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Title
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MICROSTORIA E INDIZI, SENZA ESCLUSIONI E SENZA ILLUSIONI
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Creator
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Enrico Artifoni
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Giuseppe Sergi
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Date Issued
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1980-12-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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15
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issue
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45 (3)
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page start
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1116
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page end
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1127
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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L'archeologia del sapere, Italy, Rizzoli, 1980
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Rights
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Quaderni storici © 1980 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230920141218/https://www.jstor.org/stable/43777665?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjo5LCJzdGFydHMiOnsiSlNUT1JCYXNpYyI6MjAwfX0%3D&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A3a43a075ad8f9f2a9cbff42ff1912305
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Subject
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history and historiography
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episteme
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non-discursive practices
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archeology
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archive
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discontinuity
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historical a priori
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history of present
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extracted text
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MICROSTORIA E INDIZI, SENZA ESCLUSIONI E SENZA ILLUSIONI
La considerazione della didattica della storia nell'intervento di Edoardo Grendi1 percorre due diverse vie. In primo luogo la storia insegnata, la storia dei manuali, è — com'è giusto — campo privilegiato d'osservazione per cogliere nei suoi esiti estremi un «senso comune storiografico». In secondo luogo la fruibilità didattica è tenuta presente come parametro a cui com* misurare la validità delle stesse operazioni di ricerca storica. L'intersecarsi di queste due diverse ‘presenze' della didattica impone due livelli di lettura di quelle pagine: un livello pratico-strumentale (la forza d’urto di nuove scelte tematiche della ricerca storica può eliminare dall'insegnamento della storia teleo-logismi, miti del progresso, visioni globalizzanti) e un livello epistemologico (la microstoria, i temi del quotidiano, della mentalità, del «vissuto» sono adeguata risposta alla parte più qualificata della nuova domanda sociale di storia, una risposta che si sottrae al monopolio dei «chierici» e diventa prospettiva di metodo). Sono due aspetti di ima battaglia culturale sul primo dei quali, soltanto, ci sentiremmo di condurre una lotta comune: una lotta, già aperta in ambito medievistico2, che ha come obiettivo la corrosione di un senso comune storiografico definibile a nostro avviso in modo più articolato.
L'atteggiamento della cultura corrente verso il passato è condizionato da due categorie mentali, fra loro opposte: la categoria del distanziamento (tutto il male è in un passato lontano e diverso, la storia è storia del progresso della civiltà e dell'«ascesa della razionalità») e la categoria dell'assimilazione (la natura umana non cambia, mutano gli assetti politici ma non le pulsioni individuali, la storia è gioco perenne di oppressi e oppressori, nel passato si trovano situazioni già ben conosciute nel presente). Ottimistica la prima, scettica e populista la seconda, queste due categorie condizionano largamente l'insegnamento e l'apprendimento della storia nella scuola media. Grendi, con la sua defini-
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zione di «senso comune», attacca soltanto la prima, perché solo alla prima attribuisce ima dimensione culturale rilevante: e non si può negare che solo la prima fa parte di una tradizione colta della nostra storiografia, così come non si può negare che soprattutto la prima si trova nei manuali di uso più corrente. Ma se, più che ai manuali e ai programmi, ci si accosta al nodo concreto del meccanismo insegnamento-apprendimento, al ‘quotidiano* della presenza della storia nelle nostre scuole, la seconda categoria mentale assume un’importanza tutt’altro che trascurabile.
I risultati di un questionario diffuso due anni fa nelle scuole superiori di Torino (in coda ad un seminario interdisciplinare sull'insegnamento della storia d’ancien régime), suggerivano anzi una decisa preponderanza della categoria dell'assimilazione sia nell'atteggiamento mentale degli studenti, sia nella prassi dell'insegnamento della storia. Il «messaggio [...] di una civiltà conquistatrice e liberatoria» è già intaccato da mode culturali e dall'uso superficiale, da parte di molti insegnanti, di nuove categorie dell'«interessante». L'avversario comune appare indebolito, ma indebolito male. Le falle dell'insegnamento finalistico sono state riempite o da «ricerche d'ambiente» che spesso circoscrivono al quartiere o al paese d'origine la formazione culturale dello studente, o dallo sviluppo subalterno e occasionale di temi stimolati dalle curiosità di massa: curiosità quasi mai spontanee, ma guidate per lo più da chierici d'altro tipo, maestri del pensiero di dubbia solidità legati all'industria dell'informazione e della cultura. Streghe e rastrelli, feste contadine e cibi genuini compongono uno sgangherato corteo, colorito ma effimero, che occupa spazi nelle scuole senza in realtà lasciarvi il segno. È certo doverosa la battaglia contro modelli culturali monolitici e intrinsecamente autoritari: ma ad essa si deve affiancare l’impegno contro un uso egualmente strumentale della storia, quello che spinge a cercare nel passato conferme o dettagli del già conosciuto. Anche questa didattica della storia è «antididattica» perché, in sostanza, non insegna nulla.
Se si amplia così, rendendola bipolare, la definizione di senso comune storiografico, la ricerca dei rimedi si fa più ardua. Non riteniamo che l’attuale occasionale e disordinata presenza del «vissuto» nell’insegnamento medio della storia possa essere il cavallo di Troia della nuova storiografia; abbiamo inoltre dubbi profondi sulla fertilità metodologica dell’incontro fra le propensioni della cultura corrente e gli indirizzi delle nostre ricerche. La ricerca di una «problematica comparazione con la situazione attua-
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le», il superamento del «senso dell'alterità della materia», la stessa formulazione di «modelli di prospezione» che colleghino la conoscenza del presente a quella del passato3 rischiano di essere passivi adattamenti al secondo filone, meno colto ma egualmente endemico, del «senso comune». Possono forse essere utili strumenti, usati spregiudicatamente per stimolare l’attenzione in ima prima fase dell’operazione didattica, ma non possono essere promossi a metodo di conoscenza.
Sorge, a questo punto, un dubbio. La storia come storia di grandi sistemi, il teleologismo storiografico, ci appaiono avversari già indeboliti in virtù della nostra formazione di medievisti? È probabile. È certo che alcune battaglie a noi paiono meno attuali. Sono lontani i tempi degli affreschi glo-balizzanti del tipo di Santa Romana Repubblica, scarsissima presenza hanno avuto, nell’interpretazione del medioevo, le versioni più schematiche della lettura marxista del passato. Ben prima delVhistoire totale si è affermato nella medievistica del dopoguerra un costume di ricerche ‘sul campo’ spesso prive della pretesa di costituire modelli e non di rado aliene da prospettive di comparazione: persino con qualche eccesso di «ateoreticità» che ha fatto emergere fondate preoccupazioni sulla «crisi epistemologica» della medievistica4. Generalizzando e semplificando si può dire che i medievisti sono alla ricerca della consapevolezza critica sul senso delle indagini che stanno conducendo, ma che senza dubbio hanno già compiuto la parte positiva di una «dissoluzione della storiografia» e appaiono largamente immunizzati dallo «storicismo selettivo e teleologico»5. A questi spontanei orientamenti di ricerca si accompagna come abbastanza normale, nel settore medievistico, una didattica universitaria «bricoleuse» che, non di rado, contagia la sperimentazione nella scuola media. Forse per questo, dunque, cerchiamo nuovi aspetti da battere del senso comune storiografico: qualche eccesso della «cultura materiale», qualche degenerazione esclusivistica del gusto per il «vissuto».
Forse per questo, pur essendo d’accordo con Grendi sulla positività, almeno in via provvisoria, dell’assenza di una «ricomposizione unitaria di sintesi», non possiamo condividerne certi ottimismi. Soprattutto non crediamo nel valore salvifico dei temi di ricerca (e, connessi, di insegnamento) da lui scelti fra quelli propri dell’attuale «storiografia critica». Alcuni temi (il «privato», il «quotidiano», il «vissuto», il «mentale») sarebbero di per sé una garanzia; altri temi (le istituzioni, il potere) sono esorcizzati. Di
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questo rovesciamento, di queste nuove selettive gerarchie tematiche la scuola non ha bisogno per le considerazioni sopra fatte: e cioè perché si assecondano tendenze in atto sostanzialmente generiche e antididattiche. Tanto meno ne ha bisogno la ricerca: perché considerare inevitabile che lo studio del potere e delle istituzioni sia finalistico? Perché lasciarne il monopolio agli studiosi di formazione più tradizionale? Non mancano esempi su cìj che c’è attualmente da fare in sede di storia delle istituzioni. Troppi momenti della storia sono, soprattutto nei manuali, considerati intervalli poco significativi, neutre o caotiche transizioni da una fase all’altra di un presunto sviluppo: quando quelle fasi hanno rappresentato in realtà compiuti o originali modi di funzionare di una società. In troppi periodi storici si è cercato lo sviluppo, quando sono da individuare gli sviluppi paralleli, nelle loro peculiarità e nelle loro interferenze: e neppure soltanto sono da cercare gli sviluppi, ma anche le potenzialità inespresse e le forme di organizzazione sociale rimaste allo stadio incoativo. Sappiamo che Grendi e altri amici di «Quaderni storici» sono molto sensibili ai nodi di transizione analizzati per il loro specifico travaglio, e non soltanto alla luce del «da dove» e del «verso dove»; e che apprezzano le ricerche dove ogni sviluppo istituzionale è considerato come facente parte di un fascio di situazioni che a noi risultano provvisorie, ma che tali non apparivano agli occhi dei contemporanei. Perché, allora, nuove gerarchie tematiche? Alcuni grandi temi istituzionali — il comune medievale italiano, ad esempio — sono ancor oggi in gran parte da sottrarre alla retorica. Grandi personaggi, di cui si è a tutt’oggi studiato solo il carisma, sono da ricondurre anch’essi nell’alveo del «vissuto». C’è molto da fare: anche perché, occorre insistere, il potere — esercitato e, ancor più, subito — è un aspetto di primissimo piano dello stesso «quotidiano»6.
Risulta evidente il rifiuto, sia di Grendi sia nostro, dell’approccio nomotetico alla storia caro agli epistemologi, della ricerca di «tipi reali» e «tipi ideali» di matrice weberiana: posizioni in cui storia e didattica della storia diventano tutt’uno, in cui la ricerca storica ha significato solo se sviluppa un ammaestramento. Riteniamo produttiva la libera sperimentalità della ricerca e riteniamo positivo che l’insegnamento recepisca quella libera sperimentalità7. Condividiamo pertanto quanto nelle pagine di Grendi c’è di interesse per il ‘situazionale’, quanto c’è di interesse per gli elementi di ‘diversità’ del passato (non collocabili in una linea di sviluppo, non assimilabili con il presente). Ma
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avvertiamo il rischio che si faccia strada una ricerca privilegiata di «costanti antropologiche» nella storia8, così come avvertiamo il rischio che la già ricordata categoria dell'assimilazione non trovi soltanto imo strumentale uso didattico, ma inquini anche l'impostazione della ricerca. Superate le idee-guida, superata la storia maestra di vita, evitiamo il rischio di trasformare la storia in una ricerca sistematica delle sintonie (dal «quotidiano» di oggi al «quotidiano» di ieri, dal «personale» di oggi al «personale» di ieri).
Negando Futilità dei completi rovesciamenti nel rapporto conoscitivo con il passato, negando Futilità di un eccesso di ‘scarti’ sul piano tematico, sorge spontaneo proporre una sorta di sincretismo storiografico, grazie al quale i temi politici risultino calati nella cultura materiale e la cultura materiale perda ogni caratteristica di atemporalità. Una strada che dovrebbe portare al superamento di curiose contraddizioni. Le contraddizioni di chi, come intellettuale del 1980, è lettore di «Le Monde» e, come storico, si comporta da lettore della «Sentinella del Canavese»; o le opposte contraddizioni di un politologo — che ci capitò un giorno di incontrare — il quale, politicamente fiducioso ormai soltanto nella militanza in difesa di una piccola e locale «cultura minacciata», diceva tranquillamente di odiare la storia locale e di amare solo le grandi sintesi. Una strada, quella della libera sperimentalità applicata a temi fra loro complementari, per seguire la quale è fondamentale il ricorso a tecniche indiziarie. Tecniche che, se prescindono da sistemi logici, sono tutt’altro che irrazionali o a-razionali: anzi, chi ha analizzato una lirica irlandese del secolo IX, in cui è tracciato un bellissimo parallelo fra il gatto Pangur Ban che caccia topi e il solerte studioso che cerca di risolvere ardui problemi, non esita ad attribuirne i contenuti all’ingresso nella cultura irlandese, prima mitico-naturalistica, di elementi di razionalità di origine carolingia9.
È fuor di dubbio che la ricognizione operata da Ginzburg sulle forme del sapere indiziario vada accolta con favore10; analogamente ci sembra indiscutibile che essa si salda (o comunque si accosta con naturalezza) alle proposte storico-analitiche di Grendi, quasi a strutturarle metodologicamente. Ma converrà chiarire, a proposito di un saggio che ha già dato l’occasione di scrivere molto, e di scrivere cose belle e meno belle, i limiti di un consenso e le ragioni di una perplessità.
Le Spie ginzburghiane, che — colpa nostra, forse — non ci hanno folgorato come una sorta di epifania storiografica, sono
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un apprezzabile tentativo di esplicitare in termini di aperta consapevolezza — parola-chiave già negli scritti di Cantimori — i percorsi di una ragione ‘altra’; per lo storico, rappresentano un’utile occasione per interrogarsi sulla provenienza della propria strumentazione e per desacralizzare, infine, i ben poco arcani segreti di un mestiere: l’indagine di Ginzburg, letta contestualmente a una viva attività di ricerca, ha il grande pregio di portare alla luce pietre, mattoni e impalcature di un lavoro che i meccanismi di una sussiegosa dignità di studioso rivestono spesso con l’abito della festa. Bene dunque che si cerchino i fondamenti di una storiografia un po’ ribalda e un po’ corsara, e che crolli infine l’ipocrisia dello studioso che, gaglioffo, gioca a trictrac con gli amici, ma veste panni reali e curiali quando, fattosi serio e compunto, deve dialogare con i grandi dell’antichità e dell’accademia11. Che poi i quadri di riferimento siano un «paradigma indiziario» equivale a dire, per i nebbiosi secoli di nostra competenza, che la storia si fa con quanto si ha a disposizione: per lo più tracce, indizi e spie. Qualche complicazione sopravviene quando sullo scarto e sulla devianza rispetto a una norma s’impernia una storiografia anch’essa ‘altra’: non perché, lo diciamo a chiare lettere, ci piaccia di più individuare da qualche parte qualche grande corrente storica che passa e tutto travolge e deposita sulle rive del fiume scorie residuali di cui non mette conto di occuparsi; ma perché è anche la norma che non conosciamo, visto che l’odiato senso comune storiografico, le sue certezze e la sua teleologia, ci sono del tutto estranei, come medievisti. E anche perché, a conti fatti, cacciare con gioia e amore ai margini o nel fitto della foresta, significa tuffarsi nella contemplazione di chi si è sempre negato a qualche cosa: e ciò implica due ordini di problemi. Il primo è che non sempre la negazione ci fu, e rimane da dimostrare che attraverso la razionalità venatoria e metonimica analizzata da Ginzburg parli la voce della liberazione, mentre la voce del padrone si esprime senza contraddizioni nei quadri del paradigma anatomico (condividiamo quindi gli interrogativi formulati da Vegetti)12; il secondo è che questa prospettiva concettuale nel migliore dei casi prescinde del tutto dal potere, nel caso intermedio lo constata, nel caso peggiore lo evoca come uno spirito del male13. Sempre, comunque, lo aggira.
Ma, si dirà, la storiografia degli indizi è per definizione una strategia aggirante. Il cacciatore, rispondiamo, aggira, e coglie i segni impercettibili della presenza dell’Altro e del Nemico, ma
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non certo per eluderlo o per vaga smania di conoscenza; sì invece perché vuole apprenderne i costumi e i mimetismi, vuole saperli dire, e anche (perché negarglielo?) vuole uccidere la preda. Fuor di metafora, Passe di sviluppo di ima cultura sauvage, venatoria, divinatoria e semeiotica che con grande finezza Ginzburg ha disegnato nel suo lavoro (forse con qualche concessione un po' troppo foucaultiana a grandi scansioni cronologiche caratterizzate da diversi «zoccoli» epistemologici) sembra voler condurre ad ogni costo a una pratica della storiografia del marginale e periferico, conchiusa nell'orizzonte tematico dell'escluso e délVeslege. Ma davvero per via indiziaria si può giungere solo a una storia che problematizzi «le serie, le scansioni, i limiti, i dislivelli, gli scarti, le specificità cronologiche, le strane forme di persistenza, i possibili tipi di relazione»? (non è Ginzburg, è Foucault nell'introduzione alYArcheologia del sapere). O piuttosto non è il caso di avere l'audacia di riproporre — finalmente, ora, a carte scoperte, schierati su un campo epistemologico che presuppone il dileguarsi dei grandi quadri concettuali — una storiografia che non arretri, neppure in ambito microstorico, di fronte all'inorri-dita constatazione che il potere esiste, che assume forme diverse e storicamente definibili, e costantemente si riproduce e si moltiplica? penetra anche là dove lo si vorrebbe assente, nei lindi territori di ricerca proposti da Grendi, ed è subito e praticato da cacciatori, aruspici, medici, critici d'arte e scrittori di romanzi polizieschi. Dice Anseimi che «il problema è quello della dimensione politica dei quadri entro i quali ci muoviamo»14. Noi vorremmo dire, più propriamente, che quella dimensione di potere non passa solo attraverso la costituzione delle grandi strutture d'inquadramento, ma si dissemina e si fraziona: nel medioevo, percorre la superficie delle campagne e spartisce terre, mentalità e stili di vita; divide le città, crea concetti di eminenza sociale, determina il reticolo di forze rionali che si ricompongono o si scontrano nel governo comunale.
Poteri e forze dispersi. Ma non inconoscibili, e meno che mai ipostatizzati come entità metafisiche che in qualche modo agiscono, ma che è vano cercare di afferrare. Perché anzi qualche consuetudine con le cose dell'età di mezzo ci fa cogliere la concretezza corposa di questa dialettica di opposizioni, sempre sostanziata di segni tangibili: un castello, una masnada, un cavallo «coverto», ima casa-forte, una cerimonia di adoubement cavalleresco, una società di arti o di armi, un culto privilegiato... Ora, queste cose si affrontano o si eludono. E sarebbe grave che proprio una
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nuova storiografia policentrica, a molti fuochi, di discorsi disseminati, non riuscisse a inscrivere lungo il suo orizzonte tematico, per paura di disturbare il nitore del proprio imaginaire, il tema di un potere multiforme e concretissimo che riesce, anche in virtù della propria materialità, a suggerire simboli e a orientare mentalità. Per studiare questo, e per studiare tutto il resto, senza preclusione alcuna — che non sia quella verso la storia a tesi che legge il passato imprimendovi sopra gli schemi gerarchici del presente — servono tracce, indizi, spie, marginalità vere o presunte. Ma soprattutto occorre una storiografia che non si contenti dell'uso di indizi come rimandi a un'incerta ulteriorità. L'ulteriore, quando lo si vuole per definizione altrove e inattingibile è, questo sì, opaco e metafisico. E precludersi qualche cosa significa, ancora, gerarchizzare rilevanze, e in fondo semplificare dove invece abbiamo bisogno di aggiungere dimensioni e complicare. Gerarchizzare in modo specularmente opposto ci sembra il nuovo pericolo. Praticare incisioni nel corpo del reale, ancorché passato, secondo le linee del vissuto e del quotidiano, della contemplazione di un'alterità che non riconduce che a se stessa.
Non ci sembra che Ginzburg abbia stilato il manifesto di ima nuova storiografia. E, se stiamo alle sue dichiarazioni, non sembra neanche a lui15. Ha invece fatto capire a chiare lettere che il metodo della ricerca tout-court convoca spesso presso di sé auctoritates ineleganti: il caso, la coincidenza, la fortuna, il dettaglio nascosto. Ma c'è già chi, in un intervento che riteniamo molto serio, si fa più realista del re e scorge solo «esclusione o subalternità gerarchica» tra il paradigma astratto/anatomico e quello semeiotico/indiziario16. Ora, è fuor di dubbio che la ricerca storica procede (deve procedere) per assemblaggi ispirati alla metonimia e al pensiero semeiotico. Ma il flusso generale della discussione in corso, per le personali scelte tematiche di quanti hanno avuto il merito di esplicitare ciò che vagava ancora indistinto sopra le regioni della storiografia, sembra volere forzatamente ricondurre a percorsi obbligati: da una parte il ‘micro', necessariamente misurato con metri indiziari; dall’altra, ahimè, il ‘macro', che se proprio non si può sopprimere, merita al più un bolso outillage generalizzante. Ciò significa suggerire dal basso imperialismi tematici, e presupporre che la ricerca veramente tale — indiziaria, lo ripetiamo — debba rinunciare ad affrontare la totalità delle rilevanze (e totalità qui non significa gerarchia, ma dialettica), per delibare i pezzi più gustosi della realtà. Ma se fare storia — lo diciamo con solennità scherzosa — è trovare
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collegamenti e seguire ima strada per vedere con chi e con che cosa s’incrocia, perché fermarsi appena fuori della foresta? Il gioco delle relazioni e delle interazioni è infinito. Ignorarlo quando non avviene orizzontalmente ma taglia bruscamente dall’alto i processi in atto equivale a chiudersi in una dimensione di ricerca sostanzialmente statica, e negarsi alla comprensione di individui, gruppi e società in movimento: e invece abbiamo di fronte campi di studio che sono altrettanti campi di forze.
A meno che non si voglia tradurre una nozione epistemologica di dispersione dei saperi in una constatazione, direttamente politica, della bellezza della disgregazione. Che è un’altra delle letture che si sono date del saggio di Ginzburg. Su menti altre volte lucide il sapere indiziario ha esercitato poteri arcani di fascinazione, come progetto totalmente al di qua della cultura e «fuori dal potere, contro il potere, contro la logica totalitaria del potere» 17. In realtà, più che di paradigma venatorio si può parlare qui della contemplazione di soggetti sociali inscritti totalmente sotto il segno dell’estraneità, dell’irriducibile e della negazione. Ci pare una netta forzatura del quadro di svolgimento proposto da Ginzburg, il quale parla sì di stili diversi di razionalità, ma astutamente esperiti dentro un dominio mentale che ha comunque sue regole e suoi meccanismi: al livello ‘basso’, si tratta comunque di cacciatori, e non dei bestioni di Vico. Sulla base di un’identificazione sottaciuta ma evidente di una diversa ratio mentale con l’alterità assoluta della déraison foucaultiana, questi lettori sembrano mettersi sulle tracce di un paradigma più ferino che scientifico: forse di un Pierre Rivière mostruoso e inconoscibile, errante nei boschi dopo il delitto come un essere mitico. Scelta libera e legittima (quella dei lettori suddetti). Ma con Pierre Rivière e il suo linguaggio dell’esclusione Ginzburg aveva regolato i propri conti qualche anno fa, constatando giustamente che sul piano storiografico non se ne può cavare che «stupore» e «silenzio» 18.
Questa dimensione fascinatoria e «numinosa» (termine non a caso coniato da un teologo)19 procede, a ben guardare, da ciò che meno ci è piaciuto del saggio di Ginzburg: la conclusione marcatamente populista, che la prima stesura non faceva affatto presagire e non anticipava logicamente20, la cervellotica individuazione di una «intuizione bassa» radicata nei sensi, la carica di indefinibile imponderabilità attribuita alle pratiche di carattere diagnostico (caso mai saranno incerti, ma non imponderabili, i modi di apprendimento di quelle pratiche). A queste petizioni di principio,
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che non servono certo a levare ai chierici il monopolio della storia e ci ricordano da vicino la dichiarazione di fede di Le Goff nell’introduzione all'edizione italiana dei suoi saggi (quando si sentì in dovere di annunciare urbi et orbi, servendosi di Rimbaud, che «la mano sulla penna vale quanto la mano sull' aratro»21), meglio, molto meglio, contrapporre la nettezza del motto balzacchiano che apriva i Giochi di pazienza: «ed è appunto supponendo tutto e scegliendo le congetture più probabili che i giudici, le spie, gli amanti e gli studiosi indovinano la verità di cui vanno in cerca». Anche perché ci piace rilevare e condividere, di quel libro delizioso, il procedere davvero per vie indiziarie, cercate e disegnate nel contesto di un atteggiamento serenamente ludico e di un grande rispetto per l'artigianato storiografico22.
Infine, una preoccupazione. Verificare un metodo significa porre alla prova la sua funzionalità alla ricerca: un gran travaglio teoretico non ci dà garanzie. Il Muratori che, poverino, non sapeva di essere egli pure cacciatore, pensava di raccogliere documenti e testimonianze: all’oscuro di tutto, scrisse le Antiqui-tates. Con la filosofia della storia i conti li accomodò in seguito, alla buona e senza troppa eleganza: «Anche nelle minute cose, purché giovevoli alla sanità, al comodo, al bisogno della vita e al commerzio degli uomini, degno è di encomi chi sa filosofare e scoprire il bene e il meglio. Gran filosofo dovette essere colui che inventò l’ordigno per fabricar calze al telaio»23.
Enrico Artifoni
Fondazione Luigi Einaudi, Torino
Giuseppe Sergi
Università di Torino
NOTE AL TESTO
1 E. Grendi, Del senso comune storiografico, «Quaderni storici», n. 41, mag.-ago. 1979, pp. 698-707.
2 G. G. Merlo, G. Sergi, Ricerca e didattica della storia nell’Università di massa. Problemi di metodo, «Quaderni medievali», n. 6, die. 1978, pp. 106-119.
3 Grendi, op. cit., p. 704.
4 O. Capitani, Crisi epistemologica e crisi di identità: appunti sulla ateoretici-tà di una medievistica, in Id., Medioevo passato prossimo, Bologna 1979, pp. 271-349.
5 Grendi, op. cit., p. 703.
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6 G. Sergi, Nuovi orientamenti metodologici e carenze tematiche, in aa.w., Storia totale fra ricerca e divulgazione: il «Montaillou» di Le Roy Ladurie, «Quaderni storici», n. 40, gen.-apr. 1979, p. 207.
7 Contrasta con questo orientamento la conclusione dell’intervento di S. Anselmi, Ricerca storica e didattica: da una metafisica all’altra, «Quaderni storici», n. 41, mag.-ago. 1979, p. 719.
8 C. Mozzarelli, La questione della transizione e del potere: soluzioni e rimozioni, «Società e storia», III/7 (1980), p. 136.
9 «Io stesso e Pangur Ban/ ciascuno ha un suo talento, / il suo ingegno è nel cacciare, / il mio in un’arte speciale. / Amo, più d’ogni fama, indugiare / sul mio libro, in calma riflessione; / Pangur Ban di me non è geloso, / a lui piace la sua arte elementare. / Quando, storia senza noia, / siamo insieme, unità di due / abbiamo, astuzia senza fine, / di che affilare i nostri artigli. / Dopo un eroico attacco a volte / il topo resta nella sua rete; / ima legge d'arduo significato/ è trattenuta invece nella mia. / Fissa il suo pieno occhio brillante / alla fessura della parete; / dirigo sulla sottile conoscenza / i miei lucidi, provati occhi. / Si esalta con piccoli balzi vivaci/ appena un topo ha tra le zampe; / anch'io provo gran gioia quando abbraccio / un difficile, amato problema. / Noi andiamo sempre così, / non di fastidio siamo l'un per l'altro; / ognuno ama la propria arte / godendo d’essa, separatamente. / La pratica quotidiana lo ha reso / maestro nel suo mestiere; / portando luce nell'oscurità / son nel mio agire padrone di me stesso»: traduzione, datazione e considerazioni in M. Cataldi, Parabola della poesia della natura attraverso la lettura di cinque liriche alto-irlandesi, di prossima pubblicazione.
10 C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in aa.w., Crisi della ragione, a cura di A. Gargani, Torino 1979, pp. 59-106.
11 L'immagine machiavelliana era già stata usata, in un contesto simile, da C. Ginzburg, A. Prosperi, Giochi di pazienza. Un seminario sul «Beneficio di Cristo», Torino 1975, p. 180.
12 M. Vegetti, La ragione e le spie, «Quaderni di storia», VI (1980), p. 17.
13 Sul «potere come omologo a male/repressione» cfr. Mozzarelli, op. cit., p. 137.
14 Anselmi, op. cit., p. 715.
15 Cfr. le dichiarazioni di C. Ginzburg in «Panorama», 11 febbraio 1980, p. Tl.
16 Vegetti, op. cit., p. 16.
17 A. Negri, lettera Riflessioni in margine a Ginzburg, «alfabeta», II, n. 11, marzo 1980, p. 18; e, sullo stesso filone, P. Virno, Home sweet home, «Metropoli», II, n. 2, aprile 1980, pp. 50-54.
18 C. Ginzburg, Prefazione a II formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del *500, Torino 1976, p. XVII. L'autore riprende qui espressioni dello stesso Foucault.
19 R. Otto, Il sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, Milano 1966; e cfr. la definizione che del «numinoso» è data in C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, a cura di A. Jaffé, Milano 1965, p. 427: «l’inesprimibile, il misterioso, il terrificante, l'interamente diverso, quella qualità direttamente esperimentabile che appartiene solo al divino».
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20 Cfr. infatti C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma scientifico, «Rivista di storia contemporanea», VII (1978), pp. 1-14.
21 J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante e altri saggi sul lavoro e la cultura nel medioevo, Torino 1977, p. XIII; e cfr. Capitani, op. cit., p. 320, n. 32.
22 Ginzburg, Prosperi, op. cit., pp. 7-12; e cfr. Ginzburg, Prefazione a 11 formaggio e i vermi cit., p. XIX.
23 L. A. Muratori, Della pubblica felicità, cap. XIII, in Opere, II, a cura di G. Falco, F. Forti, Milano Napoli 1964, p. 1581.
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1. Vorrei premettere che ho fatto dell’intervento di Grendi una lettura probabilmente un po’ forzata. Nel suo rifiuto sprezzante del «senso comune storiografico», meschino e inutile come un’incomprensibile litania per chi non vi abbia costruito sopra uno stanco mestiere, come nella sua appassionata ricerca di strade alternative, le suggestioni sono evidentemente molteplici, ma ce n’è ima più importante delle altre, perché preliminare: invita infatti a interrogarsi sul senso che una costruzione temporale implica, per il fatto di essere tale. Ripercorriamo rapidamente le tappe del discorso di Grendi, per chiarire meglio questa suggestione.
a) Grendi si batte contro una costruzione teleologica della storia, indipendentemente dallo scopo o feticcio specifico che la guida. I fini imperscrutabili della provvidenza come la storia antropomorfica del capitalismo ossificano ugualmente la ricerca, la rendono strumento di un clero. Poiché è finalizzata, questa storiografia ha bisogno di una organizzazione temporale ad hoc. Scelta la sua logica, passa a farsi la sua cronologia. La costruzione temporale che ne deriva è il frutto di un nesso causale, un rapporto di causa-effetto. La teleologia fa del tempo una necessità. Grendi rifiuta l’una e l’altro.
b) Commentando i risultati di questa operazione selettiva svolta dalla storiografia della «civiltà conquistatrice e liberatoria», Grendi dice che la gerarchia delle rilevanze adottata è «incapace di render conto alcuno dei traumi della nostra esperienza collettiva». In questa critica, il problema è ancora quello di dare ragione delle cose, di motivarle: usando l’espressione «rendere conto», Grendi sembra ancora interessato a stabilire