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Title
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«CIVILIZZAZIONI E TEORIE DEI PROCESSI DI CIVILIZZAZIONE»
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Creator
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Giulia Calvi
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Date Issued
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1984-12-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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19
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issue
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57 (3)
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page start
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1046
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page end
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1052
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Rights
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Quaderni storici © 1984 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230920134627/https://www.jstor.org/stable/43777294?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjo4LCJzdGFydHMiOnsiSlNUT1JCYXNpYyI6MTc1fX0%3D&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A149cd26bb8a1619ce0a4ab66944e56bc
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Subject
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history and historiography
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culture
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structuralism
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extracted text
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«CIVILIZZAZIONI E TEORIE DEI PROCESSI DI CIVILIZZAZIONE»
Dal 14 al 17 giugno si è tenuto, presso il Zentrum fiir in-terdisziplinàre Forschung (ZiF) dell’università di Bielefeld, un convegno su «Civilizzazioni e teorie dei processi di civilizzazione. Una prospettiva comparata».
Organizzato da Norbert Elias, che a Bielefeld trascorre parte dell’anno, il simposio si poneva come momento di riflessione e confronto fra alcuni dei protagonisti di quella che Elias avverte come l’auspicata e ormai visibile rottura dei confini della storiografia tradizionale, legata allo studio dei fenomeni di breve durata, in direzione di prospettive di ricerca ad ampio raggio cronologico e geografico. Nella lettera circolare inviata agli studiosi invitati, l’intervento innovatore dei macro-storici viene descritto nelle sue caratteristiche embrionali e già innovative, anche se affidate ad un’organizzazione della ricerca parcellizzata e fortemente individuale. Per lo più extra-accademici («molti di essi sono considerati degli outsiders da chi lavorategli stessi settori, ma di impianto tradizionale a breve periodo») e interni a campi disciplinari diversificati, i loro contributi condividono in linea di massima alcune scelte metodologiche di fondo: una tensione teorica più o meno esplicita, un’apertura comparativa e la capacità di illuminare aree e aspetti trascurati dall’ottica tradizionale.
L’elenco dei partecipanti e dei relatori traccia, entro le scienze umane, una mappa di quest’orizzonte innovativo che tuttavia, a seguito di alcune assenze (Bourdieu, Sahlins e Foucault, spentosi proprio in quei giorni) si è focalizzato soprattutto sull’area nord-
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americana (Wallerstein, McNeill). Oltre alla folta presenza di studiosi tedeschi, molti dei quali impegnati in stages di ricerca al ZiF, quella dei sociologi inglesi (Dunning, Kilminster, Mennell) e degli studiosi olandesi (Brands, Gouldsblom) testimonia della persistente e significativa influenza dello stesso Elias nelle università inglesi e olandesi fra gli anni Cinquanta e Sessanta: qui, soprattutto verso la fine degli anni Sessanta, la sua «sociologia con-figurazionale» è parsa ad alcuni degli studiosi presenti come un’alternativa al marxismo e allo strutturalismo, promettente di nuovi sviluppi nelle riflessioni sul potere, aperta a prospettive di comparazione e di superamento deH’eurocentrismo, di concretezza nella ricerca di lungo periodo e, sul piano teorico generale, diffidente di tutti i tentativi di sistematizzazione rigida. Consolidatasi nel soffermarsi su questa «terza via», la scuola eliasiana è intervenuta con grande compattezza nello svolgersi vivace dèi dibattito a Bielefeld, intenta a verificare le tesi del maestro, ma anche a difenderne la precocità e a metterne in rilievo le implicazioni o le potenzialità più riposte.
Molti sono infatti apparsi, fin dall’inizio dei lavori, i nodi da sciogliere, le ascendenze da rivendicare, le ambiguità da chiarire, prima fra tutte quella interna allo stesso titolo del simposio e subito sottolineata con aggressività da Wallerstein: civilizzazione o civilizzazioni? Citando Febvre e ripercorrendo le origini storiche del primo termine, Wallerstein ne ha messo in luce tutte le implicazioni e i fantasmi (il concetto di barbarie), oltre all’arbitrarietà e alla forza manipolativa esercitata nel definire l’ordine sociale («La civilizzazione al singolare è un dono dei potenti ai deboli: rifiutarla o accettarla — le uniche alternative possibili — significa ugualmente essere perdenti»). Il disciplinamento conclude infatti ogni processo di civilizzazione interno alla lunga parabola weberiana della «de-magificazione» e dell’affermarsi del paradigma Bacone-Cartesio-Newton: ma come spiegare gli attuali sviluppi anti-sistema del pensiero scientifico che sembrano incrinarne tutto l’edificio tradizionale? La relazione di Wallerstein, piegando verso le teorizzazioni di «anarchia del metodo», è culminata nelle citazioni di Prigogine, affermando che il prevalere contemporaneo del termine «civilizzazioni» deve porsi, anche progettualmente, come punto di riferimento politicamente operativo per tutti i movimenti mondiali anti-sistema. L’argomentare nascondeva alcuni topoi del pensiero politico classico statunitense, in particolar modo la diffidenza per lo Stato accentratore cui opporre la salutare spinta centrifuga volta a demolire l’eredità
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illuminista della pianificazione sociale e della razionalizzazione del controllo.
Se il termine «civilizzazioni» contiene i propri antisistemi, le controspinte che, col mutare del teatro storico, ne alterano le regole; se il perimetro civile della corte comprende anche quello selvatico della campagna e la figura del colonizzatore quella del barbaro, allora (Evers) la società mondiale può considerarsi come un assemblaggio a maglie larghe di configurazioni, in cui ogni eliasiana figuration implica anche un processo di differenziazione sociale, assimilando di volta in volta le controspinte, le resistenze che l'edificazione di ogni sistema mette inevitabilmente in movimento. Non civilizzazione dunque, ma civilizzazioni; non sistema (e qui si è accennata una polemica con Wallerstein e la sua economia-mondo), ma sistemi compositi di figurazioni e controfigurazioni. In che modo tuttavia comporre, oltre la frammentarietà una proposta comparativa che connetta, ad esempio, l’emergere della società di corte in Europa con raffermarsi dell’Islam? Ribadita in via teorica la necessità di costruire una storia mondiale comparata, la discussione sui casi empirici e sui modelli costitutivi si è incagliata in mille e forse prevedibili difficoltà, ogni caso e ogni situazione essendo suscettibile di sistemazione diversa entro categorie di volta in volta più elastiche o selettive. Così la scansione proposta da Wallerstein fra mini sistemi, imperi mondiali ed economie-mondo ha suscitato perplessità (come inserirvi le città stato greche? Dove collocare il sistema castale indiano?).
La stessa relazione Elias «La formazione degli Stati ed i mutamenti nel disciplinamento sociale» non ha risposto alle aspettative contenute nel titolo, limitandosi a ripercorrere quanto era già sostanzialmente noto anche ai lettori della sua opera principale. Ribadendo che la storia è sviluppo (development) e che alcune fasi sono più arretrate di altre e citando Gordon Childe, Elias ha messo in relazione Faurpento non pianificato ma costante della popolazione mondiale fin dalla fase preistorica dell’Uomo di Pechino, con processi di integrazione sociale via via più raffinati in cui l’organizzazione del controllo si muoverebbe secondo l’oscillazione fra il monopolio dello Stato accentratore della forza e la costellazione di unità minori successivamente ricomposte in aggregati più complessi e nuovamente accentrati (Impero Romano — feudalesimo — Stati nazionali moderni). Entro questo modello, Elias ha sottolineato l’importanza centrale della lotta fra sacerdoti e re, ambedue professionisti del controllo, evidente an-
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cora oggi nella vicenda Khomeini-Rheza Pahlavi.
Alla sostanziale adesione dei sociologi, attenti soprattutto alla novità della tematica eliasiana dell’interdipendenza delle relazioni anche marginali, di contro al peso preponderante attribuito tradizionalmente dai teorici alla formazione dei gruppi di potere e dei sistemi normativi (Arnason), la relazione Elias, non sostanziata da esempi storici concreti, ancorata ad una preistoria sfuggente e poco problematica rispetto ai fondamenti del mestiere («quali sono le fonti?» incalzava Weinstein), ha sollevato critiche e perplessità fra gli storici (Bertelli, McNeill, Koenigsberger). Me-Neill ha sottolineato l’esempio delle società etnologiche in cui il forte autocontrollo individuale risponde ad un potere statuale debole ed in cui il convergere meccanico fra autodisciplina e controllo esterno proposto da Elias non trova terreno di applicazione, semmai di smentita. Perché non vedere nello Stato anche un potere di mediazione e arbitraggio fra gruppi disomogenei, invece che una mera presenza repressiva? Più radicali le critiche di Wallerstein, provocatorio demolitore della ricerca antropologica che applicherebbe schemi di psicologia sociale a fonti largamente manipolabili («Non possiamo costruire analisi di lunga durata sulla base di modelli non verificabili da un punto di vista documentario, come sono quelle relative all’uomo primitivo o alle popolazioni etnologiche») e Koenigsberger che, ammettendo la propria vocazione di storico tradizionale di breve periodo, ha tacciato la macro-storia tout court di descrittivismo («la legge eliasiana del monopolio del potere non funziona, non è un modello, ma solo una tendenza. Le comparazioni proposte sono del tutto arbitrarie e non probanti»).
A cerchi concentrici, il dibattito fra scuola eliasiana, macro storici e micro ricercatori è cresciuto fino ad aggredire uno dei nodi di fondo dell’intero impianto dell’opera di Elias: il suo freudianesimo di fondo per cui l’autocontrollo coinciderebbe in realtà con la dinamica freudiana della repressione degli istinti quale caratteristica peculiare di ogni processo di civilizzazione. Si deve dunque a questa ascendenza il procedere della sua analisi dal «vuoto» di una presunta assenza di norme, al «pieno» fiorire di regole alla corte di Luigi XIV? Come spiega l’aver tralasciato ogni riferimento al mondo classico e alla trasposizione dei suoi modelli in età moderna? Perché privilegiare la corte francese e non la famiglia patrizia delle città-stato italiane in cui i processi della privatizzazione della politica e dell’io erano ben più precocemente visibili? (Bertelli).
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A tutti Elias ha risposto, insistendo ancora sulla plasticità del proprio modello: i suoi critici gli contrappongono polarità statiche o sistemi chiusi, estranei al suo procedere che muove dallo studio delle dinamiche interindividuali per risalire poi all’istituzione che ne è il prodotto e non rorigine. In tutto il colloquio gli interventi dei micro storici hanno attraversato fortune alterne: apertamente accusati di miopia («vi occupate solo di pochi secoli»), l’insistere sulle fonti, le peculiarità, le periodiz-zazioni sembrava per lo più intralciare il delinearsi dei fronti e delle mappe amplissime della lunga durata. Paradigmatica in questo senso è stata la relazione McNeill, con una parte teoricointroduttiva in aperta contrapposizione alla storia tradizionale: questa sarebbe per lo più storia locale ed etnocentrica, tesa ad identificare e rafforzare ristretti gruppi di potere anche in età contemporanea. È una disciplina ad orientamento binario noi/ loro in cui la funzione sociale di omologazione dei comportamenti a quello del gruppo prescelto accomuna la vecchia storia dinastica alla recentissima delle etnie e delle donne. Il microstorico, questa sarebbe la sua parzialità di fondo, attribuisce consapevolezza agli individui oggetto di studio, che alla luce dei processi sociali complessivi da cui sono investiti, appaiono invece del tutto inconsapevoli e inarticolati. «La nozione fondante di tutte le varietà di macrostoria è quella di processo sociale che agisce in sostanziale autonomia rispetto alla consapevolezza umana: conseguentemente, i processi sociali sfuggono alle fonti coeve e non sono sepolti in qualche documento polveroso in attesa di essere scoperto dal ricercatore». Non è la scala a differenziare le due scuole, ma la priorità attribuita alla soggettività, alla parola, fondamentalmente irrilevante per l’una, ma prezioso e complicato tessuto di mediazioni e stratificazioni per l’altra. Al culmine di tutti i percorsi della civilizzazione, McNeill colloca il macro storico, capace di decifrare il senso e la direzione del processo: dissolvendo la nebbia che avvolge le coscienze dei più, restituisce la ragione, porta il fardello del civilizzatore.
Con una sfumatura di ironia, McNeill si è domandato se il processo sociale «che esercita un fascino così prepotente su di noi» non sia in ultima istanza assimilabile alla Provvidenza antica, ugualmente arbitraria ed imperscrutabile: eppure, anatomizzare «questo surrogato di divinità» ha iniziato a tentare gli studiosi fin da quando Galileo ha descritto la sua macchina-mondo. Tutta la tradizione di pensiero classificatorio e generalizzante criticata all’inizio del convegno da Wallerstein in alternativa all’au-
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spicata anarchia del metodo, per McNeill costituisce l’ossatura dei riferimenti che convergono nei due auctores principi del suo pensiero e della sua formazione: Toynbee e Spengler. «Fin dal 1954, quando iniziai a scrivere la storia del mondo, mi proposi di rovesciare Toynbee e Spengler sulle loro teste, così come Marx aveva fatto con Hegel», inserendo nell’impianto universalistico gli apporti della scuola antropologica diffusionista nord-americana. La macro storia di McNeill è diventata così la storia degli imprestiti materiali e, secondo moduli per altri versi cari alla storiografia statunitense, della tecnologia, anzi, della superiorità tecnologica («superior skills»). In aperta, anche se implicita polemica con la micro storiografia sociale americana ed europea degli ultimi anni, McNeill scrive così la storia dei vincitori («la civilizzazione si è affermata perché la maggior parte dei popoli ha preferito adeguarsi all’aumento di ricchezza e potere che il modello civilizzato di società garantiva»), riaprendo nel dibattito tutto il discorso sull’uso plurale o singolare dei termini, e da parte dei pochi dottorandi provenienti dai paesi del Terzo Mondo, una rivendicazione delle autonomie, dei soggetti sociali diversificati, delle culture.
Che l'adesione alla scala, alle coscienze, alle fonti sia anche modificata dalla provenienza, dal sesso, dall’età? A Bielefeld si sarebbe detto di sì. Non solo per via degli studenti, ma anche dei più giovani fra i professori: la lettura di Elias, l’adesione ai suoi scritti è stata da alcuni di loro riproposta, traendone l’ambizione di fondo, quella della lunga durata, per coglierne invece tutti gli spunti adeguabili allo studio delle relazioni sociali in contesti di scambio diretto, faccia a faccia. La nozione di configurazione apre allo studioso tutta la ricchezza «del gioco complicato fra individuo, gruppo e ambiente; assomiglia ad un suggerimento drammatico per costruire un testo letterario» (Stauth). Torna per analogia alla mente un altro suggerimento di scrittura, un’altra tipologia per la costruzione del testo storico: la «thick descrip-tion» di Geertz, quanto mai attenta alla vischiosa densità dell’ interplay sociale, alle sue valenze simboliche, alle sue parvenze metaforiche. Elias rivisitato da Geertz? La convergenza degli opposti sembra essere al centro della riflessione dei giovani studiosi del breve periodo e la capacità eliasiana di ruotare l’ottica dalle dinamiche marginali alla ricostruzione dei luoghi legittimati dalla tradizione storiografica si congiunge alla «descrizione densa» di Geertz, senza sollevarsi verso Topinabilità del modello. E di Elias, della sua tematica configurazionale, i micro ricercatori
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privilegiano l'immagine più accattivante: quella della danza. G. Stauth ha aperto la sua relazione citando Scola ed il suo film Ballando ballando: come nelle pagine eliasiane, le immagini collegano al ritmo ora accelerato e ora lento della musica, dei passi, delle figure della danza, i tempi di quelle configurazioni più ampie che chiamiamo società.
Giulia Calvi
LE NOBILTÀ’ NEL XIX SECOLO
(Il convegno organizzato dalFÉcole Fran^aise de Rome si terrà nella primavera 1985 in una data da definire)
Per capire i comportamenti della nobiltà nel XIX secolo, bisogna tener presente che l’antico sistema ereditario, basato sulla primogenitura e il fidecommesso, aveva portato di fatto all’estinzione di molte famiglie nel corso del ’700. A partire da questa considerazione preliminare, ci si propone non tanto di misurare il «peso» economico, sociale, culturale della nobiltà (di Italia, Francia e Spagna), quanto di metterne in luce i processi di adattamento, le resistenze, le modificazioni nella situazione venutasi a creare con le innovazioni legislative dell'epoca napoleonica e l’ascesa di nuove classi.
I lavori si articoleranno in tre parti:
1 - «La prova dell’uguaglianza». Quale conseguenza ha avuto nel medio e lungo periodo la soppressione della primogenitura e del fidecommesso da un lato, e l'introduzione dell'ordine «egualitario» (divisione dei beni tra tutti i figli e le figlie) dall'altro? Il mercato matrimoniale si è irrigidito nella difesa del vecchio ordine sociale, oppure vi sono state delle aperture verso i nuovi, importanti ceti emergenti?
2 - «La fine delle distinzioni?». C'è stata «permeabilità» nei confronti della borghesia? A che livello e in quale misura avveniva l'accettazione, o il rifiuto, dei modelli borghesi? Quali comportamenti economici, quali valori, quali modi di vita contraddistinguevano l'aristocrazia? In che modo sono cambiati o si sono indeboliti tradizionali valori come il senso dell'onore, il sangue ...?
3 - «La nobiltà e lo Stato». Quest'iultima parte dovrebbe svilupparsi intorno ad alcuni assi principali: le nuove definizioni della nobiltà riconosciute dagli stati; i «privilegi» dei nobili