Sentimenti e documenti

Item

Title
Sentimenti e documenti
Creator
Roberto Bizzocchi
Date Issued
1999-04-01
Is Part Of
Studi Storici
volume
40
issue
2
page start
471
page end
486
Publisher
Fondazione Istituto Gramsci
Language
ita
Format
pdf
Relation
Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
Storia della sessualità: la volontà di sapere, Italy, Feltrinelli, 1978
Rights
Studi Storici © 1999 Fondazione Istituto Gramsci
Source
https://web.archive.org/web/20230920131141/https://www.jstor.org/stable/20566961?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjo3LCJzdGFydHMiOnsiSlNUT1JCYXNpYyI6MTUwfX0%3D&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Aa3d3de9a38443275aa1ce03da49d0ec3
Subject
discipline
sexuality
history and historiography
structuralism
women and feminism
extracted text
SENTIMENTI E DOCUMENTI*
Roberto Bizzocchi
1. Comincio con una breve premessa su di un libro non nuovo; perché la recente ristampa, a una dozzina di anni dalla prima edizione, di Sotto lo stesso tetto di Marzio Barbagli1, si può accogliere da una parte come una conferma - anche per le discussioni critiche stesse che ha sollevato - dell’importanza dell’opera, dall’altra come uno stimolo a percorrere più di quanto non si sia fatto finora le nuove piste di ricerca che Barbagli ci ha indicato. Rileggendo il libro si rinnova, specie per la seconda parte, l’impressione di freschezza e di commozione suscitata dalla trattazione appassionata della sfera affettiva; e anche se le discussioni dei modelli evolutivi di Edward Shorter e Lawrence Stone possono apparire oggi un po’ datate, lo sforzo di contestualizzazione e la riflessione sui codici espressivi delle emozioni continuano ad esercitare una grande suggestione verso una ricostruzione storica non dimidiata.
La storiografia italiana sulla vita privata e la famiglia ha per lo più lavorato con intenti diversi o intorno a problemi diversamente configurati; e forse non è neppure un caso che Barbagli non operi sotto l’etichetta accademica dello storico, ma del sociologo. Oggetto principale della produzione storiografica italiana resta la definizione delle strutture familiari e delle dinamiche patrimoniali, in una prospettiva d’indagine fortemente ancorata alla fonte demografica o giuridica, o comunque al documento non di carattere intimo. L’elenco dei libri e articoli di grande valore, recenti o meno, prodotti da noi in questo ambito di studi sarebbe per fortuna troppo lungo perché io possa recitarlo qui2. Invece non si cade forse in errore nel giu-
* A proposito di A.-Ch. Trepp, Sanfte Mdnnlichkeit und selbstandige Weiblichkeit. Frauen und Mdnner im Hamburger Bùrgertum zwischen 1770 und 1840, Gòttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1996; C. Dauphin, P. Lebrun-Pézerat, D. Poublan, Ces bonnes lettres. Une correspondance familiale au XIXC siècle, préface de R. Chartier, Paris, Albin Michel, 1995; G. Houbre, La Discipline de l’amour. Uéducation sentimentale des filles et des gargons à l’àge du romantisme, Paris, Plon, 1997.
1 M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia, secoli XV-XX, Bologna, Il Mulino, 1996.
2 Ma voglio almeno citare i due ultimissimi arrivati: Le ricchezze delle donne. Diritti patrimoniali e poteri familiari in Italia (secoli XIII-XIX), a cura di G. Calvi e I. Chabot,



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dicare che è stato finora meno vivo (certo: con alcune rilevanti eccezioni!) l’interesse per la vera e propria storia dei sentimenti, specie quale viene attestata da fonti come i diari, le memorie, i carteggi privati, e cioè nel modo si più diretto, ma insieme anche più allarmante per lo studioso rispettabile, preoccupato di non incorrere nell’accusa quant’altre mai infamante di aneddoticità. Mi è perciò sembrato che valesse la pena discutere tre nuovi libri stranieri basati su simili fonti, e notevoli non solo per sé, ma anche perché tali da permettere col loro confronto un discorso omogeneo e coerente. Scopo, spero non contraddittorio, del discorso è insistere sull’importanza dei documenti dei sentimenti, e al tempo stesso sull’opportunità di studiarli in una prospettiva generale.
2. Forse in parte per la relativa impopolarità della lingua è passato con poco rilievo, se non addirittura inosservato in Italia, il primo dei tre libri, una recente monografia tedesca di forte impegno propositivo che merita attenzione anche per gli interrogativi di metodo che provoca. Si tratta di un solido e compatto volume di Anne-Charlott Trepp, ricercatrice del Max Planck Institut fùr Geschichte di Gòttingen, che a proposito della borghesia di Amburgo fra 1770 e 1840 ha affrontato di petto i rapporti fra quegli uomini e quelle donne prima e durante i loro matrimoni, affidandosi con grande slancio di adesione ai molti, belli (e in buona parte inediti) scritti privati che essi ed esse hanno lasciato. La mia apertura sul libro di Barbagli non era solo un pur giusto omaggio a un quasi isolato punto di riferimento dei nostri studi, ma la conseguenza del piacere di ritrovare nelle pagine della Trepp lo stesso spessore e la stessa ricchezza di reazioni emotive di fronte alle manifestazioni più personali del vissuto. L’autrice tributa evidentemente una sincera partecipazione al mondo che fa rianimare davanti ai nostri occhi, ed è evidentemente parziale a favore del carattere che le pare saliente in quel mondo: il «Faktor Gefùhl», come lo chiama in un punto (p. 314), cioè il fattore sentimento, che a suo parere era la forza dominante nei rapporti fra i giovani e nelle scelte di fidanzamento (I parte del libro), e poi nella vita quotidiana delle coppie coniugali e delle famiglie (II parte).
Si tratta - e la cosa è decisiva qui - di un sentimento paritario. «Maschilità tenera» e «femminilità indipendente»: la citazione da Friedrich Schlegel che dà il titolo al libro è una perfetta sintesi delle opinioni maturate dalla Trepp a contatto delle sue fonti; perché la sua preoccupazione principale e costante - e invero qua e là (per esempio nel paragrafo sull’educazione e formazione dei bambini, pp. 356-369) martellata con un pizzico
Torino, Rosenberg & Sellier, 1998, e Gestione dei patrimoni e diritti dette donne, a cura di A. Arru, «Quaderni storici», 1998, n. 98.



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di ossessività a schiacciare un discorso che si prometteva più complesso -è demolire la tesi, a suo avviso ancora troppo prevalente nella storiografia femministica, della subordinazione femminile e della divisione sessuata delle sfere fra pubblico e privato, progressivamente netta in parallelo coll’af-fermarsi della religione borghese del lavoro. Un intento revisionistico, e a suo modo polemico, muove dunque la garbata penna della Trepp nella ricostruzione della sua documentata e animata prosopografia sentimentale di tre generazioni della borghesia di Amburgo: un intento che pesa, seppur con diverse conseguenze, in entrambe le parti del libro.
La prima mette in scena ragazze capaci e libere di flirtare con un certo brio (e una anche di progettare baci con la lingua al fidanzato, p. 167), di vivere platoniche passioncelle (ma una anche un grande amore, senza virgolette, pp. 72-78) con giovanotti che non sposeranno, ovvero - ancor meglio - di far valere le loro inclinazioni presso illuminati genitori; e di contro a loro uomini (ma soprattutto uno, l’avvocato Ferdinand Beneke, che è un po’ l’eroe della Trepp, la quale ne ha messo in valore l’inedito e interessantissimo diario intimo), assai ben intenzionati a cercare una compagna per la vita in un matrimonio d’amore, al quale giungere possibilmente vergini per iniziarsi alla completezza erotica in un più consonante connubio con la sposa. In questa I parte il calore delle impressioni dell’autrice e la suggestione delle molte accattivanti citazioni possono creare nel lettore (e forse specialmente in quello italiano poco avvezzo a questa felice combinazione fra scienza storica e sfera sentimentale) una reazione di coinvolgimento, se non proprio di complicità, che lascia un po’ di lato la questione di fondo agitata dalla Trepp.
Molto più avvertibile questa appare nella II parte, dove ritroviamo quei giovani uomini e donne (spesso si tratta precisamente delle stesse persone) alle prese, dopo vari anni, i primi con i loro impegni di imprenditori, avvocati, esponenti politici (la borghesia cittadina ha il governo di Amburgo), le seconde con la cura dei figli e della casa. Ci si mostra che continuano per lo più a filare d’amore e d’accordo, in un clima sereno di viva affettuosità. Ma se qui la Trepp è convincente quando ci parla di domesticità e di tenerezza per i figli, anche - ben inteso - da parte dei padri, il suo discorso si fa più schematicamente argomentativo quando vuol dimostrare che la diversificazione sessuale dei compiti non ha irrigidito i ruoli. A tale scopo si fa carico di alcuni assunti: che la famiglia ristretta borghese non è un reclusorio impermeabile alla sociabilità esterna; che le donne hanno una significativa presenza nella vita pubblica, per esempio con l’attività benefica ed assistenziale; che i mariti di quelle donne concepiscono la loro massima realizzazione esistenziale meno nel successo professionale che negli affetti privati (per esempio p. 220: «weniger in beruflichen Erfolg als in einem be-friedigenden Gefùhlsleben»).



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Si tratta di assunti che conducono la Trepp ad arricchire il suo lavoro con aspetti di grande interesse, come - per dirne almeno uno - la meticolosa ricostruzione degli spazi e degli orari che scandiscono la vita nella casa/uf-ficio borghese di Amburgo, e cosi pure nella residenza di campagna con la quale durante i periodi di villeggiatura gli uomini fanno la spola per stare il più possibile in famiglia. Ma che non mi pare vengano tutti ugualmente dimostrati; e comunque, soprattutto, non sono tali da mettere davvero in crisi un’immagine diversa da quella qui proposta: dico il modello di una famiglia che riveste decisiva importanza come realtà economica e politica, e per ciò stesso non obbedisce a una logica puramente erotica, quale per esempio risulta efficacemente ricostruito a proposito dei grandi armatori e grandi avvocati Amsinck in un saggio di Richard Evans, saggio pubblicato qualche anno prima di questo libro, e al quale la Trepp, nonostante abbia adoperato fra i tanti altri anche alcuni scritti privati degli Amsinck, non ha prestato attenzione3.
Intorno a questo nodo credo convenga un attimo fermarsi: perché proprio la viva e ammirata partecipazione che suscita nel suo aspetto più comunicativo e meno controversistico questo bel libro, e lo stimolo che può offrire ai poco sentimentali storici italiani, saranno tanto più corroborati attraverso una franca critica delle scelte di metodo dell’autrice. La Trepp ha deliberato di ignorare il contesto. Nelle sue 400 fitte pagine non c’è nulla o quasi nulla circa l’impatto del periodo napoleonico sulla vita di Amburgo, circa la ricchezza delle famiglie e delle persone, i rapporti patrimoniali fra i coniugi, i sistemi di trasmissione dei beni, le leggi su matrimonio e famiglia. Ben inteso: ognuno di questi temi viene una o più volte sfiorato o toccato, ma il problema è che non viene mai messo in interazione con il «Faktor Gefùhl». Spero sia chiaro che non avanzo qui un’assurda richiesta di completezza nella riscrittura del mondo, bensì di definizione concreta del preciso e singolo elemento che ci si è proposti di coglierne. Fra l’altro - per inciso - un maggiore sforzo di contestualizzazione avrebbe forse attribuito più vigore a un argomento sul quale la Trepp torna insistentemente nella II parte del libro, per parare un’ovvia obiezione circa l’evidenza della separazione dei ruoli nel pieno Ottocento, e cioè che tale separazione non esisteva 50 anni prima, in epoca di ancora illuministica concezione della pienezza del vivere, ma cominciò a metà secolo con l’avvio dell’industrializzazione (per esempio pp. 224-225): uno spunto intrigante, ma che così quale viene semplicemente asserito, resta come appeso nel vuoto.
3 RJ. Evans, Family and class in thè Hamburg grand bourgeoisie 1815-1914, in D. Black -bourn and RJ. Evans, eds., The German Bourgeoisie. Essays on thè social history of thè German middle class from thè late eighteenth century to thè early twentieth century, London and New York, Routlege, 1991, pp. 115-139.



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Non si può negare che la decontestualizzazione abbia un prezzo, particolarmente alto nel caso di fonti intime e cariche di emotività come queste. Le molte e belle storie di vita vissuta che ci vengono raccontate qui, per lo più con le parole stesse dei loro protagonisti, rischiano infatti, cosi isolate, di riuscire un po’ come quelle che ci confidano gli amici e le innamorate: appassionanti e inaffidabili. Perché: come valutare, fuor d’ogni possibilità di appiglio e riferimento, le parole calde che vengono scritte o dette? E anche, solo: cosa concludere dai silenzi? Pochissimo si trova qui sui conflitti coniugali, e nulla sull’adulterio: dubito che ciò significhi che erano rispettivamente pochissimo o nient’affatto praticati. Ferdinand Beneke sostiene (pp. 80-82) di essere andato a trovare le prostitute di Amburgo solo per parlar loro e redimerle: possiamo credere alla sua sincerità, ma forse non dobbiamo fare altrettanto per la sua rappresentatività di quei teneri maschi borghesi.
E poi, e soprattutto (perché non è tanto il sesso venale o extraconiugale che qui importa): l’uso decontestualizzato di queste fonti intime rischia di far travisare anche ciò di cui esse parlano in abbondanza, ed anzi specialmente la cosa di cui più parlano, o di cui più parlano alla Trepp: la scelta d’amore. Precisamente questo punto, com’è facile intendere, è l’asse portante della ricostruzione offerta e della tesi sostenuta dal libro; ma uno studio della scelta del coniuge che prescinde dalle leggi, dai costumi, dalla demografia e dai patrimoni, per dare ascolto senz’altro alle parole del sentimento, non manca di lasciare qualche dubbio. Non credo che abbia necessariamente ragione Peter Borscheid, uno degli obiettivi polemici della Trepp (p. 44), quando argomenta, di fronte alla constatazione di matrimoni fra persone di pari ricchezza ed estrazione sociale nella Germania ottocentesca, che l’amore romantico «would have had a disturbing effect on thè objective, decision-making process»4; eppure tutto questo rimbalzare di affetti e progetti in un ambiente tanto ristretto quale risulta dalle pagine della Trepp evoca qualche volta impostazioni da lei certo assai lontane, come le leggi della reciprocità di Lévi-Strauss. Il mio riferimento è volutamente un po’ provocatorio. Ma d’altra parte, cosa pensare della scelta di chi sposa la cugina (p. 95), o di chi addirittura la sorella minore della moglie morta (p. 161)? Si possono davvero capire queste scelte in termini puramente sentimentali?
E anche quanto al sentimento per eccellenza, l’amore che pervade il libro: fa si un gran piacere leggere un libro di storia sull’amore, dopo i non pochi che si sono potuti leggere di storia della sessualità; ma questo amore avulso da tutto il resto finisce per convincerci, e perfino per commuover-
4 P. Borscheid, Romantic love or material interest: choosing partners in nineteenth-century Germany, in «Journal of Family History», 11/2, 1986, pp. 157-168.



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ci, meno che se fosse mostrato compromesso con la materialità del mondo. Da studiosa avvertita, la Trepp fa opportuno riferimento (p. 44 e altrove) ai problemi sollevati fin dal 1984 in un’importante raccolta di saggi, Interest and emotion, in cui diversi storici coordinati da Hans Medick e David Sabean mostravano nei fatti la necessità di cogliere unitariamente i due aspetti della vita declinati nel titolo5. Ma tale riferimento resta poi allo stadio di una doverosa citazione, e della mera argomentazione che l’esistenza di ragioni e di un ambito di scelta non provano l’assenza di sentimento. E la consueta tesi di chi si ribella a una temuta svalutazione dell’elemento emotivo, o anche, più precisamente, come Addine Daumard in un articolo sul matrimonio borghese dell’Ottocento, rivendica contro un’imponente tradizione anche letteraria, la compatibilità fra amore e matrimonio: «Con-trairement à une idée re^ue, les mariages de convenance pouvaient étre des mariages d’inclination»6. Giustissimo: ma se sulla convenienza non si spende una parola, l’inclinazione resta priva di ogni concreta tematizzazione storica, e l’amore fluttua nell’etere.
Sul punto credo convenga insistere: non per fare le bucce al prossimo, che non ne ha bisogno, ma perché posizioni come quella della Trepp alimentano un dibattito avvincente per due versi, di metodo e di merito. Sul metodo s’è appena detto; ma mi pare che l’uso avulso di documenti intimi favorisca una non del tutto esplicitata ma non perciò meno forte conseguenza di merito, e cioè la tendenziale attribuzione di un carattere liberatorio al processo - innegabile - di sentimentalizzazione della vita matrimoniale e familiare fra Sette e Ottocento. Non voglio caricare la Trepp di una responsabilità che non si è proposta di assumere, salvo che con un cenno contro la teoria della civilizzazione di Norbert Elias; ma un’impostazione come la sua si affilia comunque all’interpretazione storiografica liberale classica della modernità come progresso di liberazione: un progresso, appunto, cui ben contribuirebbe per la sua parte nella vita privata, di contro ai vecchi valori sovrapersonali e addirittura ultragenerazionali dell’età dei fedecommessi, l’affermazione del diritto individuale a seguire un’inclinazione, la quale appare tanto più dirompente in quanto spogliata, per difetto di analisi, da ogni contestualizzazione nella convenienza.
5 H. Medick and D. Sabean, eds., Interest and emotion. Essays on thè study of family and kinship, Cambridge-Paris, Cambridge University Press-Editions de la Maison des Sciences de l’Homme, 1984. Con Medick la stessa Trepp ha ora curato un volume di saggi di aggiornamento sulla storia di gender in rapporto alla storia generale: Geschlech-tergeschichte und Allgemeine Geschichte. Herausforderungen und Perspektiven, Gòttingen, Wallstein, 1998.
6 A. Daumard, Affaire, amour, affection: le mariage dans la société bourgeoise au XIX siècle, in «Romantisme. Revue du Dix-neuvième siècle», 68, 1990, pp. 33-47, cit. da p. 45.



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L’importanza di questi temi per le teorie complessive della modernizzazione è fuor di dubbio; non perciò è scontata l’equazione di sentimenti con libertà, di affettività e di parità sessuale con progresso dell’ideologia liberale. Tutto il contrario sostiene, per citare solo un lavoro recente e importante, il libro di Isabel Hull dedicato proprio alla Germania fra 1700 e 1815: un libro che andrà discusso a parte anche perché costruito su una documentazione di tipo diverso da quella di cui si tratta nel presente intervento, ma che va qui almeno chiamato in causa per la sua netta messa in rapporto di liberalismo e subordinazione femminile; e per il suo rifiuto di identificare nel percorso verso la modernità la conquista del paradiso della libertà individuale: «The axis from repression to free choice is whol-ly inadequate to comprehend that world»7.
Su questi temi - in ordine all’uso di fonti intime - tornerò nell’ultima parte del mio intervento. Prima però tratterò ancora, con la discussione del secondo libro in esame, alcune questioni riguardanti la tipologia di quelle fonti: un problema che la Trepp ha toccato nella sua introduzione (pp. 3238), sostanzialmente anche se non esclusivamente fondandosi sulla bibliografia in tedesco.
3. La parte del leone in materia la fanno per la verità ormai da molti anni i francesi, instancabili produttori di analisi epistemologicamente raffinatissime sui generi autobiografico ed epistolare, tanto che il maestro degli studi sul primo, Philippe Lejeune, nell’introdurre gli atti di un nuovo colloquio di studi su L" autobiographie en procès, si è domandato se tanto interesse non sia una specialità nazionale: «est-ce la faute à Rousseau?»8. Proprio intorno a Rousseau sono in effetti costruiti gli atti di un altro notevole convegno, organizzato da Jacques Domenech, su Autobiographie et fiction romanesque, che comprendono sezioni anche su scrittori coevi e successivi, non solo francesi, e che hanno ovviamente un carattere più specificamente letterario9; mentre quelli introdotti da Lejeune hanno un orien-
7 LV. Hull, Sexuality, State, and Civil Society in Germany, 1700-1815, Ithaca and London, Cornell University Press, 1996, cit. da p. 47. Di rapporto fra liberalismo e separazione dei ruoli sessuali tratta anche l’introduzione di L. Abrams and E. Harvey, eds., Gender relations in German history. Power, agency and experience from thè sixteenth to thè twentieth century, London, University College London Press, 1996, pp. 1-37, specie pp. 16-27.
8 Uautobiographie en procès, Actes du colloque de Nanterre, 18-19 octobre 1996, sous la direction de Ph. Lejeune, Cahiers du Centre de Recherches Interdisciplinaires sur les Textes Modernes, Université de Paris X, n. 14, 1997, cit. da p. 5.
9 Autobiographie et fiction romanesque. Autour des Confessions de Jean-Jacques Rousseau, Actes du Colloque International organisé par J. Domenech, Nice, 11-13 Janvier 1996, Université de Nice-Sophia Antipolis, 1997.



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tamento decisamente contemporaneistico e sociologico. Ma Rousseau è anche il responsabile di famose epistole: e di Rousseau, e di molto altro, prevalentemente sul versante letterario, si parla in una recentissima raccolta di saggi a cura di Christine Piante, L’épistolaire, un genre féminin?, che presenta anche l’attrattiva di combinare il tema del genre come categoria letteraria col tema del genre/gender10. Mentre in un’altra chiave, fra l’etnografico e il sociologico, non poco sulle lettere si trova nell’ultimo - se non sbaglio - e pur esso recentissimo prodotto di una interessante linea di ricerca promossa da Daniel Fabre sull’argomento delle «scritture quotidiane»11.
Mi limito a pochi cenni su libri da poco o appena usciti perché una trattazione adeguata ed esaustiva richiederebbe un lavoro a parte, anche per la straordinaria abbondanza della produzione francese già solo di questo decennio: una constatazione - diciamolo pure - che in Italia siamo costretti a fare con una certa invidia, benché intanto almeno per l’epistolarità si possa annunciare la prossima uscita della raccolta Per lettera curata da Gabriella Zarri per l’editore Viella, e già citare due volumi freschi di stampa: una notevole miscellanea sui carteggi letterari promossa da Adriana Che-mello per il Dipartimento di italianistica dell’Università di Padova12; e la monografia in cui Beppe Sebaste (uno studioso per altro di formazione anche parigina), ha ripercorso le coordinate filosofiche della scrittura epistolare, ponendo anche e soprattutto problemi che trascendono il delimitato tema del presente saggio, e meritano una riflessione approfondita13.
In ogni modo, della produzione francese, che ha avuto ed ha il merito di tornare con sempre nuova lena ad arricchire e articolare quella che si può già ormai definire un’autorevole tradizione, mi pare che una sia stata l’acquisizione precipua e peculiare: il superamento di una troppo facile distinzione di grado di verità fra autobiografia e diario e lettera come testi di creazione letteraria da una parte, o come documenti realistici dall’altra. I molti studi, d’impostazione metodologica e di applicazione concreta, sul carattere costruito che è proprio anche dello sfogo apparentemente più immediato - in una pagina di diario o in una lettera intima -, studi che comprensibilmente si devono in gran parte agli esperti dei testi, ai letterati, costituiscono per gli storici, massime quelli del privato e del sentimento, una
10 L’épistolaire, un genre féminin?, études réunies et présentées par Ch. Planté, Paris, Champion, 1998. Segnalo che qui (pp. 201-219) si trova fra l’altro un riassunto, opera di Danièle Poublan, del libro che esamino a lungo più sotto in questo paragrafo.
11 Par écrit. Ethnologie des écritures quotidiennes, textes réunis par M. de la Soudière et C. Voisenat, sous la direction de D. Fabre, Paris, Editions de la Maison des Sciences de l’Homme, 1997.
12 Alla lettera. Teorie e pratiche epistolari dai Greci al Novecento, a cura di A. Chemel-lo, Milano, Edizioni Angelo Guerini, 1998.
15 B. Sebaste, Lettere & filosofia. Poetica dell’epistolarità, Firenze, Alinea, 1998.



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lezione preziosa che è anche una sfida imbarazzante. Che fare di quei documenti seducenti e ingannevoli?
La risposta è stata data in un modo consapevolmente radicale in un libro appena meno recente di quelli che ho citato sopra, e sul quale conviene soffermarsi più a lungo perché rappresenta davvero - come esso stesso rivendica per opera del suo prestigioso prefatore, Roger Chartier - un «dé-placement fondamental» nel modo di abbordare le corrispondenze familiari, Ne sono autrici tre studiose del Centre de recherches historiques del-l’Ecole des Hautes Etudes, Cécile Dauphin, Pierrette Lebrun-Pézerat e Danièle Poublan, già ben note per i loro precedenti lavori in materia. Al centro di questo c’è la corrispondenza epistolare - Ces bonnes lettres, come dice appunto il titolo del libro - di alcune famiglie variamente imparentate intorno al matrimonio stretto nel 1858 fra un industriale alsaziano, il quarantenne Charles Mertzdorff, e la ventiduenne parigina Caroline Duméril, discendente da una schiatta di medici e scienziati. Si tratta nel complesso di circa 3.000 lettere (dal 1795 al 1933), delle quali le studiose pubblicano e introducono una selezione di 120 sulle oltre 800 conservate per il periodo 1857-1873.
Le lettere sono molto interessanti; e la vicenda familiare - altrimenti nota anche grazie ai libri scritti dall’erede e attuale proprietario del fondo, Lu-dovic Damas Froissart - appassionante e commovente, ricca com’è di tutti gli ingredienti emotivi che sempre ci coinvolgono in queste storie. Non entro in dettagli, se non per dire che in questa tutti, anche i parenti lontani e acquisiti, si mostrano reciproca attenzione, si vogliono bene e si confortano e aiutano nei bisogni pratici e psicologici. E che ciò finisce per la verità per aggiungere un nuovo motivo ai dubbi - che s’erano proposti circa il libro di Anne-Charlott Trepp - sulla asserita felice coincidenza realizzata in ambito borghese fra affettività domestica, libera scelta e amore. L’affetto riscalda davvero ogni riga di questa corrispondenza: sta di fatto che il matrimonio fra Charles e Caroline è evidentemente combinato, come lo saranno del resto quelli delle loro due figlie. Ciò che alla ragazza è stato ogni volta concesso è di esprimere un parere - s’immagina quanto spregiudicato - dopo aver visto in faccia il pretendente, già vagliatissimo dai genitori. Non basta: Caroline muore nel 1862, a ventisei anni. Nei due successivi sua madre si dedica, con finale successo, a una vera e propria campagna (epistolare) di convincimento nei confronti del genero e di Eugénie Desnoyers, la migliore amica di Caroline, per farli sposare. La constatazione che cosi si ricuce positivamente un tragico strappo nella rete familiare, la quale senza perdere i Duméril si allarga ora alla folta schiera dei Desnoyers e cognati, non spegne il nostro interesse per qualcosa di più intimo: come valutare la decisione, certo non obbligata, di Eugénie? cosa pensare dei suoi sentimenti, del suo attestato «amour conjugal», per Mertz-



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dorff? e come saranno stati impostati i vecchi e nuovi rapporti patrimoniali (dei quali qui educatamente non si parla)?
Tali questioni, che le autrici hanno ovviamente ben presenti (pp. 44-45), restano però inevase: non solo per l’obiettiva difficoltà di risolverle, ma perché non sono ciò che preme loro, almeno in questa sede. Il «déplacement fondamental» di cui si diceva consiste appunto nel fatto che qui la corrispondenza privata è trattata non come una fonte, ma come il tema stesso della ricerca storica. In un certo senso la prospettiva è anzi perfino ribaltata, perché un rapido schizzo di storia familiare è premesso, nell’ampio saggio che introduce il testo delle 120 lettere, alla parte che è il cuore e lo scopo del lavoro, cioè l’analisi del corpo di lettere per sé, come luogo di «memoria» e «rituale» di scrittura. Nessuna meraviglia: una simile prospettiva è l’esito naturale della lunga e proficua esperienza francese di ricerca sulla letterarietà delle scritture private; e qui opportunamente viene elaborato con adeguata attenzione il concetto di «pacte épistolaire», sul modello dichiarato della nota formula di Lejeune a proposito dell’autobiografia. Ma l’interesse e, sotto sotto, la carica provocatoria di queste Bonnes lettres non risiedono solo o tanto in questo, che potrebbe apparire un ormai scontato allargamento dell’oggetto dell’analisi letteraria a comprendere anche testi «ordinari»; bensì proprio nello spiazzamento dell’oggetto di un’analisi che resta a tutti gli effetti storica.
I vantaggi dell’operazione li abbiamo sotto gli occhi grazie all’alta qualità e alla grande suggestione del lavoro compiuto dalle tre autrici. Nella loro lettura il documento/lettera non è un piatto tramite di informazioni, notevole solo in quanto veicolo di dati più o meno rilevanti; ma acquista in sé significato storico per il modo in cui è scritto, datato, firmato; per come si inserisce in una serie alla quale frequentemente si richiama, e nel contesto della quale si avvalora; per come, indipendentemente dalle cose che dice, colma, per il fatto stesso di esistere, un’assenza, intrattiene, per il fatto stesso di essere scambiato come un dono, una relazione. Non sono in grado di riprodurre in una breve sintesi la finezza di queste pagine, ricche di riferimenti che vanno - come si vede - da Roland Barthes a Marcel Mauss, ad altri ancora. Importante è in ogni modo registrare il succo di quest’analisi: che cioè le bonnes lettres - la loro scrittura, la loro circolazione e lettura, e poi anche i meccanismi della loro conservazione - non sono l’inerte residuo materiale di un vissuto familiare che non è più, ma hanno invece esse stesse creato, alimentato e tenuto insieme la famiglia; che le bonnes lettres non testimoniano, ma sono un pezzo di storia.
Sotto questo profilo siamo dunque debitori alle tre studiose francesi di un risultato di prim’ordine, che è una nuova vibrante conferma dell’immensa importanza della scrittura (e lettura) come problema storico. Meno condivisibile mi pare invece un altro aspetto del loro lavoro, che riguarda pre-

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cisamente il problema, che ho cercato più sopra di mettere in luce, della documentazione dei sentimenti, del rapporto fra la vita affettiva e le fonti per il suo studio. E un problema - correlato, ma non annullato in quello della corrispondenza come argomento storiografico - che questo libro non si limita a evitare, ma tratta, continuamente anche se in modo più spesso allusivo che esplicito, con una qualche minimizzante sprezzatura. Infatti, l’asserita mancanza di notizie davvero rilevanti nella maggior parte delle lettere (forse perché vi scarseggiano gli «avvenimenti»?) avrebbe condotto le autrici ad abbandonare - come spiega Chartier nella prefazione - «l’ap-proche thématique et descriptive, qui lit les correspondances comme des “documents” révélant les manières de vivre, l’existence quotidienne, les ha-bitudes et les conduites» (p. 12).
Ciò non è senza conseguenze. Benché qua e là indulgano alla defatigante pratica - che dopo il linguistic turn pare dobbiamo ormai portare come la nostra croce di postmoderni - di circondare di cautele epistemologiche le informazioni più banali, le tre studiose si guardano bene dal proporre la negazione del principio di realtà e dal cantare le litanie della nuova religione decostruzionistica. Ma il loro ascetismo conoscitivo, quello che - per usare ancora le parole di Chartier - «met en garde contre l’illusion de vérité ou de réalité attachée à l’écriture épistolaire», e «refuse de sonder le coeurs et les àmes, de dire les existences enfuies, de retrouver, en toute immédiateté, un monde perdu» (pp. 12-13), finisce con l’enfatizzare come ispirazione e ragion d’essere di questo libro la subordinazione dei fatti rispetto alla loro espressione linguistica, degli «énoncés» alle «énonciations». Caratteristico in proposito - per fare almeno un esempio - il paragrafo dell’introduzione dedicato alla campagna matrimoniale della madre di Caroline dopo la morte della giovane (Uefficacité du rituel, pp. 182-190); dove, come avvertono le autrici stesse, si tratta, «encore une fois, de prendre les textes au pied de la lettre, de lire ce qui est écrit, d’étudier une stratégie épistolaire - et non de dé-monter une combinaison matrimoniale» (p. 184).
Ben inteso: tutto ciò è non solo - ovviamente - legittimo, ma anche realizzato qui in modo eccellente. Con questo, è però come se alla fin fine -pur senza dirci troppo seccamente che il mondo è un testo - ci venisse intelligentemente mostrato quanto sia goffo cercare nel mondo qualcosa di afferrabile e comprensibile, invece di dedicarsi alla tanto più ragionevole occupazione di leggere un testo ben definito e nitido nella sua realtà. In modo in fondo non sorprendente, il tesoro di consapevolezza epistemologica speso nell’introduzione mette capo a una pagina (197) in cui la scelta di stampare le 120 lettere che seguono anziché altre viene senza tanti complimenti motivata col «plaisir suscitò soit par un bonheur d’expression, soit par une anecdote pittoresque, soit par un récit prenant valeur de témoi-gnage historique».



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Per concludere su queste Bonnes lettres, è dunque troppo irrispettoso manifestare, pur di fronte a un lavoro di cosi impeccabile smalto, un’ammirazione non del tutto incondizionata? Certo: rispetto al candido realismo dell’approccio generoso di Anne-Charlott Trepp, qui siamo condotti a lezione di elegante disincanto. Ma personalmente - se posso fare un paragone impegnativo, e che spero bene lusinghiero per tutte le colleghe - il confronto mi ha ricordato quello dei saggi metodologicamente agguerritissimi di Clifford Geertz (la non evocata ombra di Banco delle Bonnes lettres) con le monografie bravamente a tutto tondo, e certo più semplici nel bagaglio teorico, di Edward Evan Evans-Pritchard: quanta più malizia! quanto meno coraggio !
4. Di fronte ai documenti dei sentimenti (e del resto, in verità: ai documenti in genere), non abbiamo dunque altre scelte se non l’uso oggettivistico o la disumanizzazione epistemologica? Una risposta confortante in proposito ci viene dal terzo e ultimo libro che prendo qui in esame, libro non solo di ottima qualità, come i due precedenti, ma anche tale da costituire un esempio raccomandabile di spiegazione forte ma non unilaterale di fenomeni della vita intima e della sfera affettiva. E l’ampia, articolata, ricca monografia in cui Gabrielle Houbre, storica dell’Université Paris VII, ha ricostruito, sotto il titolo La discipline de l"amour, l’educazione sentimentale di ragazzi e ragazze in quella che definisce l’«epoca del romanticismo», che è poi in sostanza la prima metà dell’Ottocento. I giovani francesi di cui facciamo la conoscenza in questo libro sono dunque in gran parte contemporanei dei tedeschi della Trepp, e anche provenienti da simili ambienti sociali. A differenza che nella borghese Amburgo, il panorama dell’intera Francia comprende anche dei nobili, ma uno dei risultati della Houbre è appunto la dimostrazione di comportamenti ormai largamente comuni fra questi e i ricchi borghesi sotto il profilo della formazione affettiva.
Anche delle ragazze e dei ragazzi francesi possiamo leggere qui molti, e alcuni davvero bellissimi, documenti, fra cui tanti inediti, espressione della loro personalità più intima, ma in questo caso messi in rapporto con fonti d’altro genere: le teorie dei medici e dei pedagogisti, le cronache dei giornali, i manuali di comportamento, i romanzi e le opere figurative. Su queste due ultime fonti è opportuno aggiungere un commento, perché costituiscono un grande merito del libro e contribuiscono alla grande piacevolezza della sua lettura. Oltre 60 litografie di Honoré Daumier e altri meno famosi artisti vengono presentate e messe a frutto dalla Houbre, non come mere illustrazioni ma come componenti essenziali dello svolgimento del suo discorso, con il positivo (e raro) effetto che non se ne può neppure seguire il filo senza guardare attentamente le figure. Quanto ai romanzi - usati, si capisce, non come prove materiali, ma come testimonianze di possibili



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concettualizzazioni - confermano qui la loro straordinaria forza euristica, la loro capacità di correggere in senso realistico le stesse scritture non d’invenzione, delle quali suggeriscono gli ambiti, i moventi, i riferimenti: in una parola, il contesto.
Proprio la contestualizzazione delle espressioni dell’affettività e lo studio delle pratiche sociali che riguardano la vita sentimentale permettono alla Houbre una caratterizzazione molto concreta e molto convincente della disciplina dell’amore. Questa consiste innanzi tutto nella costruzione della differenza fra maschi e femmine, che è l’argomento centrale dei primi capitoli del libro. L’allontanamento dei sessi è materiale e morale, perché ai ragazzi, che maturano in collegio le loro prime fantasie erotiche in un clima di cameratismo maschile non privo delle consuete sfumature di omofilia, viene concessa - anzi, entro precisi limiti (non innamorarsi, non ammalarsi) consigliata - una libertà di sperimentazione sessuale negata alle ragazze di pari condizione sociale. Ne consegue che i giovani maschi si inizieranno nella vita amorosa o alla scuola di una rispettabile signora in vena di adulterio - una donna del ceto ma non dell’età giusta - o, più facilmente, a parte le prostitute, grazie alla collaborazione di una grisette, una disponibile esponente del popolino urbano, la tipica compagna degli anni studenteschi del futuro notabile - e dunque una donna dell’età ma non del ceto giusto.
Dell’universo delle femmine plausibili come compagne di una vita, quello nel quale in effetti prima o poi prenderanno moglie, i giovani maschi conoscono davvero solo le loro sorelle, che non per nulla sono le ingombranti e vittimizzate protagoniste di molti carteggi di scrittori francesi dell’Ottocento, alle prese con le proprie irrisolte pulsioni incestuose. Le altre ragazze di buona famiglia sono quasi sempre per loro delle perfette estranee; tant’è che quando i virtuali partner finalmente s’incontrano nell’occasione deputata della festa da ballo, spesso il gelo dell’imbarazzo, dell’affettazione e del mutismo cala sulle coppie dei coetanei, e il giovane - come raffigurato in un’efficace litografia di Paul Gavarni (p. 221) - scalpita per guadagnare l’uscio e tornare di corsa dalla sua grisette.
Con queste non ideali premesse si realizza la scelta matrimoniale, il tema che acquista gradatamente la preminenza nella seconda metà del libro, il quale si arresta comunque sulla soglia della vita degli sposi, di cui la Houbre fa solo intravedere le delizie, accennando con un’eloquente virgolettatura al «bonheur» coniugale (p. 373). Senza appesantirsi di analisi sociologiche che sarebbero posticce, il suo discorso sul sentimento, che si svolge negli ultimi capitoli, riesce tanto più denso quanto più determinato dalle configurazioni concrete e realisticamente condizionate delle manifestazioni emotive, quanto più l’inclinazione - per riprendere la terminologia di Ade-line Daumard - viene analizzata nel suo non facilmente districabile rap-



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porto con la convenienza. «Je ne l’aime pas, mais je l’aimerais bien vite», come al ritorno da una festa confessa al proprio diario con anticipato rimpianto una ragazza che è stata corteggiata da un giovane «troppo ricco» per lei (p. 223). La presenza, qui tanto più richiamata che nell’Amburgo della Trepp, delle famiglie, specie delle madri come confidenti o almeno consigliere delle figlie, ha l’effetto - per usare le parole con cui la stessa Houbre tira le fila dei molti casi da lei studiati - «de combattre la tendance filiale au hiératisme sentimental et de donner suffisamment de souplesse au verbe aimer pour qu’il puisse aussi s’accommoder d’une estime propre à assurer un équilibre conjugal, familial et social» (p. 254). Per contro, accade che proprio sullo sfondo della precisa ricostruzione di un ambiente cosi pressante risultino più vivi e credibili i casi di sfida amorosa all’«ordre bourgeois des choses», come la bella storia di Victor Hugo e della sua intrepida Adèle (pp. 344-348).
E proprio una storia documentata dei sentimenti che è insomma brillantemente riuscita alla Houbre con questa Discipline de l"amour, e ciò appunto perché non si è fermata di fronte all’impegno - specialmente difficile per un tema come l’amore - di farne davvero la storia, evitando di trattarlo come un’acquisita invariante. Sostenuta da una bibliografia consistente, ma sobria nei riferimenti metodologici, la Houbre ha rielaborato con efficacia la linea di studi francesi - di cui si diceva sopra - sui documenti intimi; ma la sua principale ispirazione è stata nel pensiero di Michel Foucault, e più precisamente nella critica che, sulla base della sua lettura di Nietzsche, Foucault ha svolto dell’oggettivismo storicistico: non esiste un «amore» dato una volta per tutte, e che solamente si relativizza nelle varie epoche; ciò che davvero esiste - possiamo qui parafrasare i termini di un acuto fou-caultiano come Paul Veyne - sono delle «pratiche [sentimentali] che proiettano delle oggettivazioni che noi prendiamo per l’amore o per delle varietà dell’amore»14. Delle pratiche che per l’appunto si lasciano cogliere solo da un’indagine che, come quella della Houbre, affronti il contesto e non si limiti dunque ai documenti dove le parole del sentimento si ripetono nella loro invariabilità: sia che ciò porti ad ascoltare tali parole in un atteggiamento di degustazione, sia a convertirle senza mediazione in una spiegazione storica.
Il programma di una storia antropologicamente attendibile dei sentimenti è naturalmente grandioso, e la sua attuazione appena agli inizi. La Houbre stessa mostra qualche incertezza nell’impostarlo nell’introduzione al suo libro, che ne risulta la parte meno riuscita, e troppo poco meditata nei cenni al rapporto fra «les pratiques, les comportements amoureux» e «le sen-timent amoureux en lui-méme» (p. 14): una semplificazione che fa torto
14 P. Veyne, Comment on écrit l’histoire, Paris, Editions du Seuil, 1978, II ed., p. 220.



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alla finezza analitica dispiegata nel corpo della ricerca, che contempla fra l’altro perspicaci notazioni sulle diversità degli stili amorosi (pp. 319-320). Ma intanto c’è da registrare il complessivo successo rappresentato da questa Discipline de l’amour, e con esso la riprova che la lezione di Foucault, che viene spesso assimilata alla svolta linguistica e al decostruzionismo, invita invece gli storici all’esercizio del più conseguente realismo, dell’antropologia più radicale: lo sforzo di capire la complessità del mondo senza cullarsi nell’uniformità rassicurante delle analogie. E una lezione difficile; ma quando uno storico riesce a metterla in pratica, ne vien fuori un libro che non lascia il tempo che trova.
L’adozione del metodo di Foucault permette - mi pare - di affrontare in un modo più soddisfacente una questione di merito che s’è già vista proposta dal libro della Trepp, e che sulla scorta di quello della Houbre vorrei ora, in conclusione del mio intervento, brevemente riconsiderare. Va sottolineato con la massima forza un fatto certo non sfuggito al lettore dei miei precedenti riassunti, e cioè che l’educazione sentimentale dei giovani amburghesi è stata - pur mettendo in conto la particolare interpretazione datane dalla loro attuale storica - davvero diversa da quella dei giovani francesi; più in generale, che la diversità di religione è influente sull’educazione: un problema, questo, del resto adeguatamente considerato e trattato dalla Houbre (pp. 255-268). Ci sono caterve di prove - dico anche fuori dal libro della Trepp - che in Germania, ma anche in Inghilterra, ragazzi e ragazze dei ceti superiori hanno goduto di assai maggior possibilità di conoscenza e frequentazione prematrimoniale che non in Francia o in Italia. Ma ci sono anche prove palmari - dico perfino nel libro della Trepp - che ciò non ha comportato la libertà di scelta e l’uguaglianza fra i sessi che la studiosa tedesca ha sostenuto sulla base della sua monodica lettura delle invariabili parole del sentimento.
Non ripeto qui le mie critiche a quelli che mi sono parsi aspetti carenti o contraddittori degli argomenti e della tesi di fondo del suo per altro pregevole e prezioso lavoro. Mi sembra invece interessante riprenderne quello spunto, cui ho fatto cenno sopra, di definizione di un’età - una sorta di fortunata parentesi fra antico regime e industrializzazione - che sarebbe stata caratterizzata nella vita privata da un’illuminata armonia di sentimento e libertà. Inutilizzabile, almeno cosi come è stato proposto dalla Trepp, in chiave cronologica, lo spunto si può forse recuperare come enucleazione logica di un tema. C’è stata una possibilità, che in effetti si potrebbe collocare all’ingrosso nel Settecento, di felice approccio del problema - nel quale a ben vedere ancora oggi, dopo la rivoluzione sessuale degli ultimi decenni, ci dibattiamo - di conciliare curiosità e sentimento, affettività e ragione: l’approccio che suggeriscono nell’insieme tanti scritti degli illuministi, o - per fare un esempio di vita vissuta - quella delle sorelle Lennox,



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le aristocratiche inglesi titolari di uno splendido carteggio privato che aveva già attirato l’attenzione di Randolph Trumbach, e più di recente prota-goniste di una biografia storico-romanzata opera di Stella Tillyard15.
Da un punto di vista generale è però come se questa potenzialità non si sia mai realizzata. Causa di ciò il fenomeno, cui la Houbre accenna (purtroppo rapidamente) alla fine del suo libro (p. 374), della «médicalisation des affects»: la convergenza - acutamente studiata anche in Italia16 - di romanticismo e psichiatria nel separare sesso e sentimento, e nel preparare cosi la normalizzazione coniugale del primo, e la costruzione dello spirito di sperimentazione erotica come vizio. Del resto, se alla mutria della Nou-velle Héloise, e al suo influsso europeo immenso, la philosophie libertina si trovava ad opporsi coi suoi estremi esiti tipo Laclos o Sade, la partita era persa in partenza. Il grande contributo della lezione di Foucault - di Sorvegliare e punire non meno che della Storia della sessualità, come il primo è in effetti non meno della seconda presente alla Houbre - è di aver collegato nel modo più rivelatore quel fenomeno di regolamentazione all’«or-dre bourgeois des choses», un ordine che la Houbre ha appunto mostrato reggersi non sulla libertà ma sulla discipline dell’amore.
L’enfatizzazione del ruolo liberatorio della sentimentalizzazione della vita privata cozza, insomma, col contesto. Davvero vogliamo credere che un potere attento ai calcoli, alla razionalità dei congegni sociali, avrebbe, anche fuori dal mondo cattolico, affidato agli imprevedibili effetti della libertà un affare serio e importante come il matrimonio? Non c’è bisogno di aderire alla polemica ideologica del?Origine della famiglia per riflettere con attenzione sulle idee che vi sono esposte circa il prezzo del sentimentalismo domestico borghese per l’indipendenza e l’uguaglianza delle donne. Ma se la veemenza di Engels, per quanto ormai fin troppo innocua, dovesse ancora infastidire, si può sempre ricorrere alla ferocia leggiadra di Jane Austen: «al mondo non vi sono abbastanza uomini ricchi per tutte le donne graziose che se li meriterebbero».
15 S. Tillyard, Quattro inglesi aristocratiche. Le vite inquiete delle sorelle Lennox, 17401832 (1994), Milano, Mondadori, 1995.
16 M. Galzigna, Lo psichiatra e il libertino, in Storia delle passioni, a cura di S. Vegetti -Finzi, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 213-242.