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Title
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L'IDENTITÀ MILITARE COME ASPIRAZIONE SOCIALE: NOBILI DI PROVINCIA E NOBILI DI CORTE NEL PIEMONTE DELLA SECONDA METÀ DEL SETTECENTO
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Creator
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Sabina Loriga
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Date Issued
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1990-08-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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25
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issue
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74 (2)
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page start
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445
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page end
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471
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
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Rights
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Quaderni storici © 1990 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230920161024/https://www.jstor.org/stable/43778500?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxMSwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjI1MH19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Aeb6e899e1ae8a0814a952eb52b74e46d
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Subject
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discipline
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surveillance
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extracted text
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L’IDENTITÀ MILITARE COME ASPIRAZIONE SOCIALE: NOBILI DI PROVINCIA E NOBILI DI CORTE NEL PIEMONTE DELLA SECONDA METÀ DEL SETTECENTO
1. A metà del Settecento il corpo ufficiali dell'esercito sabaudo era tutt’altro che compatto. I borghesi erano presenti in misura ben più consistente di quel 5% indicato da David Bien per la Francia del secolo XVIII (cfr. la Tabella 1) \ e i nobili avevano alle spalle esperienze sociali e culturali profondamente diverse tra loro. Da un campione casuale di 850 nobili delle province di Alessandria, Biella, Casale e Vercelli, risulta che nel 1734 il 62,1% dei maschi, d’età superiore ai quattordici anni, aveva un’attività esterna. L'interlocutore più diffuso era la Chiesa, che raccoglieva il 30% dei nobili adulti. Mentre le altre istituzioni dello Stato erano scarsamente diffuse, quella militare seguiva subito dopo con il 15,5%, un dato che acquista un maggiore significato se si considera che ben il 31,2% delle famiglie nobili aveva almeno un componente dedito alla carriera delle armi 2. Purtroppo nei decenni successivi le fonti di censimento non permettono più di quantificare le scelte professionali. Sappiamo comunque
Tabella 1. Composizione del corpo ufficiali
1. Origine sociale secondo arma militare 1767
Fanteria ordinanza Cavalleria Fanteria provine. Artiglie-ria/Genio Altri corpi Totale
Nobile 74.2 93.1 55.1 28.6 47.1 65.9
Non titolato 25.8 6.9 44.9 71.4 52.9 34.1
Totale % 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0
Totale n° 392 144 296 98 17 947
[n° casi validi: 947 - n° casi nulli: 0]
Fonte: AST, Sez. I, Materie Militari, Impieghi militari, mazzo 2 d'addizione n. 27, "Stato degli ufficiali delle Regie truppe", 1767.
QUADERNI STORICI 74 / a. XXV, n. 2, agosto 1990
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che, nonostante l’espansione numerica del corpo superiore, la Segreteria della Guerra era continuamente subissata di richieste: come scriveva Agostino de Levis, nel 1784, «il genio per lo stato militare si vede essere presentemente la passione predominante di tutti i giovani nobili» 3.
Molti di questi giovani erano dei «cavaglieri pouveri». Come il vassallo Giacomo Sapellani, che dopo la morte del padre aveva trovato la casa «tutta in mina»: «cioè tutti li beni stabili alienati dal sovraddetto mio padre, avendosi dal medemo per codicillo del mio avolo sciolta la primogenitura, quale spettava a me come primogenito, a riserva di diciannove giornate che v’esistono ancora d’un terreno d’inferiore qualità, delle quali più di sessanta lire caduno nessuno le vole pagare». Costretto a sbarcare il lunario con trenta lire annuali, il cavaliere aveva trovato rifugio nella fanteria per diciassette anni, fino a quando gli si era presentata l’occasione di sposare la figlia di un ricevidore dei diritti delle gabelle, la cui famiglia aveva, sì, «parentele di osti e simili», ma viveva «con un decoro non meno delle prime case del luogo» e sarebbe «fiorita come tant’altre che vediamo a tempi nostri avendo denari come ha» 4. Le corrispondenze dei governatori pullulano di ufficiali in simili difficoltà economiche, che vivevano nella «grossiereté» culturale e guardavano con preoccupazione il progressivo restringersi della loro rete di relazioni 5. Ma, diversamente dagli eserciti francese e austriaco, quello sabaudo reclutava anche molti ricchi gentiluomini di campagna e aristocratici di corte 6.
Il loro travaglio istituzionale offre l’occasione di tornare a riflettere sul processo di curializzazione della nobiltà, di fmgare quella che Norbert Elias ha chiamato «formula del bisogno» 7. Questa «formula», infatti, non era sempre uguale. Se la dipendenza istituzionale era diventata, per tutti, un prezioso segno di distinzione sociale, il grado di assoggettamento era diverso. I nobili che vivevano in provincia (parr. 2 e 3) e quei pochi che erano legati alla corte (parr. 4 e 5) guardavano l’esercito con occhi differenti. Il loro sguardo era in parte determinato dalla posizione istituzionale in cui si trovavano: come ha dimostrato la psicologia sociale, la medesima situazione è definita diversamente in base ai ruoli. Ma non solo. I territori del sé, per usare un’importante espressione di Goffman, oltrepassano la situazione specifica: gli ufficiali affollavano la guarnigione con ricordi, speranze, progetti - tutti sentimenti in grado di intensificare la relazione con la realtà e determinare in parte l’esperienza.
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2. Nel 1774 il marchese Mossi deplorava che la nobiltà di provincia non era più capace di stabilire delle regole generali di ammissione alle sue conversazioni. Anche in una città come Vercelli - dove il clero era «forse il più unito nelli Stati di S.M.» -la soglia veniva definita di volta in volta. Nel 1756 la moglie del capitano Costa era bruscamente rifiutata. Nel motivare tale diniego, con cui si distingueva tra la persona di Costa e i suoi familiari, venivano ribadite rigidamente le frontiere del ceto: il capitano era una «persona onoratissima e stimata per le sue qualità», anche se era «nato semplice cittadino, di famiglia ordinaria, unicamente decorata dall'esercizio della Segreteria dell’Insinuazione da che suo padre ne fece l'acquisto, quale cosa non sembra basti per nobilitare una famiglia». Era quindi ammesso alle conversazioni «nella qualità di ufficiale e capitano». Ma si trattava di un privilegio personale, che non poteva in alcun modo essere esteso alla moglie, poiché le consorti «degli ufficiali, anche col grado di capitano, nati semplici cittadini» ne erano sempre state escluse, e tantomeno «a tutta la di lui famiglia, composta di due altri fratelli ammogliati con figlie di negozianti e cittadine loro pari». Se fosse stata accolta l’intera famiglia Costa, altri ufficiali avrebbero fatto la medesima richiesta, «lo che in breve tempo [...] farebbe introdurre nelle pubbliche assemblee della nobiltà molte cittadine». Negli anni successivi si presentarono dei casi analoghi. Una volta era in gioco l’ammissione della baronessa Malpenga, moglie di un patrizio nobilitato pochi anni prima, e già legata da vincoli di parentela con alcuni nobili di vecchia data. E qualche anno più tardi il problema si riapriva a proposito di donna Giacinta Faciola e della famiglia di Pio Ressinder, brigadiere delle guardie di S.M. Se nel 1756 il diniego nei confronti della signora Costa era stato condiviso da quasi tutti, le richieste delle famiglie Malpenga e Faciola provocarono «sconcerti tra ca-vaglieri e cavaglieri». Queste tensioni, che facevano «scemare ad altri nuovi vassalli il desiderio di far acquisto di feudi», potevano diventare violente. Nel 1775 si giungeva addirittura alle minacce: mentre coloro che «accettavano volentieri tutti quelli delle famiglie nobili dichiarate tali dal sovrano, o vassalli, [ma] le ricevute tali dal corpo di una nobiltà forestiera nella loro città non le volevano», promettevano di disertare per sempre la casa del conte Olgiati, presso cui doveva avere luogo la riunione, i nobili favorevoli a donna Faciola dichiaravano di volerla «andare a prendere e che gliela avrebbero condotta a casa sua» con la forza 8.
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In seguito all’inurbamento di molti vassalli 9 e alla cooptazione di un consistente numero di borghesi, nobilitati grazie a uno dei tanti titoli alienati dallo Stato o a una buona alleanza matrimoniale 10, i nobili si trovavano insomma ad aggiustare incessantemente i confini del ceto. L'afflusso dei nuovi elementi (nobili e borghesi) aveva acuito la competizione per il controllo delle istituzioni locali (il Consiglio della città, la Provveditura, le opere pie) e stava operando una profonda trasformazione dell'identità nobile. Il ceto non era più in grado di regolare in profondità resistenza sociale degli individui. Dominava nei momenti di rappresentazione pubblica o di trasmissione deirimmagine ideale del gruppo familiare (per esempio le epistole in punto di morte), in cui si fondava e ribadiva una tradizione H. Ed era spesso impiegato come strumento di pressione e di lotta politica. Ma, come mostrano appunto tali occasioni, spesso prevalevano altre ragioni, come gli obblighi clientelari o i vincoli di sangue: e ormai le famiglie nobili imparentate con persone appartenenti alla nuova nobiltà o al ceto civile erano talmente tante che una specie di statuto locale prevedeva addirittura che «col consenso o voto favorevole dei due terzi dei signori cavalieri capi di casa ed egual numero anche delle signore dame» poteva partecipare «qualche persona o famiglia senza averne il diritto» 12.
Lo stesso concetto di nobiltà era ormai soggetto a usi sociali antagonistici: non soltanto era messo in discussione da parte di alcuni gruppi come fattore di classificazione sociale, ma era diventato un criterio elastico di lettura e interpretazione delle relazioni, e veniva usato in modo discontinuo e contraddittorio. Così, il parere dei nobili era di volta in volta diverso: non si creavano degli schieramenti rigidi, con delle posizioni definite sul piano ideologico (di apertura o di chiusura nei confronti di elementi nuovi). Lo stesso avveniva, d'altronde; nelle battaglie politiche. Nei primi anni Novanta, nel dibattito sulla gestione degli organi cittadini, paradossalmente era proprio il professor Ranza, portavoce del "partito" borghese, a ribadire rigidamente i confini della nobiltà: per screditare uno dei responsabili della Provveditura, che aveva maltrattato e battuto "per leggere e sproporzionate cause" il signor Viganò, egli insisteva nel dire che era solo un nuovo nobile. Insomma, «un sedicente cavagliere». Mentre, d'altro lato, il conte Berzetti ripeteva che il provveditore era «reputato nobile da tre generazioni» ed era «apparentato con le migliori famiglie della nobiltà» 13.
Il ceto restava un punto di riferimento forte e netto sul piano
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ideale, ma, nella vita di ogni giorno, era un oggetto di continua con trattazione, che poteva essere facilmente oscurato da altri criteri di distinzione sociale. Primo fra tutti dalla dignità militare. Non a caso il conte d'Arignano (che insieme ad altri nobili d'antica data era favorevole alla partecipazione di donna Faciola alle conversazioni della nobiltà) si lamentava di non poter difendere il suo parere contro quello di un altro vecchio aristocratico vercellese, il conte Olgiati, senza «far sorgere un affare di subordinazione, essendo capitano e l'altro colonnello». E tensioni analoghe erano già esplose al ballo di carnevale che era stato organizzato dalla stessa nobiltà nel 1754: sebbene fosse stato stabilito che solo gli ufficiali potevano fare a meno della maschera, alcuni vassalli non avevano gradito l’obbligo e il conte Carisio - un soggetto «senza legge né fede violento con la moglie e affatto irregolare, massime in fatto di debiti» - si era presentato senza maschera, rivendicando che il suo abito succinto e ordinario aveva gli stessi diritti «dell’uniforme di quei signori ufficiali dragoni di S.M. che colà erano presenti». Costretto, dopo lunghi alterchi, ad allontanarsi dalla festa, se ne era andato minacciando «di volerne scrivere in corte» .
Nel giro di breve tempo il concetto di nobiltà venne legato in modo indissolubile a quello di servizio: certi privilegi tradizionali del ceto furono concessi ad alcune categorie di funzionari statali, «con riguardo non solamente de’ loro natali ma anche della professione che hanno intrapresa», e nel 1737 una relazione che esaminava «gli ordini di persone che possono considerarsi per nobili e capaci d’acquistar feudi» estendeva il titolo nobiliare, tradizionalmente fondato sulla nascita e la decisione sovrana, a taluni magistrati, militari e amministratori periferici 15. In tal modo ciò che poco a poco diventava discriminante, fonte di discriminazioni aH'interno del gruppo stesso, era la posizione delle singole famiglie nell'apparato statale.
Il vincolo istituzionale era diventato estremamente importante anche per i settori più solidi della nobiltà. Anche per il conte Carlo Alessandro Arborio Mella, che non aveva certo fragilità di status. Il suo casato possedeva estesi latifondi nella provincia di Vercelli 16 ed era presente nelle istituzioni locali sin dal secolo precedente (il nonno era stato vice-conservatore dei mercanti, referendario e avvocato dell'Uditorato di Guerra). Eppure, sebbene nessuno dei suoi antenati si fosse mai dedicato al mestiere delle armi, per lui fu necessario raggiungere velocemente i massimi gradi della gerarchia militare ed essere insignito cavaliere del-
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l'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. La posizione della famiglia si era infatti indebolita negli anni Venti. Dopo la precoce scomparsa del padre, la madre si era risposata e trasferita a Nizza di Provenza con tutti i figli, i quali erano rimasti con pochi punti di riferimento parentali a Vercelli: dal lato paterno non avevano più alcun legame (gli zii erano morti e di cugini non ce n'erano) e la famiglia materna, assai numerosa e senz'altro molto potente in città, era fortemente lacerata al suo interno 17. Uscito dall’Accademia militare di Torino pochi mesi prima dello scoppio della guerra di successione polacca, il conte doveva cercare d'insediarsi nuovamente nella realtà vercellese — di ricreare, insomma, quella prossimità relazionale che si era in qualche modo interrotta nella generazione precedente. Era una scommessa difficile. Tanto più che si trovava a far fronte a questi impegni da solo. I rapporti familiari erano talmente cattivi che preferiva che Giuseppe, l'unico fratello maschio, se ne stesse in Sardegna, dove si era sposato; i suoi viaggi in continente lo infastidivano -era un uomo «inquieto, stizzoso e troppo pronto a procurarsi affari con persone di diverse condizioni, ad avere screzi continui con ogni ceto di persone», che invece di aiutarlo nella sua opera di insediamento nella città, faceva il «matto, volendo affettare il cattivo sardo e [...] parla male di Vercelli, trattando tutti con parole pungentissime» 18.
In questa situazione il conte si concentrò soprattutto sulla carriera militare. Erano anni di guerra, in cui la sua generazione era stata mobilitata a tempo pieno, e lui dimostrò una dedizione particolare, tale da trascurare in certi periodi la gestione dei beni familiari: durante la campagna di Provenza non chiese una licenza per mesi e mesi, «abbenché gli affari lo richiedessero all'assistenza del patrimonio, massime quando l'inimico era nelle vicinanze della provincia di Vercelli». Poi, nei lunghi anni di pace seguiti al 1748, continuò a desiderare «un impiego di attuale esercizio militare» e a domandare il comando di un reggimento d'ordinanza, «con cui corrispondendo al desiderio mio di servire possa anche riscontrare maggiore convenienza di paga» 19. E, a sessantasei anni suonati, lasciava Vercelli, la casa e i figli per diventare governatore della provincia di Cuneo - un incarico prestigioso e redditizio (che oltre allo stipendio di cinquemila lire annue contemplava una serie di revenans-bons), ma pure molto impegnativo, tanto più che la distanza dalla città natale lo obbligava a sbrigare gli «interessi domestici» solamente nei ritagli di tempo. Sebbene il clima di Cuneo fosse così insalubre da costrin-
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gerlo a letto ben quattro volte nel giro di un anno, la sua perseveranza si incrinò solo per un momento. «Trovandomi ora per la Dio grazia ristabilito - scriveva subito dopo alla Segreteria della Guerra - ho pensato essere di mia convenienza di continuare nella carriera dei governi effettivi tanto che piacerà a Dio di conservarmi la carriera e le forze» 20.
Lo sforzo militare aggravò lì per lì la sua latitanza, ma successivamente gli consentì di sostenere in una posizione solida il confronto con quei coetanei nobili che avevano avuto vicende familiari più lineari. Lasciatosi alle spalle gli anni di guerra - e tra quella di successione polacca e quella di successione austriaca se ne era fatto più di dieci - rientrava finalmente in città, dove, con «una savia, ingegnosa ed onorata condotta», consolidava il patrimonio familiare, in modo che alla fine del secolo era di nuovo uno dei più consistenti della provincia 21, e rafforzava la sua posizione all'interno del ceto. Man mano che procedeva nella carriera militare, e che quindi cresceva la sua capacità di porsi come mediatore nei confronti dell’istanza centrale, metteva radici più profonde nel panorama istituzionale cittadino. Diventato rettore dell’Ospedale di Sant’Andrea, del Monte di pietà e del Collegio delle Orfane, cominciava un giuoco di continui rimandi tra i diversi piani istituzionali. La sua nuova forza locale gli permetteva infatti di coltivare legami clientelari nell’esercito: di distribuire posti di lavoro, assicurare assistenza o svolgere, in modo tutt altro che programmato ma neanche solo casuale e sporadico, un’attività creditizia nei confronti di altri ufficiali.
3. Per il conte Arborio Mella l’esercito rimase il punto forte della sua esistenza anche dopo il rientro a Vercelli. D’altronde, egli non aveva alcun legame con la corte e per la capitale era solo un militare, un nobile militare. Gli si chiedeva di essere semplicemente questo e di accantonare aspirazioni d’altro genere: «S.M. ha dimostrato premerle molto di più - gli scriveva il Segretario della Guerra nel 1786 - la continuazione del di lei zelo per la scelta dei soldati provinciali che non la di lei venuta alla capitale per farle la corte, assicurandola che se ne tiene egualmente buon conto» 22. L’immagine che il conte aveva di se stesso non era in contrasto con quella rimandatagli dalle istituzioni centrali. Anche lui si sentiva un soldato. Come diceva un suo amico e commilitone, pensava di far parte di «une republi-que militaire» 23, e alle volte gli capitava persino di fare troppo affidamento sulla sua esperienza professionale e di sentirsela rin-
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facciare. Ad esempio nell’ottobre 1779, quando, in seguito alle sue proteste per non essere stato compreso tra gli ufficiali cui il re aveva accordato una commenda, la Segreteria della Guerra gli ricordava che esistevano altri meriti oltre a quello militare: «S.M. ha fatto sentire che non era per ora in grado di estendere fino a V.S. filma, le Regie sue grazie e che sebbene fra i vari soggetti cui si è degnata di compatirne gli effetti ve ne siano alcuni meno anziani di lei, e di grado e di servizio, eglino non entrarono a parte delle Regie Beneficenze per il solo merito de loro militari servigi, ma bensì per quelli che stanno principalmente prestando in corte». Il medesimo principio doveva essere ribadito otto anni più tardi: l’anzianità militare non era tutto 24.
Così, il conte Arborio Mella non ebbe incertezze sull’avvenire dei figli. Gli sembrava anzi talmente ovvio che anche loro intraprendessero subito e direttamente la carriera militare che sperò di accorciare un po’ troppo i tempi burocratici. E nel 1769 la sua richiesta di un posto per il primogenito veniva bruscamente respinta dalla Segreteria della Guerra, che precisava che S.M. non gradiva avere al servizio un tredicenne. Quest’impazienza - che si riversava anche sul nipote, il quale, residente in Sardegna, andava salvato al più presto «dai rischi dell’ozio e del clima patrio» 25 - era condivisa da molti altri genitori: soltanto 1’8,7% degli ufficiali prestava servizio come paggio o seguiva l’Accademia prima di entrare nell’esercito; tutti gli altri passavano direttamente dalle mani dei parenti (o del tutore) a quelle del reggimento 26.
Era un’impazienza comprensibile. Come è già stato indicato da David Bien, proprio in questi anni si cominciava a pensare che il talento non fosse una dote naturale ma un prodotto: in Francia Paris de Meyzieu scriveva che «siamo quel che diventiamo», e in Piemonte gli ufficiali si interrogavano sui metodi educativi per formare e coltivare il talento 27. L’ambiente d’apprendimento sembrava a tutti particolarmente importante. Se alcuni individuavano nella famiglia l’unica istanza capace di infondere nel fanciullo un senso etico solido, tanti genitori preferivano affidare tale compito alle istituzioni quando il carattere era ancora malleabile 28.
Il conte Arborio Mella era di quest'ultimo parere. Secondo lui l’esercito non faceva miracoli, agiva solo a partire da una certa soglia, sotto la quale ci si scontrava inevitabilmente con il temperamento naturale, che era indipendente dalla volontà. Era il caso di alcuni ufficiali «timidi», cui tremavano le mani e si rom-
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peva la voce. Quello, per esempio, di Pietro Antonio Avogadro di Quaregna, «un cavaliere di nascita distinta [...], provvisto di facoltà scarsissime in beni, che appena le daranno lire trecentocin-quanta di reddito annuo», con cui doveva mantenere moglie, madre settuagenaria e sorella. Come molti ufficiali entrati nell’esercito nei primi anni Quaranta, il cavaliere aveva avuto un esordio piuttosto brillante e in soli tre anni era diventato luogotenente del reggimento dei fucilieri. La guerra gli aveva permesso di bruciare velocemente le tappe iniziali; e il 1744, l’anno del lungo assedio di Cuneo e della battaglia della Madonna deH’Olmo, era stato particolarmente munifico di promozioni. Ma con la pace (e la riforma di svariati reggimenti) la concorrenza si era fatta accanita, tanto più che, come ricordava il Segretario della Guerra, «S.M. non ha sempre riguardo all'anzianità degli ufficiali». Il cavaliere Avogadro aveva cominciato ad avanzare lentamente, impiegando più di quindici anni per arrivare alla carica di capitano. E qui si era fermato. Dopo oltre trent’anni di servizio ed essersi distinto nella guerra di successione austriaca, venne bruscamente licenziato. Prima di andarsene riuscì a strappare solo una piccola pensione. Diversamente da altri ufficiali, che subissavano la Segreteria della guerra con i loro ricordi bellici, lui non descrisse in maniera convincente neanche le sue gesta durante l’assedio di Genova «protestando che in seguito alli molti anni che ciò è seguito non posso esattamente circostanziar tal fatto». In ogni caso, non c’erano più le «occasioni» della guerra a riscattare il suo scarso talento. Il colonnello Arborio Mella gli rimproverava così di essere troppo incerto e impacciato: «è un ufficiale distinto, come ne ha dato le prove nell’ultima guerra, esatto, attento al servizio e di buonissima volontà, qualità lodevoli che lo costituirebbero un degno capitano dei granatieri, ma però non quelle necessarie a esercire il carico di maggiore per essere di talento così limitato che lo rende irresoluto, ed imbrogliato in occasioni di comando, di enonciativa infelicissima [...], nulla non sapendo della lingua francese e pochissimo intelligente dell’italiana anche nello scrivere». Tutti segni «di inabilità non volontaria, di natura e di educazione e non da altre cause certamente cagionata, che sono notori all’intero reggimento» 29.
Ma, tranne che in questi casi disperati, l’esercito serviva molto. Il conte Arborio Mella era convinto che una disciplina assidua potesse trasformare anche un ufficiale «limitato, di poca vivacità e di contegno freddo». Se il «talento» era in parte innato, naturale, le «qualità» (esattezza e spirito aperto) e la «condotta» (pru-
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denza, applicazione e comportamento regolato) si nutrivano profondamente della pratica istituzionale. Più che le esercitazioni, quel che «donn[ait] l’esprit militaire» a coloro che non l'avevano «reQu en naissant» era la vita tra camerati. «C'est avec eux qu’on apprende à étre doux, complaisant, à entendre la plaisanterie [...]. On se moque de mauvais officiers: on leur fait méme sou-vent des reproches et encore sans le savoir, sans s’en douter, on se met à parler Service». In guarnigione persino il caffè poteva diventare «un rendez-vous militaire, où après avoir parlò nouvelles on parie guerre [...], on voit tout, on juge de tout militairement et on finit par aimer et par faire ce qu'on dit» 30.
La pratica, preziosa per impadronirsi del linguaggio istituzionale, era poi insostituibile per quanto riguardava il rapporto con gli inferiori, un aspetto peculiare della vita militare, che inquietava tutti quegli ufficiali che erano cresciuti in un mondo relazionale ristretto. Magari erano premurosi e obbedienti, ma guardavano smarriti i soldati: giocavano a carte con loro, parlavano la loro lingua, e poi, nei momenti decisivi, sapevano solo usare il bastone. Diversamente da quanto ha osservato David Bien, la scommessa educativa non era tecnica. Le nozioni balistiche, cartografiche, matematiche, etc. erano importanti, ma, tutto sommato, potevano essere tranquillamente trasmesse nell’ambito familiare (con l'aiuto di qualche insegnante privato). La vera posta in gioco era, piuttosto, «la confiance des soldats». La truppa, infatti, non era semplice manovalanza ma un interlocutore capace di incidere suH’immagine professionale dell'ufficiale: «soyez sùr que le soldat examine toujours les officiers [...], s'il marque de la faiblesse il les meprise et s'en moque», ricordava il marchese Asinari di San Marzano31. Governare la massa eterogenea, e spesso indocile, dei soldati non era affatto scontato. Di fronte al nemico bisognava fare i conti con il timor panico, che in pochi istanti poteva indurre la truppa a sconvolgere l’ordine lineare e prendere il ritmo casuale della folla; e fuori dal campo di battaglia ci si trovava invischiati in mille altre manifestazioni di morbilità collettiva: i soldati erano degli sradicati, capaci di fuggire per un nonnulla e di invadere i villaggi «in numero di trenta e quaranta alla volta» 32.
In queste occasioni, in cui le doti carismatiche erano messe alla prova non da un singolo ma da un insieme composito di subalterni, riaffiorava il timore di lasciarsi trasportare, di agire «par emportement et mal à propos», anche negli ufficiali più esperti. L'influente marchese Asinari di San Marzano scriveva ai
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nipoti che la prima «qualité d’un bon officier et d’un homme de cour» era il rispetto delle gerarchie; nel caso dell’esercito, tuttavia, questa raccomandazione rimandava sempre al rapporto con i subordinati: «piquez vous d’étre exact et d’obéir à votre supe-rieur, on ne saura jamais comander si on n’a pas su obéir». Lui, che aveva visto inciampare tanti ufficiali di fronte alla più piccola emozione di massa, sapeva che la capacità di comando passava soprattutto attraverso la fiducia, quella che si comunicava sul campo di battaglia, dove «il convient à un officier de se réjouir dès qu’il se voit prét à attaquer ou à étre attaqué de l’ennemi, [parce que] rien ne rassure davantage la troupe que cette fière et noble contenance», e quella che ci si meritava in modo più spicciolo, giorno per giorno nella guarnigione. Bisognava conoscere i nomi e i costumi degli inferiori, les «animer et brider par la pre-sence et l’exemple», e, soprattutto, evitare di punirli ingiustamente. Anche se qualcuno, fedele ai vecchi insegnamenti del maresciallo Rehbinder, considerava il bastone un mezzo indispensabile di disciplina, gli ufficiali piemontesi erano poco propensi ai castighi corporali. Al contrario di quanto succedeva in Prussia, la violenza diffusa era sempre più bollata d’inferiorità sociale: picchiare a sproposito era una mancanza di autorevolezza, tipica dei «pédagogues subalternes» che non riuscivano a disfarsi della loro antica familiarità con la truppa 33.
Molti genitori ritenevano che un apprendistato precoce aiutasse a sopportare e manipolare la tensione della truppa. Ma spesso le speranze erano più ampie. Le famiglie che non potevano, o non desideravano, gestire ‘in proprio’ i destini dei figli, gravavano ^istituzione con aspettative extra-professionali. Si rivolgevano al colonnello o alla Segreteria della Guerra per avere consigli economici, matrimoniali, medici. E le richieste continuavano anche quando i figli erano diventati adulti. Il marchese del Carretto sperava di impedire al figlio, un uomo di ventitré anni, «d’indole inclinatissima alla spensierataggine e affatto renitente a consilii, di fuggire con una ballerina di cui era pubblicamente amico», mentre il conte Illarione Signoris di Buronzo, «trovandosi in età avanzata, carico di numerosa figliuolanza e figlie nubili», pregava di aiutarlo a tenere il primogenito «lontano da casa mediante l’annua pensione di lire quattrocentocinquanta [...] per quiete dei suoi genitori e della famiglia e per comune decoro». Questo rapporto di intimità tra le famiglie e l’istituzione prendeva talvolta toni quasi invadenti, tanto che nel 1781 la Segreteria della Guerra, subissata di richieste d’ogni genere, dichia-
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rava al conte Marenco di non essere «in grado di entrare nei dettagli delle private convenienze di tutti gli ufficiali» 34.
4. I nobili di provincia condividevano le lunghe giornate di guarnigione con parecchi aristocratici torinesi 35. Nonostante la guerra dei Sette anni e la ripresa delle guerre imperiali contro i Turchi avessero aperto nuovi spazi alTestero, Temigrazione nobile era andata progressivamente scemando: lordine di Malta, Te-sercito imperiale o quello francese non sembravano più dei punti di approdo sicuri. Il marchese Vittorio Amedeo Solaro di Covone, che aveva abbandonato il suo posto di ufficiale dei dragoni per andare a combattere volontario contro i Turchi all’assedio di Bender, era considerato «uno stravagante e scapestrato». Ma non si trattava solo di restare in terra subalpina. Se alla fine del Seicento e all’inizio del Settecento le famiglie nobili cercavano di dislocare i figli in posti diversi (corte, esercito, magistratura e diplomazia) 36, adesso i giovani aristocratici intraprendevano quasi tutti la carriera militare. Anche quelli che avevano alle spalle solide tradizioni civili. Come scriveva Sainte-Croix, segretario dell’ambasciata francese a Torino, «le métier des armes dérobe [...] dès leur plus tendre jeunesse au ministère civile des sujets qui pourroient un jour lui devenir précieux».
Gli Alfieri di San Martino erano usciti dalla posizione d’ombra in cui avevano vissuto nel corso del Seicento - oscurati dall’immagine potente e prestigiosa di un altro ramo del casato, quello degli Alfieri di Magliano - nei primi decenni del secolo, quando il conte Cesare Giustiniano aveva varcato la soglia dell’apparato statale e della società di corte: uomo colto e molto ambizioso, era stato nominato riformatore degli studi a ventinove anni, vicario di polizia della capitale a soli trentatre, e dieci anni più tardi gli era stata affidata la carica prestigiosa di governatore del principe di Chablais (il figlio secondogenito di Carlo Emanuele III). I figli, che facevano i primi passi professionali negli anni Cinquanta, scelsero strade differenti: Carlo Ottavio intraprendeva la carriera diplomatica, Roberto quella gerosolimitana e gli altri entravano nell’esercito piemontese. In seguito alla morte prematura del primogenito, tuttavia, il quadro si uniformò: Roberto abbandonava i voti monacali dell’ordine di Malta, per sposare Luisa Asinari di San Marzano e diventare capitano di fanteria, scudiere e gentiluomo di bocca di S.M. 37. Venti anni più tardi, i figli decidevano, tutti, di seguire le sue orme. Anche il primogenito. Se i più piccoli avevano compiuto degli studi mi-
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litari specifici (finita l’Accademia, avevano studiato privatamente fortificazione, matematica e architettura con alcuni dei più apprezzati tecnici del momento), il conte Carlo Emanuele aveva conseguito con successo la laurea in diritto all'Università di Torino. Aveva insomma alle spalle un itinerario di studi che preludeva a una carriera nella magistratura o nella diplomazia, e ora accettava di entrare come cornetta sovranumeraria - quindi senza neanche la speranza di vedere l’ombra di un quattrino - nei dragoni del re. Come gli ricordava il suo colonnello, «les codes et digests de justice on fait place aux ordonnances militaires» 38.
Lo stesso avveniva nei casati alleati - gli Asinari di San Mar-zano, i Balbo Bertone di Sambuy, i Solaro di Breglio e di Covone. Tutti i maschi dell’ultima generazione settecentesca, quella insomma dei figli di Roberto, entravano nell’esercito sabaudo e sarà solo con la corte di Paolina Borghese e, più tardi, con la Restaurazione che qualcuno di loro potrà coltivare altre ambizioni professionali. Le possibilità di controllare diversi ambiti di potere si erano ristrette. Nel 1781 il conte Corrado Alfieri sperava ancora «de voir mon neveu dans la robe ou l’église», ma due anni più tardi riconosceva che «selon le système du moment [la carriera militare] c’est la seule par laquelle une personne qui a de la naissance, de l’éducation et des connoissances puisse parve-nir à toutes sortes d’employs». L’esercito costituiva ormai l’unico canale sicuro di comunicazione con un ambito sociale particolarmente prezioso: la corte. Diversamente da quanto ha osservato Elias per la Francia del Settecento, in Piemonte la carriera di corte era strettamente legata al servizio statale: le cariche effettive (in tutto una settantina) erano in gran parte monopolizzate da diplomatici, militari, funzionari civili 39. Da una ricostruzione nominale dei cortigiani risulta infatti che, tra il 1708 e il 1799, ben il 61,8% dei maschi aveva almeno un incarico statale (314 su 508), e questa situazione si irrigidiva ulteriormente negli anni Settanta e Ottanta, quando il numero di quelli ‘liberi’ dal vincolo burocratico diminuiva ancora, scendendo al 32,1% (cfr. la Tabella 2 40). I cortigiani si stringevano, in particolare, intorno all’esercito: anche se la corte non era uno spazio militarizzato (basti pensare che la donna vi aveva una parte molto importante 41), il 91,4% di coloro che avevano un incarico statale praticava il mestiere delle armi. Un itinerario come quello del padre di Roberto Alfieri, che aveva accumulato cariche civili e di corte, era insomma diventato raro e difficile. Sempre secondo il funzionario francese, «l’homme de la plus grand qualité ne pouvait, s’il
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Tabella 2. Corte sabauda nel ’700
1. Distribuzione degli incarichi statali ai cortigiani, 1708-99 1791-99 Totale
1708-30 1731-50 1751-70 1771-90
Incarico militare 55.6 46.2 53.1 56.9 50.0 52.8
Incarico civile 0.0 2.5 1.0 4.4 1.7 2.5
Incarico diplom. 0.0 4.3 1.0 2.8 0.0 2.2
Nessun incarico 37.0 40.2 42.9 32.1 46.6 38.2
Incar. milit./civ. 0.0 0.0 0.0 1.1 1.7 0.6
Incar. milit./dipl. 7.4 5.1 2.0 1.1 0.0 2.7
Incar. civJdipl. 0.0 0.0 0.0 1.6 0.0 0.6
Ine. milit./civJdip. 0.0 1.7 0.0 0.0 0.0 0.4
Totale % 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0
Totale n° 54 117 98 181 58 508
[n° casi validi: 508 - n° casi nulli: 1] Fonte: AST, Sez. Riunite, Partenti, Controllo Finanze, regg. vari.
n’etait pas au Service [de l’armée], prétendre aux places de la 42 cour» .
Molti artistocratici trovavano questa situazione soffocante. Roberto Alfieri guardava con spavento ogni promozione militare. Nel 1783 il sovrano, «avec beaucoup de bonté», lo nominava colonnello di fanteria. Anche se per un uomo di quarantotto anni, che non aveva ancora visto un giorno di guerra, era un bel risultato, il marchese ebbe lunghi tentennamenti 43. Gli anni precedenti, in cui aveva servito come ufficiale provinciale, erano trascorsi tranquilli, al riparo da avventure di guerra e da compiti militari troppo impegnativi 44. Se gli avessero affidato il comando di un reggimento di ordinanza avrebbe dovuto fare il militare a tempo pieno: molti ufficiali se lo sarebbero augurato, giacché la fanteria provinciale era considerata un po’ di serie B, ma lui temeva di non riuscire a restare fedele all’idea paterna di conciliare gli impieghi pubblici con la gestione dei beni di famiglia. Era un equilibrio delicato, tanto più che, come molti aristocratici raccolti intorno al duca di Chablais, gli Alfieri si erano imbarcati in una serie di tentativi manifatturieri e commerciali: oltre alle terre, una miniera, una scuola di filatura, una tintoria, una manifattura di tele 45. Per fortuna, in quest’occasione andò tutto bene. Roberto, che si era convinto «qu’il est tems de penser à me mettre à portée de pousser une carrière et d’acquerir des titres pour cela», otteneva il comando di un reggimento provinciale.
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Ma la paura di finire come i suoi fratelli minori, entrambi ufficiali di cavalleria, che vagavano da una guarnigione a un’altra, tornava ogni pié sospinto. E il 1792 fu, da questo punto di vista, un anno gravido di delusioni. Carlo Emanuele, che l’anno precedente aveva cercato «d’entrer dans la carrière diplomatique sans passer par le canal ordinaire», dovette riprendere il suo vecchio posto in fanteria e Roberto fu nuovamente promosso. Sperava di diventare gran maestro della guardaroba, e invece venne nominato comandante della Savoia. Era la sua militarizzazione definitiva. Mentre le notizie dalla Francia diventavano sempre più gravi e in Piemonte le tensioni interne si facevano laceranti, gli Alfieri si trovavano «divisés sur les frontières, les plus eloignés l’un de l’autre». Tutti militari a tempo pieno, in Savoia e nel Nizzardo. A Torino restava solo Carlotta Due, la giovanissima moglie di Carlo Emanuele. L’equilibrio originario si era infranto. Roberto, un militare dei tempi di pace, che non aveva mai messo piede in un campo di battaglia, si trovava in uno dei punti chiave della difesa piemontese, «obligé de remplir un poste dans l’e-xercise duquel je n’ai pas la moindre expérience». Certo, «il fau-dra le remplir tant bien que mal, comme il plaira à qui dispose de tout», ma «comment est-ce que je m’en tirerai le bon Dieu le sait». La sua nomina parve a tutti un sacrificio molto pesante e da Firenze Carlo Emanuele scriveva una lettera preoccupata e insieme amara: «j’éspère que vos allarmes sur votre destination à un employ bien critique ne se verifieront pas, j’en tremblerois et ce seroit éxposer terriblement votre fagon de penser que de vous le proposer. Il faudroit bien de la vertu pour l’accepter et du bonhèur pour s’en tirer et je ne vois pas les raisons qui vous obligeroient à tout sacrifier dans cette circonstance. Au moment de jouir tranquillement et partager le bonheur de votre famille, auquel vous avez travaillé toute votre vie, ce seroit terrible de nous séparer. Je ne vous dit pas bien d’autres raisons de crainte de trop parler pour mon intérét, je n’oublie pas ce que l’on doit à son maitre et à sa patrie, mais je trouve que ceux qui jouissent des plus grands agréemens doivent aussi de préference courir les risques de désagréemens et sur ce principe je ne trouve pas que ce soit encore votre tour» 46.
I sacrifici militari degli Alfieri furono infine ricompensati. Nell’aprile 1794 Roberto otteneva la grande entrée, uno dei più considerevoli riconoscimenti di corte, che lo poneva in una condizione di relativa intimità con il sovrano. Otteneva quello cui aveva aspirato per tanti anni - anche se tardi e in momento di
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sfilacciamento del tessuto istituzionale sabaudo. Per il resto, aspettò solo di lasciare l'esercito silenziosamente e in modo indolore. Poco tempo dopo era seguito anche dagli altri componenti della famiglia, che pregustavano «la douce satisfa'ction de vivre tranquillement en famille». Il discorso con le istituzioni sabaude era momentaneamente interrotto. Lo riprenderà Carlo Emanuele qualche anno più tardi: maestro di cerimonie alla corte del principe Borghese, dopo la Restaurazione sarà ambasciatore a Parigi, gran ciambellano, consigliere di Stato straordinario e accumulerà cariche e onoreficenze negli ordini cavallereschi 47.
5. La lunga permanenza nell’esercito aveva provocato una scarsa identificazione ideologica e culturale con l'istituzione. Gli Alfieri avevano una certa ansia di negare la condizione militare, di affermare, appunto, che non era una condizione ma un semplice mestiere. Quest'ansia non coinvolgeva solamente l’esercito. Roberto stentava in generale a riconoscersi in qualsiasi gruppo, e anche rispetto alla corte, un ambito che gli era particolarmente caro, sentiva talvolta il bisogno di ribadire la sua alterità. Il suo «naturale» era austero. Anche di fronte a delle «commissions bien agréables et d'honneur», come quella di portare gli auguri della famiglia reale per l'incoronazione dell'imperatore a Vienna, gli sembrava «un supplice de devoir passer dix jours dans la gène et en vaines céremonies». La corte diventava allora il topos della vanità, fatto di «mascarades qui ne vaillent la peine d’étre» e di «luxe incroyable»; e, come in gioco di specchi, con il figlio si ricordavano a vicenda la necessità di adeguarsi, «il me faut aussi à cet égard sortir du mon naturel, mais enfin il faut bien s’y prè-ter» 48.
Tuttavia, mentre rispetto alla corte questo senso di distanza era intermittente e attenuato dalla convinzione di doversi «prestare», dall’esercito ci si sentiva sempre lontani. Solo nell’aprile 1792 il marchese, molto inquieto per le nuove responsabilità che si era dovuto accollare in Savoia, si lasciava andare per un momento alla parte del militare, in polemica con gli organi politici. Riteneva che «les emigrés poussent pour la guerre» e non condivideva gli atteggiamenti bellicosi e guerrafondai che stavano prendendo piede in alcuni ambienti torinesi: «pour parler plus franchement - scriveva allora - quant on ne sait pas ni ce que l’on veut ni ce que l'on fait l'on perds un tems infini et précieux [...], enfin c’est dommage que la piume est de beaucoup inférieu-re à l'épée, car quant aux troupes je crois que l’on peut s'en pro-
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mettre» 49. Ma, al di là di questa situazione contingente, turbata dallo spettro della guerra, Roberto era un nobile che si percepiva soprattutto come tale e che, tra l'altro, faceva anche il militare. Nonostante vi avesse trascorso quarantanni, l’esercito non era il suo mondo. E non si stancava di proporre ai figli un’immagine diversa da quella del militare puro. Non si trattava solo di metterli in guardia dai vizi tipici dei giovani ufficiali - il gioco e gli «amourets, qui ne valent rien ny pour Fame ny pour le corps non plus que pour la bourse». Bisognava incoraggiarli a leggere le gazzette, imparare il tedesco, frequentare persone estranee al mondo militare. Si compiaceva che le monache della Visitazione di Chambery avessero osservato che Carlo Emanuele aveva «plus l’air d’un grave magistrat que d’un cornette» e incoraggiava Giuseppe a frequentare persone estranee al mondo militare: «vous avez très bien imaginé de vous arranger pour votre ordinaire de la faQon que vous me mandez, la société de l’Aumònier, des Reli-gieuses et celle du chanoine votre convive sera sùrement plus interessante que celle de votre capitaine». I figli erano d’accordo. In guarnigione si lasciavano andare a qualche ironia sulla «air infecte de la capitale...» o sull’amico comune infatuato della moda inglese, che ne «porte point d’épée, se promene en frac et une badine à la main», ma nella comunicazione familiare si rallegravano di avere un «caractère un peu sombre et souvent trop réflé-chi», che li allontanava dagli altri ufficiali.
Questo scarto rimandava innanzitutto alla presenza - discontinua fisicamente ma non idealmente - della corte. Come ho già osservato, molti aristocratici consideravano l’esercito un semplice mezzo di comunicazione con quest’ambito di potere. Ma il problema non era solo questo. Grazie alla corte essi avevano già una certa sicurezza disciplinare. Al contrario di quanto afferma un comune stereotipo storiografico - che vi vede un focolaio di disordine e indisciplina e sottolinea gli effetti deteriori che essa esercitava sulla struttura militare 50 - la corte era una delle principali istanze disciplinari della società. Pur essendo uno spazio fisicamente aperto e fortemente impregnato di rituali, si fondava su unità individuali e al suo interno ciascuno era definito dal posto che occupava in una serie e per lo scarto che lo separava dagli altri. Questo spazio analitico, in cui vigevano relazioni individuali e seriali, obbligava a un severo controllo delle emozioni: misura verbale, manipolazione corporea e senso dell’interlocutore51. In questo senso, per molti aristocratici le tensioni disciplinari che agivano nell’esercito erano soltanto un prolungamento
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di quelle che attraversavano la comunicazione familiare e segnavano la loro esistenza a corte. Se c’era continuità tra le logiche istituzionali, la risonanza non era cioè la medesima. La corte era uno spazio sociale relativamente omogeneo, in cui il sovrano era costantemente vicino: i meccanismi costrittivi che si generavano al suo interno erano nello stesso tempo degli elementi di distinzione sociale 52. L’esercito - spazio socialmente promiscuo - non aveva una simile forza nei confronti di questo settore della nobiltà e, sotto certi aspetti, aveva una parte ridondante: non di apprendimento, ma di conferma. Era percepito non tanto come istanza disciplinare ma come luogo in cui esibire i propri livelli di disciplina. I marchesi Alfieri erano ossessionati dal timore di parlare troppo, di lasciarsi sfuggire qualcosa. Da qui le continue raccomandazioni ai figli di non farsi agitare dall’«esprit de cabale»: un cortigiano era «un domestique du Roy et de la famille royale, il doit étre discret et secret au point que votre maitre soit sùr que ce que vous voyez, ce que vous entendez, ne sortirà ja-mais de votre bouche». Tuttavia, mentre a corte la misura verbale era un segno di subalternità (all’interno) e di discriminazione sociale (all’esterno), nell’esercito aveva soltanto quest’ultimo valore (dentro e fuori lo spazio istituzionale). Rappresentava insomma una barriera tra sé e quegli ufficiali «grossiers et sans éducation» che «se servent de gros mots»: «ils sont à plaindre -precisava il marchese Asinari di San Marzano, che negli anni Ottanta scriveva alcune interessanti riflessioni di carattere educativo 53, - puisque sortant d'un college [ou] d'une académie ils sont entrés dans les troupes sans avoir eu le temps de fréquenter ce qu'on appelle compagnie choisie [...] et naturellement ils adop-tent le language du quartier, c’est à dire du soldat». Era un messaggio insistente, anche se addolcito qua e là da toni paternalistici, che rimandava alla propria immagine sociale nelle due istituzioni. Nell’esercito conveniva mantenere «une certaine réser-ve» e valorizzare un’immagine individuale di se stessi, stando attenti a non affogare in quella collettiva del corpo militare: «la plus part des officiers s’accoutume dans leurs quartiers à se tenir tous les jours dans une boutique ou à jouer ou à ne rien faire, tous les officiers de distinction qui ont bien appris le métier n’ont jamais eu cette mauvaise coutume, ils ont mis à profit le séjour des quartier pour travailler et souper chez soi [...], s’il y a quelque bonne maison on y vat, mais il faut vous accoutumer à vous tenir quelques heures chez vous, et prendre goùt à la lecture et on peut s'amuser à dessiner, quelque peu à la musique, il
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faut monter souvent à chevai». La corte, invece, era abitata da pari e bisognava evitare con cura di distinguersi dagli altri: «un homme de cour doit étre toujours propre bien mis, mais sans af-fectation ni trop de magnificence, c’est vouloir divertir le public a nos dépenses que se mettre differemment des autres» 54.
D’altronde, come molti altri aristocratici, gli Alfieri non riconoscevano nessun valore educativo all’esercito. Luisa Asinari attribuiva grande importanza al momento dell’apprendimento, al punto da annotare che «l’experience que nous apportons en nais-sant [n’est] qu’une capaci té vide, qui se remplit successivement», ma considerava il reggimento come un semplice prolungamento dell’autorità familiare. «Celui qui vous ai de dans ces premier pas vous aidera toujours, soiez en sùr et mettez en lui toute votre confiance», scriveva a Carlo Emanuele mentre il marito si preparava a intervenire direttamente sui tempi delle licenze e i luoghi di destinazione di tutti e tre i figli. Con lui i superiori avevano poca voce in capitolo e finivano sempre col cedere in tono umile e accondiscendente. Nel 1785, in seguito alla morte improvvisa della sorella, il primogenito si precipitò a Torino senza chiedere il permesso, suscitando la disapprovazione del maggiore, secondo il quale «si c’éut été le Roi-méme qui vous éusse attendu vous ne deviez point partir». Ma poi bastarono due righe di Roberto per placare, o forse soffocare, la sua ira e fargli scrivere una lettera di scuse in un francese alquanto zoppicante: «quaque vous trouviez Monsieur une righeure éxcessive de Service dans mon exigence, j’ai cependant l’honneur de vous dire si vous étiez dans ma situation [...] je suis persuadé qu’ vous changeriez de senti-mens. Monsieur votre fils peut cependant me rendre justice que j’ai toujours éu pour lui beaucoup d’amitié. Je serais mortiffié qu’on vous donna un idée de moi tout autre de ce que je suis: Monsieur votre fils peut rester chez vous le tems que vous dési-rez». L’esperienza militare era dichiaratamente gestita nell’ambito della famiglia. I pronomi personali usati dal marchese Alfieri sono rivelatori: «votre colonel - scriveva al figlio - arriverà donc ici lundi, il vous parlerà probablement avant son départ d’arranger avec nous le tems de votre semestre, vous nous fairez plaisir à votre mère et à moi de lui témoigner que vous resterez très volontiers à votre quartier tout le tems que nous le jugerons à propos» 55.
Entro l’istituzione militare lo scarto, a tratti lacerante, tra presenza fisica e adesione ideologica era reso possibile anche dalla forza dell’immagine familiare. La sensazione di alterità che at-
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traversava la vita del marchese Alfieri era in parte condivisa dai fratellf che vivevano immersi neH’esperienza militare. Anche dal conte Teobaldo che, entrato nella cavalleria a diciotto anni, non si dedicava ad altre attività (la gestione dei beni familiari era tutta in mano a Roberto) e non aveva interlocutori istituzionali diversi dall’esercito (nessun incarico di corte o diplomatico). Certo, lui e i figli minori di Roberto, che trascorrevano gran parte della loro esistenza in guarnigione, si sentivano dei militari. Tanto che Giuseppe si lamentava spesso di quegli ufficiali a mezzo tempo, «qui sont absens le deux tiers de l’an et Tautre tiers le passent à ne rien faire», e nel 1778 Teobaldo si trovava al centro di uno dei più clamorosi conflitti tra militari e civili. La loro fisionomia professionale era, insomma, ben definita. Non stentavano a collocarsi nell’esercito e talvolta si riconoscevano nella categoria dei ‘militari’, usandola come criterio di lettura della realtà. Magari in opposizione a quella dei politici: nei primi anni Novanta, quando si trovava in una Savoia invasa dagli emigrati francesi e scossa da mille tumulti di piazza, Teobaldo scriveva che il governo, con la sua posizione remissiva nei confronti dei ribelli, infliggeva una grave «umiliazione» al suo reggimento. Ma se in questi momenti critici si identificava pienamente con la sua posizione istituzionale - creando anche dei motivi di incomprensione con il fratello, che era convinto che non si dovesse essere vittima di un simile «point d’honneur» -, l’immagine ideale che soggiaceva alla comunicazione familiare, e che i componenti del casato si rimandavano l’un l’altro, era sempre poco militarizzata. Su questo punto erano tutti d’accordo. Anche i cadetti, che non avevano un'esperienza manchevole, a mezzo tempo, dell’esercito, nutrivano un sentimento di distanza dalla professione militare, da cui si sentivano definiti solo parzialmente: nemmeno per loro era una condizione (e tantomeno un attributo naturale del titolo nobiliare) ma soltanto un’attività limitata e circoscritta 56. Così, quando la vita relazionale mista della guarnigione veniva meno - come a Rumilly, dove non c'era «une bonne et sùre société» - Teobaldo si sentiva oppresso. Non gli piaceva stare all’interno di una socialità esclusivamente militare, ed era forse anche per questo che non provava molta simpatia per le logge massoniche, con «toutes leurs folies» 57.
L’identità individuale veniva riassorbita in un'identità familiare e di gruppo. Anche se i cadetti erano personalmente molto legati all'esercito, l’immagine che avevano di sé risentiva non solo delle proprie esperienze ma anche di quelle degli altri parenti.
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Degli esperimenti manifatturieri e commerciali, dei rapporti con la comunità di San Martino e, soprattutto, della corte. In un periodo in cui era diventato molto difficile diversificare le scelte professionali e in cui erano tutti costretti nell'istituzione militare, gli Alfieri cercavano di non settorializzarsi almeno sul piano culturale e ideologico. Questo tentativo esprimeva il conflitto che attraversava la famiglia, parzialmente insofferente verso i vincoli istituzionali e nello stesso tempo certa nell’intenzione di mantenere e rafforzare la sua posizione di superiorità sociale. Era in parte una reazione negativa al fatto che la sua dipendenza dall’esercito si stava acuendo: la morsa istituzionale si faceva più stretta, e ribadire la propria alterità culturale allontanava il timore di soccombere ad essa e creava l’illusione di avere ancora degli ampi margini di autonomia. Ma non era solo una reazione compensatoria. Forse era anche un segno di giovinezza sociale, un modo per non aderire incondizionatamente alle circostanze contingenti: una reazione propulsiva che permetteva a Roberto di portare avanti il progetto familiare, basato su un potenziale interesse verso tutti i luoghi di potere, e di continuare a trattare l’esercito come una semplice tappa nella storia del casato 58.
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NOTE AL TESTO
1 D. Bien, La réaction aristocratique avant le 1789: l’exemple de l’armée, in «An-nales E.S.C.», 1974, 1 e 2.
2 Archivio di Stato di Torino (d’ora innanzi AST), Sez. Riunite, Finanze, Il archiviazione, capo 10, «Consegna delle bocche», 1734.
3 Biblioteca reale (d’ora innanzi BR), Saluzzo 52, A. De Levis, Sistema sulla educazione militare per gli paggi ed Accademisti, dedicato a S.M.R. Vittorio Amedeo IH Re di Sardegna, 1784. A questo proposito cfr. G., Quazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, Modena 1957; W. Barberis, Le armi del principe, Torino 1988.
4 AST, Sez. I, Lettere particolari, M. mazzo 74, «Lettere del governatore Mossi», Lettere 1-12-1772, 12-12-1772.
5 Per una discussione sui livelli di povertà (relativi e oggettivi) della nobiltà si veda J. Meyer, Un problème mal posé: la noblesse pauvre. L’exemple breton au XVIIle siècle, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», 1971, XVIII. Cfr. anche L. Tuetey, Les officiers sous l’ancien régime. Nobles et roturiers, Paris 1914; E. Léonard, L’armée et ses problèmes au XVIIle siécle, Paris 1958; A. Corvisier, L’armée fran^aise de la fin du XVIle siécle au ministère de Choiseul, Paris 1964.
6 Cfr. J. Meyer, Noblesses et pouvoirs dans l’Europe d’ancien régime, Paris 1973; G. Chaussinand-Nogaret, La noblesse au XVIIle siécle. De la Féodalité aux Lumières, Paris 1976. Sulla grande eterogeneità della nobiltà settecentesca cfr. A. Goodwin (a cura di), The European Nobility in thè 18th-Century, London 1953; R. Forster, The Provincial Noble: A Reappraisal, in «American Historical Review», LXVIII (1963); A. Decoufle, L'aristocratie fran^aise devant l’opinion publique à la veille de la Revolu-
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tion, in A. Decoufle et al., Etudes d’histoire économique et sociale du XVIIIe siécle, Paris 1966; F. Billacois, La crise de la noblesse européenne 1550-1650, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», 23 (1976); J.P. Labatut, Les noblesses euro-péennes de la fin du XVe siécle à la fin du XVIIIe siécle, Paris 1978.
7 N. Elias, Die hòfische Gesellschaft, Neuwied e Berlin 1969, tr. it. Bologna 1975.
8 AST, Sez. I, Lettere particolari, M, mazzo 74, «Lettere del governatore Mossi», lettere 26-2-1774, 1-3-1774, 26-12-1775; «Relazione su qualche sconcerto nelle conversazioni della nobiltà», 26-12-1775; ivi, Lettere particolari, P, mazzo 24, «Lettere del comandante Pellione», Lettere 15-2-1756, 6-12-1758; ibid., «Supplica del capitano Costa s.d.»; ibid., «Memoria dei nobili Arborio Mella, Buronzo e altri», s.d.; ibid., «Ricorso della baronessa Malpenga», s.d.; ibid., «Lista della posizione delle dame di Vercelli», s.d.; Archivio di Stato di Vercelli (d’ora innanzi ASV), Archivio Arborio Mella (d’ora innanzi AAM), mazzo 34, Capitoli cit.; ibid., Capitoli per la costruzione del teatro, 20-1-1770, 2.4.1770.
9 Per esempio, la nobiltà provinciale di Vercelli, di dimensioni numeriche relativamente ristrette (nel 1753 contava 59 fuochi nobili, comprendenti circa 300 individui, pari allo 0,4% della popolazione totale), si era concentrata quasi tutta in città: soltanto 1’8,5% dei vassalli vivevano sulle loro terre, tutti gli altri si erano trasferiti - qualcuno a Torino, la maggior parte a Vercelli, dove i nobili erano pari a circa il 3% degli abitanti. Cfr. BR, Storia patria 849, «Descrizione della provincia di Vercelli. Estratto della relazione dell'intendente conte Giovanni Tommaso Boutal di Pinasca nel 1753 e 1754 con una introduzione del conte Prospero Balbo».
10 Com’è noto, in seguito alla confisca di parte dei tassi e dei feudi alienati dallo Stato nel periodo della Reggenza, nel 1722 erano stati venduti 172 feudi e le concessioni di titoli nobiliari proseguirono sino alla fine del regno di Vittorio Amedeo III. Sull’inflazione dei titoli nobiliari cfr. N. Bianchi, Storia della monarchia piemontese dal 1773 al 1861, Roma 1877, voi. 1°; A. Manno, Relazione del Piemonte del segretario francese Sainte-Croix, in «Miscellanea di storia italiana», XVI (1877); S. Woolf, Studi sulla nobiltà piermontese neirepoca dell’assolutismo, Torino 1963, pp. 70-71, 161 e ss.; J. Nicolas, La Savoie au XVIIIe siécle. Noblesse et bourgeoisie, Paris 1978, cap. XI; E. Stumpo, Spese e guadagni bellici nello Stato piemontese del Seicento, in Gli aspetti economici della guerra in Europa (sec. XVI-XVIII), Prato 1984.
11 Sulle tradizioni ideologiche cfr. E. Hobsbawm, T. Ranger, The Invention of Tradition, Cambridge 1983, trad. it. Torino 1987.
12 AST, Sez. I, Lettere particolari, P, mazzo 24, «Lettere del comandante Pellione», «Memoria dei nobili Arborio Mella, Buronzo e altri», 1756; ASV, AAM, mazzo 34, Vercelli. Capitoli di amicale unione per fissare le radunanze ossia le conversazioni in giro fra le famiglie componenti il ceto della nobiltà di vercelli; 6-12-1778.
Sui rapporti tra vecchia e nuova nobiltà cfr. M. Reinhard, Elite et noblesse dans la seconde moitié du XVIIIe siécle, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», III (1956).
13 AST, Sez. I, Provincia di Vercelli, Pareri diversi riguardanti i motivi del malcontento e della poca buona armonia esistente tra la nobiltà e l’ordine cittadinesco di Vercelli, 1790-93, mazzo 5 n. 33.
14 AST, Sez. I, Lettere particolari, M, mazzo 74, «Lettere del governatore Mossi», Lettera 26-12-1775; ibid., P, mazzo 24, «Lettere del comandante Pellione», Lettere 63-1754; ibid., «Relazione del conte Ferraris e del cavaliere Cusani del succeduto nel teatro di Vercelli», s.d.
15 Nel 1737, per esempio, era stata concessa l'esenzione della leva militare anche a «nobili nati da famiglie distinte sebbene non aventi giurisdizione»; Tanno successivo era stato stabilito che i posti di cadetto di fanteria dovessero essere riser-
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vati ai «figliuoli di vassalli o di conosciuta nobiltà, compresi [...] i figliuoli d'uffizia-li» e nel 1741 erano stati ammessi anche «giovani di buona condizione e di nascita civile»: cfr. F. Duboin, Raccolta per ordine di materia delle leggi, editti, manifesti emanati negli Stati di terraferma fino all’8-12-1798 dai sovrani della Reai Casa di Savoia, Torino 1818-1869, libro XIV tit. I, «R.V. 7-3-1737», «R.V. 2-7-1738», «R.V. 17-81741». Cfr. G. Quazza, Le riforme, cit., voi. 2°, pp. 344-45.
16 Quasi 700 giornate (pari a più di 2.500 ettari): cfr. Archivio Arborio Mella di Milano (d ora innanzi AAMM), F, «Inventario dellTll.mo Mella», 20-6-1723.
17 AAMM, Famiglia, t. II, «Informazioni sul mal stato dei beni per ottenere da’ francesi qualche diminuzione de’ pesi», 1706; ibid., «Dichiarazione relativa alla violenta appropriazione di segale fatta da soldati in Arborio», 1708; ibid., «Provisione di tutela e cura dell’Hl.mi figli et heredi Arborio mella», 26-5-1723; ibid., «Dote della dama Paola Avogadro di Casanova», 1723; ibid., «Tassa delli allimenti e manutenzione deH’ill.mi contino e cavaliere Arborio Mella», 1723; ibid., «Atto di nozze di Giuseppe Arborio Mella con donna Vittoria Artea», 1739; ibid., «Contratto matrimoniale tra Amedea Arborio Mella e il conte C.F. Lascaris di Ventimiglia», 17-1-1734; ivi, mazzo F, «Quittanza d’amministrazione di tutela e cura per i figli del conte Arborio Mella», 11-9-1723.
18 AST, Sez. I, Lettere particolari, A, mazzo 20, «Lettere del conte Arborio Mella», 1784-93, Lettera 11-5-1784; ivi, M, mazzo 74, «Lettere del governatore Mossi», Lettera 15-5-1784.
19 AAMM, S, «Brogliacco del ritratto degli ufficiali del reggimento di Vercelli», 22-5-1767; AST, Sez. IV, Lettere della Segreteria della Guerra a particolari, 1692-1800, reg. 69°, Lettera 24-3-1770; ibid., reg. 76°, 19-8-1775; ASV, AAM, mazzo 43, Carte militari, «Lettere del conte Arborio Mella alla Segreteria della Guerra», Lettere 410-1775, 22-11-1775.
20 Cfr. AST, Sez. IV, Raccolta degli stati e note dei revenans-bons di cui godono gli uffiziali dello Stato maggiore delle piazze, s.d.; ivi, Lettere particolari della Segreteria, cit., reg. 69°, Lettera 24-3-1770; ASV, AAM, mazzo 41, Carte militari, «Lettere del conte Bogino», Lettera 6-6-1767; ivi, mazzo 39, Governatore di Cuneo, Corrispondenza varia, 1784-91, «Lettere del conte Arborio Mella», Lettera 8-7-1788.
21 Nel 1798 consegnava un patrimonio di 599.569 lire e nel 1801 di 602.260 lire. Cfr. ASV, Intendenza di Vercelli-Serie I, mazzo 56, «Stato dei possessori eccedenti £. 10.000», 1801; AAMM, U, «Petizione di Giuseppe Arborio Mella», 1801; ivi, S, «Petizione della famiglia Arborio Mella», 27 germinale XI; ivi, T, «Convenzione tra i fratelli Arborio Mella per l’eredità paterna», 31-1-1803; ibid., «Acte de partage entre les frères», 8-3-1806; AST, Sez. I, A.A., mazzo 64 n. 108, Stato dei proprietari di Vercelli, 1798.
22 ASV, AAM, mazzo 39, Governatore di Cuneo, Corrispondenza varia, «Lettere del conte Coconito», Lettera 23-6-1786.
23 Ivi, mazzo 41, Carte militari, 1760-72, «Lettere del cavaliere De Villaret», Lettera 29-5-1762.
24 Ivi, mazzo 35, Documenti vari, «Lettere del conte Coconito», Lettera 9-31787; mazzo 39, Governatore di Cuneo, Corrispondenza varia, 1784-91, «Lettere del conte Coconito», Lettera 26-3-1787; AST, Sez. IV, Lettere particolari della Segreteria, cit., reg. 85°, Lettera 27-10-1779.
25 ASV, AAM, mazzo 41, Carte militari, «Lettere del conte Arborio Mella», Lettera 12-9-1769; ibid., «Lettere della baronessa Beltramo di Valesa», Lettera 16-9-1769; AST, Sez. IV, Lettere particolari della Segreteria, cit., 1692-1800, reg. 68°, Lettere 27-91769, 7-10-1769; ibid., reg. 69°, Lettera 15-11-1777.
26 Su 195 ufficiali - che servirono nel reggimento di Vercelli tra il 1713 e il 1792 - solo 17 non avevano intrapreso subito la carriera militare (in 10 avevano
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frequentato l’Accademia e in 7 avevano servito come paggi); tutti gli altri non avevano nessuna formazione intermedia ed erano entrati direttamente nell’esercito. Cfr. AST, Sez. IV, Ufficio Generale del Soldo, Assenti, regg. 1-66; ivi, Regia Segreteria della Guerra, Patenti e provisioni militari, regg. 1-38.
27 P. De Meyzieu, Lettre d’un ancien lieutenant-colonel franqois sur l’Ecole Royale militaire, Middelbourg 1753, pp. 65-74.
28 Cfr. D. Bien, The Army in thè French Enlightment: Reform, Reaction and Revolution, in «Past and Present», 85 (1979).
29 AAMM, S, «Brogliacco cit.»; ASV, AAM, mazzo 35, Ordine pubblico: corrispondenza varia, «Lettere del conte Coconito», Lettera 9-3-1787; ivi, mazzo 39, Governatore di Cuneo, Corrispondenza varia, 1784-91, «Lettere del conte Coconito», Lettera 26-3-1787; ivi, mazzo 43, Carte militari. Corrispondenza 1770-78, «Lettere del conte Arborio Mella», Lettere 21-12-1773, 29-12-1773, 4-1-1774, 11-1-1774; ibid., «Lettere del conte Chiavarina», Lettere 25-12-1773, 8-1-1774, 22-1-1774, «Relazione del cavaliere Avogadro di Quaregna», Lettera 17-1-1774; AST, Sez. IV, Lettere ai governatori, reg. 24°, «Lettere al conte Arborio Mella», Lettera 30-10-1763.
30 AAMM, S, «Brogliacco cit.»; Specchio militare, ovvero giuste regole fondamentali, con cui ogni militare può in qualunque occasione felicemente dirigersi, Mantova 1768, che distingueva quattro elementi del talento militare: la Natura, l’Educazione, il Travaglio e l’Esperienza. Cfr. anche AST, Sez. I, Materie Militari, Ordini e regolamenti, mazzo 4 n. 5, «Reflexions et maximes de guerre», 1683; ivi, Materie Militari, Ufficio Generale del Soldo, mazzo 4 d’addizione n. 1, «Projet que le très soumis et très zelé avocat Ongran a l’honneur de mettre aux pies de S.M:»; ivi, Materie Militari, Ordini e regolamenti, mazzo 4 n. 40, «Pareri sul progetto Missegle», 1723; AST, Sez. IV, Miscellanea, pacco 1 ' n. 17 e 28; Anonimo, Préjugés militaires par un offtcier autrichien, 1780.
31 AST, Sez. I, Archivio Asinari di San Marzano (d’ora innanzi AASSM), Sez. I, mazzo 19 n. 4, Corrispondenza del marchese Filippo Valentino I, «Scritti educativi del marchese Filippo Valentino I», s.d.; Le memorie del conte Roberto di Malines, a cura di P. Robbone, Annali dell’Istituto superiore di Magistero del Piemonte, 1932, VI.
32 BR, Saluzzo 244, «Raccolta di lettere del Bruno Bruni sovra la guerra d’Italia nel 1744».
33 BR, Saluzzo 383, «Devoir des officiers, bas officiers et soldats», Turin 1745; AST, Sez. I. Materie Militari, Levata delle truppe nel paese, mazzo 1 n. 1, «Progetti scritture, memorie riguardanti la levata ed augmenti di truppe nel paese», 14681702.
34 ASV, AAM, mazzo 43, Carte militari. Corrispondenza relativa al reggimento di Vercelli 1770-78, «Lettere del colonnello Arborio Mella», Lettera 14-6-1774; AST, Sez. L, A.A., mazzo 95 n. 7, Corrispondenza relativa al reggimento di Vercelli 1783-91, «Lettere del marchese Cravanzana», Lettera 24-8-1791; ivi, mazzo 95 n. 6, Carte varie, «Convenzione tra il conte Illarione Signoris di Buronzo e il suo figliuolo», 4-71791; ibid., «Rappresentanza del conte Signoris», s.d.; AST, Sez. IV, Lettere particolari della Segreteria cit., reg. 23°, f. 21; ibid., reg. 81°, Lettere 16-8-1777, 6-12-1780, 21-1781; ibid., reg. 52°, Lettera 4-9-1754.
35 Cfr. BR, Storia Patria 445, Relazione storica della corte e degli stati di S.M., 1742.
36 Cfr. G. Levi, L’eredità immateriale, Torino 1985.
37 AST, Sez. I, Archivio Alfieri di San Martino (d’ora innanzi AASM), Filza Famiglia, mazzo 13, Documenti constatanti la nobiltà ed antichità della famiglia Alfieri, reg. 4°, «Prove di nobiltà del nobile Roberto Gerolamo Alfieri»; ivi, mazzo 15, Documenti sulla nobiltà e l’antichità della famiglia Alfieri, «Prove di nobiltà fatte dal cavaliere Roberto Gerolamo Alfieri per ottenere la croce dell’ordine gerosolimitano»;
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ibid., «Histoire du chàteau de Saint Martin», s.d.; ivi, mazzo 16, Impieghi, cariche, onoreficenze, «Lettera del gran maestro di Malta», 1754.
38 AST, Sez. I, AASM, Filza Carlo Emanuele, mazzo 4 n. 4, Lettere degli ufficiali del reggimento dei dragoni del Re, 1782-89, Lettera del colonnello d'Envie, 7-11-1782; ivi, Filza Roberto, mazzo 1 n. 5, Lettere del cavaliere Giuseppe, 1776-93, Lettera 10-51786; ivi, Filza Carlo Emanuele, mazzo 10, Lettere del marchese Roberto, 1776-91, Lettere 8-6-1786, 17-6-1786; ibid., mazzo 8 n. 1, Lettere del conte Carlo Emanuele ai genitori, 1776-94, Lettera 1-7-1786.
39 Gli incarichi di corte effettivi erano i seguenti: dal gran mastro dipendevano 5 maggiordomi, 8 gentiluomini di bocca, 1 maresciallo degli alloggiamenti; dal gran ciambellano, 26 gentiluomini di camera, 17 aiutanti di camera, 1 governatore di palazzo; dal gran scudiere, 4 primi scudieri, 4 secondi scudieri, 1 governatori dei paggi. C'era poi un'altra dozzina di cariche femminili (tra dame d’onore, dame di palazzo, dame d’atour e dame di camera) e un numero indefinito di paggi e di gentiluomini di camera senza quartiere (titolo onorario senza funzioni). Cfr. P.G. Galli Della Loggia, Cariche del Piemonte, Torino 1798; BR, Miscellanea Vemazza, «Impiegati della Regia corte». Il 'bottino' delle cariche non era spartito equamente e alcune famiglie facevano la parte del leone: ben 228 dei 509 maschi che svolsero funzioni di corte tra il 1708 e il 1799 ne accumularono più duna.
Sull’esclusione dell'aristocrazia francese dal potere politico e amministrativo cfr. N. Elias, Die Hòfische cit., pp. 123, 240, 252.
40 Attraverso le Patenti (AST, Sez. Riunite, Controllo Finanze, regg. vari) ho prima ricostruito tutti i cortigiani maschi facenti funzione e poi controllato i loro incarichi pubblici.
41 Le donne erano considerate molto influenti: il conte Solaro di Govone ricordava al nipote che «l’aprobation des dames n'est pas un article indifferent pour fai-re fortune, surtout à la cour», e il marchese Alfieri non muoveva un passo senza interpellare la cognata Rosalia Balbo Bertone di Sambuy, dama d’atour della regina. Da alcuni accenni sparsi ho inoltre l'impressione che (forse perché poche) le cortigiane avessero maggiori occasioni dei cortigiani di conversare con la famiglia reale: per esempio, nel 1782, per l'arrivo dei granduchi russi, veniva precisato che «on admette à la table de la Reine quelques une des dames de leur suite [...] mais aucun gentilhomme, de quelque grade qu'il soit à la cour, parce que c'est totale-ment contré nos usages»: cfr. AST, Sez. I, Archivio Alfieri (d’ora innanzi AA), mazzo 70 n. 297, Documenti vari e manoscritti, «Minuta di lettera di anonimo al conte di Govone che voleva abbracciare la carriera delle armi nel XVIII secolo», s.d.; ivi, mazzo 96 n. 1, Carteggi, «Carteggi ed istruzioni relativi all'accompagnamento dei granduchi di Russia in Piemonte», 1782.
42 Cfr. A. Manno, Relazione cit. Questa chiusura non era necessariamente un segno di declino sociale: a corte un gruppo di aristocratici militari guadagnava terreno a scapito dei vecchi esponenti del ceto togato. La riforma militare del 1775, che potenziava il corpo ufficiali e organizzava le truppe in divisioni indipendenti (composte di tutte le armi e in grado di operare separatamente), valorizzava l’esercito rispetto ad altre istituzioni statali. Cfr. F.A. Pinelli, Storia militare del Piemonte, Torino 1854, voi. 1°, pp. 35-38; V. ferrone, Tecnocrati militari e scienziati nel Piemonte dell’antico regime alle origini della Reale Accademia delle Scienze di Torino, in «Rivista storica italiana», 1984, 2.
Sulle riforme militari del 1775 cfr. AST, Sez. I, Materie Militari, Ordini e regolamenti, mazzo 9 n. 10, «Stabilimenti militari di Vittorio Amedeo III», 1774. Cfr. F.A. Du-boin, Raccolta cit., v. XIV: «Règlement pour une nouvelle division des régiments», 1-4-1775; «Règlement provisionnel pour la progression des ordres et rapports dans
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l’infanterie et la cavalerie», 1.4.1775; «Mémoire du Bureau d’Etat pour la guerre sur une nouvelle composition des régiments d’infanterie d'ordonnance», 24-6-1786.
43 Passava dal grado di capitano a quello di colonnello in soli tredici anni, mentre la media era di ventun anni, con delle punte massime di trentacinque.
44 Nei periodi di pace l’attività dei reggimenti provinciali, creati nel 1713, era limitata a due assemblee annuali. Anche se la riforma militare del 1775, che organizzava le truppe in divisioni indipendenti e autosufficienti, imponeva un addestramento più intenso, gli ufficiali provinciali potevano comunque risiedere lunghi periodi di tempo a Torino e svolgere altre attività. Sui reggimenti provinciali cfr. AST, Sez. I, Materie Militari, Levata dei reggimenti provinciali, mazzo 1 n. 2, «Progetto per la levata de’ reggimenti nazionali delle provincie», 1713; ivi, mazzo 1 n. 5, «Progetto di regolamento per i reggimenti nazionali provinciali», 1713; ivi, mazzo 1 n. 6, «Raccolta d'ordini e regolamenti per la levata di dieci reggimenti nazionali», 1713-16; ivi, mazzo 1 d’addizione n. 1, «Progetto d’ordini per la consegna di uomini e per la levata di dieci reggimenti provinciali», 1713.
45 Sulle attività commerciali della nobiltà piemontese cfr. G. Doppet, Etat maral, physique et politique de la maison de Savoie, Paris 1791; G. Prato, La vita economica in Piemonte a mezzo il secolo XVIII, Torino 1908.
46 AST, Sez. I, A.A., mazzo 48 n. 1, Corrispondenza privata del conte Carlo Emanuele, «Lettere della famiglia Asinari di San Marzano», 1744-1840, Lettera del marchese Filippo Valentino, 23-12-1782; AASM, Filza Carlo Emanuele, mazzo 1 n. 2, Lettere della marchesa Luisa, 1776-86, Lettera 30-11-1785; ibid., mazzo 10, Lettere del marchese Roberto, 1776-91, Lettere 1-10-1785, 23-11-1785; ibid., mazzo 4 n. 4, Lettere degli ufficiali del reggimento dei dragoni del Re, 1782-89, Lettere di Cavour 11-2-1786, 23-7-1786; ivi, Filza Roberto, mazzo 1 n. 4, Lettere del primo marchese Carlo Emanuele al padre durante il suo viaggio, 1790-91, Lettera 15-5-1791.
47 Ivi, Filza Famiglia, mazzo 16, Impieghi, cariche e onoreficenze, «Lettera del marchese Graneri», 4-4-1794.
48 Ivi, Filza Carlo Emanuele, mazzo 10, Lettere del marchese Roberto, 1776-91, Lettera 30-10-1790; ibid., mazzo 1 n. 1, Lettere del marchese Roberto, 1792-98, Lettere 14-2-1792, 25-4-1792; ivi, Filza Roberto, mazzo 1 n. 4, Lettere del primo marchese Carlo Emanuele al padre durante il suo viaggio, 1790-91, Lettera 14-5-1790.
49 ivi, Filza Carlo Emanuele, mazzo 1 n. 1, Lettere del marchese Roberto, 179298, Lettere 23-4-1792, 28-4-1792. Sulle tendenze pacifiste di una parte dell’opinione pubblica nella seconda metà del secolo cfr. J.D. Candaux, Charles Borde et la première crise d’antimilitarisme de l'opinion européenne, in T. Besterman (a cura di), Studies on Voltaire and thè XVIIIth-Century, Genève 1963; A. Mathiez, Pacifìsme et nationali-sme au XVIIle siècle, in «Annales historiques de la révolution fran^aise», XIII (1936).
50 Cfr. H. Carré, La noblesse de France et l’opinion publique, Paris 1920 (Genève 1977); L. Tuetey, Les officiers cit., Paris 1908; E.G. Léonard, L’armée cit., Paris 1958.
51 Cfr. M. Foucault, Surveiller et punir, Paris 1975, tr. it. Torino 1976, pp. 22-5; 103-10, 154-62, 170; N. Elias, Die hòfische cit.; O. Ranum, Courtesy, Absolutism and thè Rise of thè French State, 1639-1660, in «Journal of Modem History», 52 (1980); J. Revel, Les usages de la civilité, in Histoire de la vie privée, Paris 1986.
52 Sulla trasformazione delle etero-costrizioni in autocostrizioni, cfr. N. Elias, Die hòfische cit., pp. 329, 351.
53 AST, Sez. I, AASSM, mazzo 19 n. 4, Corrispondenza e scritti del marchese Filippo Valentino I, s.d., «Scritti di carattere educativo del marchese Filippo Valentino I», s.d.
54 Ibid.; cfr. anche AST, Sez. I, ASSM, Filza Carlo Emanuele, mazzo 10, Lettere del marchese Roberto, 1776-91, Lettere 13-10-1780, ?-?-1776, ?-?-1783.
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55 Ivi, Filza Famiglia, mazzo 22, Quaderni e appunti, «Registro della marchesa Asinari di San Marzano», s.d.; ivi, Filza Roberto, mazzo 1 n. 5, Lettere del cavaliere Giuseppe, 1776-93, Lettera 27-5-1785; ivi, Filza Carlo Emanuele, mazzo 4 n. 4, Lettere degli ufficiali dei dragoni del Re, 1782-89, Lettera di Porporato 6-3-1787, lettera di Cavour, ?-5-1785, lettera del maggiore Luserna 20-5-1785; ibid., mazzo 10, Lettere del marchese Roberto, 1776-91, Lettere 2-12-1782, 13-12-1782, 20-12-1782, 27-12-1782; ibid., Lettera 1-2-1786; ibid., mazzo 1 n. 2, Lettere della marchesa Luisa, 1776-86, Lettera 25-1-1786.
56 ivi, Filza Teobaldo, mazzo 1 n. 1, Lettere del cavaliere Teobaldo, 1778-98, Lettere 14-2-1788, 26-2-1788; ivi, Filza Roberto, mazzo 1 n. 5, Lettere del cavaliere Giuseppe, 1776-93, Lettera 12-8-1791.
57 ivi, Filza Teobaldo, mazzo 1 n. 1, Lettere del cavaliere Teobaldo, 1778-98, Lettera ?-5-1790. Sull’intensa partecipazione militare alla massoneria cfr. C. Franco-vich, Storia della massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, Firenze 1974; D. Roche, Le siècle des Lumières en province: académies et académiciens provin-ciaux, 1680-1789, Paris 1978. Sulla massoneria piemontese cfr. in particolare P. Ma-ruzzi, Notizie e documenti su liberi muratori a Torino nel secolo XVIII, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 30 (1928) e 32 (1930); N. Brancaccio, L’esercito del vecchio Piemonte, Roma 1923; T. Sarasso, La libera muratoria vercellese nel Settecento, in «Bollettino storico vercellese», 9 (1977). Uno dei pochi documenti in tal senso si trova in A.S.V., Archivio Avogadro di Quinto, Pergamena 87 bis, «Entrata nella massoneria di Gioachino Avogadro di Quinto», 16-5-1790.
58 Come ha precisato Norbert Elias, il processo di curializzazione suscitava sentimenti ambivalenti e l'orgoglio per la propria superiorità sociale (e magari per il migliore autocontrollo) era spesso associato a una sensazione di frustrazione per le costrizioni istituzionali subite. Tuttavia, anche se le dichiarazioni di austerità di fronte ai costumi cortigiani o i toni nostalgici verso il passato di alcuni aristocratici piemontesi potevano rappresentare una valvola di sfogo alle costrizioni istituzionali, mi sembra fuorviante estendere l'analisi del romanticismo aristocratico di Elias (Die Hòfìsche cit. cap. VI), come espressione di un'opposizione simbolica al processo di curializzazione, a tutte le prese di distanza culturale.
Sulla 'età sociale’, cfr. P. Bourdieu, La distinction. Critique sociale du jugement, Paris 1979, p. 123.