PERCORSI DELLA PRATICA 1966-1995

Item

Title
PERCORSI DELLA PRATICA 1966-1995
Creator
Angelo Torre
Date Issued
1995-12-01
Is Part Of
Quaderni Storici
volume
30
issue
90 (3)
page start
799
page end
829
Publisher
Società editrice Il Mulino S.p.A.
Language
ita
Format
pdf
Relation
L'ordine del discorso, Italy, Einaudi, 1972
Dits et écrits, Spain, Editions Gallimard, 1994
Subject
power
institutions
the arts of existence
non-discursive practices
practices
history and historiography
extracted text
PERCORSI DELLA PRATICA 1966-1995
1. Preparato da molti auspici teorici, il decennio 1980-90 sembra essere stato dominato dal paradigma della pratica. E vero che in molti settori della ricerca storica è emerso un comune orientamento ad affrontare lo studio della diversità etnografica e della pluralità di esiti del mutamento sociale attraverso i comportamenti concreti dei soggetti e dei protagonisti. Ma non mi sentirei di affermare che siamo di fronte a una vittoria, insieme, del pluralismo e del realismo storiografico: formule seducenti, dietro le quali riaffiorano vecchi vizi idealistici, si arrestano al contorno metaforico dei comportamenti concreti.
Dall’ambiguità dell’approccio prasseologico nasce dunque la necessità di considerare da vicino le definizioni del paradigma della pratica. Questo lavoro tenta di esaminarle attraverso due suoi esponenti di punta nel campo della storia giuridica (A.M. He-spanha) e della storia culturale (R. Chartier). H loro approccio ci condurrà a identificare una delle matrici teoriche del paradigma della pratica, la sociologia di Pierre Bourdieu. La sua proposta di spostare il fuoco dell’analisi sociologica dall’interazione concreta dei soggetti ai loro modelli culturali, ha esercitato un’influenza di cui è necessario analizzare i costi e i benefìci.
La progressiva perdita di valore delle interrelazioni sociali concrete, che questa storiografìa accentua, impone la ricerca di percorsi alternativi. Per questo motivo, nell’ultima parte del lavoro cercherò di esplorare i tentativi attualmente in corso di riconnettere la dimensione della pratica all’azione piuttosto che ai modelli culturali.
2. E raro che un autore scelga una sede divulgativa per lanciare proposte di ricerca innovative; perciò è tanto più meritevole di un’attenzione critica la Storia delle istituzioni politiche che Antonio Manuel Hespanha ha pubblicato neW Enciclopedia d'Orientamento della Jaca Book (1993). Hespanha parte da un rapido ma perti-
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nente bilancio dell’attuale congiuntura culturale per elaborare una prospettiva innovativa per l’analisi delle formazioni politiche di Ancien Régime. Propone una «storia politico-sociale» di ampio respiro il cui oggetto comprende, «oltre allo stato e al diritto ufficiale da cui venivano integrati i poteri periferici e il diritto non ufficiale», «tutti i meccanismi attraverso i quali si condizionano, in forma esplicita o implicita, i comportamenti altrui mediante il ricorso alle tecniche ... della norma-proibizione oppure alle tecniche ... della in-culcazione di attitudini» (p. 25). E evidente che, in questa prospettiva, la tradizionale storia del potere e delle istituzioni costituisce solo «un settore della storia politico-istituzionale» (ibid.).
A questa formulazione Hespanha giunge per gradi. Il suo punto di partenza è la consapevolezza del fatto che le «rappresentazioni della società e del potere» influenzano non solo l’ideologia, ma anche la costruzione del passato. E necessario, perciò, tracciare un quadro dell’attuale storiografia politica e delle istituzioni considerandola come un processo di elaborazione di conoscenza, e delinearne le condizioni (generali e specifiche) di produzione.
Il tentativo di rendere esplicite le rappresentazioni della società e del potere prende le mosse dalla constatazione di una generale crisi del modello statuale nel nostro orizzonte culturale e politico, segnalata ad esempio dalle indicazioni di R. Ruffìlli sulla crisi del modello rappresentativo1. Ma questa crisi ha grandi implicazioni anche per la pratica storiografica. Qui essa si manifesta nella constatazione della crescente inefficacia dei meccanismi che assicurano la comunicazione tra la «società politica» statuale e la società civile. La separazione di queste due sfere, operata da alcuni pensatori politici del Seicento, è stata oggetto di un larghissimo ventaglio di critiche (da Marx a Cari Schmitt). Ne costituiscono un risultato, secondo Hespanha, sia l’attuale valorizzazione della micro-politica (un’area che comprende, per esempio, Foucault, Goody e Bourdieu) e la diffidenza per i modelli globali, sia lo spostamento dell’attenzione degli storici verso la «base» della società e la periferia del potere. In una parola, la sostituzione del «Potere» con i «poteri».
Si può senz’altro concordare con l’autore quando sottolinea come l’interesse destato dalle forme più quotidiane del potere abbia avuto un effetto liberatorio sullo sguardo dello storico, spostandolo verso assetti e dinamiche «sistematicamente non viste» dalla storiografìa tradizionale. La crescente attenzione degli storici ai meccanismi meno formalizzati di ordinamento della società -dalle strategie informali di composizione dei conflitti, all’etica o ai saperi diffusi (p. 15) - ha fatto emergere «il carattere semplice-



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mente “immaginario” del monopolio statale del potere» (p. 16). A questo proposito alcuni punti di osservazione si sono rivelati cruciali: intanto, la scoperta della vastità dello spazio sociale regolato dalla famiglia (dai saggi di Brunner al libro di D. Frigo sul Padre di famiglia2), la scoperta di reti normative autonome dal potere formale (dall’amicizia alla casuistica), di codici rigorosi e diffusi che sostituiscono il diritto formale (come nel caso dell’usura).
Ora, per Hespanha, queste acquisizioni storiografiche trovano un «sorprendente parallelismo con ciò che è accaduto in altri campi di analisi del potere, in particolare quello della sociologia e della teoria politica, dove tutti questi temi dell’informalità, della onnipresenza, del pluralismo e della diversità delle relazioni politiche sono all’ordine del giorno» (ibid.). H saggio prende quindi in esame «l’influenza combinata di correnti teoriche distinte» che hanno determinato questo mutamento profondo dell’odierna sensibilità politica (e storiografica). Si tratta ovviamente di una miscela eterogenea, al limite dell’incoerenza, ma in essa spiccano l’evoluzione del «marxismo occidentale» (Poulantzas e Althusser) e una composita corrente che Hespanha chiama «istituzionalista» o «neo-istituzionalista». Questi due grandi orientamenti hanno peso specifico diverso. H primo ha condotto, secondo l’A., al riconoscimento dell’autonomia di «forme» e modi di produzione del potere per giungere, con Foucault e Bourdieu, all’individuazione dei meccanismi - soprattutto simbolici - di produzione degli effetti politicoistituzionali. H secondo, che va da Kantorowicz a Brunner, avrebbe contribuito a demistificare le ideologie contrattualistiche mettendo in rilievo la «logica di auto-organizzazione della società europea tradizionale». Sulle loro orme, una intera generazione di storici starebbe tentando di ricostruire le «matrici istituzionali dell’Antico Regime, mettendo così fine alla retroproiezione dei concetti attuali sul passato» (p. 21).
Per quanto riguarda il neo-istituzionalismo - sostiene Hespanha - si tratta di una prospettiva teorica «oggettivistica, anti-individua-lista e anti-formalista» dalle scoperte ascendenze antropologiche. Ciò è evidente nel caso degli studi sui reticoli sociali e sulle comunità contadine (da Clyde Mitchell a Boissevain e Reinhard) o sulla famiglia, la proprietà e la trasmissione del patrimonio familiare (da Goody e P. Legendre a Delille, Visceglia e Frigo) oppure ancora (e più propriamente, direi) sulla strategia di composizione dei conflitti (da Clanchy a Martone e allo stesso Hespanha). Ma l’allargamento dell’oggetto della storia politico-istituzionale a «tutti i meccanismi sociali che condizionano i comportamenti» è condiviso anche da «moderne correnti sociologiche» in cui è possibile riconoscere



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Félix Guattari (?), Pierre Legendre e soprattutto Michel Foucault: attraverso di essi «lo Stato, in quanto centro del potere, esplode e al suo posto restano istituzioni e relazioni politiche molecolari come l’amicizia o il desiderio» (p. 23). Questo «profondo ri-orientamento» interpretativo della storia politico-istituzionale ha condotto ad attribuire un carattere localizzato ai meccanismi di coazione (ibid.): «l’intera relazione tra forza (repressione, proibizione), apparato (istituzione, meccanismo organizzativo) e ideologia subiscono [sic] una completa re-impostazione». Nel loro insieme, infatti, questi tre momenti «costituiscono un tutto» chiamato in modo diverso dai singoli autori, ma che per l’A. possiamo identificare con i «dispositivi» di Michel Foucault o quel «complesso strutturato e, contemporaneamente, strutturante di pratiche» che Pierre Bourdieu, sulla scorta di Erwin Panofsky3, ha chiamato habitus («i discorsi, le istituzioni, le disposizioni architettoniche, i regolamenti, le leggi, le misure amministrative, gli enunciati scientifici, le proposizioni filosofiche, la morale, la filantropia») (p. 24). Conclude perciò Hespanha: «al centro dell’analisi stanno adesso i meccanismi pratici [corsivo mio] ed effettivi di dominazione» (ibid.); il che significa perseguire una storia «strutturale» che incorpora la dimensione (istituzionale) della durabilità (p. 26): «avendo a che fare con il potere e i suoi meccanismi, [la storia delle istituzioni] si occupa solo delle sue forme durevoli, permanenti nel tempo, e non degli atti di potere che si consumano nella congiuntura». Questi ultimi vengono lasciati in pasto ai fautori di una storia politica intesa «come una forma di narrativa (come una “microstoria”)» (ibid.).
Nella seconda parte del saggio, Hespanha tenta di formulare proposte di riorganizzazione della disciplina. Intanto, questa «storia del potere e delle istituzioni» deve diventare un momento chiave della formazione dei giuristi svelando la funzione legittimatrice della storia giuridica insegnata nelle facoltà di Diritto4. Questa strategia di inserimento della storia politica e delle istituzioni nella formazione dei giuristi nasce da una riflessione sulla struttura del «discorso» storiografico. La disciplina storica deve «rigettare l’ingenua concezione per cui si fa storia come si respira, per cui la realtà storica sta lì e basta coglierla... [grazie a] un pertinente impiego e una adeguata critica delle fonti». In realtà «la storia non sta lì, ma è costruita dallo sguardo dello storico, che seleziona prospettive, che costruisce oggetti inesistenti empiricamente... che crea schemi mentali per metterli in relazione tra loro». Hespanha propone, insomma, una storia che richiami l’attenzione «su questo carattere costruito o prodotto della realtà storica, e ancor più sulla struttura di

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questo processo di produzione della realtà». La storia del diritto deve diventare in altri termini la «storia di un discorso di cui si tratta di mostrare il radicamento sociale e la funzione politica (p. 34).
Di qui nasce una seconda strategia della storia «giuridico-istitu-zionale critica»: fare la «storia delle norme in società». Le norme giuridiche, in sostanza, possono venir comprese solo se «integrate nell’insieme dei complessi normativi che organizzano la vita sociale» (p. 35). H valore del diritto è relazionale (o contestuale): «dipende non da una caratteristica intrinseca delle norme di diritto, ma dai ruoli degli altri complessi normativi che la contestualizzano»: le routines, la disciplina domestica, l’organizzazione del lavoro, i modi di classificare e gerarchizzare ecc. rappresentano i contesti che permettono di specificare il peso del diritto.
Hespanha insiste sul fatto che questa storia delle norme in società non si identifica affatto con una buona storia (positiva) del diritto e delle istituzioni. Essa presuppone un rovesciamento della gerarchia delle rilevanze: intanto, attribuisce ai momenti di gerar-chizzazione simbolica una «valenza strutturante» per gli altri livelli della pratica sociale. Inoltre l’immaginario giuridico cui egli si riferisce non è appannaggio esclusivo di una teoria «alta», espressione di universi sociali elitari. Esso ha un’origine più larga, e deriva dalla sistematizzazione di dati normativi di provenienza ben diversa, come la «teoria popolare del potere», centrata sulla nozione di giurisdizione, di formalismo documentale e di litigio. In questo senso, una «storia di lunga durata delle rappresentazioni giuridiche» vuole essere una storia di rotture. Queste, in ogni caso, sono in relazione con le tradizioni esistenti: nei momenti di rottura ci si avvale degli strumenti discorsivi, istituzionali, comunicativi e intellettuali stabiliti dalla tradizione. Le rotture sono perciò il prodotto di un bricolage limitato dagli utensili e dagli attrezzi disponibili.
3. E evidente che lo stesso formato agile, scorrevole e provocatorio esporrebbe il saggio di Hespanha a tutta una serie di critiche puntuali. Più interessante, mi pare, è discutere dall’interno la sua proposta, cercare di capire la portata dell’ampliamento dell’oggetto che essa contiene, valutare infine i costi e i benefici dell’operazione.
La prospettiva analitica di Hespanha, proprio per la sua ampiezza, si basa su una miscela di elementi sparsi ed eterogenei: in sintesi, a una solida formazione giuridica e all’approccio teorico della storiografia costituzionale tedesca si sovrappongono l’attenzione (selettiva, come vedremo) alle scienze sociali e il tentativo di



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superare la critica decostruzionista alla storia5. Andiamo per gradi, e vediamo intanto i primi due elementi.
H riferimento alla storiografia costituzionale tedesca è inseparabile, in Hespanha, dall’adesione al rinnovamento della storiografìa giuridica internazionale rappresentato dalla riscoperta del ruolo esercitato dal diritto comune non tanto nel medioevo, quanto nell’età moderna6. La combinazione di questi due elementi consente a Hespanha di elaborare una storia delle norme in società. Fin dalla sua importante opera sulla storia istituzionale portoghese7, Hespanha ha tentato di rileggere l’antico regime in una luce costituzionalista e neo-corporativa che enfatizza la pluralità dei sistemi normativi dell’età moderna. Egli sfrutta questa prospettiva per esplorare le implicazioni derivanti dalla persistente corrispondenza fra status sociali, prerogative e giurisdizioni: ogni status sociale implica il godimento di un diritto particolare. Nell’Ancien Régime uno status sociale è un insieme di prerogative, che rinvia a competenti privilegi giurisdizionali.
Questi accenti brunneriani8 risultano sorretti in Hespanha dal concreto lavoro di ricerca attento a esplorare le implicazioni istituzionali dello ius commune. La consapevole valorizzazione della pluralità delle magistrature si fonda in effetti sulla puntuale ricostruzione della loro matrice giurisprudenziale: gli universi politico-culturali cui le magistrature di antico regime fanno riferimento sono eterogenei, vanno cioè dai diritti territoriali al diritto comune (o a quello principesco), ma sono in ogni caso autonomi dalle (eventuali) strategie codificatrici (o accentratrici) dei poteri sovrani. In questo senso, Hespanha accoglie le indicazioni di storici del diritto come Bartolomé Clavero sul sostanziale anacronismo dell’uso del concetto di «stato» per le realtà storiche precedenti la rivoluzione francese9. Ne derivano due conseguenze: la prima è la necessità di ricostruire il cammino - per nulla lineare - con cui la giurisprudenza fa derivare il concetto stesso di amministrazione dalla legislazione principesca attraverso l’articolazione e la gerarchizzazione del concetto di giurisdizione10. La seconda è la necessità di esplorare i rapporti fra un mondo popolare ispirato alla «giustizia» e alla giurisdizione e il successivo prevalere della ragione disciplinare. Il mondo popolare - «limite del potere visibile»11 - ha una sua autonomia giuridica locale: essa è caratterizzata da procedure ben definite, anche se malconosciute e, forse, difficilmente conoscibili. Al tempo stesso è anche legata all’informalità delle reti di relazione che strutturano la vita quotidiana. Inoltre, tale mondo sopravvive alla scomparsa dell’ordinamento giuridico dell’antico regime12. La sua fine è da intendere piuttosto come un aspetto del processo di



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modernizzazione: esso si manifesta attraverso il disciplinamento, prodotto non da una coercizione istituzionale, ma dalla «violenza dolce» di una ragione giuridica in via di affermazione13. La direzione del cambiamento14 è dunque la sostituzione di magistrature eterogenee con un campo giuridico formalizzato.
4. Alla grande complessità della situazione iniziale - frutto dell’elaborazione della giurisprudenza medievale - non sembra corrispondere una visione altrettanto complessa del mutamento, che si rivela fortemente permeata dalla lettura evoluzionistica delle formulazioni weberiane. Non si tratta infatti di una visione del tutto riconducibile a una impostazione tecnico-giuridica: come mostrano gli accenni sopra riportati, nella Storia delle istituzioni la sociologia e altre scienze umane sono riferimenti ben presenti all’universo culturale dello storico portoghese. Esse si traducono in un allargamento della prospettiva: così come si riconoscono le differenti e contraddittorie componenti normative presenti negli universi culturali e sociali dell’antico regime (carisma ecc.), allo stesso modo si accoglie l’esistenza di svariate procedure giuridiche tese a risolvere i conflitti sociali15. Si tratta di un’apertura impensabile nella storiografia giuridica della generazione precedente. E tuttavia quel mondo, con le sue regole, certamente, ma anche con le sue tensioni e i suoi conflitti, ne esce irrimediabilmente semplificato.
Intanto, la stessa ricerca di Hespanha non chiarisce i motivi della conflittualità locale alla cui soluzione si dedicava il sapere giuridico locale: è certamente importante affermare l’esistenza di magistrature «basse» e periferiche che affiancano, limitano o smentiscono quelle «ufficiali», ma sarebbe altrettanto importante cercare di chiarire le situazioni alle quali esse si applicavano16.
Insomma, il campo del sapere giuridico medievale ereditato e sviluppato dal mondo moderno è, semplicemente, più vasto e articolato di quello attuale. Per Hespanha i contenuti ai quali esso si applica, che classifica e conosce, non sono evidentemente rilevanti. La «storia critica delle norme in società» che egli propone, enfatizza in modo apodittico il condizionamento esercitato dalla dimensione normativa (pur dilatata alle pratiche giuridiche) sui comportamenti concreti senza chiedersi se sia possibile, o anche soltanto ipotizzabile, il percorso inverso. Quando Hespanha parla di pratiche giuridiche all’interno di ordinamenti eterogenei, parla essenzialmente di procedure, di giudizi, classificazioni e tassonomie17. Non si preoccupa invece di stabilire quelle che, per parafrasare lo storico portoghese, potremmo chiamare le condizioni sociali di produzione e di standardizzazione delle procedure stesse.



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5. Le procedure di risoluzione dei conflitti dell’antico regime disegnano un campo giuridico più ampio rispetto a quello che fanno supporre le sole istituzioni formali; ma questa constatazione non comporta un’attenzione ai comportamenti sociali. Le procedure giuridiche si sovrappongono comunque alle dinamiche sociali fino a cancellarle. E necessario capire come si arrivi a questa conclusione tanto parziale.
Deve intanto far riflettere l’eterogeneità degli elementi che compongono il programma di lavoro di Hespanha: essa permette di accostare con disinvoltura Marx e Schmitt - il materialismo storico e la teologia politica - oppure l’antropologia networkista (Boissevain, Clyde Mitchell) e le antropologie culturali di vario segno (dagli studi di comunità a Clavero, da Goody a Foucault) con cui egli propone di leggere il mondo delle regole informali. Il che vuol dire mettere insieme la versione transazionalista, massimizzante e relazionale18 dello studio dei rapporti interpersonali ereditata dall’antropologia sociale anglosassone, con i tentativi - di segno opposto - di relativizzazione degli universi culturali. Si tratta di un accostamento particolarmente controverso proprio per gli studi storico-giuridici: lo studio delle relazioni interpersonali è stato infatti accusato dall’etnografia giuridica di non cercare di definire a sufficienza comportamenti e istituzioni nei termini stessi di coloro che li impersonano e li vivono19.
Informalità dei comportamenti e continuità delle culture sono perciò accostate più di quanto non siano fuse. Ne risultano proposte metodologiche un po’ rigide e scontate, come ad esempio la contrapposizione fra storia delle istituzioni intesa come storia della durata, e storia politica intesa invece come storia di «atti di potere che si consumano nella congiuntura»: una contrapposizione che riecheggia le più grottesche e caricaturali formulazioni di quella storiografia positiva, naturalistica delle «Annales» anni sessanta che lo storico portoghese, a più riprese, ha dichiarato di voler combattere20 e al cui paradigma parrebbe invece del tutto interno.
Credo che entrambi questi aspetti, pur così lontani, siano il sintomo di una confusione soggiacente. Se da un lato si trattano relazioni informali e schemi classificatori come se fossero omologhi, e se dall’altro si istituisce ancora con convinzione una gerarchia tra «atto» (o «fatto») e durata, è perché si istituisce una confusione fra due dimensioni distinte: dazione e lo schema di azione. Nei termini della semiotica di Peirce si potrebbe dire che si confondono i segni con l’oggetto21. In entrambi i casi, lo schema di azione ingloba l’azione singola.



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6. L’approccio di Antonio M. Hespanha allo studio delle istituzioni dell’antico regime in termini di pratiche non mi pare isolato e anzi condivide con una intera generazione di studi alcuni assunti di fondo. La prasseologia ha ormai conquistato la ricerca storica, ma in una versione specifica - credo riduttiva - che richiede una riflessione preliminare. Parlare di pratica equivale sempre più spesso a parlare di «schemi organizzativi e valutativi incorporati in forme istituzionali, simboliche e materiali» che governano la società e la cultura22.
In questa svalutazione della dinamicità dei processi concreti, la «teoria della pratica» sconta il fatto di essersi sviluppata come strumento di una polemica ideologica, che anima la reazione al transa-zionalismo e all’interazionismo, agli orientamenti, cioè, che negli anni sessanta avevano affermato la centralità delle relazioni interpersonali per lo studio e l’analisi della società, nel presente e nel passato23. Antipositivismo e anti-individualismo sono in effetti gli elementi che caratterizzano la «pratica della pratica» nella ricerca storica.
Questi caratteri segnalano un implicito quanto importante spostamento di significato del termine stesso: fino agli anni sessanta, esso era stato usato dalla cultura sociologica e antropologica francese24 soprattutto nell’accezione di «tecnica», e dalla sociologia religiosa in quella di atteggiamento religioso e assiduità sacramentale dei contadini25. Ora, esso tendeva ad assumere un significato «cognitivo», legato cioè agli schemi di classificazione utilizzati dai soggetti e dagli attori26. In questo senso, il termine assume un tono antipositivistico che ne giustifica la diffusione crescente a partire, appunto, dalla fine degli anni sessanta, ma che lo sterilizza rispetto a formulazioni meno idealistiche della percezione27. È sufficiente scorrere i lavori di uno degli storici che più hanno contribuito al successo di questa prospettiva di ricerca, quale Roger Chartier, per riconoscerlo immediatamente. •
Se non vado errato, in Chartier il termine compare per la prima volta in un articolo del 1976 dedicato ai manuali di buona morte, e originato da un’inchiesta collettiva sulla morte coordinata da Chaunu28: alla fine del lavoro si riconosce che «non è sufficiente contare titoli e edizioni, occorre anche rintracciare l’insieme delle pratiche promosse o stigmatizzate dai testi... sarebbe quindi azzardato concludere che le arti di morire riproducano senza scarti il modo in cui tutti pensavano e vivevano la morte». Sono osservazioni quasi in margine a un lavoro il cui perno è ancora l’analisi seriale, ma che segnalano - insieme con l’interesse per la storia sociale e politica29 - un rapporto con le fonti foriero della

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rivolta antiquantitativa degli anni successivi. L’insoddisfazione per il modello proposto dalle «Annales» negli anni sessanta e il valore liberatorio assunto da ricerche pur lontane dalla storia delle mentalità, da Goldmann a Koyré e a Panofsky30, dovevano ispirare il primo filone di ricerca di Chartier, dedicato alle figure della furfanteria 31 e al mondo dei marginali parigini.
Era presente in questi lavori la consapevolezza dell’importanza dei criteri di osservazione adottati dallo storico: ne derivava l’interrogazione sulla validità della documentazione disponibile, ma questa domanda era risolta con una attenzione privilegiata agli osservatori, più che agli osservati32. Si trattava di una scelta rischiosa, che avrebbe reso inutile l’«integrazione di serie documentarie diverse e quindi la possibilità stessa della ricostruzione storica». Una preclusione crescente: nelle ricerche sulla furfanteria Chartier si prefiggeva ancora di individuare «un nucleo di realtà irriducibile alle rappresentazioni»: grazie all’analisi topografica emergeva uno «scarto» fra la concentrazione - reale - dei mendicanti in alcune aree parigine e le loro raffigurazioni ironiche o scherzose. Questo scarto assumeva un valore strategico per la ricerca, poiché rendeva possibile analizzare la «pratica»: l’insieme degli usi concreti che si discostano dalle immagini costruite e tramandate di una realtà sociale e culturale. Il mondo della pratica si configura negli anni successivi come una via d’uscita dagli studi sulla cultura popolare dominati da una concezione dualistica 33, che accentuava l’irriducibilità del conflitto con la cultura alta. E infatti esplicito l’obiettivo di questa strategia di ricerca: le diverse appropriazioni sociali dei modelli culturali disegnano una realtà non riducibile all’imposizione di norme e discorsi.
7. Nonostante questa apertura metodologica il rapporto fra pratiche e rappresentazioni era sbilanciato in favore delle seconde, e comportava una forte selezione della documentazione. E stato rilevato come Chartier riducesse l’oggetto di indagine al «terreno più circoscritto ma più saldo delle rappresentazioni» (per esempio, in relazione alle fonti iconografiche)34. Ma non si trattava solo di questo. H primato delle rappresentazioni si doveva accentuare sempre più rendendo superfluo Io studio del mondo reale. In una prima fase della sua opera (fino a Lectures et lecteurs, per intenderci) Chartier sostiene con ragione che, diversamente da quanto presupponeva la storia delle mentalità, le rappresentazioni non rispecchiano affatto i comportamenti reali, e vanno considerate piuttosto come dei modelli. Esse rappresentano cioè il punto di partenza per un’analisi che intende cogliere lo «scarto» più o meno



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ampio dei comportamenti dai modelli. La storia delle pratiche culturali si concentra sulle «modalità d’uso del singolo oggetto o gesto» ma prende spunto da «materiali» (le rappresentazioni) che «danno luogo» a «una molteplicità di pratiche»35.
La distanza di una pratica dal modello culturale che la genera fornisce la chiave per la sociologia del gruppo in cui la si riscontra. L,«appropriazione differenziata»36 «degli stessi beni, delle stesse idee e degli stessi gesti» che si ipotizza, costruisce omologie che disegnano i gruppi sociali. La dimensione della pratica, per Chartier, va esaminata da due differenti punti di vista. In primo luogo, l’individuazione della molteplicità di usi vuole ridefinire una possibile stratificazione socio-culturale - il principale obiettivo, e il più cospicuo fallimento, va ricordato, della storiografia delle mentalità37. Come abbiamo visto, non si ricercano i contorni sociali della contrapposizione fra «cultura popolare» e cultura delle élites, né fra orale e scritto. I contrasti riguardano le matrici stesse del comportamento, e fanno contrapporre «disciplina» e «invenzione»: «qualsiasi dispositivo di coercizione e di controllo genera una serie di tattiche per aggirarlo e disattivarlo». Un altro meccanismo di contrapposizione lega divulgazione e distinzione: «il diffondersi in seno alla società di modelli imposti dall’alto o fatti propri dalla maggioranza della popolazione conduce alla loro svalutazione, mentre i gruppi che in essi riconoscevano i tratti distintivi della propria identità sociale finiscono per rivolgersi ad altri concetti e norme di condotta»38.
Queste dichiarazioni di intenti fanno intrawedere, da sole, la rottura epistemologica a cui si rifà la storia culturale: nelle stesse parole di Chartier che abbiamo riportato, sono riconoscibili almeno tre influenze ben precise. I «dispositivi» rimandano a Michel Foucault39; le «tattiche» sono un lessico riconducibile a Michel De Certeau40, la «distinzione» è un modello analitico proposto da Pierre Bourdieu. Si tratta di autori conosciuti ma poco discussi, in Italia, dove si indulge nella convinzione che la storia seriale delle mentalità faccia ancora parte della «positivistica» pratica storiografica transalpina. I tre casi, inoltre, hanno valore diverso: mentre Foucault e De Certeau sono usati in modo specifico e parziale, Bourdieu appare un autore durevolmente e costantemente presente a Chartier. Un incontro «decisivo»41 e vincolante, al punto che, del sociologo francese, Chartier eredita non solo la consapevolezza teorica, ma anche - come vedremo - la parabola metodologica.
8. Ma intendere la pratica come appropriazione di modelli culturali preesistenti ha una seconda conseguenza, poco esplicitata da



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Chartier. La matrice delle appropriazioni differenziate non è affatto esplorata, e in fin dei conti la si direbbe del tutto «convenzionale». Lo si capisce soprattutto dal fatto che la situazione vissuta dagli attori non appare come un elemento capace di suggerire i motivi dell’appropriazione42.
Vorrei illustrare questo assunto attraverso l’esame di un caso concreto, uno dei più seducenti esempi della ricerca storica di Chartier, dedicato agli Usi del miracolo43 nella Francia di fine Cinquecento. Si tratta di un lavoro che analizza un singolo racconto, contenuto in un genere di libretti (occasionnels, o canards) prodotti in gran numero nel XVI e XVU secolo e dedicati a fenomeni straordinari che infrangono le leggi naturali. Le variazioni del racconto del salvataggio miracoloso di una giovane donna condannata all’impiccagione per furto, fanno giungere alla conclusione che «le trame degli occasionali hanno potuto essere scritte o lette sulla base degli schemi o motivi di lunghissima durata (ad esempio, quelli dell’agiografia o del racconto), ma avendo un significato propriamente storico legato alla breve congiuntura che ha visto la loro pubblicazione» (p. 158). L’analisi, letteraria e testuale, si prefigge di identificare le variazioni dei «dispositivi narrativi» che ne restituiranno i significati plurimi (p. 127).
Di un testo, perciò, possono essere ricostruiti i diversi modi in cui era raccontato, predicato, recitato, diffuso - a piacere o secondo regole definite -, ma non ci si preoccupa di capire come esso sia nato; quale sia, in altri termini, la situazione che ha consentito l’elaborazione specifica di uno schema già noto. Ora, il fatto che nell’occasionale studiato si parli di un miracolo nell’ultima fase delle guerre di religione non costituisce un elemento capace di indirizzare l’analisi, anzi non costituisce neppure l’oggetto di un’analisi di qualche genere. Non ci si chiede, ad esempio, se non sia la situazione (che Chartier chiama «congiuntura») a costruire i criteri in base ai quali «il racconto acquista forza di autenticità e si offre come storia veridica» (p. 130). E ciò, in una trama che fa sfoggio di «elementi di autenticità»: prove di delitti, atti processuali, poteri territoriali - dai Guisa ai canonici di Chartres e ai domenicani di Nantes ecc. - e in cui, in fondo, la stessa miracolata è oggetto di pratiche giudiziarie...44.
Non voglio speculare oltre sui possibili nessi fra miracolo, religione e diritto, e fingere di avere una risposta impossibile senza una ricerca che resta da fare. Ma trovo sintomatico che questa domanda non trovi spazio in un percorso di lettura attento ai dettagli più minuti dell’uso di un messaggio. Se la situazione in cui si produce un messaggio non entra nel novero degli elementi che ne de-



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terminano il significato o i significati, è perché, credo, si considera il messaggio stesso come portatore di un significato già definito in anticipo - in questo caso, dal genere «occasionale», appunto.
9. In questo senso, mi pare che i timori espressi da Ginzburg nello scorso decennio fossero fondati45. Il rischio di una storia che sussuma le pratiche all’interno delle rappresentazioni, e che rinunci all’incrocio delle fonti documentarie è davvero quello dell’idealismo. Di questa, che mi pare francamente un’involuzione, esistono tracce sensibili. Intanto, nella produzione di Chartier il rapporto fra pratiche e rappresentazioni è sempre più sbilanciato in favore delle seconde, e traspare una ben precisa gerarchia di rilevanze. La larghezza della definizione dell’oggetto - modalità di uso, appropriazioni - si risolve in un ben preciso, e vincolante, percorso di ricerca: il punto di partenza, infatti, è sempre costituito dalle rappresentazioni - testi, gesti - che così finiscono per costituire anche i modelli della pratica. Se nel 1984 egli poteva ancora scrivere che i sistemi di rappresentazione generano «atti» (quindi azioni concrete, sia pur raggruppate tassonomicamente in pratiche), cinque anni dopo le pratiche sono scomparse anche dal lessico46.
Sembra di assistere a un ritorno alla tradizione sociologica francese d’inizio secolo. Ancora una volta ci si propone di «articolare le rappresentazioni collettive» non intorno ai comportamenti concreti e concretamente osservati, ma agli schemi interiorizzati: semplicemente, invece di porre questi ultimi in relazione con processi psicologici, come proponeva Durkheim, li si rapporta alle «divisioni del mondo sociale»47 le cui matrici non vengono peraltro studiate. Il rapporto fra schemi e realtà non perde il consueto carattere autenticamente e inevitabilmente normativo: le percezioni generano strategie e pratiche che si impongono agli attori sociali. La realtà sociale, perciò, si ripresenta come sede di lacerazioni di cui non è rilevante conoscere i processi generativi.
Mi pare di poter rilevare anche una traccia metodologica di questo percorso. Nel pieno della polemica contro la storia delle mentalità e l’appiattimento testo-realtà, Chartier esaltava le condizioni di produzione del documento, e le risolveva nelle procedure di autenticazione e veridicità che caratterizzano il ruolo dell’osservatore. In tal modo egli rivendicava la necessità di far precedere a ogni analisi «positiva» del documento l’individuazione delle logiche con cui esso era stato costruito. Con gli anni ottanta il materiale-documento risulta totalmente appiattito sulla dimensione del «testo»: «i materiali-documenti obbediscono anche essi a procedure di costruzione in cui sono investiti i concetti e le ossessioni dei loro



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produttori e dove sono segnate le regole di scrittura particolari del genere cui appartiene il testo»48. Affermazione che si può sottoscrivere solo a patto che i «concetti» e le «ossessioni» dei produttori non abbiano a loro volta una matrice puramente retorica; intendano cioè affermare autorità e autenticità (veridicità) non solo stilistiche.
10. In questo percorso metodologico la pratica sopravvive dunque con sempre maggior fatica, schiacciata tra due universi distinti: da un lato, in quanto appropriazione differenziata dei modelli culturali, essa è sovrastata dalle rappresentazioni che la determinano e la trasformano in procedure, dall’altro la «realtà sociale» da cui scaturisce è sempre più ingualcibile, un po’ scontata e stereotipa.
Si potrebbe dire che la pratica trovi spazio, ma non legittimità. In effetti, essa non è autonoma neppure per chi, come Pierre Bourdieu, ha insistito sull’importanza di questa dimensione per la conoscenza sociologica49. Anzi, è possibile sostenere che egli abbia progressivamente accentuato la dipendenza della pratica dai modelli culturali e irrigidito il suo ambito di applicazione.
Per Bourdieu, la pratica è prodotta da quelle «disposizioni strutturanti e strutturate» che sono gli habitus, matrici delle regolarità sociali. Questa definizione è il punto d’arrivo di una complessa strategia teorica, che è stata definita non senza ironia una strategia del «ni-ni»50: infatti la posizione del sociologo francese si definisce in modo ossessivo, a ogni passo, attraverso il doppio rifiuto dell’in-terazionismo e dello strutturalismo. Il primo è da respingere, per Bourdieu, perché è una forma estrema di riduzione della società alla fenomenologia dell’esperienza soggettiva51. Nello strutturalismo straussiano, invece, secondo Bourdieu va vista una forma estrema ed erronea di oggettivazione della realtà attraverso regolarità indipendenti dagli attori sociali.
La nozione di habitus è condizionata da questa duplicità del sistema di riferimento di Bourdieu: le disposizioni producono modalità che si materializzano in luoghi sociali determinati, i campi. La pratica perciò perde relazione con le situazioni concrete e le interazioni singole: è come sospesa tra la logica che la determina e l’ambito in cui si manifesta come regolarità.
B riferimento della pratica all&èto e al campo non è sempre risolto in modo equilibrato nell’opera di Bourdieu. Intanto, egli ha oscillato a lungo tra i due diversi orientamenti che ne derivano. La legittimazione della pratica attraverso le disposizioni che le danno origine è presente soprattutto negli anni settanta, quelli che vanno

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dallo Esquisse d’une théorie de la pratique (1972; d’ora in poi ETP) al Sens pratique (1980). Si tratta di un periodo contrassegnato dall’interesse per la storia delle pratiche intellettuali come proposta esplicitamente antipositivistica. Esso pare essersi aperto con la lettura, traduzione e postfazione del libro di Erwin Panofsky sull’architettura gotica52. Una lettura emblematica, che egli sembra condividere tra 1966 e 1967 con M. Foucault, e che anche quest’ultimo usa in senso fortemente antipositivistico53. Ma l’interesse è precedente, poiché già nel 1966 il sociologo francese l’ha citato in un importante lavoro su Champ intellectuel et projet créateur™. Certamente, si tratta di un interesse più ampio, che probabilmente si avvarrà più tardi di un seminario dell’Ecole Normale Supérieure sulla storia sociale dell’arte, della scienza e della letteratura55 che sembra preannunciare l’intera produzione successiva di Bourdieu.
In seguito, quando si avvieranno le ricerche empiriche, dalla Distinction (1979) alla Noblesse d’Etat (1989), sembra assumere maggior peso un’altra nozione, quella di campo, cioè il «luogo» in cui si manifestano gli habitus. Ad esso sono più tardi dedicati con regolarità spazi di ricerca e attenzione teorica56.
La duplice dipendenza della pratica dai sistemi di disposizioni, gli habitus, e dai campi in cui si attua, ha conseguenze molto rilevanti. Cominciamo dal rapporto fra pratica e habitus: come abbiamo anticipato, è questa relazione a permettere di slegare l’azione dal contesto in cui si sviluppa. In conseguenza del primato logico della lex insita (ETP, p. 180), la singola azione, così come il caso individuale, costituiscono semplici «varianti strutturali» deWha-bitus {ivi, p. 189). Le pratiche, in altri termini, non sono prodotte dalle situazioni in cui le vediamo manifestarsi, ma dal rapporto fra la singola situazione e Vhabitus: la disposizione ha infatti una funzione di orientamento degli atti empiricamente osservabili57. Questo approccio ha implicazioni importanti per il modo in cui Bourdieu si accosta all’azione. Mi pare che si possa dire, infatti, che egli sottovaluti sistematicamente e, se possibile, con sempre maggior intensità, la portata delle interrelazioni concrete in cui la pratica si sviluppa. Nelle stesse relazioni interpersonali quelle che si manifestano non sono interazioni: gli attori si presentano più o meno avvantaggiati a seconda della posizione relativa occupata nella struttura sociale. Conseguentemente, la situazione è un artificio, esattamente come l’esperimento in psicologia sociale58.
E prioritaria perciò l’influenza dei sistemi di disposizioni, cioè il modo in cui sono prodotte le disposizioni che presiedono alle tecniche operative59. E un quadro di cui sono state rilevate le affinità con la teologia scolastica60: Vhabitus produce schemi generatori di



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azioni che, a loro volta, sono rese riconoscibili (classificabili) dal fatto di svolgersi all’interno di «luoghi» sociali definiti61: i campi sociali. Fin dal 1980 Bourdieu ha affermato che le pratiche prodotte dagli habitus sono «coerenti con le logiche di un campo»: le azioni, o meglio le loro matrici, sono quindi ordinatamente disposte all’interno di ambiti determinati della struttura sociale62. E alla definizione di tali ambiti, perciò, che occorre prestare attenzione.
11. La nozione di campo presenta problemi di definizione solo in apparenza meno gravi à^habitus. Attraverso di essa, inoltre, è possibile rintracciare una ben precisa evoluzione metodologica nel sociologo francese.
Due problemi paiono prioritari a Bourdieu nella definizione del campo. Da un lato esso è un funzionamento, mentre dall’altro è il luogo in cui si sviluppano le azioni orientate dall’^te. Per quanto riguarda il primo aspetto, si deve notare come esso sia generico. Il campo è la sede in cui si compete per un premio definito in anticipo, costituito dal capitale specifico del gioco che si sta giocando. Al tempo stesso, esso è la sede in cui è obbligatorio competere per una posta definita in anticipo. Nelle parole di un critico recente, il campo, che dovrebbe dare specificità, sia pure strumentale, al mondo delle azioni, è invece l’ambito generico della riproduzione sociale63: le azioni non hanno contenuto specifico. O meglio, non traggono legittimità da loro medesime - dal fatto di essere riconosciute come legittime -, ma sono definite come tali dal campo entro il quale si situano. Per non fare che un esempio, per Bourdieu l’azione religiosa (il rituale) legittima un ordine esistente, nel senso che non fa che ribadirlo: o meglio, la sua legittimazione è «oggettivata» e non legata al contesto64.
In quanto funzionamento, dunque, il campo è reso specifico soltanto dalla posta in gioco, non dal gioco in quanto tale: i giocatori infatti competono in ogni caso per raggiungere una posizione di controllo monopolistico del campo stesso. Ma questa condizione complica le cose, invece di semplificarle. Se infatti tutti i campi, in quanto funzionamenti, sono omologhi, diventa cruciale allora il criterio in base al quale riconoscerne il confine reciproco. A questo problema, Bourdieu non pare aver prestato attenzione sistematica, anche se non mancano da parte sua i tentativi di definizione. Nel 1966, a proposito del «campo intellettuale», egli diceva ad esempio che la struttura interna di un campo, ovvero il sistema delle relazioni tra le posizioni che lo caratterizzano, esercita un potere di «rifrazione» (1966, p. 905), nelle sue relazioni con gli altri ambiti



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di regole e mosse. In altri termini, in quanto luogo ben delimitato di regole, mosse e poste in gioco, il campo giunge a predeterminare il significato delle azioni che si svolgono al suo interno: la lotta per il monopolio è «indotta» - non è generata cioè dalle condizioni specifiche del campo, ma dal fatto, generico, di costituire un campo. Infine, il campo è inteso come una sfera conchiusa al suo interno, che non prevede mai rapporti intrinseci con altre sfere - di significato, di azione. Ma anche al suo interno esso non è caratterizzato da interrelazioni. E cioè, fin dall’inizio del lavoro di Bourdieu, un campo di forze: o meglio, un campo di linee di forza, con una metafora deliberatamente magnetica65. Ma non va dimenticato come il campo possa essere inteso da altri autori come un set di interdipendenze tra generi distinti di oggetti o fenomeni (ad es., tra corpo e autorità66).
Bourdieu ha cercato di sfuggire al meccanicismo della sua definizione sostenendo che il confine di un campo è dato dalla sua storia, intendendo con questo la sequenza delle mosse che avvengono al suo interno. Ma a ben vedere questa storia non esiste: il campo ha sì un’origine, ma, una volta costituitosi, non conosce sviluppi. Bourdieu si è occupato a più riprese di dire dove (nello spazio sociale) inizia un campo, ma non sembra aver superato la tautologia. La definizione cui giunge nel 1992 è: «dove iniziano, o cessano, gli effetti del campo»67. Ma, una volta stabilito come viene generato un campo, questo non è più suscettibile di trasformazioni significative. Per quanto ne so, l’unica volta in cui egli ha affrontato questo problema è stato a proposito del campo religioso. Parafrasando Weber, egli ha trattato la religione come un habitus. In questo quadro, il campo religioso svolge una funzione di legittimazione, si vede riconosciuto cioè il potere di «santificare» l’ordine sociale esistente68. Una volta che esso si è costituito, tuttavia, al suo interno non si sviluppa altro che la consueta lotta per il controllo monopolistico dell’ideologia religiosa (ortodossia/eresia).
H campo, dunque, ha un confine che è dato dalla sua origine, e che in seguito si autoriproduce. Questa natura puramente «riproduttiva» dei campi sociali è la condizione che, a mio avviso, permette di capire il motivo per il quale essi perdano progressivamente di contenuto relazionale. E ciò, in tutte le accezioni del campo: in quanto «luogo»69, esso si presenta sempre più caratterizzato da interessi comuni70. Alla fine del percorso del sociologo francese, esso viene addirittura presentato come «soggetto collettivo»71. Parallelamente, a partire dalla metà degli anni ottanta, proprio nel tentativo di definire la specificità di un campo, quello giuridico, Bourdieu ne dà un’immagine che accoglie molta parte delle



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argomentazioni «autoreferenziali» di Niklas Luhmann72: la forza del diritto sta nella sua capacità di «dire» che rafforza lo specia-lismo dei praticanti.
Crescente omogeneità e autoreferenzialità dei campi sociali, perdita delle tensioni interne. È chiaro che in questo quadro può affermarsi in modo sempre più netto l’ipotesi che azione e schema di azione possano coincidere, e che la realtà sociale sia sempre più stereotipa e scontata. Lo si può constatare con facilità se si considera l’uso che nella ricerca empirica Bourdieu fa del concetto di campo: nel lavoro sulla distinzione, ad esempio, esso era un «sistema di stile». Successivamente esso si identifica sempre più con delle istituzioni73. Il parallelismo tra questo percorso e la crescente identificazione del campo con un sistema di posizioni anziché di relazioni tra posizioni, mi pare molto pronunciato.
12. La perdita di valore dell’interazione concreta, delle situazioni in cui i fenomeni sociali si producono e si manifestano, è dunque legata alle caratteristiche che assumono due categorie chiave del pensiero di Bourdieu: i modelli culturali - che egli chiama habitus e Chartier rappresentazioni - e i campi sociali. I primi producono disposizioni generatrici di azioni concrete, che i secondi orientano intorno a linee forza.
L’univocità del significato delle «mosse» dei giocatori risulta, tuttavia, assai discutibile, se solo ci si interroga sulla congruenza tra dispositivi e azioni concrete. Lo farò nelle pagine finali di questo lavoro. Prima, vorrei mostrare come anche le indagini sui sistemi di classificazione, pur ai loro inizi e pur dedicate soprattutto ai sistemi «alti» e alla cultura delle élites74, ci indichino come la nozione di campo - cioè di ambito di significatività di un evento - sia carica di ambiguità. Il significato stesso delle categorie con cui si analizza il comportamento non è spesso definibile a priori. Certamente non lo era nel passato, e in particolare in quell’antico regime cui gli storici oggetto di questa discussione hanno specificamente dedicato le loro ricerche.
Per questi periodi possediamo ora illustrazioni esemplari dell’intreccio e defle sovrapposizioni di significato che un sistema culturale differente dal nostro prevedeva, ad esempio, per le dimensioni del diritto, della religione e dell’economia. Grazie all’opera di Bartolomé Clavero abbiamo oggi l’opportunità di addentrarci nel panorama esotico costituito dalle categorie culturali della giurisprudenza di antico regime. Questo spaesamento75 etnografico è, per il giurista spagnolo, una faticosa conquista personale, rintracciabile



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attraverso un lungo processo di ridefinizione delle proprie categorie analitiche: un’impresa che vai la pena di essere seguita da vicino.
Nella sua prima opera, Mayorazgo (1974), il problema della giurisprudenza sul lignaggio è ancora posto nei termini di una storia istituzionale, che illustra la riproduzione di un regime proprietario. Uno dei risultati cui giunge Clavero, è la periodizzazione atipica dell’istituzione: il suo apice va collocato infatti nel XVII secolo, e coincide per lo storico spagnolo con il periodo di massima diffusione della giurisprudenza medievale76. Una ricostruzione dell’origine dell’istituzione sarebbe dunque anacronistica se non comprendesse la genesi delle categorie giuridiche che la rendono possibile: differenti e contrastanti tradizioni giuridiche medievali, dallo ius commune e dal diritto canonico alle pratiche «nazionali», si fondono in una trattatistica cinque-seicentesca franco-castigliana che consente la creazione del maggiorascato in quanto istituzione sociale.
Quel che nel 1974 è solo presupposto, diventa esplicito verso la fine del decennio: il «campo» del diritto non è identificabile con il solo ausilio della giurisprudenza retrospettiva. E perciò Clavero si interroga sulla stessa semantica dell’oggetto «diritto»77, e pone il problema della effettiva distinguibilità, in sede storica, della sfera giuridica da quella religiosa. Tale distinzione, sostiene Clavero, è stata annunciata dagli umanisti, e sviluppata solo teoricamente dagli illuministi. In essa è da ravvisare un processo analogo a «otra di-stinción tan arraigada en la sociedad postilustrada corno la “de-recho” y “economia”», ipotizzato da Karl Polanyi e ormai acquisito dall’antropologia78.
Dall’inizio degli anni ottanta, è un susseguirsi di scoperte e di approfondimenti delle relazioni che apparentano e intrecciano diritto e religione: nel tentativo di ubicare la sfera giuridica79 contro l’ennesimo tentativo di ancorarla a una visione rivoluzionaria e progressista, Clavero parla - con una vera e propria parafrasi dell’economista ungherese - deWempotramiento o imbricación fosforica degli ordini rispettivi della religione e del diritto.
La storia del diritto comparato diventa quindi un’antropologia che ricerca «altre razionalità» e demistifica il carattere naturale dell’ordine europeo80: vengono perciò rifiutate categorie storiografiche come stato81, famiglia82, e la stessa nozione di soggetto della scienza giuridica contemporanea83. L’intreccio di diritto e religione conduce al riconoscimento della pluralità dei soggetti di diritto -corpi, sovrani ecc.
L’indistinguibilità di religione e diritto è alla base delle posizioni radicali che Clavero sviluppa a cavallo degli anni ottanta. Una



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radicalità che ha una conseguenza non indifferente: quella di far riscrivere un libro. E il caso di Usura. Del uso econòmico de la reli-gión en la historia: scritto tra 1977 e 1979 84 in chiave weberiana e probabilmente come coda di Mayorazgo. Al momento della pubblicazione, nel 1984, Clavero sente la necessità di sovrapporvi la nuova chiave di lettura etnografica. Insiste così sul fatto che, mentre esistono analisi religiose del fenomeno, manca, e urge, un programma di analisi giuridica delle procedure creditizie del mondo medievale e moderno85. Il programma si adempie nel 1991 con Antidora: l’analisi dei meccanismi interni dell’usura, espressi nei termini stessi dei contemporanei, permette una antropologia católica de la economia moderna86. L’economia del dono diventa il dispositivo logico e concettuale dello scambio in epoca moderna. Secondo la teologia morale cattolica tardomedievale e moderna, la differenza fra restituzione ed estorsione va colta in un «atto mentale», in una disposizione d’animo ad accettare come conseguenza di un prestito, atto di liberalità, un controdono anziché esigere una restituzione maggiorata. Il campo economico non è più separato dalla sfera religiosa. L’usura, ancora nel 1977-79, era ritenuta un oggetto storico: nel 1991, essa non esaurisce la realtà del dispositivo che regge le pratiche creditizie.
E esistita dunque un’architettura culturale che ha impedito a lungo di scindere teologia morale e dottrina giurisprudenziale87: la religione è il sistema nel quale si inscrive e si sviluppa il diritto. Non è difficile intrawedere la portata radicale di questa conclusione: se davvero diritto e religione, almeno fino alla formazione del diritto codificato, sono embedded, è arduo definire a priori il campo all’interno del quale inscrivere le pratiche sociali.
13. Quella che si è fatta avanti nello scorso decennio è dunque più una scienza dei modelli culturali e delle rappresentazioni che non una prasseologia. Le conseguenze di questo approccio sono molteplici, ma ai fini del nostro discorso è apparsa cruciale soprattutto la perdita del nesso di interdipendenza tra fenomeni eterogenei: è osservabile l’omologo, ciò che si svolge in campi già definiti, all’interno dei quali si compete per un tipo definito di «capitale». Il senso di tautologia e di miopia è forte. Le azioni che vediamo svolgersi sotto i nostri occhi di etnografi o di storici sono «mosse» dalla portata limitata: possono, al più, ribadire le regole del campo in cui le nostre categorie di classificazione le collocano. Il loro effetto è di rafforzare la gerarchia sociale.
Se questa è la conseguenza dell’approccio alla pratica attraverso la prospettiva à^habitus, è imprescindibile percorrere la strada in-



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versa, e cioè esplorare i nessi che legano la pratica all’azione. Si tratta di una direzione di ricerca a cui importanti corpi teorici sembrano oggi negare legittimità, a partire dalla riduttiva lettura che C. Geertz fa di Wittgenstein quando sostiene che l’azione intenzionale «segue una regola»88. L’azione troverebbe realtà e ragione al di fuori di se stessa: nella grammatica che la rende possibile più che nel gesto in cui si compie.
Tuttavia, alcuni spunti - di riflessione e di ricerca - consentono, a mio avviso, di riconsiderare il valore intrinseco dell’azione. Proverò qui di seguito a elencarli, senza alcuna pretesa di sistematicità, e al solo fine di suggerire la possibilità di un approccio alla pratica alternativo a quelli sin qui esplorati.
In questo ipotetico percorso dovrebbe assumere un ruolo capitale la ridefìnizione del valore strategico delle mosse che percepiamo alla base delle interazioni. U rifiuto di studiare l’azione nasce dalla critica, da parte di Bourdieu e di Clifford Geertz, all’intera-zionismo di Erving Goffman: il sociologo canadese è stato accusato di collegare in modo sistematico e aprioristico l’azione al rischio, e quindi di interpretare il singolo gesto all’interno di una sequenza di calcoli di costi e benefìci89. Si è quindi sostenuto che l’approccio di Goffman, derivante dalla teoria dei giochi, dimostra scarsa genera-lizzabilità, tanto nel tempo storico quanto nello spazio sociale90: troppe situazioni e troppi protagonisti, si è detto, sfuggono a una logica massimizzante.
La critica al concetto di strategia è certamente condivisibile: essa ha tuttavia fatto perdere di vista l’azione in quanto tale, a ulteriore dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, del fatto che si dà per inteso che azione e schema di azione siano la medesima cosa. E tempo, mi pare, di prestare ascolto alle voci che sostengono trattarsi di due dimensioni distinte.
U concetto stesso di strategia implica l’esistenza di un fine che rende comprensibile, cioè «riconoscibile», la singola mossa, permettendo di inscriverla in un campo. «Massimizzazione» è l’espressione estrema della convinzione che il significato delle azioni sia orientato preventivamente. La vera difficoltà è costituita dal fatto che i fini - cioè gli orientamenti delle singole azioni - possono essere molteplici, e possedere perciò un certo grado di specificità. Ciò equivale a dire che i fini di un’azione sono costestuali, sono cioè legati alla situazione in cui essa si compie.
Non mi pare casuale che proprio la riflessione sul «fine» delle azioni abbia indicato spunti critici importanti per una rilettura dello stesse asserzioni wittgensteiniane che ho ricordato poco sopra. Elizabeth Anscombe, ad esempio, ha osservato91 come l’azione non

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sia creata o presupposta dal linguaggio: proprio in quanto intenzionale, essa implica un rapporto contestuale con la realtà92. C’è qualcosa nell’azione che non può essere ricondotto interamente alle regole in base alle quali la esprimiamo. Si tratta di un principio generale enunciato esplicitamente anche in ambiti di ricerca vicini alla storia e alle scienze sociali. Da parte degli storici del discorso politico, ad esempio, si riconosce da lungo tempo come l’azione e la comunicazione avvengano all’interno di strutture linguistiche che determinano i modi di percezione ed espressione del singolo evento. Queste stesse strutture, tuttavia, sono ritenute suscettibili di essere modificate da ciò che viene detto, o proposto, al loro interno93.
Occorre riconoscere che quanto meno si considera l’azione come una mossa massimizzante, tanto più si rende necessaria un’analisi «situazionale» dell’azione stessa. Un passo in questa direzione sembra essere costituito dall’adozione di una prospettiva «comunicativa», che inserisca l’azione in un intreccio ermeneutico. Come ha sostenuto J. Habermas, ciò che noi abbiamo la possibilità concreta di osservare non è l’inveramento di un codice, ma un «linguaggio al lavoro»94. La rete che si istituisce tra enunciato e realtà è tripartita: l’espressione dell’intenzione di un locutore non può essere scissa da altre due relazioni, quella interpersonale tra chi parla e chi ascolta, e quella tra locutore, ascoltatore e ciò che realmente esiste. Se applicato all’analisi di quegli «atti significativi» che sono le azioni, questo approccio «comunicativo» non si limita a riconoscere le specifiche concezioni che presuppongono le singole «mosse» (ad esempio un quadro normativo), ma si spinge fino a interpretare le interazioni come sequenze attraverso cui tali concezioni vengono «date da comprendere».
Ma l’approccio comunicativo si arresta qui, e non si interroga sulla natura del processo in base al quale viene compreso il significato delle interazioni. Non riconosce cioè come il nesso che lega enunciati e realtà sia dato dalla legittimazione di ciò che si dice, con le parole o con ciò che si fa. Si «dà da comprendere» qualcosa che è suscettibile di ottenere riconoscimento e autorevolezza da astanti e ascoltatori in un contesto dal quale trae una parte almeno del suo significato. Questo aspetto è essenziale per comprendere in che cosa consistano le pratiche, quale sia cioè il loro rapporto con le azioni.
In ultima analisi, la validità delle pratiche risiede nella loro qualità di azioni fatte riconoscere come ammissibili in virtù di una loro particolare relazione con i dispositivi di legittimazione esistenti in un determinato contesto (situazione). Questo approccio consente

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di individuare nuove valenze della pratica. Osvaldo Raggio, ad esempio, ha notato come l’appropriazione di terre comuni nell’Ap-pennino ligure di antico regime avvenisse proprio attraverso la manipolazione e utilizzazione di norme giuridiche e di regole consuetudinarie. Queste pratiche erano «utilizzate per legittimare una trasformazione anche radicale dei diritti e delle forme d’uso della terra». Questa conclusione si fonda sulla constatazione del fatto che «le pratiche effettive divergevano forse sempre dalle norme consuetudinarie e dalle loro sistemazioni [giuridiche] negli statuti»95. L’azione degli usurpatori «si basava sugli interstizi di una pratica - il ronco e la coltura temporanea - che si situava tra il possesso individuale e il possesso collettivo e occupava una posizione cruciale e ambigua nella gerarchia dei diritti d’uso sul territorio».
Si tratta di indicazioni concrete e importanti, che meritano di essere sviluppate. Un aspetto da chiarire mi pare senz’altro costituito dal significato del tèrmine «manipolare»: ciò si rende necessario per il fatto che il campo delle azioni usurpatrici non è immediatamente e nettamente distinguibile dalle pratiche lecite e comunemente accettate, e che la razionalità dell’usurpazione non è necessariamente massimizzante per l’individuo, ma può essere ascritta a un gruppo o a una parentela.
In virtù della legittimità che le si riconosce, la pratica consente dunque la manipolazione di quegli stessi codici normativi che essa, secondo altri approcci, non farebbe che ribadire. Fin qui, dunque, abbiamo considerato l’azione in termini comunicativi. In questa prospettiva essa trasmette qualcosa che le è esterno. Ma altri spunti consentono di accordare all’azione una dinamicità intrinseca, ancora più ampia e radicale. La lettura delle azioni in termini di legittimazione consente di vedere come si creano le regole attraverso razione, come gli atti siano inseparabili dai messaggi che vengono «dati da comprendere» ad astanti la cui risposta concorre a definirne il significato contestuale. Studiando la giurisprudenza del lavoro nella Francia post-rivoluzionaria, Alain Cottereau ha chiamato questa sequenza «faire-un-précédent»: nelle controversie, le azioni dei litiganti vengono reciprocamente interpretate come «mosse» che, se riconosciute come legittime, modificherebbero le prerogative di chi le ha compiute96.
15. Lo stesso Cottereau ha mostrato come questo quadro interpretativo permetta di accostarsi in modo nuovo alla documentazione storica: di arrivare a una «comprensione interna» delle fonti che superi le mere attese di regolarità per giungere alla definizione



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del «senso dato nella situazione» a una o a un gruppo di azioni97. Secondo Cottereau, il rischio principale di incomprensione di una fonte è di ignorare «les fins pratiques des situations, à partir des fìns pratiques de leurs transcriptions»98. Si tratta di una formulazione di cui va sottolineato il contrasto con la «rinuncia all’osservazione degli osservati» che avevamo colto in Chartier. La documentazione storica ci mette in contatto con attori animati da fini pratici di legittimazione. Non sono questi tuttavia a presiedere alla redazione del documento che noi analizziamo. Esso è prodotto da una sequenza ulteriore: l’interazione fra situazioni connotate dai «fini pratici» di chi viene descritto - o si descrive - nell’atto di dire o fare qualcosa, e i «fini pratici» della loro trascrizione99.
E dunque un duplice atto di legittimazione quello che troviamo alla base della documentazione storica, e che deve essere presente nella nostra analisi delle pratiche che vi rintracciamo.
La considerazione della natura contestuale, comunicativa e legittimante dell’azione trasforma radicalmente l’analisi delle pratiche, e con essa la nostra stessa lettura del documento. La trascrizione di una pratica sociale in una sede documentaria implica l’esistenza di una controversia intorno alla legittimità da parte dei protagonisti o dei redattori del documento. Questa consapevolezza impone che ci si interroghi non sul modello culturale di ciò che è controverso, ma sulla maniera in cui, attraverso determinate sequenze di azioni, «si è fatta la creazione di una regola». In questi termini, mi pare, si possono leggere le pratiche come sequenze di atti che contengono proposte di legittimazione tanto di chi le compie quanto del contenuto che attribuisce (o tenta di attribuire) loro, sottoposte a una discussione più o meno esplicita da parte di chi le trascrive. Nulla meglio dei rituali nella società preindustriale mi pare in grado di illustrare questo processo.
Se noi intendiamo le sequenze di azioni in cui si articolano le pratiche rituali come tentativi - dall’esito incerto - di affermare status e ruoli sociali rispettivi da parte dei vari protagonisti che vediamo ritratti all’opera, possiamo leggere le trascrizioni di quel mondo (ad es., le visite pastorali, o il contenzioso giurisdizionale) come un processo dinamico di negoziazione degli assetti politici locali.
Vorrei fare un esempio, tratto dalle mie ricerche sulla religiosità dei laici nelle campagne in età moderna. Le cerimonie - dai riti di passaggio ai rituali civici - vengono trascritte dall’episcopato cattolico come sequenze di azioni cui si tenta di far riconoscere, da parte dei chierici come dei laici, un significato. L’indifferenza degli storici al momento della trascrizione ha creato enormi equivoci

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sullo scopo della descrizione. Ad esempio, la Controriforma nelle campagne è stata intesa esclusivamente come momento di discipli-namento e di controllo ideologico del clero post-tridentino sulle credenze dei laici. Invece, motivi ricorrenti della propaganda episcopale, come ad esempio la proscrizione dei rituali delle confraternite dei laici, paiono legate non alla lotta contro le superstizioni popolari, ma al fatto che questi stessi rituali possano mettere in discussione il primato del rettore nell’ambito - a sua volta incerto e tutto da costruire - della giurisdizione parrocchiale 10°.
Ma uno dei momenti centrali del calendario liturgico, la comunione pasquale, può essere letto come un processo di negoziazione di status. Le trascrizioni episcopali abbondano di notazioni, parrocchia per parrocchia, intorno alla straordinaria densità degli scambi che il rituale concentra, in chiesa, alla presenza dell’intero corpo del villaggio. Lo scambio si incentra sulla gestualità del rettore: egli esprime la sua disponibilità ad accompagnare l’eucarestia con la richiesta di doni e offerte - in moneta come in natura - ai parrocchiani. H rettore viene stigmatizzato per il fatto di dare la comunione a condizione che gli vengano riconosciuti i diritti di titolare della decima ecclesiastica. I laici accettano la comunione da lui (a esclusione di altri chierici) a condizione di veder riconosciuti i diritti rispettivi degli uomini e delle donne, dei minori, dei parrocchiani e dei forestieri, delle autorità e dei semplici contadini.
L’esito è la creazione - ribadita o smentita a ogni occasione rituale - di una pratica locale della comunione parrocchiale. Nei casi esaminati direttamente, essa tende a tradursi nella comunione dei laici sotto le due specie, stranamente tollerata dall’episcopato post-tridentino. Ma questa lettura, che ho chiamato giurisdizionale101, del cerimoniale parrocchiale nelle campagne cattoliche, è possibile per ogni momento del calendario e per ogni rito di passaggio. Ogni cerimonia si presenta come un momento di costruzione dello status di individui e gruppi (ad es. i rituali funerari e la designazione dell’erede), e in quanto tale è carica di tensioni: dalla quantità di cera a carico dei laici e dei chierici, all’inserimento delle differenti unità insediative del villaggio nei percorsi processionali, dalla durata dell’accompagnamento del cadavere da parte del rettore all’articolazione della decima sacramentale ecc., ogni componente del rituale ha la capacità agli occhi dei protagonisti di venir riconosciuta come un precedente che ne legittimi uno status determinato: la negoziazione minuta del significato dei gesti crea dunque la pratica, che troviamo trascritta nei documenti episcopali. Ma in tal modo fa interagire elementi eterogenei: dalla condivisione del significato del sacro alla posizione sociale dei singoli,



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dalla suppellettile liturgica all’assetto giuridico locale, il «campo» di legittimità della pratica - il suo significato locale - sono, letteralmente, creati dalla singola «mossa» del cerimoniale.
Innumerevoli occasioni cerimoniali, in aree specifiche, hanno in tal modo definito il peso politico e culturale dell’autorità ecclesiastica nelle società locali. La loro trascrizione in documenti custoditi dalle curie diocesane ha così creato una «memoria dei precedenti» capace di istituire differenze tra i vari segmenti della popolazione. E chiaro infine come le stesse preoccupazioni di controllo della gerarchia ecclesiastica sui suoi membri locali abbiano accentuato la rilevanza di questo continuo e diffuso processo di costruzione dello stile cerimoniale e politico locale.
Angelo Torre
Dipartimento di Storia moderna e contemporanea Università di Genova
Note al testo
1 A.M. Hespanha, A historiografia juridico-institucional e a «morte do Estado», in «Anuario de filosofìa del derecho», 1986, pp. 191-227.
2 O. Brunner, La «casa come complesso» e l’antica «economica» europea, in Id., Per una nuova storia costituzionale e sociale, Milano 1970, pp. 133-64; D. Frigo, Il padre di famiglia. Governo della casa e governo civile nella tradizione dell’«economica» tra Cinque e Seicento, Roma 1985, su cui cfr. gli interventi di M. Ambrosoli e G. Ornaghi in «Quaderni storici» 64 (1987), pp. 223-32.
3 Su Panofsky cfr. S. Ferretti, Demone della memoria. Simbolo e tempo storico in War-burg, Cassirer, Panofsky, Genova 1984 e soprattutto M.A. Holly, Panofsky e i fondamenti della storia dell’arte, Milano 1991.
4 Hespanha insiste perciò, sulla scorta di Max Weber, sulla pluralità delle strutture di legittimazione: dalle credenze alla tradizione, dal carisma alla razionalità («nel mondo del diritto funzionano anche queste diverse strutture di legittimazione»: p. 28). Questa funzione demistificante della storia critica del diritto ha lo scopo di impedire la naturalizzazione della cultura (p. 30) e l’adozione di un senso lineare di progresso del diritto e del suo pensiero. Va quindi limitato il contrasto tra il diritto storico, grezzo e imperfetto, e il diritto naturale, prodotto dall’imponente lavoro aggregativo e di perfezionamento svolto in successione da migliaia di giuristi. L’enfasi sulla pluralità delle strutture di legittimazione avrebbe poi il merito di demistificare un’ultima strategia legittimatrice della storia del diritto: quella di conferire autorità al corpo dei giuristi, presentando la decisione giuridica come una «decisione puramente tecnica o scientifica, distanziata dal conflitto sottostante» (p. 31): una formulazione molto vicina al saggio di Bourdieu sul campo del diritto, che esamineremo più avanti.
5 Analogo, anche se rivolto alla storia culturale, è il tentativo di storiche come J. Ap pleby, M. Jacob e L. Hunt, Telling thè Truth about History, New York-London 1994, di discutere le nuove prospettive di una storia post-decostruzionista.
6 B. Clavero, Institución histórica del Derecho, Madrid 1992. Dello stesso hespanha, Poder e Instituqoes no Antigo Regime. Guia de Estudo, Lisboa 1992. Su queste due opere cfr. la recensione di J.-F. Schaub in «Revue d’Histoire Moderne et Contemporaine», XLII (1995), pp. 367-70.
7 A.M. Hespanha, Visperas del Leviatàn. Instituciones y poder politico (Portugal, siglo XVII), Madrid 1989 (trad. castigliana ridotta della la ed. portoghese, 2 voli., Lisboa 1986). Sulle nuove prospettive della storiografìa iberica e lusitana cfr. J.-F. Schaub, La penisola iberica nei secoli XVI e XVII: la questione dello stato, in «Studi Storici», 36, 1 (1995), pp. 949.
8 Sull’adesione di Hespanha al paradigma costituzionalista tedesco (Brunner, Land und

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Herrschafi ..., parte II) cfr. Id., Visperas, pp. 25-6. I problemi derivanti dal rapporto fra storia costituzionale e storia delle istituzioni è stato posto da G. Tabacco, recensione a E.W. Bóc-kenfórde, La storiografia costituzionale tedesca nel secolo XIX, in «Studi Medievali», 3 s., XII 1971, pp. 254-56. Cfr. anche M. Verga, Tribunali, Giudici, Istituzioni, in «Quaderni storici» 74, (1989), pp. 421-44, in particolare pp. 428-31. Cfr. anche A. De Benedictis, Stato, comunità, dimensione giuridica, in «Società e storia», n. 40 (1988); Id., Una «nuovissima» storia costituzionale tedesca. Recenti tematiche su stato e potere nella prima età moderna «Annali dell’Istituto storico Italo-Germanico in Trento», XVI (1990), pp. 265-301.
9 A.M. Hespanha, Visperas, p. 23, n. 7. H riferimento è a Clavero, Institución politica y derecho: acerca del concepto historiogràfico de «Estado moderno», in «Revista de estudios poli-ticos», 19 (1981), pp. 43-57 e ora in Id., Tantas personas corno estados. Por una antropologìa politica de la historia europea, Madrid 1986, pp. 13-26 (e dove la «acerca» diviene un «de-svalimiento»: un percorso su cui torneremo nell’ultima parte di queste osservazioni).
10 A.M. Hespanha, Représentation dogmatique et projets de pouvoir. Les outils conceptuels des juristes du jus commune dans le domaine de Tadministration, in «lus Commune», 11 (1984), pp. 3-28.
11 Hespanha, Visperas, parte IV, pp. 363-91.
12 A.M. Hespanha, Les magistratures populaires dans l'organization judiciaire d'Ancien Regime au Portugal, in Diritto e potere nella storia europea. Atti in onore di Bruno Paradisi (IV Congresso Internazione della Società Italiana di Storia del Diritto), Firenze 1982, pp. 807-22.
13 A.M. Hespanha, Savants et rustiques. La violence douce de la raison juridique, in «lus Commune», 10 (1983), pp. 1-48.
14 A.M. Hespanha, fustiga e administra^ao entre o Antiguo Regime e a Revoluto, in «Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno» [d’ora in poi QF], 34/35 (1989), pp. 135-203 contrappone campo della giustizia formale al «mundo» delle pratiche giuridiche periferiche e rustiche.
15 Hespanha accoglie alcuni importanti presupposti dell’antropologia giuridica. Cfr. M. Gluckman, Potere e diritto nelle società tribali, Torino 1977; S. Roberts, Order and dispute, Harmondsworth 1983; N. Rouland, Anthropologie juridique, Paris 1990 (tr. it. Milano 1992). Cfr. anche R. Motta, Percorsi dell'antropologia giuridica, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 12 (1982), pp. 477-96 e A. Negri, Il giurista dell'area romanista di fionte all'etnologia giuridica, Milano 1983.
16 Hespanha, Visperas, pp. 363-76.
17 Secondo Hespanha il diritto comune rappresenterebbe Vhabitus dell’antico regime. Visperas, p. 13. H riferimento a P. Bourdieu è esplicito nel testo.
18 Cfr. F. Piselli, Reti, Roma 1995, Introduzione.
19 Transaction and Meaning, a cura di B. Kapferer, London 1976 come un esempio precoce di questa discussione.
20 Hespanha, Une nouvelle histoire du droit?, in Storia sociale e dimensione giuridica. Strumenti di indagine e ipotesi di lavoro, a cura di P. Grossi, Milano 1986, pp. 315-40.
21 C.S. Peirce, Semiotica 8.332, Torino 1980: il segno costituisce il fulcro della semiosi in quanto «media fra l’interpretante e il suo oggetto». Cfr. M. Bonfantini, Introduzione, p. XXXI. E un segno, prosegue Peirce nello stesso passo, può essere inteso in senso largo come un concetto, ma anche un’azione (ivi, pp. 188-89). Si tratta di una posizione «scettica» condivisa anche dalla nuova storia culturale: R. Chartier, ad esempio, nel testo ricordato alla n. 42, considera il rapporto tra segno e cosa come regolato da convenzioni» (p. 16). Per Peirce invece, la sorgente del segno sta nella produzione di «icone», poiché il segno è un’unità di espressione e di contenuto, e non solo espressivo: Bonfantini, loc. cit., pp. XXXni-XXXIV. Su Peirce cfr. RJ. Bernstein, The Resurgence of Pragmatism, in «Social Research», 59, 4 (1992), pp. 813-40.
22 S. Ortner, Theory in Anthropology Since thè Sixties, in «Comparative Studies in Society and History», XXVI (1984), pp. 126-66, in particolare pp. 148-49.
23 C. Geertz, Blurred Genres: The Refiguration of Social Thought, in Id., Locai Know-ledge (trad. it. Bologna 1988) rappresenta una lettura critica della versione americana di una prospettiva di analisi che ha avuto adepti anche nel continente europeo, e in Italia in particolare, attraverso le proposte di F. Barth, J. Boissevain e A. Blok, e che ha avuto echi storiografici attraverso una delle proposte di microstoria italiane. G. Levi, On Microhistory, in New Perspectives on Historical Writing, a cura di P. Burke, London 1991; E. Grendi,



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Ripensare la microstoria?, in «Quaderni storici», 86 (1994), pp. 539-49; J. Revel, Microanalisi e costruzione del sociale, ivi, pp. 549-75.
24 I riferimenti più espliciti sembrano essere H. Hubert, curatore della rubrica Tecbno-logie nell’«Année Sociologique», 1899-1900, una rubrica che non decollerà mai. L’accento è sui caratteri non meccanici della tecnologia: essi sarebbero incoscienti, e implicherebbero il sistema totale delle rappresentazioni del gruppo sociale. In seguito l’apporto di R. Hertz e M. Mauss non sembra essere risultato decisivo, anche se quest’ultimo sottolineò il carattere di «atti tradizionali accomunati da un effetto meccanico». Lo stesso Mauss apparenterà poi le «tecniche del corpo», in quanto «atti tradizionali efficaci» agli atti magici, religiosi o simbolici. Il passo decisivo per l’elaborazione del termine pratica sembra perciò André Leroi-Gourhan, Le geste et la parole II., La mémoire et les rythmes, Paris 1965 (trad. it. Torino 1977): le pratiche elementari acquisite durante la prima età della vita, si svolgono in una sorta di «penombra psichica». Per un uso antistrutturalista del termine pratica bisogna ricorrere a C. Parain, Outils, ethnies et développement historique, Paris 1979. Ringrazio Osvaldo Raggio Per ie preziose indicazioni messemi a disposizione.
25 In G. Le Bras il termine pratica si carica di un significato gerarchico: cfr. Torre, Il consumo di devozioni, Venezia 1995, cap. I.
26 Lo spostamento etnometodologico e cognitivista delle scienze umane in Francia non mi sembra aver trovato l’attenzione critica che merita. Cfr. Décrire: un impératif? Description, explication, interprétation en Sciences sociales, Paris 1985.
27 Cfr. M. Kammpinen, Cognitive Systems and Cultural Models of Illness, in Folklore Fellow Communications, 244, Helsinki 1989 (con bibl.). Cfr. inoltre E. Rosch-B. Lloyd, Co-gnition and Categorization, Hillsdale s.d., e R. Grossman, Pbenomenology and Existentialism, London 1984.
28 Les arts de mourir, 1450-1600, «Annales ESC» 31, 1, 1976, pp. 51 ss. ora in R. Chartier, Letture e lettori nella Francia di Antico Regime, Torino 1988. La cit. da p. 98.
29 Cfr. la recensione alla thèse di Gutton (1972) e l’articolo sugli Stati generali del 1614, scritto con uno straordinario conoscitore di fonti quale J. Nagle, nel quadro di una ricerca collettiva «eretica» come quella diretta da D. Richet sulle «expressions du vouloir politique dans l’Ancienne France», in «Annales ESC», 28 (1973), 6, pp. 1488 ss.
30 Su Panofsky cfr. più avanti, n. 53.
31 Sottotitolo Marginalità e cultura popolare in Francia tra Cinque e Seicento, Roma 1984, con Prefazione di C. Ginzburg, pp. 3-11, che sottolinea prontamente un nuovo rapporto con le fonti, non esente da rischi di idealismo (da cui le cit. successive).
32 D. Julia, J. Revel, M. Venard, La beauté du mort. Le concept de culture populaire, «Politique aujourd’hui», 12, 1970, pp. 3-23.
33 Sia nel senso filosofico di Lévy-Bruhl (su cui cfr. G.E.R. Lloyd, Demystifying Menta-lities, Cambridge 1990, trad. it. Bari 1991), sia in quello «politico» di R. Muchembled. Cfr. A. Torre, Politics Cloaked in Worship. Cburcb and State in Piedmont 1570-1770, in «Past and Present», 134 (1992), pp. 42-92.
34 Ginzburg, Prefazione cit.
35 R. Chartier, Lectures et lecteurs dans la France d'Ancien Régime, Paris 1987. Le cit. successive da p. X della trad. it., Torino 1988.
36 Ivi, p. XI.
37 Cfr. A. Prosperi, Cristianesimo e religioni primitive nell'opera di Robert Hertz, in R. Hertz, La preminenza della destra e altri saggi, Torino 1994, che smaschera la circolarità della corrispondenza fra rappresentazioni e realtà presupposta dalla nozione di «mentalità» e propone di studiare in modo comparativo le rappresentazioni in quanto «materiali» prodotti da culture specifiche.
38 Ivi, p. XV. Ma non era già la conclusione di Vovelle (Piété baroque et déchristianisa-tion, Paris 1973) a proposito dell’abbandono della pompa barocca da parte delle élites provinciali settecentesche?
39 M. Foucault, L'ordine del discorso, Torino 1969, che non a caso prende le mosse da una devastante critica della storiografìa braudeliana.
40 M. De Certeau, L'invention du quotidien, L, Arts de dire, Paris 1980, Présentation generale, pp. 9-31. Su Bourdieu cfr. qui di seguito. Di De Certeau cfr. Fabula mistica, Bologna 1987, con introduzione di C. Ossola, e Politica e mistica, Milano 1975.
41 Ginzburg, Prefazione, p. 5.
42 La rappresentazione (segno convenzionale) si trasforma in «macchina per fabbricare



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il rispetto e la sottomissione», con rinvio a Elias che non mi pare convincente: R. Charter, La rappresentazione del sociale. Saggi di storia culturale, Torino 1989, p. 17.
43 R. Charter, La rappresentazione del sociale cit., pp. 126-67. H saggio è del 1987, ed è comparso in Les usages de l’imprimé (XVe-XVIIIe siècle), a cura di R. Chartier, Paris, pp. 83127. . .
44 Neppure nel caso in cui la vergine a cui la miracolata si appella è venerata in un santuario appartenente ai Guisa (p. 160), è intrecciata con la storia della prima Lega; e neppure quando (p. 164) il miracolo altera le relazioni locali fra chierici e laici.
45 Cfr. anche C. Ginzburg, Représentation. Le mot, l’idée, la chose, in «Annales ESC», 46, 4 (1991), pp. 1219-35, in part. pp. 1919-20, che si appunta proprio sulla capacità della rappresentazione, l’Eucarestia, di sostituire una «presenza» reale.
46 Cfr. le introduzioni a Letture e lettori cit. e a La rappresentazione del sociale cit. Nella seconda C. dice (p. 18) di occuparsi solo di rappresentazioni, e confina lo studio delle pratiche a una «storia sociale delle interpretazioni» (ivi, p. 21).
47 Charter, Introduzione a La rappresentazione cit., p. 14.
48 Charter, Storia intellettuale e storia delle mentalità, in La rappresentazione cit., pp. 5152.
49 Una esauriente bibliografìa di Pierre Bourdieu è contenuta in P. Bourdeu, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Torino 1992, pp. 223-33.
50 A. Dewerpe, A propos de la stratégie chez Pierre Bourdieu, in «Enquète», I (1986), n. 2.
51 In quanto variante della fenomenologia husserliana e dell’esistenzialismo di Sartre. Ma B. si oppone, nello stesso tempo, al «soggetto universale» proposto dalle due tradizioni filosofiche. Cfr. P. Bourdeu, Sens pratique, Paris 1980, passim, ma soprattutto Id., Questions de sociologie, Paris 1980, p. 89.
52 Cfr. E. Panofsky, Architecture gothique et pensée scolastique précédé de l’abbé Suger de Saint-Denis, Paris 1967. La postfazione di Bourdieu non è compresa nella trad. it., Napoli 1991: essa ha implicato un rapporto diretto fra autore e traduttore (cfr. n. 1 della postface), che considera l’opera come «un des plus beaux défìs qui ait jamais été lancé au positivisme» (ivi, p. 135).
53 La lettura di Foucault risulta improvvisa (di Panofsky egli dice nell’ottobre 1967 che «jusqu’au mois dernier, je n’avais rien lu») e illuminante (egli afferma come le immagini non «rendano manifeste» le realtà ma «diano luogo» ad esse). Cfr. la Chronologie di Dits et écrits, a cura di D. Defert e F. Ewald, 4 voli., Paris 1994, voi. I, p. 31, e Mots et images, in «Nouvel Observateur», 25.10.1967: dedicato a Iconology e alla Gothic Architecture, in realtà discute soprattutto la prima opera: ivi, pp. 620-23.
54 «Les Temps Modernes», numero speciale dedicato a Problèmes du structuralisme, n. 246, pp. 865-906. Ringrazio Christian Jouhaud per avermi indicato questo importante lavoro.
55 Mi riferisco in particolare a Critique de la tradition littrée, in «Actes de la recherche en Sciences sociales», n. 5-6 (1975), dove lo si dice esplicitamente. Più in generale, le prime annate della rivista sono interamente dedicate a questi problemi, a partire dal contributo dello stesso Bourdieu su Flaubert et l’invention de la vie d’artiste, ivi, n. 1, pp. 67-94, dove significativamente le relazioni personali dello scrittore non vengono interpretate come «reti» ma come «insiemi».
56 Dal primo saggio del 1966 sul «campo intellettuale» fino alla recente proposta di «antropologia riflessiva» (1992), la nozione di pratica si affievolisce fino a scomparire. La nozione di campo era invece del tutto assente - anche dall’indice dei nomi - dall’Er^wfr^ del 1972. Non ho potuto vedere The Genesis of thè Concepts of Habitus and Field, «Sociocri-ticism, in «Theories and Perspectives», II, 2 (1984), pp. 11-24.
57 Un sorprendente parallelismo con A. Gardee, Dons du Saint-Esprit in Dictionnaire de Théologie Catholique, voi. IV, t. 2, Paris 1924, coll. 1729-81: attraverso ^habitus l’azione acquista un significato in quanto acquista un orientamento.
58 Nella Distinzione lo si dice chiaramente (p. 247 della trad. it.). La polemica con Kurt Lewin è diretta anche se non esplicita. Già in ETP, p. 183, compariva la diffidenza nei confronti della situazione.
59 Le interrelazioni implicano la storia solo per via mediata. Infatti, mentre si ammette che ^habitus abbia (o meglio sia) una storia, il campo è un puro rapporto fra posizioni sincrone. H gioco, in altri termini, è in relazione con il suo passato solo per quanto riguarda la



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matrice delle disposizioni degli attori, non per le loro mosse effettive. Questo riduzionismo storiografico spiega forse il recente apprezzamento di Bourdieu per la Begriffsgeschichte di Brunner e Koselleck: Sur les rapporti entre la sociologie et Thistoire en Allemagne et en France. Entretien avec Lutz Raphael, «Actes de la Recherche en Sciences Sociales», 120 (1995), p. 116, pur lamentando la ristrettezza di una mera «généalogie historique de mots pris à l’état isolò» (ibid). Sulla Begriffsgeschichte cfr. R. Koselleck, Begriffsgeschichtliche Probleme dei Ver-fassungsgeschichtschreibung, in Gegenstand und Begriffe des Verfassungsgeschichtschreibung, «Der Staat», B. 6, 1984, pp. 7-21.
60 G. Rist, La notion médiévale d’«habitus» dans la sociologie de Pierre Bourdieu, in «Revue Européenne des Sciences Sociales», XXII, 67 (1984), pp. 201-12. All’aristotelismo pensa anche F. Héran, La seconde nature de l’habitus. Tradition philosophique et sens commun dans le langage sociologique, in «Revue Frangaise de Sociologie», XXVIII (1987), pp. 385416. Ma il riferimento è forse più ampio: cfr. C.G. Nedermann, Nature, ethics and thè doc-trine of 'habitus': Aristotelian moral psychology in thè Twelfih century, in «Traditio», XLV (1989-90), pp. 87-110 e la discussione di M.L. Colish, ivi, XLVIII (1993), pp. 77-92.
61 Tempestivamente notato da M. De Certeau, Arts de dire, pp. 109 ss.
62 In una formulazione del 1976 («Actes de la recherche en Sciences Sociales», 2, pp. 43 ss.) poi ripresa in Sens pratique, 1980, egli ipotizza tuttavia che la logica pratica «esporti sapere» da una sfera all’altra dell’esperienza attraverso il rituale: così ad es. la logica di opposizione binaria maschio/femmina si trasferisce sia al calendario che alla struttura interna della casa ecc.
63 A. Caillé, Don, intérèt et désintéressement, Paris 1994, pp. 168 ss. La critica generale di Caillé a proposito di un economicismo di fondo in Bourdieu mi sembra meno pertinente, a meno che non si identifichi economicismo con razionalità massimizzante.
64 A. Cottereau (su cui v. più avanti).
65 L. Gallino, Dizionario di sociologia, Torino 1978, s.v. campo. La metafora specificamente usata da Bourdieu è quella del campo magnetico, cioè un «sistema di linee di forza»; gli agenti possono essere descritti come «forze che, ponendosi, opponendosi e componendosi, gli [al campo] conferiscono la struttura specifica in un momento dato»: Champ intellec-tuel cit., p. 865.
66 Su questo aspetto si rivela la distanza di Bourdieu dalla field theory della Gestalt e di Kurt Lewin, che invece definisce il campo come un set di interrelazioni tra sfere, ad es. tra corpo e autorità nel sistema educativo. Cfr. K. Lewin, Field Theories in thè Social Sciences: Selected Theoretical Papers (193 9-4 7), London 1967 e la voce Gestalt in Encyclopaedia of thè Social Sciences, New York 1968, voi. VI, pp. 158-175.
67 Bourdieu, Risposte cit., p. 71.
68 Genèse et structure du champ religieux, in «Revue Francai se de Sociologie», XII (1971), pp. 295-334, in particolare le pp. 299 e 323.
69 De Certeau, loc. cit.
70 Bourdieu, Choses dites, Paris 1987, p. 115.
71 Id., Sur les rapports cit., pp. 115-16.
72 La force du droit. Eléments pour une sociologie du champ juridique, in «Actes de la Recherche en Sciences Sociales», 64 (1986), pp. 5-19. Questa adesione all’autoreferenzialità del campo è ripresa da molti dei suoi ammiratori, non ultimo dei quali proprio A.M. Hespanha nel saggio da cui abbiamo preso le mosse (p. 49).
73 Bourdieu, La noblesse d’Etat. Grandes écoles et esprit de corps, Paris 1989.
74 Cfr. in ogni caso Conscience and Casuistry in Early Modem Europe, a cura di E. Leites, Cambridge-Paris 1988 e Sexo Barroco, a cura di F. Tomas y Valiente, Madrid 1989.
75 È il significativo termine usato da J.-F. Schaub nella recensione cit. a Clavero.
76 La periodizzazione di Clavero prevede un’epoca dello ius commune che comprende il periodo che va dai glossatori a tutto l’ancien régime; l’illuminismo «preparerebbe» una revisione giuridica che si concretizzerebbe nella codificazione napoleonica. Tra i due periodi non esiste soltanto una differente prospettiva culturale, ma cambia anche la stessa «dislocazione» del dispositivo giuridico: fino alla codificazione, apparato giurisprudenziale e legislazione non coincidono affatto. Clavero, Institución historica del Derecho cit. e Schaub, recensione cit., p. 369.
77 Clavero, Historia, ciencia, politica del derecho, in QF, 8, 1979 (1980), pp. 5-62. Cfr. soprattutto pp. 52-53.
78 Ivi, 53: il riferimento è Godelier.



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79 Clavero, De la religion en el derecho bistorta mediante (recensione a H.J. Berman, Law and Revolution - The Formation of Western Legai Tradition, Cambridge 1983), in QF, 15 (1986), pp. 531-49.
80 Clavero, Historia y antropologia: ballalo y recobro del derecho moderno, in Tantas personas corno estados. Por una antropologia politica de la historia europea, Madrid 1986 (ma il saggio è del 1982).
81 Clavero, Institucion politica y derecho: desvalimiento del estado moderno, ivi, pp. 13-27 (originariamente in «Revista de Estudios Pollticos», 19 (1981)).
82 Recensione a J. Casey, The History of thè Family, Oxford 1989, QF, 19 (1990), pp. 584-87, dove si nota una certa stanchezza dell’argomentazione
83 Cfr. soprattutto Hispanus fiscus, persona ficta: concepcion del sujeto polìtico en la epoca barroca, ivi, pp. 53-84 (il saggio è del 1982-83) e Almas y cuerpos. Sujetos del derecho en la edad moderna, in Studi in Memoria di Giovanni Tarello, I. Saggi storici, Milano 1990, pp. 15371: diverse cose possono essere definite persone nel diritto comune (secoli XV-XVIII) perché la persona, in quanto tale, non esiste.
84 Lo si desume dal Prologo al libro, pp. 11-12.
85 H diritto senza la religione e l’economia non può costituire oggetto di storia perché «de identitad historica carece»: pp. 28-29 (1984).
86 Cfr. le critiche di G. Todeschini, Il prezzo della salvezza. Lessici medievali del pensiero economico, Roma 1994.
87 Schaub, recensione cit., p. 371 vi vede una gerarchia. Seguendo Polanyi, mi pare che si possa parlare di indistinzione.
88 C. Geertz, Blurred Genres cit. (la cit. da p. 31 della trad. it.).
89 E. Goffman, Where thè Action Is, in Id., Interaction Ritual: Essays in Face-to-Face Behaviour, Harmondsworth 1967, pp. 149-270 (trad. it. Bologna 1971, pp. 167-309).
90 B. Kapferer, Transaction and Meaning cit. è antesignano, insieme a R. Wagner, The Invention of Culture, Chicago 1975 (p. XVII).
91 E. Anscombe, L'intention (1957), in «Raisons pratiques», 1 (1990), pp. 257-66.
92 L. Pharo, La question du pourquoi, in Les formes de l’action. Sémantique et sociologie, ivi, pp. 267-309.
93 J.G.A. Pocock, The concept of language and thè métier d’historien: some considerations in practice, in The Language of modem politicai theory in Early Modem Europe, a cura di A. Pagden, Cambridge 1987, pp. 19-38, in part. p. 20.
94 J. Habermas, Morale et communication, Paris 1986 (1983), p. 46.
95 O. Raggio, Forme e pratiche di appropriazione delle risorse, in «Quaderni storici», 81 (1992), p. 158.
96 A. Cotterau, Justice et injustice ordinaire sur les lieux de travati d’après les audiences prud’homales (1806-1866), in «Mouvement social», 141, 1987, pp. 25-59, in particolare pp. 30-33 (la citaz. da p. 32, n. 12). Ringrazio Simona Cerutti per avermi indicato questo e altri testi utilizzati nell’ultima parte di questo intervento.
97 Cottereau, op. cit., pp. 32 e 33, n. 13.
98 Va notata la distanza di questa formulazione - che prevede un processo di legittimazione degli attori attraverso il documento - da quello di «inscription» di cui parla G. Spiegel in History, Historicism and thè Social Logic of thè Text in thè Middle Ages, in «Speculum», 65 (1990), pp. 59-85, dove il problema è ridotto alla «trasparenza» del linguaggio che caratterizza i testi.
99 O. Raggio, Faide e parentele. Lo stato genovese visto dalla Fontanabuona, Torino 1990, ha descritto questo processo in relazione alle procedure di risoluzione dei conflitti.
100 Torre, Il consumo di devozioni, Marsilio 1995, cap. I.
101 Torre, Politics Cloaked in Worship cit., p. 54.