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Title
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REGIONI E CULTURA DELLE CLASSI POPOLARI
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Creator
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Giovanni Levi
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Date Issued
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1979-05-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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14
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issue
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41 (2)
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page start
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720
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page end
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731
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
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Rights
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Quaderni storici © 1979 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230920140555/https://www.jstor.org/stable/43778804?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjo4LCJzdGFydHMiOnsiSlNUT1JCYXNpYyI6MTc1fX0%3D&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A149cd26bb8a1619ce0a4ab66944e56bc
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Subject
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surveillance
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discipline
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biopower
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extracted text
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REGIONI E CULTURA DELLE CLASSI POPOLARI *
I
1. In un paese di innumerevoli localismi, la questione regionale non sembra aver avuto gran peso. Credo che questa specificità dell'Italia abbia un grande rilievo e che affondi le sue radici nella formazione dello stato unitario. Storici e politologi stanno interrogandosi sul rinascere dei conflitti etnici e regionali nei paesi industriali europei, mentre l'Italia, paradossalmente, la più storicamente regionalizzata e diseguale delle nazioni, non conosce se non ombre di quei movimenti che travagliano così sanguinosamente Spagna e Inghilterra.
Il punto da cui partire è dunque proprio la relazione fra regioni nucleo, da cui ha preso origine la spinta unitaria, e regioni periferiche. Le analisi evoluzionistiche e funzionalistiche della formazione degli stati nazionali differiscono nello stabilire stadi, sequenze o traiettorie o nel limitarsi a determinare le condizioni per cui un moderno stato nazionale esista, ma tutte tendono a definire lo sviluppo nazionale come un processo che si realizza in parallelo con la perdita da parte delle singole regioni della loro identità culturale: progressivamente un’unica cultura nazionale offusca, sostituisce, frammenta le distinzioni locali precedenti (Tilly, 1975; Hechter, 1979; Smith, 1973).
Per Hechter la relazione fra centro e periferia può essere vista in base a due modelli contrapposti. Un modello diffusioni-sta, per cui si verifica, per fasi che accompagnano una generalizzazione del mercato e dell’industrializzazione e in base alla superiorità del modello delle regioni centro, una dissoluzione progres-
* Si pubblica, senza sostanziali modificazioni, il testo di una relazione tenuta al seminario di studio sui problemi della storia delle regioni in Italia, promosso da «Quaderni Storici» e dalla Casa editrice Einaudi (Roma, febbraio 1979).
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siva delle caratteristiche regionali: cultura, economia, politica divengono largamente unitarie e comuni, le interrelazioni si spersonalizzano e la tradizione localistica si offusca e scompare. È questo modello che ha consentito di parlare di residui ed è questa tesi ottimistica ed evoluzionistica che è disastrosamente in crisi di fronte agli straordinari squilibri che la nostra società conosce; squilibri sociali e culturali di cui la questione meridionale non è che la più estesa ed esemplare. Ma pure questo modello è quello che ha dominato gran parte della nostra storia culturale e politica e ima diversità regionale che sembrava attutirsi è parsa continuamente proporre che si lavorasse sul passato a raccogliere residui di una cultura popolare in estinzione, fatta di frammenti e non di sistemi e incapace di ricrearsi continuamente. Il secondo modello che Hechter propone è quello del colonialismo interno: «il modello coloniale interno, lungi dal sostenere che l'incremento dei contatti fra nucleo e periferia sfoci in una convergenza di strutture sociali, suppone un rapporto completamente diverso fra le due regioni: si considera infatti che il nucleo domini la periferia politicamente e la sfrutti da un pùnto di vista materiale»; non ne consegue un'omogeneizzazione ma una cristallizzazione della distribuzione ineguale di risorse e di poteri fra i due gruppi (Hechter, 1979, p. 16).
La vicenda italiana, mi pare, trae la sua specificità proprio dal non rientrare appieno in nessuno di questi modelli: il dominio economico del Nord sul Mezzogiorno non è così automaticamente un dominio politico e culturale: l'unificazione piemontese, che in pochi anni ha esteso all'Italia i suoi modelli giuridici e amministrativi, ha, diversamente dagli altri paesi europei, perduto il ruolo di centro politico. Una capitale conquistata dopo dieci anni ha creato immediatamente in Italia una situazione di mediazione fra Nord e Sud che ha contribuito rapidamente a sciogliere il tipo di conflitti regionali che l'irradiarsi del potere dal centro originario ha suscitato contro Parigi, Madrid, Londra, Berlino. Una città fragile e simbolica, povera e antica, arretrata e colta, centro di uno stato nazionale e di una religione multinazionale rappresenta il centro di una configurazione di mediazione che possiamo assumere come terzo e più proprio modello di creazione di uno stato nazionale.
2. Quando noi osserviamo questa creazione meravigliosa della storia d'Italia e apparentemente così immotivata, la Democrazia Cristiana, restiamo disarmati: la cultura illuministica che ha impregnato il nostro marxismo ci tiene legati saldamente a
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un atteggiamento diffusionista e funzionalista: la DC è un residuo. In realtà è l'espressione odierna di una classe politica che in cento anni ha organizzato la mediazione fra gruppi orientati verso la comunità e gruppi orientati nazionalmente. Proprio in una società ricca di localismi e di municipalismi la sua capacità di direzione politica è stata quella di irrigidire risolamento e la segmentazione della società locale, di accentuare una separazione fino a creare la necessità e la possibilità per un gruppo politico di dominare questa straordinaria ricchezza che sono i canali di comunicazione fra gruppi sociali non comunicanti.
La mediazione politica si unisce a una mediazione economica fra industria e agricoltura, fra industria privata e industria di stato, fra industria e pubblica amministrazione; e ancora a una mediazione fra culture che nelle loro radici storiche trovano profondi abissi di diversità che non si lasciano superare: un potere dunque costruito sulla mediazione che immobilizza ima stratificazione di situazioni locali e unifica in sè stessa il tesoro della comunicazione. Una storia dell'antiregionalismo delle classi dirigenti italiane sarebbe molto indicativa: non è rifiuto del localismo, anche se talvolta può usare questa maschera; è piuttosto il controllo della dimensione di un’aggregazione di forze che a livello regionale potrebbero essere minacciose non per l'unità dello stato nazionale quanto per il potere della classe dominante.
Il peso politico della mediazione è diverso da quello che si ha in Spagna, in cui il centro unificatore del paese è il centro politico tradizionale, che ha costruito il paese per irradiazione, assorbendo anche una periferia industrialmente forte: un'aspra tensione delle regioni periferiche ha qui un carattere di ridiscussione del processo di creazione nazionale in cui i conflitti trovano un oggetto nel centralismo reale di Madrid. Roma è invece una capitale fittizia che assolve a una funzione simile a quella di un presidente della repubblica mediatore e garante, ma il cui ruolo di simbolo, pur essenziale, prevale ampiamente su quello di potere reale.
Con la Spagna l'Italia ha semmai un'analogia diversa, che si riflette in molte delle disparità e in fenomeni politici come il clientelismo: quella di essere a sua volta una nazione periferica, in cui il peso delle regioni forti è per molte vie subalterno ad altri paesi, e quello delle regioni deboli è spesso legato a fenomeni di emigrazione della popolazione verso l'esterno, flussi solo di recente assorbiti in parte dalle grandi città del Nord (Schneider-Schneider, 1976).
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3. Il risultato di tutto ciò, per quello che qui si discute, è che Tltalia non ha un rilevante movimento regionalista e che, comunque, non ha un regionalismo popolare diffuso, se si eccettuano la Sicilia, la Sardegna e alcune zone periferiche: il trasferimento di potere dall'élite locale all'apparato centrale dello stato ha certamente ridotto, con un più alto livello di integrazione, le differenze locali, ha accresciuto il potere delle burocrazie, ha diffuso il potere, ma ha insieme reso sempre più difficile per i singoli e per le piccole comunità controllare un processo di decisione affidato a persone e istituzioni sempre più numerose; crescono perciò coalizioni e legami che inseguono, per controllarlo, il potere decisionale diffuso ma non trovano più nell'autonomia locale che scarse possibilità e tardano, per i motivi storici e politici che si son detti, a trovare nella regione una dimensione corretta di organizzazione. Il processo si va rovesciando: dalla costruzione di uno stato accentrato a una diffusione del potere, e le istituzioni regionali in Italia, ancora cosi vuote di potere e di adesione popolare, potranno essere in futuro strumenti di controllo diffuso del potere centrale, in un momento in cui i singoli stati e la grande industria camminano verso una dimensione multinazionale. Ma per ora e per questi 120 anni d'Italia imita, il modello della mediazione è quello che ci consente un maggior numero di spiegazioni ed è anche ciò che ci fa supporre che una storia delle regioni dall'unità a oggi metta l'accento su un fenomeno che non esiste più o che non esiste ancora, sia cioè la storia di un insieme troppo disomogeneo che cerca le proprie dimensioni in reti diverse.
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4. Secondo Peter Burke, che si rifà alla definizione residuale di cultura popolare formulata da Redfield, «c'erano due tradizioni culturali nell'Europa moderna, ma non corrispondevano simmetricamente ai due gruppi sociali principali, l'élite e la gente comune. L'élite partecipava alla piccola tradizione, ma il popolo non partecipava alla grande tradizione... La differenza culturale cruciale era dunque fra una maggioranza per cui la cultura popolare era l'unica cultura e una minoranza che aveva accesso alla grande tradizione, ma che partecipava anche alla piccola tradizione come a una seconda cultura. Per l'élite le due tradizioni avevano differenti funzioni psicologiche: la grande tradizione era seria, la piccola era gioco». Nel corso del
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*600-700 le classi alte, secondo Burke, diminuirono progressivamente questa doppia partecipazione (Burke, 1978, pp. 28-29).
Questa definizione, così limitativa, tende a ridurre le relazioni fra le due tradizioni, le modificazioni che il mutamento sociale introduce: la conseguenza non può essere che un'analisi statica e per frammenti, in cui la cultura popolare non è intesa come sistema e va descritta in una sua paradossale autonomia che è fatta di incapacità di rinnovamento, di proposte e persino di assorbimento di novità; è come un antico patrimonio che viene man mano ridotto, svuotato, impoverito.
L'importanza della definizione di Burke è che è inserita in un contesto di analisi dei temi della cultura popolare europea fra i più documentati che possediamo. Ma è una descrizione di mattoni isolati senza che ne nasca il senso di una configurazione sistematica. E si è spesso fatto così: nella storia della cultura delle classi popolari la difficoltà è sempre stata quella di uscire da ima descrizione di quadri staccati, per vederla come un insieme interdipendente in grado di modificarsi, di arricchirsi o di impoverirsi. E non è solo un problema di circolarità fra cultura delle classi dominanti e cultura delle classi subalterne.
Non è un problema fittizio domandarsi quale sia stata la cultura delle masse operaie e contadine dell'Italia unita: ma mi pare che una risposta non possa essere cercata nelle raccolte di Pitré, di Salomone Marino, dei Lombardi Satriani, ma in una storia complessiva delle funzioni e interdipendenze che i meccanismi e le reti di relazioni sociali creavano, nel rapporto fra singole situazioni, località, comunità ed evoluzione della società complessa in cui sono inserite.
Elias ha proposto un'analisi del processo di evoluzione storica della società europea usando il concetto di reticolo di interdipendenze o di configurazione: i piani e gli atti, i movimenti emozionali e razionali degli individui e dei gruppi si interpenetrano continuamente in una relazione amichevole o ostile. Il mutamento nasce dalle tensioni e dalle polarizzazioni fra gli elementi che compongono la configurazione; la trasformazione che ne deriva produce strutture che nessuno ha progettato, ma che pure formano un ordine specifico. Il processo di centralizzazione politica e di monopolizzazione dell'impiego della forza da parte dello stato è fatto in base al mutare di configurazioni in cui il conflitto fra strati sociali porta a un continuo differenziarsi e ricomporsi delle funzioni sotto la pressione della competizione. Un'analisi di questo tipo, che può essere riferita sia a piccoli gruppi che a unità come lo stato o alle relazioni fra stati,
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sottolinea che il continuo aumento delle funzioni sociali e del numero stesso di persone rende ogni individuo o gruppo più dipendente, imponendo un continuo problema e sforzo di adattamento, una continua ricerca e imposizione di rigore e precisione nei comportamenti: la dinamica dell'occidente è una continua trasformazione della costrizione sociale in autocostrizione (Elias, 1975, pp. 187-208; Block, 1974, pp. 9-10).
Le conseguenze per il nostro discorso sono evidenti: la continua instabilità che sgorga dall’interno stesso delle configurazioni sociali così definite, qualunque sia la loro dimensione, impone anche una continua elaborazione di cultura, in cui le classi popolari (ma anche le classi loro antagoniste) organizzano nuovi meccanismi di difesa. La cultura popolare non è dunque né un meccanismo di difesa politico e psicologico creato una volta per tutte, né è solo un continuo sforzo di dominio sulle forze della natura, ma è — e sempre di più — la creazione di un sistema in mutamento di difesa e di controllo contro l'instabilità e l'aggressività della rete di interdipendenze sociali. In questo senso ha un ruolo fondamentale nel plasmare la configurazione di cui è parte.
Non è un caso che i problemi della cultura delle classi popolari abbiano avuto ima rinnovata attenzione da parte di studiosi impregnati di psicanalisi — Elias, De Martino, N. Zemon Davis — che tutti hanno ritenuto che la descrizione pur di elementi separati della cultura delle classi popolari andasse inserita in un sistema complessivo di rassicurazione, aggressivo o difensivo secondo i momenti. «Il fallimento delle prescrizioni e dei simboli, un fallimento che viola, contraddice, rende insufficiente o mette in crisi i meccanismi di interiorizzazione a tutti i livelli della personalità, costituisce la fonte primaria di domande radicali poste all'ambiente esterno e conduce alla riorganizzazione dell'identità» e a una nuova strutturazione del sistema di simboli (Platt-Weinstein, 1973, p. 84). La forza di questi meccanismi di difesa sociale e psicologica mette in crisi alla lunga i sanguinosi meccanismi ideologici che Polanyi descrive parlando della società liberale: i meccanismi di protezione, che per Polanyi si radicano nella definizione stessa di umanità, prima o poi distruggono le utopie del mercato autoregolantesi, non per un ritorno al passato, ma per organizzare nuove configurazioni (Polanyi, 1974; Grendi, 1978).
5. Bloch, Elias, Foucault: è una lunga tradizione di storia dell'addomesticamento dell'uomo, da un punto di vista fisico e
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psicologico; «progressi che, in maniera uniforme si riducevano a un'utilizzazione più efficace delle forze naturali, inanimate o meno: di conseguenza a risparmiare lavoro umano o, ciò che è pressoché la stessa cosa, ad assicurare ad esso un miglior rendimento» (Bloch, 1969, p. 218). Ma questa lotta di addomesticatori e di addomesticati impone una continua risistemazione delle configurazioni sociali, sul lunghissimo periodo i gruppi sociali subalterni possono sostituire quelli dominanti in un alternarsi di assimilazioni e di ridefinizioni di confini. Ma le relazioni fra gruppi alleati ed ostili impongono continui adattamenti in cui ogni gruppo organizza una cultura interdipendente dalla configurazione complessiva.
Gli storici sociali del mondo popolare, operaio o contadino, dell'Italia unita ci hanno dato ancora assai poco su queste configurazioni. Ma è orinai una tendenza comune della storia sociale più recente inglese, francese e statunitense allontanarsi da un ritratto della classe operaia come descritta in una stratificazione determinata da puri fattori economici e di classe. La caratteristica forse più evidente della formazione della classe operaia in Inghilterra e in Francia appare sempre più come una lunga storia di resistenze, di inerzie che contengono in sè forse non molti elementi di un'ipotesi di cambiamento reale e generale, ma un enorme potenziale di trasformazione e di condizionamento dei modi che assume lo sforzo di domesticazione che la borghesia e le classi dominanti tentano di imporre. E forse è giusto non tentare, populisticamente, di sopravvalutare il progetto, la coscienza delle classi popolari italiane per uscire dal quadro che abbiamo fatto di momenti coscienti, di leaders, di partiti, di movimenti, di istituzioni. Una direzione di lavoro, più chiarificatrice se non altro, è quella di mostrare il significato non solo tradizionale, residuale, conservatore di questa lenta resistenza che continuamente ha lavorato à costruire configurazioni sociali e culturali in cui fosse dominante la «funzione riparatrice e reintegratrice» (De Martino, 1966, p. 138).
Credo che in questo senso si possa dire che la differenza più sostanziale fra cultura della borghesia e delle classi dominanti e cultura popolare sia, anche in questi ultimi 120 anni, quella fra un gruppo sociale aggressivo, che formava una cultura per definizione portatrice di innovazione, in quanto interpretava come forze naturali, sia pur animate, le relazioni sociali con le classi subalterne, e una cultura continuamente reattiva, che ostacolava con forza, consciamente o inconsciamente, questa aggressione regolarizzatrice e addomesticante; una cultura dunque
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che non contiene in sé allo stesso grado rinnovazione, che resiste al rinnovamento tecnico e che quando lo subisce ha tempi lunghi di assimilazione e di riequilibrio. Non si tratta però di contrapporre innovazione a conservazione, ma di vedere in un quadro più complesso la lotta fra i gruppi sociali e le modificazioni della cultura delle classi popolari, considerando le interconnessioni di solidarietà e di conflitti, nello scontro fra rinnovazione tecnica per lo sfruttamento e la resistenza per aumentare la protezione sociale, che crea le configurazioni di cui è fatta la storia. È del resto stupefacente che si sia messo più spesso raccento sulla passività e sulla disgregazione piuttosto che sulla costruzione di meccanismi di protezione psicologica che la cultura popolare ha prodotto di fronte airabitudine al lavoro in fabbrica, airemigrazione di massa, alla Grande Guerra, al fascismo e così via: solo una cultura attiva e straordinariamente radicata e diffusa può spiegare che la società nel suo complesso abbia in questi 120 anni superato dei processi così distruttivi.
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6. De Martino ha sottolineato la funzione della delimitazione dello spazio, degli oggetti, dei simboli di un mondo conosciuto e l’angoscia della perdita «della vista del campanile di Marcel-linara» (De Martino, 1977, p. 481): la continua creazione da parte delle classi popolari di una cultura di rassicurazione, di una cultura che nel quotidiano eserciti ima protezione psicologica che metta in grado di affrontare la straordinaria potenza del negativo. L’analisi che egli fa è riferita a zone straordinariamente aggredite e impoverite, in cui ancora gli elementi naturali ostili, la tempesta ad esempio, conservano e creano una cultura impregnata di magico (De Martino, 1969), Ma il suo discorso è ampliabile a tutti i gruppi sociali subalterni che, al di là del magico, costruiscono strutture culturali che hanno un carattere forse più attivo, più aggressivo neirambito di configurazioni sociali più ampie e diverse.
Il problema che si pone, ritornando alla relazione fra la cultura popolare così definita e la storia delle regioni italiane dopo l’unità, è proprio quello della dimensione degli ambiti di cultura in cui le classi popolari organizzano la loro parte attiva nei reticoli di interdipendenze sociali in cui vivono. In base a quanto detto sopra sembra di dover sottolineare che un’analisi
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della società italiana troppo meccanicamente stratificata in base a classi sociali non sia sufficiente a spiegare la complessità delle aggregazioni e della disgregazione delle classi subalterne senza considerare un suo complicarsi in ima pluralità di principi di stratificazione (Davis, 1977). La modernizzazione senza sviluppo che caratterizza tanta parte della società italiana ha creato un quadro dualistico anche nella dimensione degli ambiti culturali, nelle logiche di aggregazione, nella separazione perpetuata da una classe dominante di mediazione fra zone industriali e zone contadine, fra aree e gruppi sociali orientati nazionalmente e aree e gruppi sociali orientati comunitariamente. Questa perpetuazione ha avuto un corso parallelo nella logica reattiva delle classi subalterne che hanno assunto una dimensione localistica come struttura di protezione. Questa delimitazione di confini insieme sociali e geografici fra gruppi e il mantenimento e la continua creazione di questi confini non significa assenza di comunicazione né solo esistenza di segni e criteri di identificazione, ma implica anche «un'interazione strutturata tale da permettere proprio la persistenza di differenze culturali» (Barth, 1969, p. 16).
Questa frammentazione non vuol dunque dire disgregazione; l'adesione, in una società complessa, all'identità nazionale non implica un paese omogeneo culturalmente, socialmente, etnicamente: la dimensione dell'eterogeneità culturale ed economica è quella municipale, che perviene a un'identità nazionale attraverso il mantenimento di canali di comunicazione fra segmenti sociali che trovano appunto a livello politico una classe che trae il suo potere proprio dal controllo di questi canali e dalla gestione della doppia adesione di gruppi sociali ai valori nazionali e a quelli eterogenei delle culture locali (Mintz, 1974, pp. 302-328).
7. La piccola dimensione dell'identificazione etnica e culturale, il quartiere, il villaggio, il mestiere sono insieme la forza e la debolezza delle classi popolari: la capacità di assumere queste realtà come base della trasformazione o della conservazione politica è stata di volta in volta determinante nella nascita, nella durata, nel fallimento di movimenti politici. Quanto il successo del primo socialismo è legato alla difesa del mestiere di certi gruppi operai, alla capacità di assumere in sé gli elementi di una cultura popolare locale? E quanti dei suoi fallimenti son dovuti all'incapacità di mediare fra città e campagna, fra culture operaie e contadine? Quante delle conseguenze dirompenti
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del fascismo sono state nella capacità di aggredire ima struttura sociale verticale familiare per proporre una socialità separata per sessi, per generazioni? E quanto del suo fallimento al permanere, nella vita quotidiana più che nella vita politica, di una capacità associativa delle classi popolari disperatamente legata alla sua funzione di protezione psicologica? Quanto la scolarità obbligatoria ha contribuito a rompere il localismo delle culture trasmesse attraverso la socializzazione familiare e quanto invece è la scuola che si è nei fatti differenziata socialmente e geograficamente sotto l'impatto delle culture locali?
E così Femigrazione, le guerre, il cattolicesimo: fenomeni nazionali che sono stati assorbiti localmente, rivissuti e trasformati fino ad assumere infiniti significati diversi, contradditori. Nessuno merita di essere dimenticato sotto una distorta gerarchia fra ciò che ha contato e ciò che non ha contato, che è residuo. «Occorre tener presente che una delle forme più acute di lotta sociale, nella sfera della cultura, è la richiesta della dimenticanza obbligatoria di determinati aspetti dell’esperienza storica» (Lotman, 1975, p. 47).
8. La dimensione regionale non mi pare dunque la più propria a misurare la cultura delle classi popolari in Italia dopo l'unità: le lunghe tradizioni degli stati regionali preunitari, se mai erano riuscite a creare processi popolari di identificazione regionale, si frantumano rapidamente; i dialetti tendono più a scomparire che a creare delle omogeneità regionali, influendo più o meno nella formazione dell'italiano di oggi; le determinazioni geografiche perdono sempre più il significato di limiti che un ribadimento amministrativo non riesce certo a definire meglio. Il rimprovero che gli antropologi delle società complesse si fanno di aver «tribalizzato» l'Europa, per l'Italia non è forse del tutto giustificato (Boissevain, 1975, p. 11): purché si consideri il modo di incapsulamento nella società complessa la dimensione della comunità è ancora assai utile per verificare le reti di relazioni che han caratterizzato la società italiana.
E se ne può dare una prova a contrario: l'appello alle solidarietà regionali si ritrova talvolta nell'emigrazione, ma è tanto più intenso quanto più rado è il gruppo sociale che si è ricreato nei nuovi luoghi di insediamento. Le solidarietà regionali sono una dimensione protettiva dove la ricerca di un'identità perduta e rassicurante non consente di ricostruirsi se non in presenza di una densità sufficiente possibile di relazioni sociali preferenziali. Ma questo è un indice di una specificità disperata
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e artificiale, pronta a rompersi di nuovo nella rete poco integrata dei municipalismi.
Sono del resto numerose le pressioni per la creazione di un confine etnico in cui riconoscersi ed essere riconosciuto, ma sono spesso provenienti dall'esterno, dalle classi dominanti che disfano ideologicamente quello che tende a unirsi socialmente, che propongono confini etnici per intorbidare i confini sociali, per creare quella che Hechter ha definito «una divisione culturale del lavoro» (Hechter, 1979, pp. 292-297). Vorrei darne solo un esempio illustre:
«La decadenza di Torino è incominciata con il trasferimento della capitale d'Italia. L'errore sta nel voler modificare la città con la pretesa antistorica di adeguarla agli abitanti, mentre occorre fare il contrario. Una popolazione estranea al nostro passato si è insediata nel centro storico, trasferiamola in periferia, in quartieri moderni, con servizi idonei e riconquistiamo uno per uno gli isolati della città vecchia! Trasportiamo il mercato di piazza della Repubblica 25 chilometri più in là, sostituendolo con ippocastani risanatori» (Luigi Firpo, a proposito di un museo della città, «La Stampa», 21-1-1972).
Siamo certo al di qua del dibattito fra diffusionismo e mediazione: ma mi pare un esempio significativo dell'oscuro ruolo che le regioni han giocato nella storia del conflitto sociale, più un ruolo negativo e indefinito, usato ideologicamente per aizzare la piccola borghesia, che la presenza di un problema di conflitti etnici rinascenti, radicata nella cultura delle classi popolari.
I limiti del mio discorso portano forse a conclusioni troppo drastiche: nell'Italia dopo l'unità e per quel che riguarda la cultura delle classi popolari la dimensione regionale è arbitraria ed equivoca. La lunga tradizione urbana in Italia, la divisione città-campagna propongono una storia della formazione di popolazioni e culture in ambiti più evidenti e definiti: ima storia delle singole città italiane, ad esempio, in cui sono così nettamente leggibili lo stratificarsi sociale e culturale, le relazioni con le campagne e con le altre realtà urbane.
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