UNUS TESTIS. LO STERMINIO DEGLI EBREI E IL PRINCIPIO DI REALTÀ

Item

Title
UNUS TESTIS. LO STERMINIO DEGLI EBREI E IL PRINCIPIO DI REALTÀ
Creator
Carlo Ginzburg
Date Issued
1992-08-01
Is Part Of
Quaderni Storici
volume
27
issue
80 (2)
page start
529
page end
548
Publisher
Società editrice Il Mulino S.p.A.
Language
ita
Format
pdf
Rights
Quaderni storici © 1992 Società editrice Il Mulino S.p.A.
Source
https://web.archive.org/web/20230920152226/https://www.jstor.org/stable/43778633?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjo5LCJzdGFydHMiOnsiSlNUT1JCYXNpYyI6MjAwfX0%3D&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A3a43a075ad8f9f2a9cbff42ff1912305
Subject
individuals and individualization
extracted text
UNUS TESTIS. LO STERMINIO DEGLI EBREI E IL PRINCIPIO DI REALTÀ
a Primo Levi
1. Il 16 maggio 1348 la comunità ebraica di La Baume, un piccolo villaggio provenzale, fu sterminata. Quest’evento è solo un anello di una lunga catena di violenze innescate nella Francia meridionale dal manifestarsi della Peste Nera, neH’aprile dello stesso anno. L’ostilità contro gli Ebrei, che molti ritenevano colpevoli di aver diffuso la pestilenza spargendo veleno nei pozzi, nelle fontane e nei fiumi, si era cristallizzata per la prima volta a Tolone, durante la settimana santa. Il ghetto era stato assaltato, uomini donne e bambini erano stati uccisi. Nelle settimane successive violenze analoghe si verificarono in altre località della Provenza, come Riez, Digne, Manosque, Forcalquier. A La Baume vi fu un solo sopravvissuto: un uomo che dieci giorni prima era partito per Avignone, dove era stato convocato dalla regina Giovanna. Costui lasciò un commosso ricordo dell’evento in poche righe scritte su un esemplare della Torah, oggi conservato presso la Oesterreichisches Nationabibliothek di Vienna. Joseph Shatz-miller, combinando in un bellissimo saggio una nuova lettura del brano scritto sulla Torah con un documento tratto da un registro fiscale, è riuscito a identificare il nome del sopravvissuto: Dayas Quinoni. Nel 1349 egli si era stabilito a Aix, dove ricevette l’esemplare della Torah. Se sia mai tornato a La Baume dopo il massacro, non sappiamo 1.
Adesso parlerò brevemente di un caso diverso, anche se in
Questa c la traduzione di un paper (titolo originale: Just One Witness) presentato al convegno The Extermination of thè Jews and thè Lùnits of Representation tenutosi a Los Angeles, presso l’UCLA, il 25-29 aprile 1990. Cfr. ora Probing thè Lùnits of Representatìon. Nazism and thè «Final Solution», a cura di S. Friedlander, Cambridge, Mass. 1992. In qualche punto il testo originale è stato leggermente modificato.
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qualche modo connesso. L’accusa di diffondere la peste lanciata contro gli Ebrei nel 1348 ricalcava da vicino uno schema che era già emerso una generazione prima. Nel 1321, durante la settimana santa, una voce si diffuse improvvisamente attraverso l’intera Francia e in alcune zone circostanti (Svizzera occidentale, Spagna settentrionale). I lebbrosi o, secondo altre versioni, i lebbrosi sobillati dagli Ebrei, oppure i lebbrosi sobillati dagli Ebrei sobillati dai re musulmani di Granada e di Tunisi, avevano ordito un complotto per avvelenare i cristiani sani. I re musulmani erano ovviamente irraggiungibili: ma per due anni lebbrosi ed Ebrei divennero il bersaglio di una serie di violenze messe in atto sia dalla popolazione sia dalle autorità politiche e religiose. Altrove ho cercato di districare questo complesso intreccio di eventi 2. Qui vorrei analizzare un passo tratto da una cronaca latina, scritta all’inizio del quattordicesimo secolo dal cosiddetto continuatore di Guglielmo di Nangis: un monaco anonimo che, come il suo predecessore, viveva nel convento di Saint-Denis.
Dopo la scoperta del presunto complotto molti Ebrei, soprattutto nella Francia settentrionale, furono uccisi. Vicino a Vitry-le-Fran^ois, dice il cronista, circa 40 Ebrei furono imprigionati in una torre. Per evitare di essere messi a morte dai Cristiani essi decisero, dopo lunghe discussioni, di uccidersi vicendevolmente. Del gesto s’incaricarono un vecchio, molto autorevole, e un giovane. Poi il vecchio chiese al giovane di ucciderlo. Il giovane accettò con riluttanza: ma invece di suicidarsi s’impadronì dell’oro e dell’argento contenuto nelle tasche dei cadaveri giacenti al suolo. Poi cercò di scappare dalla torre con l’aiuto di una corda fatta con lenzuola annodate. Ma la corda non era abbastanza lunga: il giovane cadde al suolo rompendosi una gamba, e fu messo a morte 3.
L’episodio non è di per sé implausibile. Tuttavia esso presenta alcune innegabili affinità con due passi delle Guerre giudaiche di Flavio Giuseppe. 1) Il primo passo (III, 8) parla di 40 individui che, dopo essersi nascosti in una grotta vicino a Jotapata, in Galilea, si suicidano tutti, tranne due: Giuseppe stesso e un soldato suo amico che accetta di non ucciderlo; 2) il secondo descrive il celebre assedio di Masada, la disperata resistenza degli Ebrei riuniti dentro la fortezza, seguita da un suicidio collettivo, anche qui con due eccezioni: due donne (VII, 8-9) 4. Come interpretare le analogie tra i due passi di Giuseppe e quello, già menzionato, della cronaca scritta dal continuatore di Guglielmo di Nangis? Dobbiamo supporre una convergenza nei fatti, o, al con-



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trario, la presenza di un topos storiografico (che nella versione più recente includerebbe anche un’allusione a un altro topos, l’avidità ebraica)?
L’ipotesi di un topos storiografico è già stata formulata cautamente a proposito del resoconto degli eventi di Masada fornito da Giuseppe 5. L’opera di Flavio Giuseppe, largamente nota nel Medioevo, sia in greco sia nella famosa versione latina preparata sotto la direzione di Cassiodoro, era particolarmente diffusa (a quanto si può giudicare dal numero dei manoscritti che ci sono pervenuti) nella Francia del Nord e nelle Fiandre 6. Sappiamo che Flavio Giuseppe faceva parte delle letture prescritte durante la quaresima nel monastero di Gorbie attorno al 1050; le sue opere tuttavia non sono menzionate in un elenco trecentesco di letture prescritte ai monaci di Saint-Denis, tra i quali c’era, come si è detto, il continuatore di Guglielmo di Nangis 7. Inoltre, manca una prova diretta della presenza di manoscritti delle Guerre giudaiche di Flavio Giuseppe nella biblioteca di Saint-Denis 8. Ma l’anonimo cronista avrebbe potuto consultarli senza difficoltà: tra i molti manoscritti posseduti dalla Bibliothèque Na-tionale di Parigi ve ne uno (risalente al XII secolo) proveniente dalla biblioteca di Saint-Germain-des-Prés 9. Tutto ciò consente di concludere che il continuatore di Guglielmo di Nangis può aver conosciuto le Guerre giudaiche di Flavio Giuseppe (o il suo adattamento del quarto secolo noto come «Hegesippo») ,0. Ma da ciò non consegue necessariamente che il suicidio collettivo vicino a Vitry-les-Fran^ois non si sia mai verificato. Sulla questione si dovrà lavorare ancora: anche se forse sarà impossibile arrivare a una conclusione netta.
2. Queste vicende risalenti a un passato remoto e semi-dimenticato sono connesse attraverso fili molteplici al tema che ho indicato nel sottotitolo. Di ciò si mostra acutamente consapevole Pierre Vidal-Naquet, visto che ha deciso di ripubblicare nello stesso volume (Les Juifs, la mémoire, le présent, Paris 1981) un saggio su «Flavio Giuseppe e Masada» e «Un Eichmann di carta»: una discussione particolareggiata di quella storiografia detta «revisionista» che sostiene l’inesistenza dei campi di sterminio nazisti 11. Ma la presenza di contenuti analoghi - la persecuzione degli Ebrei nel Medioevo, lo sterminio degli Ebrei nel ventesimo secolo - è a mio parere meno importante dell’analogia dei problemi di metodo posti da entrambi i casi. Provo a spiegare perché.

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Le analogie tra i due passi di Giuseppe, riguardanti rispettivamente l’episodio di Jotapata e l’assedio di Masada, vertono, oltre che sul suicidio collettivo, sulla sopravvivenza di due individui: Giuseppe e il soldato suo amico nel primo caso, le due donne nel secondo 12. La sopravvivenza di un individuo era un requisito necessario perché si desse una testimonianza: ma perché due? Penso che la scelta dei due testimoni si spieghi con il ben noto rifiuto, presente sia nella tradizione giuridica romana sia in quella ebraica, di riconoscere in sede di giudizio la validità di un unico teste 13. Entrambe le tradizioni erano, come ovvio, familiari a un ebreo diventato cittadino romano come Flavio Giuseppe. Più tardi l’imperatore Costantino trasformò il rifiuto dell’unico testimone in una legge vera e propria, che venne poi inclusa nel codice di Giustiniano 14. Nel Medioevo l’allusione implicita a Deut. 19, 15 (Non stabit testis unus contra aliquem) diventò testis unus, testis nullus: una massima ricorrente, in forma implicita o esplicita, nei processi e nella letteratura legale 15.
Proviamo a immaginare per un momento che cosa succederebbe se un criterio del genere venisse applicato nella ricerca storica. La nostra conoscenza degli eventi che si verificarono a La Baume nel maggio 1348, vicino a Vitry-le-Fran^ois in un giorno imprecisato dell'estate del 1321, e nella grotta nei pressi di Jotapata nel luglio 67, è basata su un testimone più o meno diretto. Si tratta, rispettivamente, dell’individuo (identificato come Dayas Quinoni) che scrisse le righe che si leggono sulla Torah oggi conservata presso la Nationalbibliothek di Vienna; il continuatore di Guglielmo di Nangis; Flavio Giuseppe. Nessuno storico sensato respingerebbe queste testimonianze definendole intrinsecamente inaccettabili. Secondo la normale pratica storiografica il valore di ognuna di esse dovrà essere accertato attraverso una serie di confronti. In altre parole, si dovrà costruire una serie che includa almeno due documenti. Ma supponiamo per un momento che il continuatore di Guglielmo di Nangis, nella sua descrizione del suicidio collettivo avvenuto nei pressi di Vitry-le-Fran-qoìs, non abbia fatto altro che riecheggiare le Guerre giudaiche di Flavio Giuseppe. Il presunto suicidio collettivo finirebbe col dissolversi in quanto fatto: ma la sua descrizione costituirebbe pur sempre un documento importante della diffusione (che è anch'essa, tranne per un positivista inveterato, un «fatto») dell'opera di Flavio Giuseppe nell'Ile-de-France al principio del quattordicesimo secolo.
Il diritto e la storiografia hanno dunque, a quanto pare, rego-



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le e fondamenti epistemologici che non sempre coincidono. Pertanto, i principi giuridici non possono essere trasferiti di peso nella ricerca storica 16. Questa conclusione sembra contraddire la stretta contiguità sottolineata da studiosi cinquecenteschi come Francois Baudouin, lo storico del diritto che dichiarò solennemente che «gli studi storici devono poggiare su di un solido fondamento legale, e la giurisprudenza deve essere unita alla storiografia» 17. In una prospettiva diversa, connessa alla ricerca antiquaria, il gesuita Henri Griffet, nel suo Traile des différentes sortes de preuves qui servent à établir la vérité de rhistoire (1769) paragonò lo storico a un giudice che accerta l’attendibilità dei vari testimoni l8.
Oggi quest'analogia ha un suono decisamente fuori moda. È probabile che molti storici odierni reagirebbero con un certo imbarazzo alla parola cruciale del titolo del libro di Griffet: preuves, prove. Ma alcune discussioni recenti mostrano che la connessione tra prove, verità e storia, sottolineata da Griffet, non può essere messa facilmente in disparte.
3. Ho già menzionato «Un Eichmann di carta», il saggio scritto da Pierre Vidal-Naquet per confutare la famigerata tesi, proposta da Robert Faurisson e da altri, secondo cui i campi di sterminio nazisti non sarebbero mai esistiti 19. Questo stesso saggio è stato ripubblicato di recente in un piccolo volume intitolato Les assassins de la mémoire, che Vidal-Naquet ha dedicato alla propria madre, morta ad Auschwitz nel 1944. Non è difficile immaginare i motivi morali e politici che hanno spinto Vidal-Naquet a farsi coinvolgere in una discussione particolareggiata, che comprende tra l'altro una minuta analisi della documentazione (testimoni, possibilità tecnologiche e così via) riguardante le camere a gas. Altre implicazioni, di ordine più esplicitamente teorico, sono state delineate da Vidal-Naquet in una lettera a Luce Giard inclusa in un volume in memoria di Michel de Certeau apparso alcuni anni fa. L’écriture de 1’histoire, pubblicato da de Certeau nel 1975, è stato (scriveva Vidal-Naquet) un libro importante, che ha contribuito a scalfire l'orgogliosa innocenza degli storici: «Da allora siamo diventati consapevoli che lo storico scrive, che produce uno spazio e un tempo, pur essendo egli stesso inserito in uno spazio e in un tempo». Ma (continuava Vidal-Naquet) non dobbiamo disfarci della vecchia nozione di «realtà» nel sen-



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so, evocato da Ranke un secolo fa, di «ciò che propriamente è stato».
Sono stato profondamente consapevole di tutto questo nel momento in cui è cominciato il caso Faurisson, che malauguratamente dura ancora. Naturalmente Faurisson è agli antipodi di de Certeau. Il primo è un rozzo materialista che, in nome della realtà più tangibile, toglie realtà a tutto ciò che tocca: il dolore, la morte, gli strumenti della morte. Michel de Certeau fu profondamente scosso da questo perverso delirio e mi scrisse una lettera in proposito [...]. Ero convinto che esisteva un discorso riguardante le camere a gas, che tutto doveva passare attraverso le parole [moti sentiment était quìi y avait un discours sur les chambres à gaz, que toni devait passer par le dire], ma che al di là, o per meglio dire al di qua di questo, cera qualcosa di irriducibile che, in mancanza di meglio, continuerò a chiamare realtà. Senza questa realtà, come si fa a distinguere tra romanzo e storia 20?
Negli Stati Uniti la domanda sulla differenza tra romanzo e storia scaturisce di solito dall'opera di Hayden White, o comunque in rapporto ad essa. Le differenze tra Hayden White e Michel de Certeau dal punto di vista della pratica storiografica sono ovvie: ma è impossibile negare che tra Metahistory (1973) e L’écritu-re de l'histoire (1975, che però include anche saggi scritti alcuni anni prima) esista una certa convergenza. Ma per intendere pienamente il contributo di Hayden White ritengo che sia necessario tratteggiarne rapidamente la biografia intellettuale21.
4. Nel 1959, nell’atto di presentare al pubblico colto americano la traduzione di un libro scritto da uno dei più stretti seguaci di Croce - Dallo storicismo alla sociologia di Carlo Antoni - Hayden White parlò del saggio giovanile di Croce La storia ridotta sotto il concetto generale dell"arte definendolo un contributo «rivoluzionario» 22. L'importanza di questo saggio, pubblicato da Croce nel 1893, all’età di 27 anni, era già stata sottolineata da Croce stesso, nella sua autobiografia intellettuale (Contributo alla critica di me stesso) e, qualche tempo dopo, da R. G. Collingwood (The Idea of History) 23. Com'era prevedibile, il capitolo di Metahistory dedicato a Croce include un esame particolareggiato di La storia ridotta sotto il concetto generale delTarte 24. Ma a sedici anni di distanza White aveva assunto un atteggiamento molto più tiepido. Dichiarava di condividere ancora alcune affermazioni cruciali del saggio di Croce, come la netta distinzione tra ricerca storica, ritenuta un’attività puramente propedeutica, e la storia propriamente detta, identificata con la narrazione storica. Ma poi concludeva così:
È difficile non vedere nella «rivoluzione» introdotta da Croce nella sensibilità



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storica un vero e proprio passo indietro, dato che tra i suoi effetti ce stato quello di escludere la storiografia dal tentativo - che veniva emergendo nella sociologia durante gli stessi anni - di costruire una scienza generale della società. Ancora più gravi sono state le sue conseguenze per quanto concerne la riflessione degli storici sul lato artistico del loro lavoro. Croce aveva ragione nel considerare l’arte, anziché una mera reazione fisica o un’esperienza immediata, una forma di conoscenza della realtà: ma la sua concezione dell’arte come rappresentazione letterale della realtà isolò di fatto lo storico, in quanto artista, dai progressi più recenti, e sempre più importanti, che simbolisti e post-impressionisti avevano conseguito un po’ in tutta Europa nel rappresentare livelli di consapevolezza diversi25.
In questo passo appaiono già alcuni elementi dell’opera successiva di Hayden White. A partire da Metahistory egli si è interessato sempre meno alla costruzione di una «scienza generale della società», e sempre più al «lato artistico dell'attività storiografica». Questo spostamento d’accento non è troppo remoto dalla lunga battaglia antipositivista di Croce, che ispirò, tra l'altro, anche il suo atteggiamento sprezzante nei confronti delle scienze sociali. Ma in Metahistory l’influsso decisivo che Croce aveva esercitato nelle prime fasi dello sviluppo intellettuale di White era ormai tramontato. Senza dubbio la valutazione di Croce rimaneva alta. Egli veniva definito «lo storico più dotato tra tutti i filosofi della storia di questo secolo», e, nell'ultima pagina del libro, veniva caldamente elogiato per il suo presunto atteggiamento «ironico» 26. Ma la valutazione globale ricordata sopra testimoniava l’esistenza di un significativo disaccordo con la prospettiva teorica di Croce.
Il principale motivo dell'insoddisfazione manifestata da White nei confronti del pensiero di Croce verteva, come si è visto, sul suo «concetto dell’arte come rappresentazione letterale della realtà»: in altre parole, sul suo atteggiamento «realistico» 27. Tale termine, che in questo contesto ha un significato cognitivo e non meramente estetico ha, in quanto riferito a un filosofo neo-idealista come Croce, un suono leggermente paradossale. Ma quello di Croce era un idealismo abbastanza speciale: il termine «positivismo critico», proposto da uno dei critici più acuti della sua opera, sembra più appropriato 28. La fase più nettamente idealistica del pensiero di Croce dev’essere ricondotta al forte influsso esercitato su di lui da Giovanni Gentile, a lui legato per due decenni da uno strettissimo sodalizio intellettuale 29. In una nota aggiunta alla Logica come scienza del concetto puro (1909) Croce tracciò un quadro retrospettivo del suo sviluppo intellettuale, da La storia ridotta sotto il concetto generale dell1 arte al recente riconoscimento dell'identità tra storia e filosofia raggiunto sotto l’impulso



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degli studi di Giovanni Gentile («mio carissimo amico [...] al quale assai aiuti e stimoli deve la mia vita mentale») 30. Alcuni anni dopo, tuttavia, le intrinseche ambiguità di quest’identità (nonché, su un piano più generale, della presunta convergenza teorica tra Croce e Gentile) vennero in piena luce 31. Croce, interpretando la filosofia come «metodologia della storia», sembrava dissolvere la prima nella seconda. Gentile si mosse nella direzione opposta. «Le idee senza fatti sono vuote» scrisse in un saggio del 1936, Il superamento del tempo nella storia, «la filosofia che non è storia è vanissima astrattezza. Ma i fatti non sono altro che la vita del momento oggettivo della autocoscienza, fuori della quale non c’è pensiero reale e costruttivo». Pertanto, la storia (res gestae) «non dev’essere un presupposto della storiografia (hi-storia rerum gestarum)». Gentile respingeva vigorosamente «la metafisica storica (o storicismo) [che] è la metafisica che sorge appunto sul concetto che la storiografia abbia per presupposto la storia. Concetto assurdo, come tutti i concetti delle altre metafisiche; ma fecondo di peggiori conseguenze, come è sempre più pericoloso ogni nemico che sia riuscito a penetrarci in casa, e a nascondervisi »32.
Identificando l’innominata «metafisica storica» con lo «storicismo» Gentile reagiva ad Antistoricismo, un saggio di tono polemicamente antifascista che Croce aveva appena pubblicato 33. Il nucleo teorico del saggio di Gentile risaliva alla sua Teoria generale dello spirito come atto puro (1918), un’opera che a sua volta costituiva una risposta a Teoria e storia della storiografia (1915) di Croce 34. Ma nel 1924 la disputa filosofica tra i due antichi amici si era trasformata ormai in un aspro contrasto politico e personale.
Quest'apparente digressione era necessaria per chiarire i seguenti punti:
a. Lo sviluppo intellettuale di Hayden White può essere inteso soltanto se si tiene conto dei rapporti ch’egli ebbe in età giovanile con il neo-idealismo italiano 35.
b. Nell’impostazione «tropologica» proposta da White in Tro-pics of Discourse, una raccolta di saggi pubblicata nel 1978, la traccia del pensiero di Croce era ancora avvertibile. Nel 1972 White aveva scritto che Croce
partì [...] da un esame delle basi epistemologiche della conoscenza storica per giungere a una posizione in cui cercava di sussumere la storia sotto il concetto generale dell'arte. La sua teoria dell’arte, a sua volta, si presentava come «scienza dell’espressione e linguistica generale» (è il sottotitolo de\VEstetica). Nell'analizzare le



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basi linguistiche di tutti i possibili modi di afferrare la realtà Croce arrivò quasi a cogliere la natura essenzialmente tropologica dell’interpretazione in generale. Ciò che lo trattenne dal formulare quest'idea fu, molto probabilmente, il sospetto «ironico» da lui nutrito nei confronti di qualsiasi sistema nell'ambito delle scienze umane 36.
Un’impostazione del genere partiva da Croce per dirigersi in tutt altra direzione. Allorché leggiamo che «la tropica è il processo attraverso cui qualsiasi discorso costituisce [il corsivo è nel testo] gli oggetti che pretende di descrivere realisticamente e di analizzare oggettivamente» (si tratta di un passo tratto dall’introduzione a Tropics of Discourse, 1978 37) riconosciamo la critica già ricordata al «realismo» di Croce.
c. Questa posizione soggettivista è stata certamente rafforzata dall’incontro di White con l’opera di Foucault. Ma è significativo che White abbia cercato di «decodificare» Foucault attraverso Giambattista Vico, ossia il presunto padre fondatore del neoidealismo italiano 38. Di fatto, l’affermazione di White sul discorso che crea i propri oggetti sembra riecheggiare - con una differenza sostanziale cui accennerò subito - l’insistenza di Croce sull’espressione e sulla linguistica generale combinata col soggettivismo radicale di Gentile, secondo cui la storiografia (historia rerum gestarum) crea il proprio oggetto, la storia (res gestae). «Le fait n’a jamais qu’une existence linguistique»: queste parole di Barthes, usate da White come epigrafe della raccolta The Content of thè Form (1987) potrebbero essere attribuite all'immaginaria combinazione di Croce e di Gentile che ho appena evocato. Anche la lettura di Barthes fatta da White all'inizio degli anni ’80 (in Tropics of Discourse Barthes era appena nominato 39) rafforzò uno schema preesistente.
5. In questa ricostruzione c’è un elemento discutibile: il ruolo attribuito a Gentile. Per quanto ne so, White non ne ha mai analizzato gli scritti, anzi non l’ha mai nominato (con un’unica importante eccezione, su cui mi soffermerò tra poco). Tuttavia la familiarità con l’opera di Gentile può essere tranquillamente presupposta in uno studioso come White che, tramite Antoni, era stato iniziato alla tradizione filosofica del neo-idealismo italiano. (Al contrario, una conoscenza diretta dell’opera di Gentile va senz’altro esclusa nel caso di Barthes. La funzione decisiva svolta da Barthes nello sviluppo intellettuale di de Certeau può spiegare - anche se solo parzialmente - la convergenza parziale tra quest’ultimo e Hayden White).



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Gli stretti rapporti che Gentile ebbe con il fascismo, fino alla sua tragica morte, hanno in un certo senso oscurato, almeno fuori d’Italia, la prima fase del suo percorso filosofico. L’adesione di Gentile all’idealismo di Hegel era il risultato di una lettura originale degli scritti filosofici giovanili di Marx (La filosofia di Marx, 1899 40). Nell’analizzare le Tesi su Feuerbach Gentile interpretò la prassi marxiana attraverso il famoso motto vichiano verum ip-sum factum - o per meglio dire attraverso l’interpretazione che ne era stata data dal neo-idealismo. La prassi veniva considerata come un concetto che implicava l'identità tra soggetto e oggetto, in quanto lo Spirito (il soggetto trascendentale) crea la realtà41. L’affermazione, fatta da Gentile molto più tardi, sulla storiografia che crea la storia non era altro che un corollario di questo principio. Questa presentazione di Marx nelle vesti di un filosofo sostanzialmente idealistico esercitò un peso durevole sulla vita politica e intellettuale italiana. Certo, l’uso dell’espressione «filosofia della prassi» nei Quaderni del carcere di Gramsci (là dove ci aspetteremmo «materialismo storico») era dettato anzitutto dal proposito di aggirare la censura fascista. Ma Gramsci riecheggiava anche il titolo del secondo saggio di Gentile su Marx (La filosofia della praxis) così come, più significativamente, l’insistenza di Gentile sulla «praxis» in quanto concetto che riduceva fortemente (fin quasi a eliminarlo) il posto decisivo del materialismo nel pensiero di Marx. Altri echi dell’interpretazione di Marx proposta da Gentile sono stati rintracciati nel marxismo giovanile, e perfino in quello maturo di Gramsci 42. È stato sostenuto che anche il ben noto brano dei Quaderni del carcere in cui la filosofia di Gentile viene giudicata più vicina al futurismo di quella di Croce, implicava un giudizio favorevole su Gentile: Gramsci nel 1921 non aveva forse considerato il futurismo come un movimento rivoluzionario che era stato in grado di rispondere a una richiesta di «nuove forme d’arte, di filosofia, di costume, di linguaggio» 43? Un’analoga contiguità tra la filosofia di Gentile e il futurismo, visti entrambi come esempi negativi di «antistoricismo», era stata invece suggerita implicitamente da Croce, in una prospettiva di antifascismo liberal-conservatore 44.
Alla luce di una lettura di sinistra dell’opera di Gentile (o almeno di una sua parte) il sapore quasi gentiliano avvertibile negli scritti di Hayden White a partire da The Burden of History -un manifesto per una nuova storiografia in chiave modernista apparso nel 1966 - appare meno paradossale 45. Si può capire facilmente la risonanza (così come l’intrinseca debolezza) di que-



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st'attacco alle ortodossie storiografiche liberali e marxiste. Tra la fine degli anni '60 e l’inizio degli anni ’70 il soggettivismo - ivi compreso il soggettivismo estremo - aveva un sapore nettamente radicale. In una situazione in cui desiderio veniva considerato come una parola di sinistra, realtà (ivi compresa l’insistenza sui «fatti reali») aveva un’aria decisamente di destra. Questa prospettiva semplicistica, per non dire suicida, appare oggi ampiamente superata: nel senso che gli atteggiamenti implicanti una sostanziale fuga dalla realtà non sono più privilegio esclusivo di esigue frazioni della sinistra. Di tutto ciò dovrebbe tener conto ogni tentativo di spiegare il fascino, davvero singolare, che circonda oggi, anche al di fuori degli ambienti accademici, le ideologie scettiche. Nel frattempo Hayden White si è pronunciato «contro le rivoluzioni: sia quelle dall’alto sia quelle dal basso .. .» 46. Tale affermazione, come si legge in una nota a piè di pagina, nasce dal fatto che «molti teorici ritengono che il relativismo di cui sono generalmente accusato implichi quel genere di nichilismo che invita a un attivismo rivoluzionario di un tipo particolarmente irresponsabile. A mio parere, il relativismo è l’equivalente morale dello scetticismo epistemologico; inoltre, ritengo che il relativismo sia la base della tolleranza sociale, non la licenza di fare "quello che si vuole”» 47.
Scetticismo, relativismo, tolleranza: a prima vista la distanza tra quest’autopresentazione del pensiero di White e la prospettiva teoretica di Gentile non potrebbe essere maggiore. La polemica di Gentile contro gli storici positivisti non aveva implicazioni scettiche, in quanto la sua posizione filosofica implicava uno Spirito trascendentale, non una molteplicità di soggetti empirici 48. Gentile non fu mai un relativista, anzi: egli auspicò un impegno religioso, intransigente sia in ambito filosofico sia in ambito politico49. E naturalmente non teorizzò mai la tolleranza, come testimonia l’appoggio da lui dato al fascismo, anche nei suoi aspetti più violenti, come lo squadrismo 50. La famigerata definizione del manganello come «forza morale» paragonabile alla predica - un’affermazione fatta da Gentile nel corso di un comizio durante la campagna elettorale del 1924 51 - era del tutto coerente con la sua teoria rigorosamente monistica: in una realtà creata dallo Spirito non c’è posto per una vera distinzione tra fatti e valori.
Non si tratta di divergenze teoretiche marginali. Chiunque sostenga l’esistenza di una contiguità teoretica tra la prospettiva di Gentile e quella di White deve tener conto di queste diversità.

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Dobbiamo chiederci, pertanto, in che senso White, nel suo saggio The Politics of Interpretation, abbia potuto affermare che la sua concezione della storia ha dei punti di contatto con quella «che viene associata convenzionalmente alle ideologie dei regimi fascisti»: quei regimi di cui egli respinge i «comportamenti sul piano politico e sociale», giudicandoli «innegabilmente orrendi».
6. Questa contraddizione, colta con tanta chiarezza, ci porta al dilemma morale implicito nell’impostazione di White. «Dobbiamo guardarci» egli afferma «dai sentimentalismi che ci porterebbero a respingere una concezione della storia semplicemente perché è stata associata alle ideologie fasciste. Dobbiamo fare i conti col fatto che nella documentazione storica non troviamo alcun elemento che ci induca a costruirne il significato in un senso anziché in un altro» 52. Nessun elemento? Di fatto, nel discutere l’interpretazione dello sterminio degli Ebrei fornita da Faurisson, White non esita a proporre un criterio in base a cui giudicare la validità di interpretazioni storiche in conflitto. Ripercorriamo la sua argomentazione.
L’affermazione di White or ora citata presuppone 1) la distinzione (o, per meglio dire, disgiunzione) proposta da Croce nel suo primo saggio teorico, La teoria ridotta sotto il concetto generale deir arte, tra «ricerca storica positiva» e «storia vera e propria», ossia narrazione storica; 2) un’interpretazione scettica di questa distinzione, che converge per molti versi con il soggettivismo trascendentale di Gentile. Entrambi gli elementi possono essere individuati nella reazione di White alla confutazione, fornita da Vi-dal-Naquet «sul terreno della storia positiva», delle «menzogne» di Faurisson sullo sterminio degli Ebrei. La pretesa di Faurisson è, dice White, «moralmente offensiva e intellettualmente sconcertante». Ma la nozione di «menzogna», in quanto implica concetti come «realtà» e «prove», getta White in un imbarazzo evidente. Lo prova questo passo singolarmente contorto: «la distinzione tra una menzogna o un errore e un’interpretazione erronea può essere più difficile da tracciare allorché ci troviamo ad avere a che fare con eventi storici meno largamente documentati dell’Olocausto». Di fatto, anche in quest’ultimo caso White non riesce ad accettare le conclusioni di Vidal-Naquet. White sostiene che c'è una grossa differenza «tra un’interpretazione che "avrebbe profondamente trasformato la realtà del massacro" e una che non avrebbe raggiunto un risultato del genere. L'interpretazione israeliana lascia intatta la "realtà" dell’evento, mentre l'interpre-

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tazione revisionista lo derealizza ridescrivendolo in modo tale da farne una cosa diversa da ciò che le vittime sanno dell’Olocausto» 53. L'interpretazione storica dell’Olocausto fornita dai sionisti, dice White, non è una contre-vérité (come aveva suggerito Vi-dal-Naquet) ma una verità: «la sua verità, in quanto interpretazione storica, consiste per l’appunto nella sua efficacia [il corsivo è mio] nel giustificare un’ampia gamma degli attuali comportamenti politici di Israele che, dal punto di vista di coloro che li formulano, sono essenziali non solo per la sicurezza ma per resistenza stessa del popolo ebraico». Analogamente, «gli sforzi del popolo palestinese di dar vita a una risposta politicamente efficace [corsivo mio] alla politica di Israele porta a produrre un’ideologia altrettanto efficace [corsivo mio], provvista di un’interpretazione della propria storia provvista di un significato fino ad oggi assente» 54. Possiamo concludere che se la narrazione di Faurisson dovesse mai risultare efficace, White non esiterebbe a considerarla vera.
Una conclusione del genere è il risultato di un atteggiamento tollerante? Come si è visto, White sostiene che scetticismo e relativismo possono fornire le basi epistemologiche e morali della tolleranza 55. Ma questa pretesa è insostenibile, dal punto di vista sia storico sia logico. Dal punto di vista storico, perché la tolleranza è stata teorizzata da individui che avevano forti convinzioni intellettuali e morali (il motto di Voltaire «Lotterò per difendere la libertà di parola di coloro con cui mi trovo in disaccordo» è tipico). Dal punto di vista logico, perché lo scetticismo assoluto entrerebbe in contraddizione con se stesso se non venisse esteso anche alla tolleranza in quanto principio regolatore. Non solo: quando le divergenze intellettuali e morali non sono collegate in ultima analisi alla verità, non c’è niente da tollerare 56. Di fatto, l’argomentazione di White che lega la verità all’efficacia richiama inevitabilmente non la tolleranza ma il suo contrario - il giudizio di Gentile sul manganello come forza morale. Nello stesso saggio, come si è visto, White invita a considerare senza «sentimentalismi» il nesso tra una concezione della storia da lui implicitamente elogiata e le «ideologie dei regimi fascisti». Egli definisce questo collegamento «convenzionale». Ma la menzione del nome di Gentile (insieme a quello di Heidegger) in questo contesto non sembra affatto convenzionale 57.
7. A partire dai tardi anni ’60 gli atteggiamenti scettici di cui sto parlando sono diventati sempre più influenti nelle scienze



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umane. Quest'amplissima diffusione può essere ricondotta solo in parte a una loro presunta novità. Solo un intento economiasti-co può avere suggerito a Pierre Vidal-Naquet che «da allora [la pubblicazione de L’écriture de l’histoire di Michel de Certeau nel 1975] siamo diventati consapevoli che lo storico scrìve, che produce uno spazio e un tempo, pur essendo egli stesso inserito in uno spazio e in un tempo». Come Vidal-Naquet sa benissimo, la stessa posizione (che talvolta ha condotto a conclusioni scettiche) è stata fortemente sottolineata, per esempio, in un saggio metodologico non particolarmente audace come What is History? (1961) di E. H. Carr - così come, molto tempo prima, da Benedetto Croce.
Considerando questi problemi in una prospettiva storica potremo coglierne meglio le implicazioni teoriche. Proporrei di partire da un breve saggio scritto da Renato Serra nel 1912 ma pubblicato solo nel 1927, dopo la sua morte prematura (1915). Il titolo - Partenza di un gruppo di soldati per la Libia 58 - dà solo un'idea vaga del suo contenuto. Il pezzo comincia con una descrizione, scritta in uno stile audacemente sperimentale che ricorda i quadri futuristi dipinti da Boccioni negli stessi anni, di una stazione ferroviaria piena di soldati che partono, circondati da una grande folla 59. A questo punto compaiono una serie di osservazioni antisocialiste, seguite da una riflessione sulla storia e sulla narrazione storica che sfocia bruscamente in un passo di tono solennemente metafisico, fitto di echi nietzschiani. Questo saggio incompiuto, che meriterebbe certamente un'analisi più lunga e approfondita, riflette la complessa personalità di un uomo che, oltre ad essere il miglior critico italiano della sua generazione, era un erudito con forti interessi filosofici. Nella sua corrispondenza con Croce (a cui era legato da rapporti personali molto stretti, pur senza esserne un seguace) egli spiegò la genesi delle pagine di cui sto parlando 60. Esse erano state stimolate da Storia, cronaca e false storie (1912): un saggio di Croce poi incluso, in forma riveduta, in Teorìa e storia della storiografia. Croce aveva menzionato lo scarto, sottolineato da Tolstoj in Guerra e pace, tra un evento reale - una battaglia, per esempio - e i ricordi frammentari e distorti su di esso, che forniscono la base per i resoconti degli storici. Il punto di vista di Tolstoj è ben noto: lo scarto può essere colmato soltanto raccogliendo le memorie di tutti gli individui (fino al più umile soldato) direttamente o indirettamente coinvolti nella battaglia. Croce respinse questa soluzione, e lo scetticismo che a suo parere racchiudeva, come assur-



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da: «noi, a ogni istante, conosciamo tutta la storia che c’importa conoscere»; pertanto, la storia che non conosciamo è identica al-l’«eterno fantasma della “cosa in sé”» 61. Serra, nell’autodefinirsi ironicamente «uno schiavo della cosa in sé» scrisse a Croce di sentirsi molto più vicino a Tolstoj: «soltanto che» aggiunse «le mie difficoltà sono, o mi sembrano, più complicate» 62. Impossibile non dargli ragione:
Ce della gente che s'immagina in buona fede che un documento possa essere espressione della realtà [...]. Come se un documento potesse esprimere qualche cosa di diverso da se stesso [...]. Un documento è un fatto. La battaglia un altro fatto (un’infinità di altri fatti). I due non possono fare uno. [...] L’uomo che opera è un fatto. E l’uomo che racconta è un altro fatto. [.. .] Ogni testimonianza testimonia soltanto di se stessa; del proprio momento, della propria origine, del proprio fine, e di nient’altro 63.
Queste non erano riflessioni di un teorico puro. Serra sapeva che cos’era l’erudizione. Nelle sue critiche taglienti non contrapponeva artificiosamente le narrazioni storiche e i materiali con cui sono costruite. Goffe lettere mandate dai soldati alle loro famiglie, articoli di giornale scritti per compiacere un pubblico lontano, resoconti di azioni di guerra scribacchiati in fretta da un capitano impaziente, rielaborazioni di storici pieni di venerazione superstiziosa per ognuno di questi documenti: Serra sapeva bene che tutte queste narrazioni, indipendentemente dal loro carattere più o meno diretto, hanno sempre un rapporto altamente problematico con la realtà. Ma la realtà («la cosa in sé») esiste 64.
Serra respingeva esplicitamente ogni prospettiva positivistica ingenua. Ma le sue osservazioni ci aiutano a respingere anche un punto di vista in cui si sommino positivismo (ossia una «ricerca storica positiva» basata sulla decifrazione letterale dei documenti) e relativismo (ossia «narrazioni storiche» basate su interpretazioni figurali, inconfrontabili e inconfutabili)65. Le narrazioni basate su un’unica testimonianza discusse nella prima parte di questo saggio possono essere considerate come casi sperimentali che confutano l’esistenza di una distinzione così netta: una lettura diversa della documentazione disponibile influisce immediatamente sulla narrazione. Un rapporto analogo, anche se generalmente meno evidente, può essere ipotizzato anche su un piano più generale. Pertanto, un atteggiamento totalmente scettico nei confronti delle narrazioni storiche non ha fondamento.
8. Su Auschwitz, Jean-Fran^ois Lyotard scrisse:



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Supponiamo che un terremoto distrugga non solo vite fabbricati e oggetti ma anche gli strumenti per misurare, direttamente o indirettamente, i terremoti. L’impossibilità di compiere delle misurazioni quantitative non preclude, ma al contrario suggerisce alla mente dei sopravvissuti l’idea di un'immensa forza sismica. [...] Con Auschwitz, è avvenuto qualcosa di nuovo nella storia (ciò che può essere solo un segno e non un fatto), e cioè che i fatti, le testimonianze che serbano le tracce del qui e dell'ora, i documenti che indicavano il senso o i sensi dei fatti e i nómi e infine la possibilità di vari tipi di frasi il cui rapporto costruisce la realtà, tutto ciò è stato per quanto è possibile distrutto. Forse che non spetta allo storico il prendere in considerazione, oltre ai danni, i torti commessi? Oltre alla realtà, la meta-realtà, ossia la distruzione della realtà? [...] Il suo nome [di Auschwitz] segna i confini in cui la conoscenza storica vede messa in discussione la propria competenza 66.
Non sono del tutto certo che quest’ultima osservazione sia vera. La memoria e la distruzione della memoria sono elementi ricorrenti nella storia. «Il bisogno di raccontare agli "altri”, di fare gli "altri” partecipi» ha scritto Primo Levi «aveva assunto tra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari»67. Come ha mostrato Benveniste, una delle parole latine che significano «testimone» è superstes - il sopravvissuto68.
Carlo Ginzburg Dipartimento di Discipline Storiche, Università di Bologna UCLA, Los Angeles
NOTE AL TESTO
1 Cfr. J. Shatzmiller, Les Juifs de Provence pendant la Peste Noire, in «Revue des études juives», 133 (1974), pp. 457-480, specialmente pp. 469-472.
2 Cfr. Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino 1989, pp. 5-35.
3 Cfr. Bouquet, Recueil des historiens des Gaules et de la France, XX, Paris 1840, pp. 629-630.
4 Cfr. Flavio Giuseppe, La guerra giudaica, a cura di V. Vitucci, Milano 1982. Cfr. P. Vidal-Naquet, Flavius Josèphe et Masada, in Les Juifs, la mémoire, le présent, Paris 1981, pp. 43 ss, che analizza con acume i parallelismi tra i due passi (per la traduzione italiana di questo saggio, non compreso nella raccolta Gli ebrei, la memoria e il presente, Roma 1985, si veda P. Vidal-Naquet, Il buon uso del tradimento, tr. it. Roma 1980, pp. 161-183).
5 Cfr. P. Vidal-Naquet, Flavius Josèphe cit., pp. 53 ss.
6 Cfr. The Latin Josephus, I, a cura di F. Blatt, Aarhus 1958, pp. 15-16. Cfr. anche G. N. Deutsch, Iconographie et illustration de Flavius Josèphe au temps de Jean Fouquet, Leiden 1986, p. XI (cartina).
7 Cfr. Ph. Schmitz, Les lectures de table à Tabbaye de Saint-Denis à la fin du Moyen Age, in «Revue bénédictine», 42 (1930), pp. 163-167; A. Wilmart, Le couvent et la bibliothèque de Cluny vers le milieu du Xle siècle, in «Revue Mabillon», 11 (1921), pp. 89-124, specialmente pp. 93, 113.
8 Cfr. D. Nebbiai-Dalla Guarda, La bibliothèque de l’abbaye de Saint-Denis en France du IXe au XVIIle siècle, Paris 1985, a proposito di una richiesta mandata da



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Reichenau a Saint-Denis per ottenere una copia delle Antiquitates Judaicae di Flavio Giuseppe (p. 61; cfr. anche ibid., p. 294).
9 B. N. Lat. 12511: cfr. The Latin Josephus cit., p. 50.
10 Hegesippi qui dicuntur historiarum libri V, ed. V. Ussani («Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum» voi. LXVI), Vindobonae 1932, 1960, pref. K. Mras (sull’assedio di Masada cfr. V, 52-53, pp. 407-417). La Bibliothèque Nationale di Parigi possiede 12 manoscritti di «Hegesippus», scritti tra il X e il XV secolo: cfr. G. N. Deutsch, Iconographie cit., p. 15.
11 Una traduzione inglese di quest'ultimo saggio è apparsa in «Democracy», Aprii 1981, pp. 67-95: A Paper Eichmann? (si noti il punto interrogativo, assente nel titolo originale francese; per la traduzione italiana cfr. Un Eichmann di carta, in Gli ebrei cit., pp. 195 ss.).
12 Meno convincente mi sembra la proposta di Maria Daraki, menzionata da P. Vidal-Naquet (LesJuifs cit., p. 59 n. 48 = Il buon uso cit., p. 173 n. 50), secondo cui nel primo caso il parallelismo dovrebbe essere riferito alla donna che denunciò Flavio Giuseppe e i suoi compagni.
13 Cfr. H. Van Vliet, No Simple Testimony («Studia Theologica Rheno-Traiec-tina», IV), Utrecht 1958. Il vantaggio di disporre di più di un testimonio è sottolineato da un punto di vista generale (ossia logico) da P. Vidal-Naquet, Les Juifs cit., p. 51.
14 Cfr. H. Van Vliet, No Single Testimony cit., p. 11.
15 Cfr. per esempio A. Libois, A propos des modes de preuve et plus spécialement de la preuve par témoins dans la juridiction de Léau au XVe siècle, in Hommage au Professeur Paul Bonenfant (1899-1965), Bruxelles 1965, pp. 532-546, specialmente pp. 539-542.
16 Su quest’argomento si vedano gli accenni, alquanto rapidi, di P. Peeters, Les aphorismes du droit dans la critique historique, in «Académie Royale du Belgique, Bulletin de la classe des lettres ...», t. XXXII (1946), pp. 82 ss. (pp. 95-96 a proposito di testis unus, testis nullus).
17 F. Baudouin, De institutione historiae universae et ejus cum jurisprudentia con-junctione, prolegomenon libri II, citato da D. R. Kelley, Foundations of Modem Hi-storical Scholarship, New York-London 1970, p. 116 (ma tutto il libro è importante).
18 Ho consultato la seconda edizione (Liège 1770). L’importanza di questo breve trattato venne acutamente sottolineata da A. Johnson, The Historian and Histori-cal Evidence, New York 1934 (Ist ed. 1926), p. 114, che lo definì «thè most signifi-cant book on method after Mabillon’s De re diplomatica». Cfr. anche A. Momigliano, Ancient History and thè Antiquarian, in Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1979, p. 8Ì.
19 Cfr. R. Faurisson, Mémoire en défense. Contre ceux qui m’accusent de falsifier l’histoire. La question des chambres à gaz, prefaz. di Noam Chomsky, Paris 1980.
20 Michel de Certeau, sotto la direzione di L. Giard, Paris 1987, pp. 71-72. Dalla lettera di Vidal-Naquet si apprende che all'origine di questo carteggio c’era stata la partecipazione dei due corrispondenti alla discussione pubblica della thèse di Francois Hartog, poi pubblicata col titolo Le miroir d’Hérodote (Paris 1980). Su alcune implicazioni di questo libro si veda, di chi scrive, Prove e possibilità, in appendice a N. Zemon Davis, Il ritorno di Martin Guerre, Torino 1984, pp. 143-145.
21 Le pagine che seguono sono basate sugli scritti pubblicati di Hayden White. Il contributo da lui presentato al convegno di Los Angeles è contrassegnato da una forma meno rigida (e non poco contraddittoria) di scetticismo.
22 Cfr. C. Antoni, From Historicism to Sociology, prefazione del traduttore («On History and Historicism»), pp. xxv-xxvi (cfr. anche la recensione di B. Mazlish in «History and Theory», I [1960], pp. 219-227).



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23 Cfr. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, Bari 1926, pp. 32-33; R.G. Coollingwood, The Idea of History, Oxford 1956, pp. 91 ss.
24 Cfr. H. White, Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenth Century Europe, Baltimore 1973, pp. 281-288 (tradotto in italiano come Retorica e storia, Napoli 1978); B. Croce, Primi saggi, Bari 1927 (seconda edizione), pp. 3-41.
25 Cfr. H. White, Metahistory cit., p. 385.
26 Ibid., pp. 378, 434. '
27 Ibid., p. 407.
28 E. Colorni, L’estetica di Benedetto Croce. Studio critico, Milano 1934.
29 Le lettere tra Croce e Gentile (cfr. B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile (18961924), a cura di A. Croce, introduz. di G. Sasso, Milano 1981) sono, da questo punto di vista, rivelatrici.
30 Cfr. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari 1971, pp. 193-195. Cfr. anche G. Gentile, Frammenti di critica letteraria, Lanciano 1921, pp. 379 ss. (recensione a B. Croce, Il concetto della storia nelle sue relazioni col concetto dell’arte, 1897). L'influsso di Gentile sullo sviluppo di Croce negli anni cruciali tra 1897 e 1900 può essere valutato sulla base di G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, I, Firenze 1972. Vedi anche G. Galasso, in appendice all'edizione di Teoria e storia della storiografia (Milano 1989) da lui curata, pp. 409 ss.
31 Qui sviluppo alcune penetranti osservazioni di Piero Gobetti («Cattaneo», in P. Gobetti, Scritti storici, letterari e filosofici, Torino 1969, p. 199; pubblicato originariamente in «L’Ordine Nuovo», 1922).
32 Cfr. G. Gentile, Il superamento del tempo nella storia, in Memorie italiane e problemi della filosofia e della vita, Roma 1936, pp. 314, 308. Trentanni prima Antonio Labriola, in una lettera a Croce, aveva descritto il rapporto tra Croce e Gentile in termini curiosamente simili (A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce, 1885-1904, Napoli 1975, p. 376 [2 gennaio, 1904]: «io non capisco perché il Gentile, che inveisce per fino in istile ieratico contro il reo mondo, non si dia proprio all’opera benigna (avendo il diavolo dentro casa) di convertire innanzitutto te»). Per quanto riguarda l’allusione di Gentile a Croce, si veda la nota che segue.
33 Cfr. G. Gentile, Il superamento cit., p. 308: «la metafisica storica (o storicismo) ...»; il saggio era stato precedentemente pubblicato in Rendiconti della R. Accademia nazionale dei Lincei, classe di scienze morali, serie VI, voi. XI (1935), pp. 752-769. La parole tra parentesi «(that is, historicism)» mancano nella traduzione inglese apparsa qualche mese prima (The Transcending of Time in History, in Philo-sophy and History. Essays Presented to Ernst Cassirer, a cura di R. Klibansky e H. J. Paton, Oxford 1936, pp. 91-105, 95; la prefazione dei curatori è datata «Febbraio 1936»). Esse vennero aggiunte presumibilmente dopo la pubblicazione del saggio di Croce Antistoricismo (si tratta di una conferenza pronunciata a Oxford nel 1930, ma pubblicata soltanto in Ultimi saggi, Bari 1935, pp. 246-258). Gentile pronunciò la sua conferenza all'Accademia dei Lincei il 17 novembre 1935, e restituì le bozze corrette il 2 aprile 1936 (cfr. Rendiconti cit., pp. 752, 769). Per la reazione di Croce ai saggi raccolti in Philosophy and History cfr. La storia come pensiero e come azione, Bari 1943 (1938), pp. 319-327 (questa sezione manca nella traduzione inglese, History as thè Story of Liberty, London 1941); a p. 322 c’è un'allusione polemica a Gentile («una torbida tendenza misticheggiante ...»). Si vedano anche nello stesso volume, le pagine su «La storiografia come liberazione dalla storia» (La storia cit., pp. 3032): «Noi siamo prodotto del passato, e viviamo immersi nel passato, che tutt'intor-no ci preme ...». Gentile, il cui idealismo era molto più radicale e coerente, aveva affermato che il passato (così come il tempo) sono nozioni puramente astratte, superate nella vita spirituale concreta (Il superamento del tempo cit., pp. 308 ss.). L’im-

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portanza de II superamento del tempo nella storia di Gentile è stata sottolineata da C. Garboli, Scritti servili, Torino 1989, p. 205.
34 Cfr. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, seconda edizione riveduta e ampliata, Pisa 1918, pp. 50-52.
35 Non voglio suggerire l’esistenza di un nesso causale semplice e unilineare. Senza dubbio la reazione di White al neo-idealismo italiano è passata attraverso un filtro specificamente americano. Ma anche il pragmatismo di White, a cui allude implicitamente Perry Anderson alla fine del suo contributo al convegno di Los Angeles (di prossima pubblicazione negli atti), era stato verosimilmente rafforzato dal filone pragmatista (mediato da Giovanni Vailati) la cui presenza è riconoscibile nell’opera di Croce, soprattutto nella Logica.
36 Cfr. H. White, Interpretation in History (1972-73), in Tropics of Discourse, Baltimore 1978, p. 75.
37 Ibid., p. 2.
38 Foucault Decoded (1973), ibid., p. 254.
39 Nell’indice dei nomi egli compare una volta sola; ma si veda anche p. 24, nota 2, dove Barthes è nominato con altri studiosi che lavorano nell’ambito della retorica, come Kenneth Burke, Genette, Eco, Todorov.
40 G. Gentile, La filosofia della praxis, in La filosofia di Marx. Studj critici, Pisa 1899, pp. 51-157; il libro era dedicato a Croce. (Vedi ora sull'argomento l'ampia introduzione di E. Garin a G. Gentile, Scritti filosofici, 2 voli., Milano 1991).
41 G. Gentile, La filosofia cit., pp. 62-63.
42 Cfr. per la prima tesi G. Bergami, Il giovane Gramsci e il marxismo, Milano 1977; per la seconda A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Milano 1978, pp. 121198 («Gentile e Gramsci»).
43 Cfr. S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Torino 1989, pp. 94 ss. (piuttosto superficiale), a proposito di A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Ger-ratana, III, Torino 1975, p. 2038. Per il giudizio di Gramsci sul futurismo cfr. Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1919-1922, Torino 1966, pp. 20-22.
44 Cfr. B. Croce, Antistoricismo, in Ultimi saggi cit., pp. 246-258.
45 Cfr. Tropics cit., pp. 27-80.
46 Cfr. H. White, The Content of thè Form, Baltimore 1987, p. 63.
47 Ibid., p. 227 n. 12.
48 G. Gentile, Il superamento del tempo cit., p. 314: «La scienza storica che va fiera dei "fatti" che contrappone alle idee, come realtà positiva, massiccia, contrapposta alle costruzioni mentali, prive d'ogni obiettiva consistenza, vive ingenuamente ignara di quel che i fatti ricevono dal pensiero quando vivono corpulenti innanzi all'intuizione storica».
49 Cfr. per esempio G. Gentile, Caratteri religiosi della presente lotta politica, in Che cosa è il fascismo. Discorsi e polemiche, Firenze 1924 [ma 1925], pp. 143-151.
50 Cfr. per esempio la sezione intitolata «La violenza fascista», in Che cosa è il fascismo (conferenza pronunciata a Firenze 1’8 marzo 1925) ibid., pp. 29-32.
51 «Stato e individuo [. ..] sono tutt’uno; e l’arte di governare è l’arte di conciliare e immedesimare i due termini, in guisa che il massimo di libertà si concilii col massimo non soltanto dell’ordine pubblico puramente esteriore, ma anche e sopra tutto della sovranità consentita della legge e de’ suoi organi necessari. Perché sempre il massimo della libertà coincide col massimo della forza dello Stato. Quale forza? Le distinzioni in questo campo sono care a coloro che non s'acquetano a questo concetto della forza, che pure è essenziale allo Stato, e quindi alla libertà. E distinguono la forza morale dalla materiale: la forza della legge liberamente votata e accettata, e la forza della violenza che si oppone rigidamente alla volontà del cittadino. Distinzioni ingenue, se in buona fede! Ogni forza è forza morale, perché si



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rivolge sempre alla volontà; e qualunque sia l’argomento adoperato - dalla predica al manganello - la sua efficacia non può essere altra che quella che sollecita infine interiormente l'uomo e lo persuade a consentire. Quale debba essere poi la natura di questo argomento, non è materia di discussione astratta ...» (G. Gentile, Che cosa è il fascismo cit., pp. 50-51). Il discorso, pronunciato a Palermo il 31 marzo 1924, apparve dapprima in riviste come La nuova politica liberale (II, 2, aprile 1924). Nel ristamparlo a un anno di distanza, dopo la crisi Matteotti e la sua violenta conclusione, Gentile, che si era guadagnato il soprannome di «filosofo del manganello», inserì una nota imbarazzata e arrogante. In essa precisava che la forza a cui aveva inteso riconoscere un significato morale era una sola, quella dello Stato, di cui il manganello squadrista era stato il surrogato necessario in una situazione di crisi: cfr. G. Gentile, Che cosa è il fascismo cit., pp. 50-51. L'argomentazione di Gentile non era particolarmente originale: cfr. per esempio B. Mussolini, Forza e consenso, in Gerarchia, 1923 (= Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, XIX, Firenze 1956, pp. 195-196).
52 The Politics of Historical Interpretation (1982), in The Content of thè Form cit., pp. 74-75.
53 Ibid., p. 77. Si noti che il corsivo manca nel testo francese.
54 Ibid., p. 80.1 corsivi sono miei.
55 Ibid., p. 227 n. 12.
56 Ringrazio Stefano Levi Della Torre per alcune osservazioni illuminanti su quest'ultimo punto.
57 Cfr. H. White, The Content of thè Form cit., p. 74.
58 Cfr. R. Serra, Scritti letterari, morali e politici, a cura di M. Isnenghi, Torino 1974, pp. 278-288. Il saggio di Serra era già stato interpretato in maniera simile da C. Garboli, Falbalas, Milano 1990.
59 Si veda per esempio (ma non esclusivamente) il ben noto Trittico (Quelli che partono, ecc.) che si trova presso il Metropolitan Museum di New York.
60 Cfr. R. Serra, Epistolario, a cura di L. Ambrosini, G. De Robertis, A. Grilli, Firenze 1953, pp. 454 ss.
61 Cfr. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari 1927, pp. 44-45.
62 Cfr. R. Serra, Epistolario cit., p. 459 (11 novembre 1912). La divergenza con Croce è stata sottolineata da E. Garin, Serra e Croce, in Scritti in onore di Renato Serra per il cinquantenario della morte, Firenze 1974, pp. 85-88.
63 Cfr. R. Serra, Scritti letterari cit., p. 286.
64 Ibid., p. 287.
65 Cfr. il passo di Hayden White citato sopra (pp. 540-41) nonché il suo contributo al convegno di Los Angeles.
66 J.-F. Lyotard, Le Differend, Paris 1983.
67 P. Levi, Se questo è un uomo, Torino 1958, pp. 9-10.
68 Cfr. E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, tr. it., Torino 1976, II, pp. 492-495 (la differenza tra testis e superstes è analizzata a p. 495).