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Title
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PREMESSA
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Creator
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Edoardo Grendi
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Date Issued
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1983-08-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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18
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issue
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53
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page start
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383
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page end
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389
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Nascita della clinica, Italy, Einaudi, 1969
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Rights
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Quaderni storici © 1983 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230920132206/https://www.jstor.org/stable/43777161?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjo3LCJzdGFydHMiOnsiSlNUT1JCYXNpYyI6MTUwfX0%3D&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Aa3d3de9a38443275aa1ce03da49d0ec3
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Subject
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institutions
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individuals and individualization
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confinement
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exclusion (of individuals and groups)
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extracted text
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PREMESSA
1. Non v'è dubbio che la carità, intesa come pratica interpersonale del dare e del ricevere, abbia registrato negli ultimi secoli un progressivo declino. Ha seguito cioè, come elemento costitutivo deH'ideologia religiosa, il destino di laicizzazione della società contemporanea. Così è divenuta sinonimo, soprattutto nell'opinione laica, di attività irrazionale, di pregiudizio sociale, di cattiva coscienza.
Alla casualità e all'arbitrio del rapporto caritativo è stato sostituito il principio di un diritto al soccorso, in quanto membri di ima comunità nazionale (o, quanto meno, di una comunità produttiva): un soccorso che è gestito da istituti previdenziali sempre più specializzati e articolati. Questo non toglie che il risultato impersonale dei nuovi rapporti venga denunciato come elemento di alienazione.
Sarebbe davvero sorprendente se la storiografia non avesse registrato questi sviluppi. Ciò che infatti è puntualmente avvenuto: nell'enfasi posta sulla razionalizzazione delle pratiche di soccorso e nella prevalente opzione per la carità istituzionale. Cosicché ogni sintesi sul pauperismo nell'età moderna comincia con la citazione di Vives e l'esperimento di Ypres: la municipalità, il momento rinascimentale. E, nello stesso spirito, i grandi consolidamenti ospedalieri. Insomma le prime forme della razionalità caritativa, strettamente connesse con innovazioni istituzionali, tanto per la reclusione quanto per l'espulsione.
La situazione storiografica corrente registra così una certa confusione. Un vecchio tema, come appunto il pauperismo, è venuto via via assumendo contenuti diversi, poco e nulla congruenti fra loro: la concezione della povertà, -l’atteggiamento verso i poveri, l'internamento e l'istituzione totale, l'esperienza femminile nei conservatorii... Sembra perfino che sia sfuggito
QUADERNI STORICI 53/ a. XVIII, n. 2, agosto 1983
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per un certo tempo che proprio la carità istituzionale, arricchita nel Seicento, procedeva a una esplicita tassonomia della povertà che assegnava un ruolo di elezione alle donne e ai fanciulli. Le donne: non solo le vedove (un sinonimo di povertà), ma soprattutto le giovinette in pericolo dell’onore; i fanciulli orfani abbandonati ed esposti. Il fenomeno degli esposti ha attirato l'attenzione degli storici demografici: le sue dinamiche sono state collegate con il mutarsi dei rapporti fra i sessi e con le corrispondenti evoluzioni giuridiche. Le donne dei Conservatori sono divenute tema elettivo di una branca di studi, la storia delle donne, vocazionalmente chiamata alle analisi della cosiddetta vita quotidiana.
«Poveri meritevoli»? Senza dubbio. Tuttavia le determinazioni di sesso e di età sono ben più rilevanti (tali da implicare quanto meno un arricchimento dello stesso concetto di povertà) che non la troppo generica categoria morale. Sicché la tradizionale dicotomia del merito e del demerito ci appare strumento di sintesi di un dibattito sulla società in generale, atto a legittimare comportamenti amministrativi e giudiziari, attraverso i quali prende corpo, più modernamente, l’atteggiamento del ceto dirigente verso il lavoro. Tema di lungo periodo: ma la vitalità della controversia postula la continua presenza del tradizionale interlocutore, la Carità.
2. Lo stereotipo della carità personale offusca la percezione del suo carattere sociale. Qui il richiamo è alla carità come esercizio di responsabilità da parte dei ricchi in una società che l’ideologia religiosa corrente qualificava come organica. Come si traduceva nella pratica questa norma? Anzitutto nei termini di una coazione a dare e a mandare a buon fine l’impegno di protezione assunto. Lucia Ferrante ci presenta qui, nel suo saggio, il caso di un nobile bolognese che ricorre a sortilegi anche potenzialmente omicidi per liberarsi dei suoi obblighi. Era dunque operante uno schema di attese: non solo da parte dei beneficati, ma anche dei concorrenti nella gara del prestigio. Le relazioni di carità e protezione qualificavano dunque la struttura sociale e politica. Da questo punto di vista la carità va considerata alla stregua di un rapporto di reciprocità che assume concretezza in contesti diversi. Questo vale anche per i legati testamentari. Gli stessi legati a beneficio di lontani discendenti esprimono un principio corporativo che è sincronicamente operante in una società di ordini, collegi, arti e confraternite. Certo il
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significato politico della carità istituzionale è più immediatamente evidente. I benefattori si guadagnavano il diritto a un’ef-fige in marmo; i priorati delle opere di carità erano un passaggio obbligato nel cursus honorum dei potenti e uno strumento d’influenza per il notabilato provinciale. La «carità pubblica» non fa che registrare quello che è un fenomeno corrente, proprio altresì della «carità privata». È impossibile infatti pensare alla prima come a ima prassi burocratica e razionale. Solo gli uomini del tardo Ottocento poterono coltivare questo sogno ideologico di razionalità formalizzando i principi del casework nei termini di un’esplicita contrapposizione di stili di vita.
Sicché i collaboratori di questo fascicolo registrano puntualmente una serie di casi che valgono come esemplificazioni caratteristiche di una prassi interpersonale di carità che costituisce il supporto indispensabile, e direi la realtà stessa della carità istituzionale. In fondo si tratta del terreno politico comune a benefattori e beneficati, il terreno di una strumentalizzazione reciproca, che non enfatizza in modo particolare i diaframmi culturali. Certo sono operanti, nelle istituzioni, norme di comportamento, così come sono operanti prassi formali (suppliche, ad esempio) di approccio all’istituzione, ma l’acculturazione strumentale, il «sapere assistenziale» è ben possibile, tanto più che non si tratta di trasmettere modelli di vita e priorità culturali da una classe all’altra. La deferenza sociale non comporta conversioni, cioè assimilazione di valori.
È ben comprensibile dunque che il modello foucaultiano, che ha ulteriormente contribuito di recente a unilateralizzare l’interesse degli storici sulla carità istituzionale, venga respinto. L’enfasi, coerente in questi saggi, sui nessi fra istituzione e società corrisponde a una diagnosi, spesso implicita, che rileva le limitate permanenze di reclusione e l’elevato turnover, il movimento dentro e fuori, ma che soprattutto cansidera l’internamento come un momento, una tappa nella vita individuale secondo profili di inserimento e promozione o di scarto ed espulsione. Nei casi considerati, donne e matti, gravita sullo sfondo la larga fetta della società urbana non protetta, una marginalità così massiccia che non è possibile certo qualificare come devianza.
Permangono, è vero, dei silenzi sulla vita interna: ma sono in fondo gli stessi silenzi che Foucault riempie col teatro tragico della coercizione collettiva (sperimentale e finalizzata alla sua ottica di modernizzazione negativa). È proprio il ricupero delle
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esperienze reali, il ricupero cioè di una cultura dei reclusi negata da Foucault che spinge gli autori a considerare le esperienze sociali dei singoli — secondo la formula «storie di vita» che, nel progetto del fascicolo, era pur indicata come correttivo alla densità riduttiva che lo stesso termine di internamento ha assunto.
3. Nel suo saggio Sandra Cavallo sintetizza così lo sviluppo più completo dell’impostazione generale del fascicolo: «La pratica dell'istituzione è quindi ricostruibile solo attraverso la lettura dell’interazione fra direttive centralizzate, dinamiche interne ai gruppi preposti alla sua gestione e strategie differenziate di quanti, in modo più o meno diretto, ne sono i fruitori». Il concetto portante del suo discorso è quello del baliatico come risorsa e la sua dimostrazione è fondata sulla ricostruzione tanto della strategia del dare come di quella del ricevere. Il problema iniziale è il fenomeno della concentrazione in certe aree del Ca-navese degli affidamenti a baliatico, motivato dai legami di parentela fra persone influenti nella direzione dell’Ospedale torinese e una famiglia di nuova infeudazione nell’area interessata (i Carrocci). Ma, al livello delle comunità, l’analisi si particolarizza: mediatori d’influenza politica, parentele privilegiate, diverso significato della risorsa baliatico, correlata con la ricchezza relativa e con le strutture e strategie familiari.
La prospettiva storico-analitica di Giovanna Cappelletto è più circoscritta: sono i circuiti di «bassa intermediazione» per la raccolta degli infanti abbandonati e per il loro affidamento a balia. Fra l’Opera di Verona e la campagna, nel tardo Settecento. È un discorso di tipo illustrativo la cui chiave è certamente quella di una lettura dal basso. Non a caso la Cappelletto apre un discorso sul sentimento materno utilizzando quelle testimonianze, figurative e scritte, di cui ci offre una bellissima appendice. Ed è proprio questo tema che Franca Doriguzzi svolge in modo articolato e ricco sugli stessi fondi dell’istituzione torinese studiati dalla Cavallo: un esempio, mi pare, di radicale diversità tematica, oltre la supposta costrizione delle fonti.
Due studiose, Luisa Ciammitti e Lucia Ferrante, trattano di due istituzioni bolognesi: il Baraccano, per la «conserva» della virtù; il San Paolo per la correzione. L’onore femminile aveva chiare connessioni con la sessualità, né c’è ragione per dubitare deH’universalità sociale di un valore che ha una durata almeno trentennale (fra i 14 e i 44 anni). Sono in questione dunque la giovinezza e la bellezza che fanno, senza confini sociali, l’appeti-
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biilità. Ma concretamente la «conserva» o il ricupero dell'onore (implicano im contesto sociale: e le situazioni in cui l'autonomia economica è critica, diventano campo privilegiato della carità e dell'influenza personali. Un istituto come il Baraccano di Bologna esprime così il potere politico-sociale delle arti cittadine. La reclusione per sette anni è il presupposto della dotazione e, focalizzando la propria attenzione sulle transazioni dotali, che gli sposi debbono garantire, la Ciammitti mostra il rigore legalitario di un'istituzione previdenziale che era sostenuta indubbiamente da un forte consenso sociale. Fuori da queste soluzioni ottimali del problema della «conserva» dell'onore, rimane soltanto l'ovvia casualità delle estrazioni dotali, evocate dalla cerimonia pubblica delle fanciulle bianco-vestite che reggono le torce. Una casualità che è pur evidente nella prassi di correzione che la Ferrante esamina sulle carte del San Paolo: non la sorte certo, ma un gioco di influenze e sostegno che allinea vicende femminili diverse, senza che siano evidenti criteri di omogeneità o di scala dell'onore compromesso o perduto. Un’ambiguità che sembra trovare conferma negli esiti della reclusione a correzione: monacazione, dote, sistemazione a servizio, ritorno in famiglia o semplice espulsione. Quel che appare cruciale per la Ferrante è il riscontro fra l’intermediazione caritativa e il nucleo familiare di appartenenza: pur salvando ima variabile di «indocilità» personale.
Sicché appare interessante che proprio sull’indociilità professionale la Ribolletta di Sabina Loriga costruisca le sue fortune. Il suo caso, così come quello di altri indiziati di maleficio politico, capaci di scuotere i nervi della corte sabauda nel primo Settecento, è raccolto sulle fonti criminali. Ma è letto nell’ambito di una logica assistenziale e nel luogo di internamento come luogo simbolico del potere politico. La Loriga si occupa così di devianti (o di accuse di devianza), di casi eccezionali che documentano la permanenza di credenze di stregoneria nell’ambiente della corte torinese, non più in quello vescovile. Ovvio che il profilo delie vicende acquisti una densità di significati, incomparabili con quel che accade alle fanciulle dei reclusori boolgnesi o ai matti ospitati nell'Ospedale di Misericordia di Parma.
Qui Dall'Acqua, Miglioli e Bergomi hanno analizzato sistematicamente 530 casi di ricovero lungo il Settecento, traendone una ricca casistica di reclusione pre-psichiatrica, prima delle innovazioni del primo Ottocento. Il regime di deroga ducale spiega
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l’influenza esclusiva dell’ambiente di corte che passa poi all’autorità ospedaliera. È interessante rilevare come l’enfasi cada ancora sull’unità domestica urbana come istituzione di base, e sullo scandalo che è concetto strettamente correlato con quello d’onore, nonché sulla diffusione di un sapere assistenziale che è speculare al rapporto clientelare.
4. Questi studi rivelano dunque una forte coerenza nell’en-fatizzare il nesso esposti/internati e società, a spese di quello, più usuale, fra governanti e istituzioni. Nella sostanza essi rovesciano il guanto: un’operazione alla quale i documenti istituzionali si prestano assai meno, mentre la pratica normale degli incroci di fonti non è agevole quando ci si muove a questi livelli sociali (soprattutto in città). Il risultato è dunque la restituzione alla carità istituzionale del suo carattere interpersonale: l'istituzione opera nell’ambito di rapporti sociali che la travalicano, è occasione per l’esplicarsi dei medesimi, contribuendo se mai a formalizzare un sapere assistenziale che è indice di un processo di acculturazione, sia pure strumentale.
La situazione mi pare non comparabile con quella della cosiddetta istituzione totale. L’esperienza dell’internamento risulta socialmente dilatata e comunque un referente culturale diffuso per la società dei poveri. La stessa enfasi edilizia imponeva queste istituzioni nella cultura urbana, un’edilizia non certo a misura d’uomo. Ma questa che per i governanti e i grandi legatari era autocelebrazione, cos’era per i suoi occasionali clienti? Un marchio o ima risorsa? L’alternativa stessa è condizionata dai nostri riflessi anacronistici che dilatano la separatezza del luogo di internamento dalla società urbana.
I nostri autori indicano la prospettiva della ricostruzione delle vicende individuali fuori e dentro l’istituzione. Per questo attingono alla cronaca. La cronaca è sintetizzata nei registri del baliatico e nei registri di entrata e uscita. Ma anche nelle immagini divise a metà (due esempi sono riprodotti nella copertina del fascicolo), nelle ricevute, nelle visite, nelle suppliche, nelle condanne interne, nelle istanze di vario genere: tradotta in segni o in un linguaggio formalizzato, aderente comunque a vicende parziali, spezzate, banali. La cronaca, ben lungi dal fornire essa il contesto, è successione di casualità. Dietro la passione, ormai diffusa, per il quotidiano e il vissuto c’è lo spettro di un nuovo fattualismo, un fattualismo muto di significati. Paradossalmente il contesto della cronaca è l’interpretazione.
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Per questo la selezione illustrativa dei «casi» è un 'operazione delicata, immediatamente rivelativa del disegno analitico. Sabina Loriga dispone di pochi casi, ma sono casi di immediata rilevanza culturale poiché hanno riferimenti analitici già largamente esperiti. Sandra Cavallo più che selezionare i casi li tipo-logizza, giovandosi dell’astrazione baliatico uguale risorsa che le consente un prezioso aggancio coi paradigmi analitici di storia della famiglia. Che poi alla fine il suo discorso si apra anche sulle biografie mi sembra promettente.
Ma gli altri autori si muovono su un terreno più vergine, non illuminato da modelli di ricerca simili o analogici. È il caso ovviamente della storia del sentimento: per quanto simpatetici si possa essere col punto di vista della Cappelletto e con la lettura della Doriguzzi, un'analisi storica del sentimento non può prescindere da un discorso strutturale. E lo stesso vale per l'onore femminile che è anch'esso un sentimento: sicché è ben possibile che altri spezzoni di cronaca ne illuminino la complessità, mentre non è affatto escluso che i ricoveri possano trovare una ratio nelle strategie familiari. La Ciammitti insiste sul rigore normativo della politica dotale del Baraccano, quanto a dire che nel normale intercorso sociale, le transazioni dotali erano oggetto di compensazioni più libere e prammatiche che avevano anch'esse un significato culturale. La Ferrante disegna delle traiettorie di esperienze femminili legate all'istanza istituzionale della correzione assumendo un'ipotesi di integrazione, che vien meno laddove manchino certi prerequisiti di sostegno a ima cultura dell'onore. Nei due casi comunque il campo di riferimento, cioè le storie di vita, documentative, rimane assai vasto e quella a partire dai materiali istituzionali rimane una prospettiva parziale, un'apertura che in definitiva ha come soggetto proprio la logica operativa dell'istituzione nel sociale, una logica radicalmente selettiva su basi economiche (ciò che qualifica l'onore).
Così l'aumento settecentesco delle reclusioni per follia nell’ospedale parmense rimane a mio avviso non motivato: come evolve l'immagine popolare della follia o perché gli «scandali» passano così frequentemente la soglia della tollerabilità? Insomma sembra proprio che degli approfondimenti siano necessari tanto sotto il profilo culturale che strutturale. Ma questo è il destino di ogni lavoro serio. Ed è soprattutto coerente con gli aspetti innovativi di questa proposta di studio storico della carità istituzionale d’antico regime.
E. G.