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Title
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GLI ANNALI EINAUDI SULLA MEDICINA
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Creator
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Sandra Cavallo
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Paolo Frascani
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Date Issued
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1986-04-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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21
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issue
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61
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page start
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251
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page end
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267
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Storia della follia nell'età classica, Italy, Rizzoli, 1963
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Nascita della clinica, Italy, Einaudi, 1969
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Rights
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Quaderni storici © 1986 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230920125939/https://www.jstor.org/stable/43777957?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjo3LCJzdGFydHMiOnsiSlNUT1JCYXNpYyI6MTUwfX0%3D&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Aa3d3de9a38443275aa1ce03da49d0ec3
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Subject
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confinement
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biopower
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body
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discipline
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panopticon
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extracted text
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GLI ANNALI EINAUDI SULLA MEDICINA
I
1. Il volume degli Annali Einaudi curato da Franco Della Feruta dedicato alla storia della medicina si propone di attuare un collegamento tra un approccio di storia «interna» della medicina, centrato cioè sulle «vicende delle teorie e delle sperimentazioni medico-biologiche» e un’analisi «storico-sociale», che collochi la malattia «dentro il concreto ambito di una società storicamente determinata» (Presentazione). Nel suo complesso però l’impostazione dell’opera, più che una effettiva integrazione tra questi due piani, sembra riflettere una semplice giustapposizione di approcci oltre che tematica. Già l’ordine degli articoli, e lo stesso titolo della raccolta - Malattia e Medicina - ripropongono la distinzione che si vorrebbe superare: un primo ordine di saggi ripercorre l’evoluzione scientifica della medicina dal tardo Settecento, l’attività di alcuni medici innovatori e le istituzioni espresse da tale sviluppo; un secondo gruppo svolge il discorso di matrice foucaultiana della creazione di alcune forme di devianza da parte del potere medico alleato dell’ordine borghese (emarginazione e controllo dei folli, di prostitute e malati venerei, dei criminali); e infine una terza serie di studi ricostruisce la distribuzione differenziale e l’intervento terapeutico e preventivo delle principali malattie e forme epidemiche, nell’Italia otto e novecentesca (colera, vaiolo, tifo, pellagra, tubercolosi, malaria).
Se nei primi due gruppi di saggi prevale in modo più appariscente un approccio chiuso su se stesso di storia del pensiero e di storia delle istituzioni, con un proprio svolgimento cioè autono-
* Storia d'Italia, Annali 7, Malattia e medicina, Torino 1984.
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mo da fattori sociali, anche il terzo gruppo, che più direttamente intende affrontare il nesso malattia-società, più che costituire un esempio di storia sociale della medicina si colloca - come spesso avviene 1 - nell'ambito di una storia della medicina sociale (in quanto ricostruisce la politica e gli interventi relativi alla salute pubblica nel loro sviluppo post-industriale). L'enfasi è posta infatti sull'attività di alcuni esponenti della categoria medica che avviano il discorso epidemiologico, sui ritardi e le difficoltà con cui l'intervento istituzionale sulle condizioni igienico-sanitarie si afferma - tra diffidenza popolare e interessi di potere - in un contesto sociale che nei processi di riorganizzazione sanitaria gioca sempre solo un ruolo di resistenza. Alla funzione attiva di catalizzatori di assistenza e di cura svolta da malati e pazienti, al concorso dei diversi gruppi coinvolti nel sistema terapeutico nel suo complesso (medici comuni, amministratori, figure varie di guaritori, personale para-medico) nel definire i processi di medicaliz-zazione e le forme assistenziali, in queste ricerche, ma prevalentemente in tutto il volume, viene dato invece scarsissimo rilievo.
Sviluppo scientifico e medicalizzazione, e, acquisizione più recente, potere del medico e controllo sociale, sono dunque le questioni e le aree di indagine ormai irrigidite che caratterizzano gran parte degli studi di storia della medicina 2 e che ritroviamo anche in questo volume. Ciò che vorrei discutere non è però la limitatezza o la prospettiva intrinsecamente distorta di questi temi. Sebbene la definizione di nuovi oggetti di ricerca sia stata la principale preoccupazione delle numerose rassegne critiche apparse negli ultimi dieci anni 3, l'appello ad una storia sociale della medicina non sembra risolversi in un ampliamento tematico: non a caso, anche se spesso gli interessi di questo ambito di studi appaiono oggi più vasti, i risultati rimangono insoddisfacenti e le dichiarazioni di intenti ancora si susseguono.
Gli studi recenti non scuotono infatti il tradizionale impianto esplicativo-causale. Anche quando vengono presi in considerazione elementi sociali, questi sono visti rivestire un peso secondario e residuale nei mutamenti che investono diversi aspetti dell'organizzazione sanitaria, intervenendo a definire i modi e i tempi (o meglio i ritardi e le inefficienze) con cui i progressi scientifici si traducono in stabili forme sociali, più che le condizioni che spiegano la stessa produzione di nuove idee. Un approccio di storia della scienza di valenza positivista rimane cioè l'impostazione interpretativa di fondo di una storia della medicina rinnovata solo nei suoi titoli.
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Ed è proprio su questi problemi di approccio che vorrei soffermarmi prendendo spunto da questa raccolta di saggi, per discutere, più che le singole ricerche, le opzioni interpretative e metodologiche utilizzate nel volume e Fuso malinteso di categorie sociali che pesa più in generale su tale ambito di studi.
2. Una delle matrici interpretative prevalenti nel volume è, come si è accennato, il riferimento all'evoluzione scientifica della medicina. Tale sviluppo è ricostruito però, con più evidenza nei primi saggi, come svolgimento sostanzialmente indipendente di un sistema di idee isolato dal contesto intellettuale e sociale. I collegamenti talvolta stabiliti tra sviluppo scientifico e vicende politiche o generici processi di «laicizzazione» e «umanizzazione» della società (Cosmacini, Brambilla, De Peri), rimangono infatti meccanici e non costruiscono comunque un tentativo sistematico di esaminare le interazioni tra i diversi ambiti di elaborazione intellettuale. Un'impostazione che nel caso inglese è stata invece sviluppata con risultati anche prestigiosi, partendo da un ripensamento del rapporto scienza-società 4. Questi studi si discostano infatti dalla consueta lettura «interna» dei processi di innovazione scientifica, intesa come teleologia necessaria, rivelazione progressiva e, guardando all'attività della comunità scientifica e intellettuale nel suo complesso, ricercano le spinte ideologiche che portano ad un mutamento dei generali paradigmi di pensiero e rendono quindi possibile l'innovazione. Pur privilegiando le matrici intellettuali che non quelle sociali della dinamica storica 5, tale impianto analitico permette una lettura del cambiamento in termini di processo più che di lineare evoluzione evitando così quella ricostruzione in chiave progressiva del mutamento scientifico-istituzionale che spesso prevale invece negli Annali, e che legittima talvolta gli autori a esprimere netti giudizi di valore tra le diverse situazioni storiche considerate.
Nell'articolo di E. Brambilla, ad esempio, la storia della medicina nel Settecento è ripercorsa come sviluppo di atteggiamenti razionali che, distinguendo tra malattia e peccato, squalificano la medicina popolare e sciolgono il giogo teologico che pesa sull'interpretazione e sul trattamento della malattia. Secondo l'autrice, tale sviluppo non sarebbe che uno degli aspetti del più vasto processo di secolarizzazione e «liberalizzazione dei costumi» che, con l'Illuminismo, porta a dissoluzione il controllo prevalentemente religioso sulla società, che caratterizzava l'Ancien Régime come «età dell'integrale intolleranza per la diversità e l'eterodossia» (p. 118). All'a-
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nalisi e alla comprensione del sistema sociale sei-settecentesco si sostituisce dunque una lettura in chiave di oppressione/liberazione, oscurantismo/razionalismo del mutamento storico: le fosche immagini della situazione dei pazzi, dei luetici, della «segregazione delle vergini» nel periodo pre-illuminista, che incontriamo in questo e in altri articoli, non si fondano su ricostruzioni specifiche ma sembrano derivare da una riduzione a stereotipo delle rappresentazioni foucaultiane dell'epoca deH’internamento. L’opera di Foucault sembra cioè essere utilizzata, come spesso è avvenuto negli ultimi dieci anni, per i suoi aspetti scenografici, in studi che pure ne criticano l’ipotesi cronologica di una continuità tra «età classicia» ed epoche successive, e non ne colgono la proposta metodologica. Immagini foucaultiane possono così essere assunte a stigma dell'intero passato pre-illuminista o, al contrario, sostenere una visione idealizzata della società di Ancien Régime (ad esempio Gattei), la cui benevolenza verso gli irregolari sarebbe stata rovesciata in intolleranza e segregazione dalla svolta repressiva del tardo Settecento, segnata in questo caso dal sorgere delle polizie urbane e dal confinamento della prostituzione. Anche questa è una forzatura tipica: l'effetto Foucault ha prodotto solo marginalmente un interesse per l'evoluzione delle forme del controllo sociale e, più spesso, studi che spostano avanti e indietro la comparsa (o il superamento) degli stessi sistemi repressivi di controllo. In entrambi i casi viene stravolto proprio quello che è il messaggio più passibile di sviluppo dell'opera foucaultiana, la proposta cioè di leggere le trasformazioni del pensiero e delle strutture mediche in rapporto alle variazioni di forme e obiettivi del controllo sociale 6. Per quanto la rigidità di questo nesso sia criticabile, tale orientamento apre tuttavia la strada a valutazioni più complesse dei legami tra mutamento scientifico e istituzionale e mutamento dei rapporti sociali.
3. Il problema è dunque quello di un approccio allo studio delle grandi trasformazioni avvenute nella teoria e pratica medica, nel rapporto malato-guaritore, nelle strutture terapeutiche, che ricerchi le radici sociali di tali rinnovamenti. Ci si può chiedere, ad esempio, quanto l'azione dei movimenti di riforma e dei singoli innovatori che investe la disciplina medica e l'assetto ospedaliero, intervenga effettivamente su un terreno sociale inerte o più spesso refrattario al cambiamento. Quanto cioè l'attività della ristretta élite che vediamo apparire come protagonista diretta dell'innovazione, sia isolata o non costituisca piuttosto l'espressione ideologica di spinte ed esigenze che provengono da un ambito più vasto.
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Prendiamo ad esempio l’evoluzione delle strutture ospedaliere. Nel suo articolo, Scotti ne ripercorre le trasformazioni, note nelle loro linee generali, da una funzione caritativa e di custodia a una terapeutica, dal controllo privato a quello statale, ricostruendo l’impegno di uomini politici, medici, amministratori, che realizzano la riforma dell’assistenza nei vari stati italiani. La stessa transizione è stata recentemente ricostruita con maggiore attenzione ai suoi motori sociali da C. Jones 7 che, nel suo libro su Montpellier, non si è limitato a descrivere la fase finale - potremmo dire della istituzionalizzazione - di tale processo di rinnovamento, ma ha condotto un’indagine di lungo periodo sul variare degli atteggiamenti dei diversi gruppi sociali verso carità e beneficenza. Esaminando in particolare le disposizioni della carità privata a favore delle opere pie, Jones ha riscontrato un radicale spostamento di consensi a sostegno di istituti e iniziative di cura medica, dell’aiuto domiciliare ai poveri, e di altre forme «moderne» di assistenza, avvenuto già tra 1740 e 1770. Si tratta di un risultato importante poiché vediamo anticipati in queste disposizioni gli stessi temi di critica dell’assetto assistenziale che di solito attribuiamo alla riflessione illuminata di Tenon e di un’élite di pensatori. In questa prospettiva, più che precursore isolato, il riformatore appare come interprete e formalizzatore di una pratica sociale di mutamento già in atto.
Il peso di specifiche forze sociali «esterne» alla gestione diretta delle istituzioni, nel ridefinire la funzione degli ospedali e le forme di cura medica, non viene indagato nemmeno nei successivi saggi degli Annali che seguono l’evoluzione del modello ospedaliero nell’Ottocento e nel periodo fascista (Frascani, Preti). In generale, il riferimento alla società si esaurisce infatti nel richiamo alle istanze di una generica «borghesia» che si riflettono nello sviluppo istituzionale. L’articolo di Frascani inoltre, è il solo che, riprendendo il modello già proposto da C. E. Rosenberg per lo studio dell’istituzione ospedaliera 8, pone l’accento sul ruolo delle forze «interne» all’ospedale: i pazienti e lo staff, oltre che i medici. Il comportamento dei malati e del personale para-medico è inteso però dall’autore esclusivamente come forza di resistenza che tende a riprodurre, attraverso i modi di fruizione dell’ospedale e il servizio svolto al suo interno, le caratteristiche e il funzionamento tradizionali dell’istituzione. Anche nei saggi che gli Annali dedicano ai fenomeni epidemici, permane l’interpretazione di queste forme di rifiuto dal basso come semplice elemento di ritardo e difficoltà nella introduzione dei nuovi modi terapeutici.
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In un ottica più complessa, gli atteggiamenti verso la malattia e l'intervento sanitario sono stati analizzati, di recente, come «risposte» che condizionano le proposte mediche e istituzionali, che orientano quindi il processo di medicalizzazione, più che ostacolarlo tout-court. Come O. Faure ha recentemente fatto osservare, prendendo spunto dallo studio che sta conducendo sul colera nel lionese nel XIX secolo, le reazioni dei fruitori alle forme di cura sono reazioni differenziate, che non si oppongono comunque all'innovazione. I malati manifestano piuttosto delle opzioni su cui si modella il rapporto medico-paziente. L'origine dello squilibrio a favore della distribuzione di medicinali e a scapito di altri indirizzi terapeutici che ha caratterizzato il nostro processo di medicalizzazione ad esempio, è qui individuata nella continuità con i sistemi di cura tradizionali, fondati sulla prescrizione di rimedi, su cui il medico avrebbe costruito il suo nuovo status professionale. Proprio attraverso vaste e gratuite distribuzioni di farmaci, la classe medica si sarebbe conquistata un ruolo chiave e un riconoscimento rispetto alla figura rivale del farmacista, durante le epidemie del XIX secolo 9.
Ricerche recenti cercano dunque di superare la tradizionale passività che la storia della medicina ha assegnato al malato: i processi di innovazione medico-sanitaria sono indagati anche come risultato di un adattamento alle «richieste di cura» espresse dai fruitori, nell'interazione che si stabilisce tra medico, istituzioni e malato 10.
4. Il processo di medicalizzazione dovrebbe dunque essere analizzato come storia del ricorso più frequente al medico, delle strategie cioè messe in atto per prevalere su altre figure di guaritori, e dello spostamento di consensi su un solo tipo di medicina.
Gli Annali propongono nel complesso una distinzione rigida tra medicina accademica e «medicina popolare», anche per un periodo in cui la prima poteva vantare scarsa superiorità in termini di capacità di guarire. Rispetto a questa visione semplificata, altre ricerche delineano un quadro più convincente, che vede molto più intrecciati i sistemi di cura tra cui il malato poteva scegliere. Se utilizziamo come indicatore il comportamento dei malati infatti, il ricorso a differenti forme di cura risulta piuttosto parallelo e molteplice che alternativo 11. Per lungo tempo inoltre, sembra non sia possibile parlare di una reale diversità tra le terapie e i rimedi proposti, quanto di una forte competizione a livello individuale, interna anche alla qualifica medica,
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tra diverse ricette di guarigione 12. Le stesse basi epistemologiche tra medicina accademica ed empirica non sarebbero sempre contrastanti13.
Una storia della medicina che tenesse conto della prospettiva del paziente, dovrebbe accogliere e sviluppare queste osservazioni, e ricostruire il processo di medicalizzazione come evoluzione delle scelte del malato rispetto alle possibilità terapeutiche che si trovava di fronte 14. Nel volume invece, la costruzione dello status professionale del medico è delineata come conseguenza meccanica del consolidamento scientifico della medicina (che ne aumenta l'efficacia pratica), oltre che della crociata contro gli empirici (Betri). Sfugge a tale ricostruzione il fatto che gli aspetti scientifici, in particolare la saldatura rispetto alla precedente frammentazione in scuole, di cui parla Betri, non sono che un elemento di un processo più complesso che porta i medici ad identificarsi in una professione e in una categoria, oltre che in una dottrina. Qui infatti non si mette sufficientemente in risalto la disparità di status e di identità sociali che divide per lungo tempo i medici: per molti il possesso del titolo non è che un segno di distinzione, mentre l’esercizio professionale rimane per la gran parte di essi, soprattutto al di fuori dell’ambiente cittadino, un elemento marginale rispetto ad altre attività 15, (un dato questo di grande rilievo per spiegare tra l’altro la percezione che i malati potevano avere dei medici e il loro ricorso ad essi). Il medico a cui fanno riferimento i saggi degli Annali è invece soprattutto il medico urbano e più professionalizzato, in particolare l’accademico con una forte personalità scientifica. Manca inoltre ogni interesse per le strategie sociali che, insieme al conseguimento di una maggiore certezza pratica e scientifica, sono protagoniste della costituzione del corpo medico. Se è vero che «besoin de san té et prestige social vont de pair» 16 infatti, il medico aumenta il proprio credito professionale anche attraverso la conquista di uno status sociale più elevato. Gli sforzi di costruzione di una immagine sociale che Faure delinea per i medici lionesi dell’Ottocento 17, lasciano trasparire vicende non molto dissimili dalla storia di Tertius Lydgate che George Eliot racconta in Middlemarch 18. Le adesioni e le cariche politiche, l’integrazione negli spazi sociali delle élites, le alleanze matrimoniali, la costruzione di una figura morale, sono alcuni degli elementi che tratteggiano un’ascesa che è sociale prima che professionale. Il romanzo restituisce certo con ben maggiore complessità e brillantezza delle faticose ricostruzioni dello storico le dinamiche
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profonde del cambiamento. Tuttavia, una maggiore attenzione alle identità sociali dei medici, alla diversa appartenenza di status e familiare, al rapporto con la professione, ai comportamenti extra-professionali, può permettere di individuare le spinte sociali che favoriscono il processo di professionalizzazione, i gruppi che ne sono protagonisti, e probabilmente la stessa adesione a diverse ideologie scientifiche.
La storia della medicina in conclusione, non sembra ancora avere sviluppato un solido orientamento di ricerca che superi i limiti tradizionali di questo ambito di studi. Di recente alcuni autori hanno proposto di modificare la stessa formulazione del-loggetto di indagine, troppo compromesso con una storia condotta dal punto di vista dei medici e del progresso scientifico. M. Garden ha suggerito di parlare, invece che di Storia della medicina, di «Histoire de la Santé», Poster e Anderson di «Medicai System» 19. In entrambi i casi si insiste sulla necessità di considerare gli atteggiamenti verso la conservazione della salute nel loro complesso, non solo quindi gli aspetti clinici e istituzionali ma l'insieme delle pratiche attraverso cui le società affrontano il problema della malattia. Sono queste istanze importanti ma che ancora individuano in un ampliamento del campo di interessi la possibilità di un nuovo sviluppo della storia della medicina. A monte di ogni scelta tematica, sembra imporsi piuttosto, in tale area di studi, l'esigenza di ridefinire le rilevanze adottate, che finora hanno condotto ad assegnare un ruolo sempre accessorio e non determinante ai fattori sociali e alla stessa artificiosa distinzione tra storia interna ed esterna della medicina.
Sandra Cavallo
NOTE AL TESTO
1 La distinzione è di J. Woodward e D. Richards, Towards a Social History of Medicine in Id. (a cura di), Health Care and Popular Medicine in Nineteenth Century England. Essays in thè Social History of Medicine, London 1977, p. 15.
2 L. J. Jordanova, The Social Sciences and History of Science and Medicine, in P. Corsi e P. Weindling (a cura di), Information Sources in thè History of Science and Medicine, London 1983.
3 Si vedano gli articoli di G. N. Grob, The Social History of Medicine and Di-sease in America: Problems and Possibilities e di P. Branca, Towards a Social History of Medicine in P. Branca (a cura di), The Medicine Show, Patients, Physicians and thè Perplexities of thè Health Revolution in Modem Society, New York 1977, di J. Woodward, op. cit., di R. Porter, The Patient’s View, in «Theory and Society», n. 14, 1985, e numerosi altri.
4 Tale revisione si fa in genere risalire al dibattito sul lavoro di R. K. Merton.
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Si veda ad esempio P. Mathias, Science and Society 1600-1900, Cambridge 1972; M. Teich e R. M. Young, Changing Perspectives on thè History of Science, Cambridge 1973; C. Webster, La grande Instaurazione. Scienza e riforma nella rivoluzione puritana, Milano 1980 (ed. inglese 1974).
5 Cfr. C. Webster, Medicine as a Social History, in L. Stevenson (a cura di), A Celebration of Medicai History, Baltimora 1982, p. 110.
6 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano 1963 e Nascita della clinica, Torino 1969 (ed. francese 1963).
7 C. Jones, Charity and bienfaisance. The treatment of thè poor in thè Montpellier region 1740-1815, Cambridge 1982.
8 C.E. Rosenberg, And Heal thè Sick: Hospital and Patient in 19th Century America, in P. Branca, op. cit..
9 O. Faure, De la peur aux soins: les attitudes, face aux maladies épidémiques dans la région lyonnaise au XlXe siècle, in «Bulletin du centre d'Histoire Economi-que et Sociale de la région lyonnaise», n. 1-2, 1984.
10 Si veda anche O. Faure, Genèse de l’Hópital moderne. Les Hospices civils de Lyon de 1802 à 1845, Lyon 1982.
11 O. Faure, De la peur cit.; G. Levi, L’eredità immateriale. Carriera di un esorcista nel Piemonte del Seicento, Torino 1985; A. Kleinman, Patients and Healers in thè Context of Culture, Berkeley 1980.
12 J. P. Goubert, L’art de guérir. Médecine savante et médecine populaire dans la France de 1790 in «Annales E.S.C.», n. 32, 1977.
13 G. Levi, op. cit.
14 Importante l'indicazione metodologica che viene dallo studio di Webster e Pelling che ricostruiscono la geografìa medica dell'Inghilterra del Cinquecento senza stabilire gerarchie tra i vari tipi di Practitioners. C. Webster e M. Pelling, Medicai Practitioners, in C. Webster (a cura di), Health, Medicine and Mortality in thè Sixteenth Century, Cambridge 1979.
15 J. Léonard, R. Darquenne, L. Bergeron, Médicins et notables sous le Consu-lat et l’Empire, in «Annales» cit.
16 M. Garden, Avant-Propos, in «Bulletin» cit.
17 O. Faure, Physicians in Lyon during thè Nineteenth Century. An extraordinary social success, in P. Branca, op. cit.
18 G. Eliot, Middlemarch, Milano 1983 (la ed. inglese, 1872).
19 M. Garden, op. cit.; G. M. Foster e B. G. Anderson, Medicai Anthropology, New York 1978.
II
Recensendo il volume degli Annali Einaudi dedicato a «Malattia e medicina» Sandra Cavallo avverte di non voler entrare nel merito dei singoli interventi ma di ripromettersi piuttosto di individuare gli aspetti metodologici ed interpretativi che, in modo forse non consapevole, ne condizionano gli esiti. Credo che la ricerca di un comun denominatore riferibile a competenze ed approcci così eterogenei finisca per restituirci un'immagine alquanto impoverita dell'opera che, se anche si presentasse come
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«una giustapposizione tra articoli ed interessi diversi», andrebbe pure valutata in base agli apporti che essi conferiscono al quadro di conoscenze finora acquisito sulla «questione sanitaria» nell’Italia con temporanea. È del resto difficile ricondurre allo schema della «storia della medicina rinnovata solo nei suoi titoli» alcuni saggi che da distinte e distanti angolazioni delineano la dinamica del trend demografico che fa da sfondo al processo di medicaliz-zazione (Sori) o suggeriscono letture esplicitamente alternative ad un’interpretazione di questo processo, fondata sulla lineare affermazione della medicina ufficiale (Sorcinelli, Lonni).
Le annotazioni critiche che la Cavallo rivolge al lavoro non si riducono però alla contestazione di un indirizzo di ricerca assunto come «dominante» nell’ambito di un’area di studi ormai vasta, ma individuano piuttosto il piano di confronto per una discussione sulla sua validità, nell’analisi dei modelli teorici e dei parametri interpretativi che le fanno da esplicito o implicito referente. Al giudizio sostanzialmente negativo sui risultati raggiunti dagli autori di «Malattia e medicina» si accompagna così la suggestiva e provocatoria proposta di un modello interpretativo dei processi di medicalizzazione alternativo a quello individuato nel volume, un modello che merita di essere analizzato e discusso.
Proviamo a schematizzarlo brevemente. In ogni epoca storica, vi si osserva, le forze ed i mezzi disponibili per tutelare e difendere la salute si organizzano secondo assetti e strategie che non corrispondono a quelle descritteci in molti dei saggi del volume. In particolare i malati, come «i diversi gruppi coinvolti nel sistema terapeutico», svolgono nel processo di medicalizzazione una funzione attiva che sembra passare inosservata per gli autori di «Malattia e medicina» concordi nel rappresentare le forze esterne alle istituzioni sanitarie in atteggiamenti di resistenza o di passiva accettazione delle iniziative rinnovatrici della medicina ufficiale.
Perché dunque concentrare l’attenzione sulla comunità medica, interpretandola attraverso le vicende dei suoi esponenti più prestigiosi, se per lungo tempo il paziente è arbitro in una gara in cui si confondono sistemi terapeutici a ben vedere poco differenziabili sotto il profilo dell’efficacia e della legittimità epistemologica? Rivalutando la centralità e l’autonomia del paziente nel processo di medicalizzazione potremmo individuare il tratto caratterizzante di questo processo in un equilibrio tra gruppi e figure diverse del sistema terapeutico che si conserva sostanzialmente inalterato nella transizione alle società complesse.
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Con un mutamento di prospettiva già effettuato in recenti studi sui sistemi di assistenza delle società di Ancien Régime, Sandra Cavallo tende a sdrammatizzare la periodizzazione della storia della medicina, concepita, piuttosto che come «teleologia necessaria» o come «rilevazione progressiva», come analisi di successivi «aggiustamenti» che la corporazione medica introduce nella prassi terapeutica per adattarsi alle sollecitazioni di suggestioni ideologiche e di esigenze esterne all'ambiente medico scientifico.
Non si può negare che anche in altri studi di storia della salute siano state recepite alcune delle impostazioni di una storiografia medica tradizionalmente impegnata nella encomiastica rappresentazione di fatti e figure particolarmente significativi. Ed è pur vero che questo modulo, applicato a stagioni storiche più lontane, si rivela ancor meno consistente e fruttifero, perché incapace di restituirci la complessa ed articolata realtà delle forme di relazione che congiungono il malato al curatore, sia medico che pratico, nelle società tradizionali. Riconosciuto ciò c'è però da chiedersi se lo stereotipo della storia della salute, come «storia del ricorso più frequente al medico», ed analisi «delle strategie messe in atto per prevalere su altre figure di guaritori», costituisca un approccio adeguato per interpretare la particolare forma che questi fenomeni assumono in età con temporanea, e se la più volte sottolineata centralità della figura del paziente possa essere assunto come un paradigma interpretativo valido anche nello studio della medicalizzazione ottocentesca.
Si può in sostanza affermare che il passaggio dalla bassa produttività dei sistemi sanitari delle società tradizionali alla «produzione di cura e salute» della medicina con temporanea vada interpretata mediante un approccio che assume la relazione medico-paziente come paritetica ed immutabile nel tempo, e tende a ridimensionare il ruolo del sapere medico-scientifico nel processo di medicalizzazione?
Credo che la risposta debba essere negativa. Nel condividere infatti il rifiuto di una prospettiva euristica meramente interna alla storia del sapere scientifico va anche respinta la tentazione di confondere la vicenda di questo sapere - il suo modo di costruirsi e dipanarsi - con quella di esperienze terapeutiche culturalmente diverse. L'affermazione per cui le basi epistemologiche della medicina accademica e di quella popolare non risulterebbero incompatibili perde di significato e risulta incomprensibile se viene riferita ad un contesto sociale ed ideologico diverso da
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Paolo Frascani
quello della Londra elisabettiana o del Piemonte seicentesco, ed usata per interpretare anche il periodo che prendono in esame i saggi di «Malattia e medicina». Nel l’accennare ai cambiamenti che modificano gli assetti delle istituzioni di assistenza tra il XVIII ed il XIX secolo si ha inoltre l'impressione che non venga operata una netta distinzione tra il livello dell’intervento istituzionale e riformatore, solo in parte riconducibile all’azione di singole personalità, perché sollecitato da istanze che emergono dalla società civile, e quello dell’elaborazione dei processi di innovazione scientifica.
Più che ad interferenze maturate nell’ambito di un generico contesto ideologico la creazione e la diffusione di innovazioni si inseriscono in un vero e proprio «modo di produzione di conoscenze» 1 controllato dalla comunità medico-scientifica e condizionato nei suoi risultati dalla possibilità di sviluppare la competitività ed il confronto tra diverse esperienze 2. È appunto al livello di questo «sistema», che secondo i sociologi della medicina, si verificano i «rinnovamenti» strategicamente centrali ai fini del processo di medicalizzazione, perché capaci di introdurre innovazioni nella tutela della salute e di modificare gli equilibri che regolano i rapporti di forza tra le varie componenti che operano nel sistema terapeutico.
Sotto questo profilo la storia della medicina ottocentesca assume un emblematico risalto non solo perché, come è stato osservato, «per molti anni le uniche organizzazioni a condurre sistematicamente e su larga scala la ricerca scientifica furono le istituzioni ospedaliere» 3, ma perché in essa, come afferma Rudolf Ruschemeyr «gli sviluppi delle conoscenze si intersecano con diverse e potenzialmente rilevanti trasformazioni socio-culturali» 4.
La stessa critica sociologica attenta a sottolineare le degenerazioni del sistema di potere costruito dalle istituzioni sanitarie nelle società complesse, e quindi meno sospettabile di compiacenze verso una «storia della scienza di valenza positivistica», riconosce la rilevanza del processo di innovazione scientifica nell’ambito della medicalizzazione delle società con temporanee. «Non esistono evidenze storiografiche - ha osservato Franca On-garo Basaglia - di un metodo scientifico capace di arrivare fino alle ultime radici di un processo morboso in tutti i suoi aspetti epidemiologici, clinici, patologici ed etiologici, evitando al tempo stesso di pagare il pedaggio della medicalizzazione, né si è in grado di dire oggi come il progresso scientifico avrebbe dovuto
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svolgersi in maniera diversa. Questo resta il punto di forza dell'attuale scientismo biomedico che, sinché non sia battuto sul suo stesso terreno, seguirà a sostenere che i costi pagati per i benefici ottenuti giustificano l'approccio fin qui seguito» 5.
Certo la diffusione del metodo clinico è segnata da scarti di intensità e di efficacia che la Cavallo giustamente sottolinea, ma si accompagna anche, come dicevamo, all'istaurarsi di nuove forme di relazione tra il medico ed il paziente. Sotto questo punto di vista costituisce una soluzione di continuità rispetto al modo di diagnosticare e di curare della medicina settecentesca, un mutamento di costumi e comportamenti che risulta sottolineato in «Malattia e medicina» (Betri).
All'inizio dell'800 il professionista assurge a «membro dominante della relazione medico-paziente» 6, e questo fatto, come osserva lan Waddington, «si rivela di estrema importanza per la comprensione dello sviluppo della moderna medicina» 7, perché trova riscontro in un cambiamento dei modi di descrivere il sistema di relazioni che connette in una visione unitaria, la malattia al malato ed al medico. Il passaggio dalla «bed-side medicine» alla «hospital medicine», si accompagna, per usare gli schemi interpretativi della sociologia anglosassone, alla diffusione di una «cosmologia» che ridimensiona sostanzialmente il ruolo dell'individuo malato, considerato, fino ad allora dal medico nella sua globalità fisica e psicologica. Nell’universo della medicina settecentesca la vita, la malattia e la morte sono rappresentate, secondo N.D. Jewson, come eventi misteriosi ed enigmatici attribuibili ad «alcuni agenti imprescrutabili, soggetti ai loro peculiari principi vitali. Con la conseguenza che l'arte sanitaria si trasforma nello studio del funzionamento di queste forze vitali» 8.
Con 1'affermarsi dell'«hospital medicine», il centro della cosmologia medica si focalizza sul concetto di malattia ed i pazienti vengono in genere ridotti al rango di entità «capaci di rendere manifeste le forme morbose», mentre svanisce l'interesse per la loro umana personalità sostituito «dallo studio di specifiche lesioni organiche o malformazioni» 9. Si tratta di una rottura profonda nel modo di concepire i rapporti di forza tra i gruppi che compongono il sistema terapeutico, a lungo caratterizzati dall'autonoma ed attiva partecipazione del paziente all'organizzazione della tutela della salute; una rottura peraltro non consumata nell'immaginario delle proiezioni ideologiche di una categoria professionale in cerca di affermazione sociale ma matura-
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ta, sui tempi lunghi, attraverso la graduale riconsiderazione di atteggiamenti e credenze saldamente radicate nella cultura popolare.
«L’individuazione della collocazione della malattia - osserva ancora Franca Ongaro Basaglia - che sarà oggetto di ricerca della clinica, dalla seconda metà del XVIII secolo alla metà del XIX secolo, è ciò che libera l’uomo da un destino ineluttabile, accettato «come naturale», ponendolo in condizione di lottare contro una malattia che non viene più identificata con la morte» 10. Ed è appunto a partire dalla constatazione di questa progressiva assunzione di libertà da antiche paure e condizionamenti, per opera della medicina ufficiale che va analizzato il ruolo del paziente nel processo di medicalizzazione e la sua capacità di scegliere tra differenti opzioni terapeutiche. La sua accettazione dei metodi della medicina ufficiale non sembra infatti da far risalire alla «distribuzione di medicinali e a scapito di altri indirizzi terapeutici», ma risponde invece a computi di efficacia più complessi. L’enfasi posta sulla continuità di comportamenti ed atteggiamenti del paziente che renderebbe il funzionamento dei sistemi di tutela della salute in età contemporanea poco dissimile da quelli della Londra cinquecentesca o della Francia settecentesca, riesce a sottolineare la persistenza di atteggiamenti che sopravvivono fino a tempi a noi vicini, ma non interpreta le cause del successo dei sistemi sanitari delle società complesse.
Un aspetto fondamentale di quest’affermazione è costituito dal processo di ospedalizzazione. La trasformazione del vecchio deposito di mendicità nella «fabbrica della salute» è di solito schematizzata con rapidi passaggi da una letteratura sociologica ormai vasta; in realtà poca attenzione è stata finora accordata alla ricca gamma di situazioni che è offerta allo storico sociale dalla medicalizzazione dello spazio ospedaliero.
I risultati di recenti ricerche che hanno focalizzato alcuni case studies della Francia ottocentesca 11 o degli Stati Uniti, ravvisano nel sempre più frequente ricorso alle cure ospedaliere, tra ’800 e ’900, la risposta che un sistema sociale dà ai problemi dell’assistenza e della divisione del lavoro tra i vari protagonisti del sistema terapeutico, oltre che la libera scelta di individui affrancati da antiche paure nei confronti del ricovero. Nei lavori di C. E. Rosenberg e di Morris Vogel viene formulata l’ipotesi che la rapida ed intensa espansione dell’utenza ospedaliera a partire dalla fine del secolo scorso, vada fatta risalire ai processi di crescita delle aree urbane ed in genere, all’industrializzazione
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delle società economicamente più avanzate 12. Accanto all’attrazione esercitata da un più efficace sistema terapeutico, va considerata anche la sollecitazione a rivedere i meccanismi che regolano l’assistenza sanitaria nell’ambito della tradizionale gestione familiare. Non ci riferiamo alla coazione a cui sono sottoposte le classi pericolose delle città europee, a partire dai primi decenni dell’800, secondo lo schema ben delineato da Michel Foucault, quanto ad un successivo ed ampio consenso che contadini, operai ed artigiani, ma anche travets e borghesi, manifestano nei confronti delle cure ospedaliere, consapevoli di non potersi ormai più garantire adeguate cure a domicilio. È un’ipotesi che attende di essere verificata in relazione ad altri contesti geografici ma che sembra trovare riscontri anche nel nostro paese se è vero che le trasformazioni che intervengono nel mercato del lavoro a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso mettono in crisi i sistemi di assistenza delle società tradizionali, spezzando i vincoli di solidarietà sociale che hanno a lungo consentito la cura nell’ambito della famiglia.
Inquadrato nelle sue reali motivazioni storiche il ricorso sempre più frequente agli interventi della medicina ufficiale esprime dunque l’apprezzamento per i risultati conseguiti dall’arte - si pensi alla chirurgia di fine secolo -, ma si rivela anche come l’esito obbligato di una trasformazione nel modo di organizzare e distribuire, all’interno della società civile oneri e costi dell’assistenza. Anche da questo punto di vista sembra così destinato ad essere sempre meno autonomo ed attivo rispetto a due o tre secoli fa.
Nell’ambito di questa lettura anche altre questioni sollevate da Sandra Cavallo meritano di essere discusse ed approfondite, al di là delle occasioni offerte da «Malattia e medicina». In particolare ritengo che la vicenda professionale della medicina ottocentesca trovi un suo momento di significativo sviluppo proprio all’interno degli spazi e dei contesti istituzionali in cui maturano e si diffondono i processi di innovazione scientifica che incidono sul modo di lavorare del medico, così che l’acquisizione di potere e prestigio da parte del professionista risulta solo in parte interpretabile come affermazione sociale, prima ancora che professionale, giocata all’interno di un modello di società prevalentemente agraria. Basti pensare ai riflessi che la «riorganizzazione produttiva» dell’ospedale ottocentesco determina sull’andamento del mercato del lavoro professionale, già all'inizio di questo secolo, segnato da fenomeni contrapposti di specializzazione e di
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disoccupazione intellettuale. Ma anche a voler evidenziare la particolare qualità della presenza del medico nel tessuto delle società ottocentesche ricordando gli ambigui contorni che la professione assume nella vita quotidiana dei centri più piccoli e periferici, non si può trascurare l'influenza che su questa presenza esercita un sistema di istituzioni pubbliche preordinato alla realizzazione di obbiettivi di politica sanitaria.
Sotto questo profilo le differenze tra il caso italiano e quelli di altre nazioni europee od extraeuropee appaiono significative. Tracciando un quadro comparativo delle politiche seguite da alcuni paesi europei per regolamentare l’esercizio della medicina, Matthew Ramsey ha recentemente osservato: «Sembra che il mercato libero in questo campo non abbia mai avuto serie possibilità di affermazione [...] I medici si affidavano volentieri alla burocrazia di un paese che aveva la più antica tradizione in Europa di commissariati sanitari statali» 13; ed all'inizio di questo secolo si potevano già misurare i vantaggi offerti da questa protezione nell'acquisizione da parte dello Stato del potere di guarire» 14.
L'attenzione accordata alle idologie che legittimano le iniziative di politica sanitaria enfatizza così un aspetto non secondario della medicalizzazione del paese e riesce a far intravedere l'intreccio di relazioni che connette il modo di organizzare la tutela della salute alle esigenze di controllo sociale emergenti in una società che affronta i problemi della prima industrializzazione (Fogliano).
Si tratta certo ancora di spunti che attendono verifiche più precise e che, come rileva Sandra Cavallo, non appaiono «sistematizzati» in un'opera che costituisce, «un punto di partenza anziché di arrivo» nello studio dei nessi tra storia interna e storia esterna della medicina 15; ma che pure richiamano all'esigenza di leggere il processo di medicalizzazione otto-novecentesco alla luce di categorie di analisi e di opzioni interpretative peculiari ad una età di complessa e difficile transizione.
Paolo Frascani
Istituto Universitario Orientale, Napoli
NOTE AL TESTO
1 Si veda, N. D. Jewson, The Disappearance of thè Sick-man from medicai Co-smology, 1770-1870, in «Sociology», 10 (1976), pp. 226-27.
2 Cfr. J. Ben David, Scientific Productivity and Academic Organization in Nine-teenth Century Medicine, in «American sociologica! review», 1960, pp. 828-843.
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3 Ibid., p. 829.
4 R. ROschemeyr, Professionalisierung. Theoretische Probleme fùr die verglei-chende Geschichteforschung, in «Geschichte und Gesellschaft», VI, (1980), n. 3, p. 321.
5 F. Ongaro Basaglia, Salute e malattia, Torino 1982, p. 182.
6 S. W. F. Holloway, Medicai Education in England, 1830-1858: a sociological Analysis, in «History», IL, (1964), pp. 301.
7 I. Waddington, The Role of thè Hospital in thè Development of Modem Medicine: a sociological Analysis, in «Sociology», VII (1973), p. 213.
8 N. D. Jewson, The Disappearence cit., p. 231.
9 Ibid., p. 235.
10 F. Ongaro Basaglia, Salute e malattia cit., p. 179.
11 Cfr. O. Faure, Genèse de Thòpital moderne, Lyon 1982.
12 Cfr. C. E. Rosenberg, And Heal thè Sick: thè Hospital and thè Patient in thè I9th Century America, in «Journal of Social History», 1976-77; M. J. Vogel, Machine Politics and Medicine Care: thè City Hospital at thè Tum of thè Century, in M. J. Vogel, C. E. Rosenberg (eds.) «The Therapeutic Revolution. Essays in thè Social History of American Medicine», Philadelphia, 1979; M. J. Vogel, The Invention of thè Modem Hospital: Boston 1870-1930, Chicago 1980.
13 M. Ramsey, Medicina e politica di monopolio professionale nel XIX secolo, in «Quaderni storici», 1981, n. 48, p. 974.
14 A. Lonni, Medici, ciarlatani e magistrati nellTtalia liberale, in Storia d'Italia, Annali 7, «Malattia e medicina», Torino 1984, p. 839.
15 G. Bignami, La via italiana alla medicina, in «L’indice», I (1984), n. 1, p. 42.