e del pubblico per i melodrammi giudiziari già segnalato prima del 1848 da Reddy si afferma definitivamente, in parallelo con la metamorfosi di quello che la storiografia francese chiama fait divers: non più il meraviglioso, il sentimentale, il soprannaturale, ma il quotidiano, il poliziesco, il criminale, non più eroi ma azioni o singoli gesti. Il rovesciamento dei ruoli e delle norme, lo «scandalo», legittima la pubblicità di ciò che è generalmente riconosciuto come privato, e di conseguenza la casistica giudiziaria di tipo penale diventa il terreno sul quale l’interferenza e il conflitto fra le due sfere si spingono agli estremi. Se è vero che nel fait divers si mettono in scena le angosce e i desideri del pubblico, è anche vero che un processo di grande richiamo può essere l’occasione per verificare i confini del lecito e dell’illecito socialmente accettati e le soglie che fissano la valenza politica o morale di un determinato comportamento112, così come una cerimonia pubblica, non necessariamente ufficiale, può essere l’occasione per una verifica delle gerarchie sociali. D’altra parte si è osservato giustamente non solo che il fait divers è in sé un fatto culturale e politico, ma che il modo di trattare episodi di questo genere da parte della stampa influenza progressivamente il modo di affrontare gli avvenimenti politici, che vengono esposti in parallelo, sicché ci si può chiedere quali siano gli effetti di questa contaminazione sulla rappresentazione popolare del politico11’. Sono tutte considerazioni che ascrivono d’ufficio, mi sembra, questo ordine di avvenimenti a una storia sociale dell’opinione pubblica, rimandando alla utilità in proposito di un uso incrociato delle fonti giudiziarie e delle fonti giornalistiche, senza una distinzione preventiva fra casi di interesse pubblico in quanto politico e gli altri. Non sarebbe esercizio difficile trattare il caso Dreyfuss negli stessi termini di un fait divers, così come sarebbe difficile escludere da una storia dell’opinione pubblica francese nel secolo scorso l’impatto di un episodio di cronaca nera pura e semplice come il caso Troppman114.
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Le tante e frammentarie indicazioni che ho cercato di mettere in fila fino a questo punto non pretendono di gettare una rete sull’oggetto storico «opinione pubblica» neppure in un periodo circoscritto. Si tratterebbe certo di una rete a maglie tanto larghe da lasciar passare assai più cose di quanto il rigore metodico richiederebbe. L’unica possibile giustificazione resta quella iniziale: che qualcuna, anche una sola, di queste indicazioni possa rivelarsi utile al vaglio infallibile di una ricostruzione storica. Al di là di questo io credo necessario che una storia esplicitamente sociale dell’opinione pubblica liberi questo concetto dall’alternativa fra il censire opzioni politiche nel senso ideologico e il leggere scelte più specifiche come il fedele riflesso di identità sociali a una dimensione. Se per opinione pubblica possiamo intendere, come io credo, il «mezzo» all’interno del quale si svolge «le va-et vient entre appréciacion des situations sociales et initiatives», e si misura «l’incertitude de la partition entre, d’une part, ce qui dépend de je, de nous, de vous, d’eux, d’autre part, ce qui est à prendre comme un réel social, hors de portée des décisions humaines»115, il suo storico deve tentare di ricostruire ciò che le fonti «statocentriche» di cui parla Cottereau trascurano: «les traces de genèse, de tatonnement, d’alternatives, bref [...] toutes les incertitudes inhérents à l’action collective, incertitudes par lesquelles peuvent se réouvrir, à distance, les jugements critiques et l’appréciacion des perspectives»116.
Giuseppe Civile
Istituto Universitario Orientale di Napoli
Note al testo
1 Ha sintetizzato in maniera efficace questa tendenza R. Bizzocchi in Storia debole, storia forte, in «Storica», 5 (1996), pp. 93-114, scrivendo a p. 93: «Ora più che mai si può pensare che l’urgenza del presente imponga di rivedere le premesse di quella complessiva etnologizzazione dello sguardo sul passato che ha caratterizzato tanta parte del lavoro delle ultime generazioni di storici». Il saggio costituisce una utile messa a punto per chi continui a servirsi di categorie come quelle ricordate nel titolo.
2 Se oltre vent’anni fa Tranfaglia segnalava i problemi connessi all’elaborazione di «un concetto non ambiguo e storicamente verificabile di opinione pubblica», oggi Pombeni parla di un «concetto molto più sfumato e difficile da definirsi», e Ortoleva e Caprettini definiscono l’opinione pubblica «quel complesso e quasi inafferrabile elemento che costituisce il lievito e insieme il collante della società con temporanea». Cfr. N. Tranfaglia, Storia della stampa e storia d’Italia, in «Problemi dell’informazione», 1 (1976), pp. 89-100, cit. da p. 92; P. Pombeni, Partiti e sistemi politici nella storia con temporanea, Bologna 1994, p. 85; G.P. Caprettini, P. Ortoleva, Introduzione a J.N. Jeanneney, Storia dei media, Roma 1996, p. XVIII.
3 Non si può non ricordare in proposito la straordinaria acutezza delle osservazioni di G. Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, frutto insieme di un pensiero lontano dalla logica delle magnifiche sorti e rivolto a una situazione non canonica rispetto al modello classico dell’opinione pubblica. Pubblicato solamente postumo fra gli Scritti vari inediti
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dell’edizione Le Monnier del 1906, il Discorso fu scritto verosimilmente fra marzo e aprile del 1824. Se ne veda il testo in Opere, a cura di S. Solmi, Milano-Napoli 1956,1, pp. 844-877 e, per la datazione, il rimando lì fatto a G. Leopardi, Opere, Milano 1935, pp. 1294-96.
4 P. Bourdieu, Le sens pratique, Paris 1980, p. 49.
5 Ho già trattato parte degli argomenti che seguono, in chiave parzialmente diversa, in un saggio precedente. Cfr. G. Civile, La formazione dell’opinione pubblica dopo la metà dell’Ottocento. Osservazioni su un tema di ricerca, in «Miscellanea di studi storici del Dipartimento di Storia» (Università degli studi della Calabria), IX (1992-1994), Soveria Mannelli 1996, pp. 245265.
6 J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari 1988 (IV ed.), ed. or. Strukturwandel der Oeffentlichkeit, Neuwied 1962. Talvolta si trova citato, dello stesso autore, The Public Sphere, in «New German Critique», (3) 1974. Una efficace sintesi del lavoro di Habermas è nell’articolo di L. Ceppa, Dialettica dell’illuminismo e opinione pubblica: i modelli di Habermas e Koselleck, in «Studi storici», 2 (1984), pp. 343-352. Per chiarire meglio che le osservazioni che seguono non sono, per owii motivi, una riflessione critica su Habermas, ma sugli effetti di un suo testo nel lavoro storico, vale la pena di ricordare alcuni dati significativi. Il primo riguarda i tempi di traduzione di Storia e critica: in italiano nel 1971, in francese nel 1978 e solo nel 1989 in inglese. Il secondo la diffusa disattenzione degli storici per il lavoro successivo di Habermas anche strettamente connesso a questo tema, come nel caso della teoria dell’agire comunicativo, Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt am Main 1981, o della Vorwort zur Neuauflage 1990, 39 pagine che aprono la riedizione coeva del vecchio lavoro del 1962 e tradotte in inglese col titolo Further Reflections on thè Public Sphere nel volume curato da C. Calhoun, Habermas and thè Public Sphere, Cambridge-Massachusets-London 1992, pp. 421461. Il giudizio citato è proprio di Calhoun, nell’introduzione a questo volume (p. 5). Naturalmente più comprensiva è la ricezione del lavoro di Habermas da parte di studiosi che pure si occupano, ma a diverso titolo, della sfera pubblica. Cfr. ad esempio i saggi raccolti in Pouvoir et légitimité. Figures de l’espace public, Textes réunis par A. Cottereau, P. Ladrière, Paris 1992; e specialmente P. Ladrière, Espace public et democratie. Weber, Arendt, Habermas, ivi, pp. 19-43. Per questo è più sensato, come fanno diversi autori in questo volume, parlare di «giovane Habermas» riferendosi all’autore di Storia e critica.
7 A titolo d’esempio riporto alcuni passi di Storia e critica cit. «A partire dalla seconda metà del XIX secolo, le istituzioni che avevano garantito l’esistenza di un pubblico in quanto entità raziocinante vengono scosse violentemente», p. 194. «In Inghilterra, Francia e Stati Uniti questa evoluzione dalla stampa di opinione alla stampa commerciale comincia simultaneamente intorno agli anni Trenta del XIX secolo», p. 220. «La storia dei grandi quotidiani nella seconda metà del XIX secolo dimostra che la stampa, a mano a mano che si commercializza, diventa manipolabile», p. 221. «Già per il liberalismo della metà del XIX secolo la opinione pubblica rappresentava un problema, ma nei decenni successivi assunse addirittura una dimensione problematica», p. 283.
8S . Benhabib, Models of Public Space: Hannah Arendt, thè Liberal Tradition and Jurgen Habermas, in Calhoun, Habermas cit., pp.73-98. La frase è alle pp. 87-88.
9 G. Eley, Nations, Publics and Politicai Cultures: Placing Habermas in thè Nineteenth Century, in Calhoun, Habermas cit., pp. 289-339. La citazione è da p. 319.
10 E. Tortarolo, Opinion publique tra Antico Regime e Rivoluzione francese. Contributo a un vocabolario storico della politica settecentesca, in «Rivista storica italiana», CII (aprile 1990), 1, pp. 5-23.1 passi citati sono a p. 1.
11 «Quaderni Storici», 42 (1979). Sezione monografica dedicata a Nasata dell’opinione pubblica in Inghilterra, a cura di A. Caracciolo, R. M. Colombo. La citazione è tratta dalla premessa dei curatori, p. 849.
12 H. Speier, Historical Development of Public Opinion, in «The American Journal of Sociology», LV (July 1949-May 1950), pp. 376-388. Il brano citato è a p. 382.
13 F.G. Wilson, Public Opinion and thè Middle Class, in «The Review of Politics», XVII (1955), pp. 486-510. Il brano citato è a p. 487.
14 Habermas, Storia e critica cit., p. 285. A proposito degli autori citati e di altri si vedano anche le pagine seguenti.
15 La definizione di Condorcet, tratta dalle Réflexions sul le Commerce des blés, è riportata a p. 177 del saggio di E. Di Rienzo, Opinione pubblica, opinione popolare e protesta annonaria in
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Franda dall'Antico Regime alla rivoluzione. A proposito di alcuni inediti dell’abbé Morellet, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», (1) 1992, pp. 161-191; anche questo è un buon esempio di approccio analitico al nostro tema per il periodo classico.
16 M. Schudson, Was There Ever a Public Sphere? If So, When? Reflection on tbe American Case, in Calhoun, Habermas cit., pp. 143-163; M.P. Ryan, Gender and Public Access: Women’s Politics in Nineteenth-Century America, ivi, pp. 259-288.
17 Eley, Nations cit.
18 P. Macky, Sulla storia sodale dell'Italia liberale: per una ricerca sul «ceto di frontiera», in «Quaderni Storici», 35 (1977), pp. 521-550.
19 In A. Gnoli, E Volpi, 1 prossimi titani. Conversazioni con Jiinger, Milano 1997.
20 Pombeni, Partiti e sistemipolitid cit., pp. 82-87.
21 P. Ortoleva, Mediastoria. Comunicazione e cambiamento sodale nel mondo contemporaneo, Parma 1995, pp. 55-107.
22 Di un «ambiente invisibile» come sistema di riferimento obbligato per l’opinione pubblica moderna parlava già nel primo dopoguerra, guardando naturalmente agli Stati Uniti, W. Lippmann in L'opinione pubblica, Roma 1995 (ed. or. 1922), un lavoro ancora oggi di grande interesse sia per le osservazioni sul ruolo della stampa, sia per l’approccio in termini di psicologia sociale al tema della ricezione del pubblico.
23 P. Joyce, Democratic Subjects. The Self and thè Sodai in Nineteenth-Century England, Cambridge 1994. Si veda in particolare l’introduzione nella quale, naturalmente in chiave di postmodernismo linguistico militante e citando Baudrillard piuttosto che Habermas, l’autore delinea una scansione interna al XIX secolo che ripete le tappe già abbondantemente indicate.
24 II passo di Walter Bagehot è riportato in Pombeni, Partiti e sistemipolitid cit., p. 86.
25 HJ. Plumb, La diffusione della modernità, in «Quaderni Storici», 42 (1979), pp. 887-911. Il brano citato è a p. 888.
26 Ivi, p. 906.
27 Eley, Nations cit., p.289.
28 Ivi, p. 320.
29 Ivi, p. 321.
3 0«Proprio il fluido legame organizzativo del «partito-frazione» [...] con gli elettori del paese tramite le cerehie dei notabili, corrispondeva al flusso neutro di comunicazioni all’interno di un unico pubblico. Anche i partiti si consideravano, entro la cornice della sfera pubblica borghese, come una «formazione di opinioni» [...] frattanto [...] all’evoluzione verso una stampa commerciale di massa corrisponde lo spostamento dei partiti di notabili su base di massa. La socializzazione dei diritti civili di eguaglianza ha alterato la struttura dei partiti. Le fluide unioni di elettori cedono sempre più il posto, verso la metà del secolo scorso, ai partiti veri e propri organizzati su scala più ampia di quella locale, con apparati burocratici, tutti impegnati nell’integrazione ideologica e nella mobilitazione politica di vaste masse di elettori», in Habermas, Storia e critica cit., pp. 240-241. Col senno di poi colpisce veder riportato nello stesso libro a p. 284 il giudizio di Schàffle che, nel 1874 già qualifica l’opinione pubblica come «reazione informe della massa» e leggere, poche pagine dopo, p. 291, di una «pubblicità dimostrativa e manipolativa» tesa ad ottenere la «disponibilità plebiscitaria di un pubblico mediatizzato».
31 Eley, Nations cit., p. 292.
32 A. Cottereau, P. Ladrière, Présentation, in Pouvoir et légitimité cit., p.9.
33 Habermas, FurtherReflections cit., si vedano ad esempio le considerazioni di p. 430, in cui si riflette criticamente sul contrasto che oppone senza mediazioni «an early politicai public sphere (lasting up to thè middle of thè nineteenth century) and thè public sphere of thè mass-democratic social- welfare States».
34 N. Fraser, Rethinking thè Public Sphere: A Contribution to thè Critique ofActually Existing Democracy, in Calhoun, Habermas cit., pp. 109-142. Nello stesso saggio Fraser sottolinea con forza la cesura che attraversa l’età classica: la formazione di parlamenti sovrani che operano come una sfera pubblica all’interno delle istituzioni statuali costituisce una trasformazione strutturale che cancella la separazione netta fra Stato e società civile. Il parlamento corrisponde quindi a uno strong public che ha il potere di trasformare le opinioni in decisioni autoritative, cui si affianca un weak public costituito dal corpo mobilitato informalmente dell’opinione discorsiva non governativa che può servire di contrappeso allo Stato.
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35 Sulla progressiva scomparsa del postulato sociologico habermasiano per effetto di una «histoire culturelle conquerante» a proposito della Rivoluzione francese si veda la densa rassegna di J. Guilhaumou, Espace public et Revolution frangaise, in Pouvoir et légitimité cit., pp. 275290. In particolare si fa qui riferimento a S.C. Maza, Le tribunal de la nation: Les mémoires judiciaires et ropinion publique à la fin de l’Ancien Regine, in «Annales E.S.C.», 42,1 (1987), pp. 73-79, M. Ozouf, The Politicai Culture of thè Old Regine. Eopinion publique, in The French Revolution and thè Creation of Modem Politicai Culture, I, ed. by K.M. Baker, Oxford 1987, pp. 419-434; J.B.Landes, Wonen and thè PublicSphere in theAge of thè Frenc Revolution, Ithaca 1988; R. Chartier, Le origini culturali della Rivoluzione francese, Roma-Bari 1991; K.M. Baker, Politique et opinion publique sous l'Ancien Regine, in «Annales E.S.C.», 42,1 (1987), pp. 41-71; Id., Defining thè Public Sphere in Eighteenth-Century France: Variations on a Thene by Habemas, in Calhoun, Habemas cit., pp. 181-211; Id., Au tribunal de l'opinion. Essais sur rinaginaire politique au XVIII siècle, Paris 1993. Poiché la distanza fra questi approcci e quello di Habermas risulta evidente ed esplicita, sorprende trovare riferimenti di metodo che rimandano indistintamente ad entrambe le analisi, come avviene ad esempio in H. Sabato, Citizenship, Politicai Participation and thè Fomation ofthe PublicSphere in Buenos Aires ISJO’s-ISSO's, in «Past and Present», 136 (1992), pp. 139-163; dove peraltro l’oggetto della ricerca è assai lontano, nel tempo e nello spazio, da quelli degli autori cui ci si riferisce. D’altro canto R. Pasta nel recensire, in «Rivista storica italiana», CIX (1997), I, pp. 343-349, il volume di D. Goodman, The Republic ofLetters. A Cultural History of thè French Enlightennent, Ithaca 1994, che io non conosco, accredita all’autrice «l’adesione alle tesi di Habermas e Baker sullo sviluppo dell’opinione pubblica», p. 345.
36 Ozouf, Eopinion publique cit., p. 426.
37 Chartier, Le origini culturali cit., p.37.
38 Baker, Au tribunal de l’opinion cit. Si vedano in particolare le pp. 9-19 àéTIntroduzione. 39Chartier, Le origini culturali cit., pp. 18-20. H testo di D. Mornet, pubblicato nel 1933, si intitola Les origines intellectuelles de la Revolution frangaise.
40 A. Torre, Percorsi della pratica, in «Quaderni Storici», 90 (1995), pp. 799-829; e R. Chartier, Rappresentazione della pratica e pratica della rappresentazione, in «Quaderni storici», 92 (1996), pp. 487-493. La tesi di Torre è che il decennio 1980-1990, pur facendo riscontrare un diffuso interesse verso il paradigma della pratica, consente solo un bilancio deludente: l’attenzione si è spostata progressivamente dalle relazioni sociali concrete al loro contorno metaforico, evidenziando il riaffiorare di vecchi vizi idealistici e conferendo una ambiguità di fondo all’approccio prasseologico. Nel caso di Chartier va detto che il taglio della sua ricerca mi sembra esplicitamente e coerentemente quello di una storia culturale, contrapposta semmai a una vecchia storia «intellettuale» alla Mornet. Naturalmente ciò non esclude affatto il rischio di un riduzionismo culturalista, assai più esplicito in Baker, come si è accennato. Più in generale l’approccio alle pratiche sociali può essere letto come una discriminante fra l’attività storiografica di ispirazione microstorica e quella che va dal geertzismo al linguistic tum, con le conseguenze del caso in materia di storia sociale. In proposito è interessante la ricostruzione a più voci dell’approccio microstorico, con un taglio giustamente genealogico, comparsa nei «Quaderni Storici», 86 (1994): C. Ginzburg, Microstoria: due o tre cose che so di lei, pp. 510-539; E. Grendi, Ripensare la nicrostoria?, pp. 539-549; J. Revel, Microanalisi e costruzione del sociale, pp. 549-575. Il filo che lega questi scritti alla polemica di Torre o, per un esempio a ritroso, a quella di Levi col geertzismo, cfr. G. Levi, Ipencoli delgeertzisno, in «Quaderni storici», 58 (1985), pp. 269-277, è evidente. In proposito mi sembrano utili le puntualizzazioni di Bizzocchi, Stona debole cit. Va anche detto che è diffìcile far risalire direttamente ad autori come Foucault,Wittgenstein o Bourdieu, la responsabilità dell’uso storiografico, abbastanza diffuso e diversificato, che ne viene fatto, un po’ come succede anche per il giovane Habermas a proposito di opinione pubblica. Valga ad esempio la distinzione di Giovanni Levi fra Geertz e il geertzismo, nell’articolo ricordato.
41 Cfr. Torre, Percorsi cit., pp. 812-816.
42 Bourdieu, Le senspratique cit., in particolare la Critique de la raison théorique, pp. 43 -245. Angelo Torre, nell’articolo citato in precedenza ha notato giustamente che il lavoro di Bourdieu in rapporto alla pratica è tutt’altro che univoco, e che «Anzi, è possibile sostenere che egli abbia progressivamente accentuato la dipendenza della pratica dai modelli culturali e irrigidito il suo ambito di applicazione», p. 812. Per una collocazione del Sens pratique nella produzione di Bourdieu da questo punto di vista, si vedano di Torre questa stessa pagina e la seguente.
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43 L. Wittgenstein, Della certezza, Torino 1976, p. 77.
44 A. Cottereau, Justice et injustice ordinaire sur les lieux de travati d’après les audiences prud’homales (1806-1866), in «Le mouvement social», 141 (1987), pp. 25-59. L’espressione faire un précédent, che a me pare leggibile come un modo specifico di produrre significato nel senso appena detto, vuole sottolineare proprio che «la légitimité dont il est question ici n’est pas l’attribut d’une istitution purement extérieure aux individus. Elle est liée aux actes quotidiens les plus élémentaires. Tel geste, telle parole, telle séquence de travail sont toujours pris dans un réseau d’intercompréhension posant ou récusant un bon droit à faire ou ne pas faire», p. 31. Così, anche da parte di chi analizza, «Les notions de justice et d’injustice sont utilisées dans une démarche compréhensive, c’est-à-dire que Fon cherche à comprendre et décrire quel est le sens de la justice effectivement mis en oeuvre dans telle et telle activité courante. Il y a suffisamment de conceptions de la justice ou de l’injustice données à comprendre dans les interactions étudiées pour que Fon ne cherche pas à sourajouter un concept théorique supplémentaire», p. 32. Di particolare interesse, anche ai nostri fini, mi sembra poi la procedura analitica che Cottereau indica esplicitamente richiamandosi a D.L. Wieder, Language and Sodai Reality, La Haye-Paris 1974: «Constatant l’existence d’un code de conduite très classique en «socio-cultures oppositionelles», il refuse de lui donner une valeur explicative de type «X agit parce qu’il suit telle règie du code». Au contraire, il prend comme phénomène de départ les usages du code (formule ou simplement donné à comprendre dans la conduite), pour ensuite mener une analyse très fine des liens entre intelligibilité des situations, évidences normatives, enchainements d’actions et comptes rendus justifìcatifs», p. 30, n. 8. Per il rinvio di Torre, cfr. Percorsi cit., p. 821.
45 Non a caso Bourdieu lega questo tema alla comparsa di un’educazione istituzionalizzata in alternativa a quella che egli chiama un’educazione diffusa. Cfr. Le senspratique cit., pp. 209 e ss. Si pensi in proposito agli argomenti di Gellner sul ruolo dell’educazione istituzionalizzata in rapporto al nazionalismo. Cfr. E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, Roma 1985.
46 Si veda ad esempio la ricorrenza e la forza di questo tema in un volume come The Historic Turn in thè Human Sdences, TJ. McDonald (ed.), Ann Arbor 1996, che raccoglie interventi di storici e studiosi di scienze sociali statunitensi. Può sembrare singolare vedere associato in linea di principio questo concetto a quello appunto di un historic turn delle scienze sociali, visto quanti storici e per quanto tempo hanno lavorato assumendo identità uniche e cogenti, oltre che oggettivamente infìsse nella realtà sociale. Naturalmente la storia cui si fa riferimento in questi saggi è orientata in modo preciso, anche se sarebbe ugualmente singolare, e talvolta leggermente inquietante provare a mettere insieme gli autori che compongono il pantheon di riferimento dei saggi raccolti nel volume. Per esempio si può citare M.R. Somers, Where is Sociology after thè Historic Tum? Knowledge Cultures, Narrativity, and Historical Epistemologies, pp. 53-89, dove accanto a Foucault, Geertz etc. si possono trovare Kuhn, Stephen Jay Gould e Collingwood. Fra gli altri saggi di particolare interesse, oltre al saggio introduttivo di McDonald, ricorderò dello stesso McDonald, What We Talk about When We Talk about History: The Conversations ofHistory and Sodology, pp. 91-118; W.H. Sewell JR., Three Temporalities: Toward an Eventful Sodology, pp. 245-280, e la lucida messa a punto storiografica di G. Eley, Is All thè World a Text? From Sodai History to thè History ofSodety Two Decades Later, pp. 193-243. Sul tema dell’identità si vedano anche i saggi raccolti in Citizenship, Identity and Sodai History, ed. by C. Tilly, Cambridge 1996.
47 M. Gribaudi, Mondo operaio e mito operaio, Torino 1987, Cfr. in particolare il cap. V.
48 Cfr. le acute osservazioni in proposito di un autore non certo ascrivibile alla nouvelle vague storiografica come EJ. Hobsbawm in Nazioni e nazionalismo, Torino 1991, pp. 142-145.
49 WM. Reddy, Marriage, Honor, and thè Public Sphere in Postrevolutionary France; Séparations de Corps, 1815-1848, in «Tire Journal of Modem History», 65(1993), 3, pp. 437-472.
50 Fraser, Rethinking thè Public Sphere cit., p. 140, n. 24.
51 Eley, Is All thè World a Text? cit., p. 220.
”Ibid.
53 Chartier, Le origini culturali cit., pp. 170-171.
54Ivi, p. 24.
55 A. Farge, Dire et mal dire. Dopinion publique au XVIII siècle, Paris 1992.
56Guilhaumou, Espace public cit., p. 278.
57 Ivi, p. 283.
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Giuseppe Civile
58 R. Minuti, Giornali e opinione pubblica nell’Inghilterra del Settecento, in «Studi storici», 25 (1984), 2, pp. 319-331; citazione da p. 319.
59Ivi, p. 327.
60 G. Eley, Re-Thinking thè Politicai: Sodai History and Politicai Culture in 18* and 19* Century Britain, in «Archiv fùr Sozialgeschichte», XXI (1981), pp. 427-457.1 due giudizi sono a p. 327 il primo e a p. 438 il secondo. E forse interessante sottolineare che i lavori di Plumb sono un punto di riferimento sia per Eley che per Minuti, nell’articolo citato prima. Chi poi avesse interesse ai percorsi e ai tempi delle riflessioni di Eley sull’argomento che ci interessa, può ritrovare a p. 434 dell’articolo ora indicato lo stesso passo da me citato in precedenza, «it is only», che però in questa prima versione figura come una considerazione generale a proposito dei lavori di E.P. Thompson.
61 A. Cottereau, «Esprit public» et capadtè dejuger, in Pouvoir et légitimité cit., pp. 239-274.
62 P. Bourdieu, L’opinione pubblica non esiste, in «Problemi dell’informazione», 1 (1976), pp. 71-88. La citazione è alle pp. 83-84.
63 Si veda questa argomentazione in J. Vogel, La legittimazione rituale della «nazione in armi». Eserdto, Stato e sodetà dvile nelle manifestazioni militari in Germania e Franda (18711914), in «Quaderni storici», 94 (1997), pp. 105-120, in particolare p. HO. È quasi inutile ricordare che il ruolo del pubblico, passando dall’Antico regime all’età contemporanea, muta in maniera sostanziale anche nelle forme dimostrative di opinione.
MG. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Bologna 1975.
65 Sintetizzo qui le osservazioni di Cottereau in Esprit public cit., pp. 265-266, e in Id., Justice et injustice cit., da dove è tratta la citazione a p. 45, n. 41.
66 Cottereau, Esprit public cit., p. 269.
67 Fraser, Rethinking thè PublicSphere cit., p.141, n. 28.
68 E O’Gorm an, Campaign Rituals and Ceremonies. The SodaiMeaning of Elections in England 1780-1860, in «Past and Present», 135 (1992), pp. 79-115.
69 Sabato, Citizenship cit.
70 Personalmente segnalerei innanzitutto Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere, Torino 1977. È forse bene ricordare anche che Foucault non si è mai identificato nello strutturalismo, («È ancora necessario precisare che io non sono quel che si chiama uno strutturalista?», Il sapere e la storia, Roma 1979, p. 88, n. 4,) e che le sue indicazioni, piuttosto che essere rivolte a un riduzionismo discorsivo, possono invece indurre a considerare i discorsi come una pratica fra le altre, come fa P. Veyne, Foucault e la storia, in «Aut Aut», 1981, pp. 71-93.
71 Cfr. Foucault, Il sapere e la storia cit., pp. 27-41, e per la dossologia pp. 67-68.
72 Ivi, pp. 81-82.
73 Ivi, p. 88.
74 Può essere interessante, anche a questo proposito, richiamare le affermazioni di uno studioso americano con tutt’altro orientamento metodologico. Cfr. L. Benson, An Approach to thè Sdentific Study of Past Public Opinion, in «Public Opinion Quarterly», 31 (1968), pp. 523-567. Rilevato che un assunto ricorrente proprio nel lavoro degli storici era «that public opinion on an issue (broadly defined) does not evolve spontaneously but strongly tends to be «made» by thè conscious actions of a relatively small number of «formative agents», Benson opponeva una tesi contraria: «I assume that all agents fall considerably short of perfection, that they display wide variations in knowledge and rationality, and that their actions frequently «boomerang». Moreover, I assume that thè actual distribution of opinion on any given issue at any given time represents thè outcome of conflicting actions whose impact could, at best, have been predicted only within wide limits», pp. 538-539. Un apprezzamento positivo sui contributi che la storia sociale può offrire per lo studio dell’opinione pubblica da parte delle scienze sociali, sempre in riferimento all’ambiente statunitense, si può trovare in L.R. Jacobs, R.Y. Shapiro, Public Opinion and thè New Sodai History: Some Lessons for thè Study of Public Opinion and Democratic Policy-making, in «Social Science History», 13 (1989), 1, pp. 1-24. È molto istruttivo paragonare questo confronto fra storia e scienze sociali con quello istituito in The Historic Tum citato prima.
75 Foucault, Microfisica del potere cit., p. 184.
76 Ivi, pp. 43-37.
77 Ivi, p. 49.
78 Cfr. Chartier, Le origini culturali cit., p. 24 e pp. 170-171.
Per una storia sodale dell'opinione pubblica
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79 Cfr. Ozouf, L’opinion publique cit., p. 427.
80 Chartier, Le origini culturali cit. Cfr. in particolare il capitolo secondo, Spazio pubblico e opinione pubblica, pp. 27 e 28 per Kant e pp. 32 e 33 per Condorcet e Malesherbes. Che poi una distinzione analoga passasse naturalmente anche attraverso la parola scritta era ben chiaro agli intellettuali francesi. Si veda ad esempio il florilegio di citazioni raccolte in Jeanneney, Storia dei media cit., pp. 41-43, sotto il titolo Filosofi contro gazzettieri.
81 Id., Le monde comme représentation, in «Annales E.S.C.», 6 (1998), pp. 1505-1520; la citazione è a p. 1514.
82 Si veda la sintesi dal forte accento metodologico, ma che fa riferimento a una serie di studi specifici, di J. Guilhaumou, Décrire la révolution francaise. Lesporte-parole et le moment républicain (1790-1793), in «Annales E.S.C.», 4 (1991), pp. 949-970.
83 Ivi, p. 963.
84 Ivi, p. 970.
85 P. Bourdieu, La cause de la sdence, in «Actes de la recherche en Sciences sociales», 106107 (1995), p. 4.
86 P. Bourdieu, La parola e il potere, Napoli 1988, pp. 58 e 81. Ma si veda ad esempio la figura e Fazione di Marc Antoine Jullien in Normandia fra 1793 e 1794 in E. Di Rienzo, Formazione dell’opinione pubblica e manipolazione del consenso nell’esperienza politica diMarc-Antoine Jullien de Paris, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1 (1998), pp. 199-208.
87 Cottereau, Justice et injustice cit., p. 32, n. 12.
88 Anche a questo proposito si vedano le considerazioni di Fraser, Rethinking thè Public Sphere cit.
89 D. Goodman, PublicSphere and Private Life: Toward a Synthesis ofCurrent Historiographical Approaches to thè Old Regime, in «History and Theory», 31 (1992), 1, pp.1-20.
90 Cfr. Joyce, Democratic subjects cit., pp. 15-16.
91 G. Eley, Labor History, SodalHistory, Alltagsgeschichte: Experience, Culture, and thè Politics ofEveryday. A New Direction /or German Sodai History?, in «Journal of Modem History», 61 (1989), pp. 297-343. Cfr. p. 315.
92 K.A. Lynch, The Family and thè History o/Public Li/e, in «Journal of Interdisciplinary History», XXIV (1994), 4, pp. 665-684. Cfr. p. 672.
93 P. Ariès, G. Duby, La vita privata. L’Ottocento, a cura di M. Perrot, Bari-Roma 1988.
94 Ivi, p. 487.
95 Ivi, p. 98.
96 Cottereau, Justice et injustice cit.
97 Id., «Esprit public» cit., pp. 239-274.
98 Guilhaumou, Espace public cit., p. 286.
99 «In thè nineteenth century most people agreed on thè centrai importance of thè family for thè social and politicai order. The family was stili, though to a diminishing degree, a public institution; its formation was a matter for communal concem, its transactions were carried out under thè public eye, and its activities played an important role in public fife. As it has become removed from thè public sphere, however, and trasformed (at least in theory) into a place of refuge from thè world outside, so thè family has also been removed from thè historian’s concept of past politics. Its incorporation into a «private sphere» removed from society has been followed by its removai from history in a wider sense and its incorporation into a depoliticized history of private fife», la citazione, a p. 672 di Lynch, The Family cit., è tratta da RJ. Evans, Politics and thè Family: Sodai Democracy and thè Working-Class Family in Theory and Practice before 1914, in RJ. Evans, W.R. Lee (eds.), The German Family: Essays on thè Sodai History o/thè Fanily in Nineteenth and Twentieth Century Germany, London 1981, p. 256.
100 Perrot, La vita privata cit., p. 96.
101 Reddy, Marriage, Honor cit.
102 Sulla condizione femminile al limite fra pubblico e privato, e quindi cruciale per esaminare la ridefìnizione delle rispettive sfere, si possono ora leggere i saggi raccolti in J.B. Landes (ed.), Feminism. The Public and thè Private, Oxford 1998.
103 Cfr. le osservazioni di Perrot, La vita privata cit., p. 86.
104 Cfr. oltre naturalmente al già citato Landes, Women and thè Public Sphere, le osservazioni di Guilhaumou, Espace public cit., pp. 286-287 e i lavori ivi citati.
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105 Joyce, Democratic Subjects cit., p. 18.
106 Riley, «Am I That Name»: Feminism and thè Category of^Women" in History (1968), p. 6, n. 10.
107 Cfr. Lynch, The Family cit., pp. 676-678 coi lavori citati.
108 L. DfMDOW,RegardingSome ‘OldHusbands' Tales': Public and Private in Feminist History, in Landes, Feminism cit., pp. 164-194.
109 Sui diversi usi della corrispondenza, anche come terreno di confine tra sfera pubblica e sfera privata, alcune suggestioni vengono ora dal volume curato da R Chartier, La correspondance. Les usages de la lettre au XIX siede, Paris 1991.
110 Cit. in Perrot, La vita privata cit., p. 329.
111 Cfr. M. Perrot, Fait divers et histoire au XIX siede, in «Annales E.S.C.», 38 (1983), pp. 911-919. Sui caratteri della cultura di massa del secondo Ottocento, in rapporto ai temi cui qui si fa cenno, sono ora da vedere le osservazioni di D. Bidussa, La mentalità totalitaria tra archeologia e genealogia, in Nazismo, fasdsmo, comuniSmo. Totalitarismi a confronto, a cura di M. Flores, Milano 1998, pp. 355-378.
112 Sulla valutazione in termini etici o politici delle problematiche sociali sono ancora interessanti le osservazioni di Bourdieu, L'opinione pubblica cit., pp. 76-80.
113 Cfr. Perrot, Fait divers cit. p. 913.
114 Sul caso Dreyfuss, fra i tanti lavori usciti in prossimità del centenario, si vedano gli approcci originali contenuti in Daffare Dreyfuss. La storia, l'opinione, l'immagine, a cura di N.L. Kleeblatt, Torino 1990; in Laffaire Dreyfuss et l'opinion publique, a cura di M. Denis, Rennes 1995 e infine in La France de l'affaire Dreyfuss, a cura di P. Birnbaum, Paris 1998. Sul caso Troppmann, dal nome del giovane condannato e giustiziato per l’omicidio di otto persone nel 1869 che provocò il pellegrinaggio di migliaia di parigini sul luogo del delitto e fruttò a «Le Petit Journal» il raddoppio della tiratura, si veda M. Perrot, Laffaire Troppmann, in «L’histoire», 30 (1981), pp. 28-37.
115 Cottereau, Esprit public cit., p. 263, n. 12.
116 Ivi, p.263.