Amministrazione cittadina e controllo dell'ordine pubblico a Torino tra Sette e Ottocento

Item

Title
Amministrazione cittadina e controllo dell'ordine pubblico a Torino tra Sette e Ottocento
Creator
Claudio Felloni
Date Issued
1990-04-01
Is Part Of
Studi Storici
volume
31
issue
2
page start
555
page end
568
Publisher
Fondazione Istituto Gramsci
Language
ita
Format
pdf
Relation
Le Désordre des familles: lettres de cachet des Archives de la Bastille au XVIIIe siècle, France, Gallimard, Julliard, 1982
Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
Rights
Studi Storici © 1990 Fondazione Istituto Gramsci
Source
https://web.archive.org/web/20230920142141/https://www.jstor.org/stable/20565400?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjo5LCJzdGFydHMiOnsiSlNUT1JCYXNpYyI6MjAwfX0%3D&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A3a43a075ad8f9f2a9cbff42ff1912305
Subject
surveillance
discipline
institutions
panopticon
power
apparatus (dispositif)
confinement
extracted text
AMMINISTRAZIONE CITTADINA E CONTROLLO
DELL’ORDINE PUBBLICO A TORINO
TRA SETTE E OTTOCENTO
Claudio Felloni
Nel XVIII secolo Torino conobbe una rilevante espansione dal punto di vista urbanistico, demografico e sociale. Le iniziative dell’amministrazione volte a potenziare la rete viaria e i servizi si saldarono infatti agli interventi diretti a soddisfare le esigenze abitative e le pressioni speculative di una popolazione divenuta sempre più numerosa sotto la spinta di un consistente flusso immigratorio. Non mancarono neppure, in un simile quadro, gli indicatori sociali negativi: un terzo degli abitanti, ad esempio, viveva quasi quotidianamente a carico della carità pubblica o privata; la mortalità generale, di per sé piuttosto elevata, negli anni di crisi superava la stessa natalità. In compenso, l’assenza di una netta separazione fra le zone residenziali a seconda del ceto di appartenenza - peraltro tipica delle città d’^c^» regime - garantiva una certa compattezza al tessuto urbano e sociale. Nel complesso, Torino rimase a lungo una città il cui ordine e la linearità architettonica destavano l’ammirazione dei viaggiatori stranieri di passaggio. E benché segnata da guerre, carestie e difficoltà manifatturiere non conobbe né le sommosse, né le agitazioni e gli scioperi che si verificarono invece in altre città europee prima della rivoluzione francese.
Durante questo arco di tempo l’assolvimento dei principali compiti di annona, di ordine pubblico, di igiene e di politica edilizia all’interno dell’abitato fu prerogativa di una istituzione i cui caratteri, in confronto con altre situazioni coeve, ne facevano una peculiarità torinese: il Vicariato di politica e polizia. Ad esso, alla sua fisionomia interna, al suo funzionamento nel contesto cittadino e nell’ambito dell’apparato assolutistico sabaudo è dedicato il libro di Donatella Balani, Il Vicario fra città e Stato. L’ordine pubblico e l’annona nella Torino del Settecento, pubblicato dalla Deputazione subalpina di storia patria1.
Sul piano temporale la ricerca prende le mosse dalle provvidenze emanate nel 1679, colle quali l’ufficio assunse la fisionomia che avrebbe conservato pressoché inalterata fino all’Ottocento, e termina nel 1798, anno in cui venne soppresso dal governo provvisorio francese. In mezzo troviamo due capitoli aventi per oggetto gli sviluppi e i meccanismi di funzionamento dell’istituzio-
1 D. Balani, 1/ Vicario fra città e Stato. L’ordine pubblico e l’annona nella Torino del Settecento, Torino, Deputazione subalpina di storia patria, 1987.



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ne, e due riservati all’ordine pubblico e all’annona, entrambi terreni privilegiati della sua azione. Tra i meriti che il libro può vantare ve ne è uno indubbiamente più importante degli altri: narrare le vicende del Vicariato nel XVIII secolo, studiarle nei loro molteplici rapporti con la vita della città, ha voluto dire, in sintesi, gettare nuova luce su alcuni aspetti non secondari della storia torinese rimasti fino ad ora privi di contributi importanti e chiarificatori. Ulteriori ricerche saranno chiamate ad approfondire in futuro quel che di valido ed interessante, grazie all’estesa documentazione raccolta, già emerge da queste pagine.
Nella prima parte la natura dell’ufficio è vista essenzialmente «come espressione ora dell’incontro ed ora dello scontro tra gli obbiettivi accentratori della monarchia e le istanze autonomistiche della città» (p. Vili). La vastità e la varietà delle competenze svolte e la conservazione di un carattere eminentemente cittadino costituirono gli attributi che esso conservò pressoché inalterati lungo tutto l’arco del secolo. A volte acquistando, a volte perdendo qualche incombenza nessun intervento riuscì mai a snaturarne i tratti principali; sicché è lecito restare stupiti di fronte alla permanenza e al ruolo giocato da un organismo di origini comunali in una città nella quale, durante il Medioevo, l’autogoverno municipale non conobbe sviluppi paragonabili a quelli di altre città italiane. La spiegazione fornitaci dall’autrice pone l’accento sui rapporti di forza e sulla comune convergenza di interessi che, col tempo, vennero ad instaurarsi tra le rappresentanze locali e gli organi di governo dello Stato. Trascorsi gli anni di forte antagonismo del riformismo amedeano (in cui si arrivò nel 1724 alla completa subordinazione del vicario al potere centrale sull’esempio del lieutenant generale de police parigino) assistiamo ad una svolta nelle relazioni tra città e Stato. I termini del compromesso, destinato a durare negli anni seguenti, vengono individuati in una mutua concessione: da un lato la municipalità riacquistò il controllo del Vicariato, dall’altra però quest’ultimo perdette parte delle incombenze; in seguito riguadagnò nel campo amministrativo il terreno perduto in campo giudiziario a vantaggio della giustizia ordinaria, consolidando al tempo stesso il proprio potere in materia di polizia. Come dimostra anche l’entrata in vigore negli anni Sessanta del riformato sistema amministrativo cittadino, ciò che nel frattempo stava mutando era sia il grado di consenso goduto dalla politica sabauda presso la classe dirigente torinese, sia la sicurezza raggiunta dalla monarchia nel controllo dell’apparato statale: si poteva ormai ammettere la sopravvivenza di un potere non perfettamente integrato nella burocrazia governativa perché in possesso di strumenti atti ad indirizzarne comunque le scelte.
Al personale dell’ufficio, vicari e collaboratori, è dedicato il capitolo successivo. Oltre che nello svolgimento concreto del lavoro, i componenti sono studiati nelle loro caratteristiche sociali e professionali; maggiori informazioni vengono date sui vicari, sulle loro condizioni sociali, sulla famiglia di appartenenza, sul tipo di funzioni che la carica li chiamava a svolgere. In genere, alla guida del nostro organo era chiamato un membro rappresentativo e prestigioso dell’aristocrazia torinese. Soprattutto dopo il 1735, anno in cui la città riacquistò il diritto a formare la rosa di tre candidati dalla quale toccava al



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sovrano scegliere il designato, appare evidente perché questa attribuzione rappresentasse non tanto «un gradino nella scala gerarchica degli uffici, ma piuttosto il coronamento di un’attività politica e amministrativa svolta all’interno dei corpi rappresentativi della città con funzioni di sindaci e vicesindaci, archivisti, conservatori del Monte, ecc.» (pp. 95-96). Benché personaggio autorevole, il vicario era quindi assai lontano dall’incarnare il modello di funzionario che la monarchia stava tentando di imporre a tutto il regno. D’altro canto l’attività svolta ne faceva un magistrato difficilmente inquadrabile in un moderno apparato burocratico.
La prospettiva del libro muta nei restanti capitoli. Ad essere presi in esame sono qui i problemi relativi all’ordine pubblico e all’annona. Quantunque affrontato con un occhio ai limiti di competenza del vicario in tali materie, allargandosi il discorso chiama in causa anche altri elementi. Per l’annona in particolare, emerge una articolata ricostruzione delle politiche di approvvigionamento alimentare seguite dai diversi poteri, cittadini e non, nel corso del secolo. Se il dilungarsi su un tale argomento non giova forse all’equilibrio complessivo dell’opera - che risulta un po’ appesantita in questa direzione -ha il merito tuttavia di affrontare con risultati di rilievo questioni fino ad oggi lasciate sepolte tra la polvere degli archivi.
«La sussistenza della popolazione è il problema più importante di cui deve occuparsi un governo»: quel che scriveva in Francia negli stessi anni Jacques Necker, «ministro, filosofo, banchiere, speculatore di grani»2, avrebbe potuto essere facilmente sottoscritto da qualsiasi amministratore piemontese, vicario in testa. Il problema dell’approvvigionamento alimentare di Torino, infatti, era stato da sempre al centro delle preoccupazioni governative. Dipendendo interamente dalla campagna per i suoi consumi di derrate, la città - che da sola assorbiva circa un quarto dei generi di prima necessità prodotti dall’intero Piemonte - era esposta ai contraccolpi dell’incostante andamento dell’agricoltura e penalizzata dalla precarietà delle vie di comunicazione e dalle carenze della rete distributiva. Ad equilibrare un tale svantaggio miravano appunto le disposizioni annonarie. Pane abbondante, di buona qualità e a prezzi contenuti, senza tuttavia trascurare gli altri commestibili, costituivano gli obbiettivi a cui si rivolgevano le attenzioni delle autorità. Nel concreto, il fine era di assicurare ai cereali un rifornimento ininterrotto, di disciplinarne la distribuzione e la lavorazione all’interno della capitale, di controllare qualità e prezzi delle merci e dei prodotti alimentari.
L’impressione che si ricava da queste pagine è che le maggiori difficoltà di una simile politica consistessero nel conciliare esigenze ed interessi economici tra loro contrastanti: da un lato la necessità di tutelare i consumatori mediante prezzi calmierati senza tuttavia intaccare la rendita delle classi terriere; dall’altro la volontà di disciplinare i mercati senza scoraggiare gli scambi. Stretta tra queste contraddizioni, la strada prescelta continuò a passare per le disposizioni restrittive imposte agli intermediari commerciali (fornitori, mercanti di grano
2 Citato da S.L. Kaplan, Principio iti mercato e piazza di mercato nella Francia del XVII secolo, in «Quaderni storici», 1985, 58, p. 225.



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e panificatori), nella convinzione largamente diffusa durante Vancien regime che da costoro, dalla loro «irrefrenabile cupidigia di sordido profitto», e dallo scarso senso degli obblighi pubblici dipendessero in larga misura alti prezzi e carestie.
L’idea che i grani fossero ben piu che una semplice materia di commercio dal momento che rappresentavano un elemento di vita o di morte per moltissimi consumatori, riassumeva in sé, quindi, le fondamenta dei sistemi annonari. A tale problema, per tutto l’arco del Settecento, il vicario avrebbe riservato una fetta rilevante delle sue preoccupazioni, soprattutto nei momenti di grave penuria. Nei periodi difficili, numerosi negli ultimi decenni del secolo, cercò di far fronte alla crescita dei prezzi in vari modi: cedendo grani e farine provenienti da magazzini pubblici a prezzi «politici», ricorrendo a forme di credito verso i panettieri, sperimentando complesse compensazioni tra i valori monetari dei diversi tipi di pane. Si trattava ovviamente di palliativi più o meno efficaci, incapaci di risolvere la vera sostanza del problema. In breve, e non solo a Torino, le istituzioni annonarie dovettero alla fine capitolare davanti allo spettro della bancarotta causato dai continui interventi calmierato-ri.
Dal punto di vista finanziario, le conclusioni del libro sottolineano giustamente come le soluzioni adottate, oltre a «rivelarsi inadeguate», finirono «con l’accrescere il già gravissimo deficit dell’erario comunale» (p. 271). Più complesso è invece il giudizio qualora si affronti la questione degli approvvigionamenti alla luce di un quadro più ampio. Come si è detto, l’impegno verso i consumatori restò un dogma incontestato degli Stati d’antico regime, nella convinzione che la stabilità sociale potesse essere difesa a patto di garantire la disponibilità di vettovaglie. Provvedere alla sussistenza del popolo costituiva cioè un vero e proprio «prerequisito» all’ordine, i cui elevati costi economici potevano talvolta passare in secondo piano di fronte al timore di una rivolta popolare. Un giudizio sul grado di funzionamento degli istituti annonari deve pertanto misurarsi non soltanto in termini di costi e ricavi, di efficienza e spreco, ma - tenendo conto di quelle che erano le condizioni strutturali del traffico dei grani e delle farine nel XVIII secolo - deve anche inglobare categorie estranee all’economia. È forse un caso che Torino, nel corso del periodo in esame, tolto un tumulto dell’estate del 1797, non abbia praticamente conosciuto le gravi sommosse per il pane verificatesi invece in altre città europee? Di ciò non si vogliono fare ricadere tutti i meriti sull’efficace funzione preventiva dell’annona; tuttavia difficilmente quest’ultima fu estranea ad un simile risultato.
Entrando nel merito dei paragrafi dedicati all’ordine pubblico, possiamo affermare che elementi di turbamento della vita quotidiana non mancarono sicuramente nel panorama della capitale sabauda. Eccetto però la profonda crisi dell’ultimo decennio del secolo, il principale elemento di turbamento pare essere consistito nell'«ingente massa di vagabondi, mendicanti, oziosi, endemicamente presente in città, che si dilatava durante i mesi invernali e nei periodi di crisi per effetto dell’immigrazione rurale» (pp. 135-136). Nello specifico, ad essere temuta era la spiccata disponibilità verso il crimine e il



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disordine che questa folla composita mostrava. Autorità cittadine e poteri centrali tentarono in diverse riprese di sgomberare le contrade dell’abitato dalla presenza sgradevole e carica di pericoli dei poveri fornendo loro aiuti materiali, espellendoli dalla città, tentandone l’internamento nell’Ospedale di carità, minacciandoli di severe punizioni. L’accattonaggio, ufficialmente proibito all’indomani delle misure prese da Vittorio Amedeo II nel 1717, fini col venire di nuovo autorizzato, a certe condizioni, nel 1766. Neppure nei periodi di relativa prosperità infatti la rete assistenziale si mostrò in grado di ricoverare e soccorrere il crescente numero di bisognosi.
Gli studi condotti negli ultimi anni hanno registrato nel corso del XVIII secolo in Europa un incremento dei reati contro la proprietà giudicati dai tribunali. E comprensibile che il passaggio ad un «nuovo» modello di criminalità, in cui i delitti di sangue lasciavano spazio ad una massiccia diffusione del furto in tutte le sue forme, trovasse anche a Torino quei fattori di maturazione rinvenibili altrove: da quelli economici, legati all’innalzamento dei livelli e alla polarizzazione delle ricchezze tra le classi sociali, a quelli demografici connessi alla crescita della città, divenuta polo di attrazione per una popolazione rurale sempre meno ancorabile ai luoghi d’origine, a quelli socio-culturali che riflettevano lo sradicamento degli immigrati nel nuovo contesto per la concentrazione del lusso, per le difficoltà di trovare lavoro, per le restrizioni gradatamente introdotte nell’assistenza; il tutto dentro un quadro politicoistituzionale in veloce evoluzione verso una mentalità e una prassi repressiva del pauperismo e degli antichi spazi di illegalismo popolare che spingevano oltre la legge frange via via più numerose di popolazione3. A conferma di ciò il lavoro di Donatella Balani porta il progressivo aggravarsi delle pene previste dalla legislazione piemontese per gli attentati contro il patrimonio, le ricorrenti denunce delle autorità per «la frequenza e temerità dei furti, che si commettono in questa città, che nelle campagne», il crescente numero di arresti operati dal vicario per tali reati. E difficile dire, in realtà, quanto un simile aumento fosse imputabile all’effettivo moltiplicarsi dei delitti contro i beni e quanto invece alla comparsa, in seno alla classe dirigente, di atteggiamenti borghesi indirizzati alla ferrea tutela dei diritti di possesso. In Francia, negli stessi anni, un esercizio più severo e rigoroso della giustizia iniziava a colpire quella piccola delinquenza antiproprietaria che in passato veniva parzialmente tollerata in omaggio alle giustificazioni canoniche medievali del furto in caso di necessità o ad antiche consuetudini irregolari di fatto accettate4. Per Torino l’unica cosa certa è la significativa punta toccata dall’azione repressiva del Vicariato nell’ultimo decennio del secolo (il numero totale dei fermi passò da una media di 200-2 50 all’anno ad oltre 400): una prova certamente di maggior efficienza dell’apparato oltre che dell’eccezionale turbolenza del periodo, ma nulla di più.
3 Per una sintesi di questi temi cfr. U. Levra, Dal corpo all"anima: pene e criminali alla fine de II’ancien regime, in La scienza e la colpa. Crimini criminali, criminologi: un volto deir Ottocento, a cura di U. Levra, Milano, Electa, 1985, p. 110.
4 Si veda in proposito soprattutto A. Farge, Le void’aliments à Paris au XVIIIe siede, Paris, Plon, 1974, pp. 5 3-5 5 e 130-142.



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Da tempo immemorabile i compiti di «controllo sugli indigenti, di polizia amministrativa e giudiziaria, di repressione dei comportamenti devianti» (p. 142) risultavano accordati al vicario il quale, in collaborazione col giudice e col governatore militare, era chiamato a mantenere l’ordine e a garantire la tranquillità nella capitale. Le facoltà di intervento in questa materia dei tre organi in questione conobbero ampliamenti e restrizioni durante il periodo studiato, ma nel complesso sembra lecito concludere che continuarono a mantenere immutati i loro caratteri di fondo. Nel caso del Vicariato non mutò soprattutto quel «viziosissimo» e «mostruoso miscuglio di giuridico, ed amministrativo» in cui, nel secolo successivo, il conte Petitti, interrogato circa il «modo di ordinare con miglior successo l’amministrazione della Polizia nella Città di Torino», avrebbe identificato uno degli elementi maggiormente anacronistici dell’ufficio5. Ad esso infatti, ancora alla fine degli anni Novanta, spettava non soltanto di arrestare «oziosi, vagabondi, e sospetti», «ladri, truffatori» e «colpevoli di grave insolenza», ma anche di comminare loro «il bando, il carcere, la berlina, i tratti di corda e la catena a tempo, purché la prigionia per più di due mesi e le altre pene venissero eseguite con l’approvazione del primo presidente del Senato» (pp. 158-159). Inoltre, assieme alla giurisdizione civile su tutte le cause risolvibili senza formalità d’atti, il vicario deteneva l’arbitrio di procedere sommariamente (sulla base cioè di semplici sospetti e senza garanzia di un regolare processo) contro i soggetti ritenuti pericolosi per la tranquillità della città.
Nel novero di una siffatta procedura, al cui termine era di fatto il sovrano ad autorizzare o meno la condanna (generalmente la reclusione in una fortezza), rientrava del pari quella che, per analogia con la situazione francese, potremmo definire una vera e propria «police des familles»: gli interventi delle autorità volti a risolvere, in modo drastico e sbrigativo, le questioni e i conflitti insorti in seno ai nuclei familiari. Oltre a «rendere più ampio e capillare il controllo dello Stato sulla società» (p. 106) - come suggerisce l’autrice - il consolidarsi di simili attribuzioni apparteneva alla ultrasecolare tradizione di rapporti tra potere e società civile sotto l’antico regime; in Piemonte come in Francia, si trattava, in fondo, della stessa «légalisation de la répression privée»6 attraverso lo strumento per eccellenza a ciò delegato: la «lettre de chachet». In omaggio ad una filosofia secondo la quale «la famille est le lieu privilégié où la tranquillité privée fabrique une certaine forme d’ordre public»7, il vicario per Torino, il luogotenente generale di polizia per Parigi rappresentavano l’anello inferiore di una catena a cui demandare l’eliminazione dei soggetti perturbatori mediante l’invio di un ordine sovrano di internamento. Che il re accettasse
5 Archivio di Stato di Torino (d’ora in poi AST), sez. I, Materie economiche, Polizia in genere, m. 3 (1816-1817), Sul modo di ordinare con miglior successo l’amministrazione della Polizia nella Città di Torino. Riflessioni del Conte Petitti (s.d., ma probabilmente 1819); per la datazione del manoscritto cfr. P. Casana Testore, Un progetto di riforma dell’ordinamento statale di Carlo Ilarione Petitti di Roreto (1831), in «Rivista di storia del diritto italiano», 1986, LIX, p. 2 5 2.
6 A. Farge-M. Foucault, Le de'sordre des familles. Lettres de cachet des Archives de la Bastille, Paris, Gallimard, 1982, p. 16.
7 Ivi, p. 15.



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o meno la richiesta, l’intenzione dei preposti all’ordine pubblico di «evitare un aggravamento del carico di lavoro della magistratura ordinaria» (p. 106) si aggiungeva cosi ad altre e più specifiche esigenze: in primo luogo, evitare la pubblicità e l’infamia assicurate ai familiari dal processo e dalla regolare condanna dell’individuo accusato; in secondo luogo, impedire che i disturbi arrecati oggi alla tranquillità «privata» si trasformassero domani, perché non corretti tempestivamente, in più dannose violazioni delle leggi «pubbliche»; terzo, supplire i vuoti lasciati da una giustizia lenta e farraginosa nel suo corso e da un apparato repressivo, come vedremo tra breve, non ancora del tutto efficace nella sua azione.
Alcuni degli storici che hanno studiato i caratteri del fenomeno criminale nelle società preindustriali concordano nel rimarcare da un lato la sostanziale debolezza (soprattutto al di fuori dei grossi centri abitati) del controllo esercitato dalla polizia sulla vita sociale, a cui tentava di ovviare la severità delle punizioni previste dalla vecchia legislazione penale, dall’altro le «funzioni di controllo esercitate dalla comunità locale con una forza molto maggiore di quella che si osserva nelle società che dispongono di istituzioni specializzate di sorveglianza pubblica»8. Circa la situazione torinese la ricerca mette efficacemente in risalto i ripetuti tentativi effettuati dalle autorità comunali e governative di dare un volto più compiuto al sistema di polizia della città. È in questa chiave che va letta la sostituzione dei capitani di quartiere con i commissari di polizia (modellati sugli omonimi funzionari francesi) nel 1791, la tentata centralizzazione e militarizzazione di tutte le forze dell’ordine sull’esempio parigino nel 1783, il ritorno ai corpi municipali degli arcieri e delle guardie civiche sempre nel 1791, la proposta di istituire un organo statale di coordinamento, unico per tutto il paese, a cui affidare poteri e competenze in tale materia. A differenza di altre capitali europee, ciò che a Torino non parve mai in discussione - tranne che per gli anni Ottanta - fu la dipendenza di una parte importante del servizio di polizia da un istituto cittadino, secondo un modello destinato in futuro ad avere maggior fortuna nel mondo anglosassone che in quello continentale.
Indubbiamente i tempi non erano ancora maturi perché nel piccolo Stato subalpino si affermasse quell’idea di sorveglianza onnipresente e capillare del corpo sociale «capace di rendere tutto visibile ma a condizione di rendere se stessa invisibile»9, in cui Michel Foucault ha individuato il tratto fondamentale dei moderni apparati polizieschi nati in Francia (e a Parigi in particolare) già nel corso del XVIII secolo, giunti a compimento sotto Napoleone, divenuti modello per gli Stati della nostra penisola nel secolo successivo10. Risulta
8 B. Geremek, Crimine, criminalità, criminali nell’Europa dell’ancien re'gime, in La scienza e la colpa, cit., p. 30.
9 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976, p. 233.
10 Cfr. M. Sbriccoli, Polizia, diritto intermedio, in Enciclopedia del diritto, voi. XXXIV, Milano, Giuffré, 1985, p. 118; e in generale Aa.Vv., Amministrazione della giustizia e poteri di polizia dagli Stati preunitari alla caduta della Destra, Atti del 52° Congresso di storia del Risorgimento italiano, Pescara, 7-10 novembre 1984, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1986.



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tuttavia assai riduttiva una interpretazione di questi fatti che si limiti a constatare modalità e tempi di passaggio da un «vecchio» ad un «nuovo» modello di vigilanza pubblica, seguendo un tracciato astratto e lineare. Nel nostro caso è evidente che i caratteri assunti dal Vicariato vadano letti non solo in rapporto al grado di adesione ad un simile processo, ma anche, come puntualmente avviene nel libro, alla luce dei contrasti intercorsi tra le diverse forze sociali ed istituzionali per il governo della metropoli. Lo scontro tra «obbiettivi accentratori della monarchia» e «istanze autonomistiche della città», tra gruppi legati al potere centrale e ceti soliti ricavare ingenti vantaggi economici e politici dalla loro posizione nell’amministrazione locale, trovava infatti una importante posta in gioco proprio nell’acquisizione, nella perdita o nella spartizione delle differenti incombenze istituzionali, talvolta a scapito di una loro efficiente gestione. Nel campo del controllo sull’ordine pubblico, ad esempio, i rapporti di forza furono tali che, a dispetto di quanti premevano per la militarizzazione sul modello francese, prevalse il mantenimento del servizio da parte della municipalità. Un fatto dimostra poi che non si trattava di una momentanea vittoria delle aspirazioni cittadine in questo settore: all’indomani della Restaurazione l’ufficio sarebbe stato rifondato sulla base delle stesse disposizioni emanate nel 1791, e fino al 1848, anno della sua definitiva soppressione, continuò a svolgere un ruolo di primo piano nella vita della capitale; in particolare prosegui a mantenere rilevanti competenze nel settore dell’ordine pubblico, cosi da escludere, ancora una volta, ogni monopolio governativo su tale terreno.
In realtà, negli anni successivi al 1814 i tentativi di innovare gli apparati preposti alla sicurezza interna dello Stato non mancarono. Andavano in questo senso la creazione della Direzione generale di buon governo, del corpo militare dei Carabinieri reali - «assimilato per il servizio, e per l’aggravio di cui egli è allo Stato a quello dei Gendarmi nel passato ordine di cose»11 - e, più tardi, del ministero di polizia12. A grandi linee quindi, anche in Piemonte veniva ricalcato lo «schema organizzativo già sperimentato oltralpe»: «polizia centralizzata ma diffusa sul territorio, dipendente da un ministero apposito, professionalizzata e tesa a reprimere ma, soprattutto, a prevenire»13. Per Torino tuttavia questo non significò la parallela soppressione del Vicariato; col tempo, il risultato fu piuttosto un disorganico sovrapporsi di vecchie e nuove autorità a
11 AST, sez. I, Materie economiche, Polizia in genere, m. 2 (1814-1815), C. Rodi-G.A. A. Des Geneys, Osservazioni sopra l’utilità dello stabilimento del Buon Governo, e erezione d’un corpo di Reali Carabinieri del 3 gennaio 1814.
12 Raccolta dei Regi Editti, Manifesti ed altre provvidenze dei Magistrati ed Uffìzii, Torino, Stamperia Davico e Picco, I, pp. 140 sgg., Regie Patenti colle quali S.M. approvando lo stabilimento del Corpo de ’ Carabinieri Reali colle attribuzioni, prerogative, ed incumbenze ivi espresse, e dell’Uffizio di Direzione generale di Buon Governo distribuita in conformità dell’unita pianta ed incaricata specialmente di vegliare alla conservazione della pubblica e privata sicurezza, richiama all’esatta osservanza le provvidenze riguardanti gli oziosi, e vagabondi, con aumento di pena riguardo ai recidivi, e con varie altre provvidenze relative agli oggetti ivi contemplati, 13 luglio 1814; e ivi, VI, pp. 215 sgg., Regie Patenti colle quali si stabilisce un ministero di polizia, 15 ottobre 1816.
13 M. Sbriccoli, op. cit., p. 118.



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detta di Petitti «continuamente occupate a contrastarsi i diritti di giurisdizione»14. Sicché nel 1819 troviamo ben cinque istanze, «appoggiate tutte più, o meno, ad un diritto acquistato», delegate ad esercitare «con infelicissimo risultato» la polizia nella capitale: il ministero di polizia che, lungi dal limitarsi ad «organizzare, e controllare il servizio», provvedeva «egli stesso a molti dettagli» e a «varj minuti affari»; l’ispettore di polizia della divisione, alle dirette dipendenze del ministero; il vicario, il comandante militare della città e il giudice come già nel secolo precedente15.
Proseguendo nello scritto Petitti sosteneva che «ne’ giorni solenni di straordinario concorso popolare» l’assenza di «gravi sconcerti» era da attribuire unicamente all'«indole obbedientissima del popolo» e non alle «nuvole di Soldati comandati»; i rimedi alle disfunzioni imperanti erano rintracciabili, a suo parere, soltanto in una organizzazione maggiormente centralizzata della polizia cittadina. A differenza però di esperimenti in parte analoghi già tentati durante il Settecento, questa volta la responsabilità della tranquillità pubblica, più che sugli organi militari, avrebbe dovuto ricadere sullo stesso Vicariato, sia pur oggetto di una profonda trasformazione nella sua fisionomia istituzionale. Secondo questa ipotesi infatti il vicario sarebbe stato posto alle dirette dipendenze del ministero di polizia: i presupposti della centralizzazione venivano pertanto individuati nella sottrazione dell’ufficio al controllo municipale e nel suo inserimento di fatto nella sfera burocratica statale. Il vicario poteva continuare ad essere un decurione della città, ma la scelta dei candidati da sottoporre al sovrano era necessario diventasse competenza dei dicasteri di polizia e dell’interno. La carica doveva altresì perdere il carattere temporaneo «perché o l’individuo prescelto non conviene all’amministrazione, ed allora è importante il cambiarlo, o disimpegna a dovere le di lui funzioni, ed allora è pericoloso il rimuoverlo». «La spesa necessaria al pagamento, ed amministrazione dell’ufficio» sarebbe spettata da li in poi al ministero di polizia. Infine, «riguardandosi il Vicario diversamente dagli altri ufficiali di Polizia, in virtù dei privilegi della capitale», un regime particolare avrebbe regolato i suoi rapporti con il primo segretario di polizia16.
A dispetto dunque dei proclamati propositi di «salvare per quanto è possibile le antiche istituzioni, che meritano sempre rispetto», e di non ledere «gli antichi Privilegi del Corpo Decurionale» e della «civica amministrazione» nella materia in questione, è chiaro invece che le reali intenzioni di Petitti sembravano andare in tutt’altro senso. Di fronte però al «soverchio calore» con cui la città dimostrava di difenderne il controllo, la strada prescelta per dare in mano ad un’unica «salda istituzione» la «Direzione Politica del buon ordine» non poteva passare per la pura e semplice soppressione dell’ufficio. Scartata l’idea di affidare all’ispettore della divisione la «polizia generale» e al vicario la «polizia municipale» (salubrità, sussistenza, ecc.) dell’abitato, perché «in tutte
14 AST, sez. I, Materie economiche, Polizia in genere, m. 3 (1816-1817), Sul modo di ordinare con miglior successo l'amministrazione della Polizia, cit.
15 Ibidem.
16 Ibidem.



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le Città Capitali, e altre di grande popolazione» entrambe le funzioni «sono sempre riunite in mano d’un apposito Magistrato», non rimaneva che una soluzione: abolire il primo e delegare al secondo, preventivamente posto sotto dipendenza governativa, tutti i poteri, ferma restando però la non totale recisione dei rapporti tra esso e la municipalità.
Le Riflessioni di Petitti disegnavano quindi un assetto istituzionale che mostrava di recepire nella sostanza quanto di valido era presente ed esportabile nel modello napoleonico di organizzazione poliziesca. Tuttavia le proposte da lui avanzate non solo rimasero sulla carta ma da li a poco, assieme alla conferma dei «regolamenti in vigore riguardo al Vicario di Torino», fu decisa la soppressione dello stesso ministero di polizia17. In breve, come già era accaduto nel XVIII secolo, ancora una volta l’amministrazione cittadina dava l’impressione di poter difendere con successo le antiche prerogative in questo delicato settore da chi ne auspicava la riduzione.
Mentre il memoriale appena analizzato aveva per oggetto un tema preciso e limitato - la riorganizzazione dell’apparato preposto al controllo dell’ordine pubblico nella capitale - propositi piu ambiziosi aveva dimostrato invece nel 1814 Angelo Garassino presentando al sovrano la sua Dissertazione sopra le foggi di Politica e Polizia interna. Utilizzando in parte l’esperienza precedentemente maturata come vicario e facendo ricorso soprattutto alle nozioni acquisite dalla lettura di «classici» della materia quali Deiamare, Montesquieu ed altri, l’autore aveva mirato a stendere un vero e proprio «trattato di polizia» in cui osservazioni di carattere generale sul concetto di «politica» si mescolavano a rilievi e considerazioni più particolari sull’esercizio della giustizia, sulla organizzazione dell’assistenza agli indigenti, sull’istruzione dei ceti popolari, sui vincoli corporativi nel mondo della produzione, sull’annona e cosi via18. Non prive di interesse, ai fini di un confronto con Petitti, sono le parti del lavoro in cui Garassino si soffermava sull’utilità di istituire un «Ufficio di Politica», dotato di poteri amministrativi e sanzionatoti al tempo stesso, finalizzato al mantenimento della «generale tranquillità e sicurezza». Le competenze di quest’ultimo avrebbero abbracciato sia il giudizio in ordine ad alcune contese di commercio, sia «il procedere criminalmente contro i furti semplici, i Truffatori, oziosi, e vagabondi, mendicanti validi, borsaiuoli, donne di cattiva vita, mezzani, contro chi avrà cagionate delle leggiere ferite, o percosse, attentato pubblicamente a’ costumi, esposto in vendita libri, od immagini oscene, fatti insulti verbalmente, o con libelli infiamatori, mancanze di rispetto in Chiesa, od al culto divino, e contro i Giuocatori di giuochi proibiti»19.
17 Raccolta delle leggi e dei regolamenti di polizia vigenti per la città di Torino con analoghe provvidenze in osservanza per tutto lo Stato pubblicata con autorizzazione del governo dal Vice-Intendente e Notaio B. Operti Segretario del Vicariato, e del Regio Consiglio degli Edili, Torino, Eredi Botta, 1847, pp. 287 sgg., Regie Patenti, 30 ottobre 1821.
18 AST, sez. I, Materie politiche per rapporto all'Interno, Materie politiche relative all’Interno in genere, m. 9 (1799-1817), Dissertazione sopra le leggi di Politica e Polizia interna di Angelo Garassino, 1814.
19 Ivi, p. 27.



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È evidente quanto sulla carta, soprattutto nella commistione dei compiti, E ufficio assomigliava al vecchio Vicariato. Tuttavia, di nuovo l’autore delincava una rete di «Tribunali di Politica» che, partendo dal centro, arrivava a coprire lo Stato sino alla periferia estrema. Tutte le «Città, e villaggi o Terre» avrebbero ospitato dei «Tribunali di Politica» dipendenti dai «Tribunali superiori» residenti nei capoluoghi di provincia. Questi ultimi, a loro volta, dovevano far riferimento al tribunale della capitale composto da un «Reggente col titolo di vicario, ed Intendente Generale», da tre giudici (il primo dei quali con la qualifica di luogotenente vicario), da quattro commissari e altro personale minore. Allontanandosi dal cuore del regno la struttura interna andava gradualmente semplificandosi, per arrivare al commissario e al «supplente» previsti nelle «Terre». Grazie ai Commissari e agli impiegati subalterni i «Reggenti» o «Vicari» nei capoluoghi di provincia e nella capitale sarebbero stati cosi posti in grado di «vedere e agire in tutti gli angoli di una città»20. Sebbene non innovativo nell’organo utilizzato (la stessa struttura interna del tribunale supremo ricalcava quella del Vicariato a fine Settecento, formata, oltre che dal vicario, da un luogotenente, da un primo e secondo assessore con mansioni giuridiche, da quattro commissari e cosi via), innovativo era certamente lo snodarsi capillare di un simile apparato attraverso tutto il paese. In teoria, non sarebbero più potute esistere zone di oscurità nel corpo sociale e territoriale della nazione, perché l’osservazione dall’alto garantiva di «iscoprire ciò, che passa in segreto in una Città, o in una famiglia, per porre in luce molte insidie, che si anniderebbero a’ pregiudizio del Governo, o de’ Cittadini21». E la politica, con «savie leggi», avrebbe finalmente portato «l’armonia universale in tutto lo Stato» e non soltanto nella capitale, perché come un «corpo umano non gode quella soddisfaciente quiete, se non quando è interamente in perfetta Sanità», allo stesso modo nell’«ordine politico, se qualche parte dello Stato è viziata, il porta ovunque i suoi maligni influssi». Inoltre, la polverizzazione e la diffusione in profondità di un potere punitivo tempestivo e regolare nell’azione assicurava di stanare e colpire sul nascere quei diffusi illegalismi popolari contro i quali agivano vanamente le larghe maglie dei sistemi penali ereditati dal secolo trascorso: «I furti e le devastazioni nelle Campagne non sono meno delitti che esigono più gran timore per la facilità nel commetterli»22. Insomma, attraverso il perfezionamento e l’esercizio su scala allargata di un meccanismo istituzionale fino ad allora considerato prerogativa della capitale, al quale peraltro già gli editti settecenteschi riconoscevano aver «mezzi più facili, e pronti per iscoprire i ladri, truffatori, vagabondi ed altri, che vivendo senza redditi, e mestieri, non possono anche se non essere sommamente sospetti» sarebbe divenuto assai più facile «frenare il vizio disorganizzatore del buon ordine» e «incatenare la malizia umana».
A complemento di una soluzione che nelle intenzioni dell’autore doveva coniugare necessità ammodernatrici e volontà di conservazione del passato,
20 Ivi, pp. 30-34.
21 Ivi, p. 24.
22 Ivi, p. 16.



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nuove idee in fatto di sorveglianza generalizzata e strutture repressive già largamente collaudate in epoca precedente, nelle pagine successive troviamo illustrati i restanti cardini della proposta. In primo luogo la forza coattiva: da seguire era giudicato l’esempio costituito nel «Governo oltramontano» dalla gendarmeria, creando «un corpo militare distinto nelle persone, e rango», formato da uomini a piedi e a cavallo, agli «ordini de’ Magistrati di Politica», la cui «quantità delle persone, e diversità delle divise abbaglieranno i pregiudicati»23. In secondo luogo, un rilievo particolare veniva dato al libretto di lavoro obbligatorio per i «nulla tenenti», sul modello di quello già previsto dalla legislazione francese. Il «libricciuolo», contenente le generalità del possessore, sarebbe valso non solo per essere assunti da un padrone, ma anche per spostarsi da una provincia all’altra del Piemonte. Dimostrando poi di non condividere del tutto i timori dell’ancien regime verso una eccessiva libertà di movimento della popolazione, l’autore aggiungeva a queste due una terza funzione: coloro i quali, «privi di travaglio, ed in obbligo di portarsi in paesi distanti per cercarne, sprovvisti di denaro», si fossero presentati durante gli spostamenti «col sopradetto libricciuolo dal Commissario di Politica, o a chi ne farà le veci, constatando della loro vita laboriosa» sarebbero stati provvisti «di una libra di pane, e minestra la mattina, ed altra alla sera con ricovero». In «tale maniera la Politica», chiamata a distinguere «fra la moltitudine di nulla tenenti, i buoni, ed utili dagli oziosi, e perniciosi», procurando «ai primi libertà, tranquillità e sicurezza», ai secondi «una schiavitù, che non solo prevenga i delitti, ma gli obblighi altresì a loro malgrado a darsi a’ lavori», era messa in condizione di soddisfare due ordini di ragioni: da un lato le crescenti esigenze in fatto di mobilità della forza lavoro avanzate da quei settori soprattutto agricoli dell’economia piemontese più decisamente avviati in direzione di uno sviluppo capitalistico24; dall’altro l’urgente necessità di mettere la capitale al riparo dagli attacchi di masse sempre più numerose di «uomini senza padrone», sconosciuti e ritenuti capaci di qualsiasi azione. Prioritario era impedire che le città diventassero incontrollabili «Empori della dissolutezza»:
Si portano nelle Città Capitali molte persone, fra le quali una parte senza religione, e costumi, e già dediti al vizio per lo più indotti ad abbandonare i loro casolari, dove vivevano frugalmente, chi per solo poltroneria, e darsi al buon tempo. Altri per sottrarsi dalla soggezione de’ parenti; alcuni finalmente per liberarsi dalla punizione di qualche delitto, occultano il nome, e patria. Un certo numero di questi l’introducono nelle case de’ benestanti in qualità di servi, e diventano altieri, ingordi, e libertini, e soventi ladri. Gli inabili al servizio di casa, si portano nelle scuderie al soldo de’ vetturieri, alcuni de’ quali non contenti del piccolo guadagno non sufficiente alle spese di una libertina vita si rendono gli esploratori a favore degli assassini: altri poi sotto il nome di Carnali, o Cabassini, vivono impunemente nell’ozio e vizj incogniti all’ufficio di
23 Ivi, p. 35.
24 Sui processi di proletarizzazione in corso all’interno di alcune fasce del mondo contadino piemontese tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, cfr. R. Davico, Populations marginales et developpement industrie!: Peconomie du Piemont à /a fin du XVIIIe et au début du XlXe siede, in «Revue d’Histoire Moderne et Contemporaine», tome XIX, 1972, pp. 469-497; e R. Romeo, Cavour e il suo tempo (1810-1842), voi. I, Roma-Bari, Laterza, 197 7, pp. 14 9 sgg.



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Politica. Tutti quanti i sopra designati personaggi, oltre che privano l’agricoltura de’ loro soccorsi arrecano gravissimi disordini25.
Infine, riproponendo considerazioni già sviluppate in età precedente, l’estensore auspicava una stretta sorveglianza sulle professioni in rapporto alla loro contiguità col crimine. L’idea era però in parte associata a quella più originale di una organizzazione dell’ordine che schedasse e controllasse anche gli aspetti più diversi e minuti della vita sociale: ai «vettureggianti» bisognava richiedere di segnare sulle portiere delle carrozze «il nome della Città, e Terre del loro principale domicilio, ed il numero stabilito dalla Polizia»; i facchini, suddivisi per «Cantone» all’interno della città, avrebbero eletto i rispettivi «capitani», ai quali spettava l’incombenza di registrare «i nomi, e le abitazioni di quelli destinati» al loro «cantone» e di rimettere ai propri subalterni «una latta numerata» da applicare «alla cosi detta Cabassa»; per i gestori di osterie invece, in nome della vecchia e mai sopita polemica contro gli «infiniti, e gravissimi danni» che derivavano dall'«abuso delle Bettole», era ritenuta sufficiente una riduzione nel numero dei loro locali e la chiusura degli stessi nei giorni e nelle ore lavorative alle maestranze operaie26.
Da un sommario esame dei provvedimenti in tema di ordine pubblico emanati nel Regno di Sardegna dopo il ritorno dei Savoia sembra lecito concludere che i suggerimenti di Garassino non rimasero del tutto inascoltati. Se cosi non fu per la parte più corposa riguardante i «Tribunali di Politica», un’ordinanza del vicario impose invece sin dal 30 giugno 1814 il libretto di lavoro ai lavoratori dipendenti di Torino; più tardi le patenti del 23 gennaio 1829 ne estesero l’obbligo a tutti gli operai e le persone di servizio dello Stato. Ricalcando per alcuni aspetti disposizioni del secolo precedente, il manifesto vicariale del 2 luglio 1814 cercò inoltre di regolamentare rigidamente le professioni di facchino, nettatore di scarpe e «pubblico servente». Analogamente nel 1822 fu ordinato «agli affittatori di carrozze, vetture e cavalli» di tenere sulle vetture «un numero visibile in stampo» perché il servizio da loro prestato «interessa talmente l’ordine pubblico non meno che la sicurezza»27.
Per quanto concerne l’organizzazione della polizia torinese si è visto che nulla di nuovo, nella sostanza, era stato previsto in proposito dall’autore della Dissertazione. Ai fini di valutare più compiutamente il suo progetto come quello del Petitti, resta però da considerare fino a che punto i fattori da Donatella Balani ritenuti responsabili di aver favorito, per il Settecento, il
25 AST, sez. I, Materie politiche per rapporto all’Interno, Materie politiche relative all'Interno in genere, m. 9 (1799-1817), Dissertazione, cit., pp. 67-68.
26 Ivi, p. 54 e p. 69.
27 Raccolta delle leggi e dei regolamenti di polizia vigenti perla città di Torino, cit., pp. 175 sgg., Operai e persone di servizio-Regolamento approvato con R. Patenti 23 gennaio 1829', e ivi, pp. 184 sgg., Manifesto del Vicariato 2 luglio 1814 sui facchini, nettatori di scarpe, ed altri pubblici serventi; Raccolta dei Regi Editti, cit., I, pp. 85-87, Manifesto ed ordini del vicario di Torino concernenti gli artigiani, loro lavoranti ed apprendizzi, 30 giugno 1814; e ivi, XVII, pp. 129-133, Manifesto prescrivente alcune condizioni e norme riguardanti il servizio delle carrozze da nolo, 18 marzo 1822.



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mantenimento al Vicariato delle competenze qui prese in esame28 potessero far sentire la loro influenza ancora nel secolo successivo. Certamente, come emerge dalle pagine di Petitti, rimase assai forte la determinazione mostrata dalla città nell’opporsi a qualsiasi riduzione dei propri poteri. A ciò si aggiungeva anche la fiducia accordata in molti settori della società piemontese da uomini di governo ed esponenti della classe dirigente quali ad esempio Angelo Garassino ad istituzioni e strutture ereditate dalla tradizione sei-settecentesca. Dubitiamo tuttavia che simili ragioni siano di per sé sufficienti a spiegare il funzionamento dell’ufficio sino alle soglie della seconda metà dell’Ottocento. In ultima analisi, soltanto altri lavori condotti per il XIX secolo in modo analogo a quello proposto da Donatella Balani potranno rispondere efficacemente a un simile interrogativo.
28 Oltre a quelli menzionati all’inizio bisogna ancora ricordare: «le dimensioni contenute della capitale, una certa determinazione mostrata dalla città nel difendere il proprio potere di controllo almeno su alcuni aspetti della vita amministrativa, l’assenza di tradizioni istituzionali diverse, la parsimonia dei sovrani sabaudi, la volontà di non appesantire l’apparato burocratico, le ristrettezze finanziarie dell’erario comunale» (p. 263).