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Title
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DUE SGUARDI SUGLI ANNALI-PAESAGGIO
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Creator
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Massimo Quaini
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Franco Marenco
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Date Issued
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1983-12-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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18
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issue
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54 (3)
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page start
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1019
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page end
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1039
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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pdf
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Format
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ita
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Rights
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Quaderni storici © 1983 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230920163109/https://www.jstor.org/stable/43776891?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxMSwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjI1MH19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Aeb6e899e1ae8a0814a952eb52b74e46d
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Subject
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archeology
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archive
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history and historiography
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extracted text
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DUE SGUARDI SUGLI ANNALI-PAESAGGIO
I
«Per progettare un libro — o un’evasione — la prima cosa è sapere cosa escludere». La citazione di Italo Calvino e il racconto Il conte di Montecristo, con le sue inquietanti immagini labirintiche, mi sono tornati alla memoria nel corso della lettura di questo poderoso volume che non a caso (anche se non intenzionalmente) presenta in copertina l'immagine simbolica di una fortezza che disegna le stesse condizioni ambientali di quella da cui Edmond Dantès e l'abate Faria cercano di evadere1.
Oggi vanno di moda libri e temi labirintici. Fra questi il paesaggio ha senz'altro un posto di tutto rilievo, tenuto conto della mappa dei luoghi molteplici da cui si fanno discorsi sul paesaggio e della babele delle lingue disciplinari che fanno uso di questo concetto. Qualche anno fa i geografi, o meglio una parte dei geografi, si erano illusi che il paesaggio, in quanto metafora geografica che aveva indebitamente avvolto il territorio, avesse fatto la fine della ben nota «carta dell'impero» inventata da un altro celebre labirintologo e cioè fosse andato in pezzi e sopravvivesse qua e là allo stato di rudere, abitato da animali e derelitti (come scrive Borges). Abbandonato parzialmente dai geografi, con il proposito di sostituirlo con strumenti più operativi, più analitici, il concetto di paesaggio è però tornato alla ribalta, riscoperto soprattutto da storici, architetti, filosofi e in fondo anche dai geografi. Strana fortuna di un concetto che, per la sua natura di metafora e per il grande rilievo che ha nel senso comune come mito di derivazione romantica, non può avere per
Storia d’Italia - Annali 5 - Il paesaggio, a cura di Cesare De Seta, Torino, Einaudi, 1982. Intervengono nell’ordine Massimo Quaini (I) e Franco Marenco (II).
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la storia sociale un grande potere euristico!2 Una parte del merito di questa rinascita del paesaggio spetta certamente alla Storia d'Italia - Einaudi, che un lettore attento come Italo Calvino (ancora lui!) ha visto di recente come nata e cresciuta sotto il segno del paesaggio («La Repubblica», 12 dicembre 1982). Non mi pare neppure casuale che nella Enciclopedia (dovuta almeno in parte agli stessi ideatori e curatori della Storia d'Italia) fra le due voci Paesaggio e Carta/mappa, che rappresentano due diversi modelli di rappresentazione del territorio, si sia scelto senza esitare la prima3.
Espressi fino in fondo i miei sospetti e pregiudizi in materia, credo utile tentare una verifica di coerenza di questa nuova lettura della storia italiana in chiave di paesaggio, del progetto e delle realizzazioni a cui ha dato origine. Per farla (e anche per sciogliere del tutto l'enigma della citazione di Calvino) propongo di considerare per un momento il tema-paesaggio come un labirinto, la cui architettura sia simile alla fortezza di If de II Conte di Montecristo. Per evadere dalla fortezza Calvino descrive due metodi: quello attivistico dell'abate Faria che, come ima talpa, continua a scavare gallerie, con il risultato che «i suoi itinerari continuano ad avvolgersi su sé stessi come in un gomitolo»; e quello più ragionato di Edmond Dantès che avendo compreso che l'unico modo di sfuggire alla condizione di prigioniero è capire come è fatta la prigione, riesce, restando immobile, a decifrarne la struttura, a ridurla, partendo dal disordine delle mappe dell'abate Faria, a una figura relativamente semplice.
A prescindere dai molteplici significati simbolici della labirin-tologia di Calvino, non c'è dubbio che un po' dello spirito di Dantès avrebbe giovato alla progettazione del libro, tanto più che di talpe cieche che hanno scavato nella fortezza-labirinto del paesaggio ce ne sono state già troppe. Legioni di abati Faria hanno lavorato alla costruzione di un'impossibile «scienza del paesaggio terrestre» ben prima di quel Congresso internazionale di geografia di Amsterdam del 1938, che mise all'ordine del giorno la definizione di questo «oggetto essenziale» della curiosità del geografo, già allora ritenuto poco chiaro e poco preciso perché maneggiato da troppe discipline!
C. Blanc-Pomard e J. P. Raison che di recente (1980) hanno fatto il punto sul valore euristico di questo concetto non hanno potuto fare a meno di rifarsi a questa tradizione, che è soprattutto geografica e che ancora oggi si mostra in movimento con l'introduzione di nuovi approcci. Collegarsi a questa tradizione
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diventa necessario non per sciocche rivendicazioni disciplinari, ma per partire con il piede giusto e chiarire, come fanno i citati Blanc-Pomard e Raison e come invece non sente il bisogno di fare il curatore di questo volume, che paesaggio «è un termine polisemico e ognuno avrebbe il dovere di precisare che cosa intende per 'paesaggio'»4.
C'è chi su questa strada è andato anche più avanti e, nell'ambito di una definizione «enciclopedica» del concetto di paesaggio e di quella grande enciclopedia visiva che è stata la mostra bolognese del 1981 Paesaggio: immagine e realtà, ha riconosciuto che «paesaggio non è solo un termine polisemico, di volta in volta utilizzato per definizioni ambigue; esso costituisce una congerie di differenti discorsi su discorsi»5. Come ancora chiarisce Omar Calabrese, «paesaggio» è una specie di luogo di definizioni enciclopediche, un luogo che contiene diverse sceneggiature possibili: «ogni volta che esso viene messo in atto in un discorso critico, c'è un focus che viene privilegiato a seconda di come la porzione enciclopedica viene manipolata. A titolo esemplificativo nello stesso testo vengono fatte emergere e studiate quattro diverse focalizzazioni del discorso critico sul paesaggio, che, corrispondendo agli approcci più comuni, possiamo anche noi assumere come parametri per classificare la congerie dei differenti discorsi sul paesaggio che abbiamo di fronte:
a) l’utilizzazione del concetto di paesaggio e soprattutto dei materiali visivi cui ha dato origine, per studiare realtà paesistiche (la via indicata da E. Sereni, per intenderci);
b) l’utilizzazione del concetto di paesaggio come «momento di coagulo e di rappresentazione» di una parte del sapere o delle ideologie di un'epoca, di una classe, di una porzione della società in un momento dato (diciamo un approccio che ingloba storia delle idee, delle mentalità, delle sensibilità ecc.);
c) un approccio di tipo più prettamente linguistico, dove il paesaggio è visto come il prodotto di una grammatica della descrizione che può assumere come supporto sia la parola che l'immagine (la via praticata da Cesare Segre in Semiotica filologica) ;
d) l'analisi degli stereotipi visivi intesi non solo come motivi ricorrenti e ripetitivi ma soprattutto come meccanismi di funzionamento di un testo.
Di questa consapevolezza critica — di cui non sarebbe difficile trovare altre prove in ulteriori iniziative sul tema paesaggio (per esempio nel convegno di Lucca sulle Fonti per lo studio del
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paesaggio agrario del 1979) — e che nasce e si coagula nell'esigenza di scomporre questo concetto in strumenti più precisi e analitici, si ritrova poco nell'impostazione che De Seta ha dato al volume. La premessa che dovrebbe fornire il filo d'Arianna o almeno dare l'idea del progetto che sta alla base del volume oscilla (secondo la classificazione adottata) fra un approccio di tipo a) e uno di tipo b) e non sembra decidersi né per l'uno né per l'altro, proprio perché non ne vede tutte le implicazioni e le aporie che la tradizione di studi sul paesaggio ha pure rivelato. Non essendo sufficientemente definiti i concetti portanti, era inevitabile che l'architettura del libro ne risentisse e che per la mancanza di un progetto minimamente unitario risultasse ancona accentuata la confusione dei piani della ricerca e la babele delle lingue, che sembra connaturata alla trattazione del tema paesaggio ma non lo è necessariamente. Alla fine, dal caos originario emergono tanti contributi affidati alla sensibilità e aH’erudizione, oltre che alle tecniche disciplinari, dei singoli autori e che spaziano su temi anche molto diversi e divergenti. Elenco i principali:
— la presenza dell'Oriente nella cultura italiana ed europea da Marco Polo agli illuministi (Sergio Zoli) : un saggio di grandissima erudizione di cui però non si capisce la congruenza con la problematica del paesaggio italiano. Qui la domanda non peregrina poteva essere: come l'occhio o lo sguardo che si posano sui «paesaggi» italiani vengono di volta in volta cambiati (arricchiti, impoveriti, deformati?) dallo spaesamento orientale (ma perché non da quello americano? perché non dare spazio in questo contesto anche agli altri poli più rilevanti che interagiscono nello sguardo che coglie i «paesaggi»?);
— la coscienza urbana degli italiani del medioevo, cioè l'insieme delle rappresentazioni con le quali le classi dirigenti delle città italiane costruiscono il proprio autoritratto, cioè proiettano i propri valori sia nella struttura materiale della città e del suo territorio sia e a maggior ragione nella loro rappresentazione artistica o letteraria (che è quanto il suo autore, Jacques Le Goff, definisce storia deH'immaginario urbano: un punto di vista molto ambizioso che cerca di intrecciare almeno tre degli approcci che più sopra abbiamo distinto);
— la scoperta e la lettura che del paese, nella varietà delle sue regioni o paesaggi o situazioni, hanno fatto i viaggiatori stranieri nell'età moderna, cioè, in termini più precisi che si ricollegano all’approccio di tipo a), come ritalia reale, fisica, si
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riflette «nello specchio del Grand Tour» (dove, come vedremo più avanti, riflessione significa che c'è ima corrispondenza quasi meccanica fra questo mondo delle immagini dei viaggiatori e il mondo reale);
— le guide turistiche dall'Unità ad oggi: un saggio dove Leonardo De Mauro piuttosto che cercare nelle guide, che pure si collegano con molti fili ai libri di viaggio dell'epoca del Grand Tour, lo specchio del paese, ne studia la struttura grammaticale e rivaluta la guida-inventario-catalogo come strumento non solo del turista ma anche dell'operatore e amministratore di beni culturali;
— la sottile dialettica fra spazio pittorico e spazio letterario dal Parini a Gadda, studiata da Sergio Romagnoli in un saggio che è il più nuovo e stimolante fra quelli che compongono il volume non soltanto perché tenta di uscire dal proprio orto disciplinare per vedere come i canoni della pittura paesistica (che dall'inizio dell'Ottocento ha una grande espansione) si ritrovano nelle descrizioni letterarie di paesaggi, ma anche perché, per questa e altre vie, riesce a darci finissime analisi della grammatica della descrizione e dello sguardo dello scrittore;
— il mito e la realtà di Roma nella cultura europea dal medioevo alla Restaurazione, cioè il saggio di Elisabeth e Jòrg Garms che con un taglio ancora diverso mira, attraverso un esame foltissimo di testimonianze dei più vari livelli espressivi, a cogliere «tipi di comportamento o piuttosto topoi, luoghi comuni che puntualmente si ripetono», con l'ambizione, comprensibile data la specializzazione storico-artistica degli autori, a risalire non tanto ad una tipologia del viaggiatore a Roma o in Italia (che è l'esito a cui perviene De Seta) ma semmai a quella del viaggio e soprattutto al cerchio sfrangiato dei miti e delle «mentalità collettive» entro cui si chiude sempre l'esperienza figurativa o letteraria dell'artista o dello scrittore che ha sentito il richiamo di Roma.
Senza andare oltre in questo scolastico tentativo di riassumere saggi che meriterebbero ima ben più ampia discussione (e scusandomi anche con gli autori dei pur degnissimi ultimi contributi per ora non presi in considerazione), quanto finora ho cercato di dire nella maniera meno parziale mi pare sufficiente per capire che il tema-paesaggio si frantuma, esplode, qui, in una molteplicità di svolgimenti che non solo non sembrano sempre congruenti con il tema generale (nella sua comune accezione), ma che ben raramente si collegano e si richiamano fra loro per
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continuità di metodo e di trattazione: mai insomma riescono a incastrarsi come tessere di un mosaico. Ciò non dipende soltanto dalla diversa formazione o appartenenza disciplinare dei suoi autori che poteva anche essere un pregio (ma che in qualche caso pesa eccessivamente e per esempio rende ancor più difficile passare dal saggio di Le Goff a quello di Zoli) ma dipende anche dalla divaricazione che si stabilisce fra l'ambito cronologico, spaziale e culturale di un saggio e quello di un altro saggio che al primo potrebbe o dovrebbe collegarsi.
Per fare qualche esempio e porre qualche domanda che anche il lettore comune si sarà posto: perché la rappresentazione urbana degli italiani è sondata solo fino al secolo quindicesimo, mentre la rappresentazione del giardino e il tema della villa (nel saggio di Gianni Venturi) sono studiati anche per tutta la cosiddetta età barocca? Perché poi per tutta l'età moderna la produzione di immagini e la rappresentazione dei paesaggi sia urbani sia rurali è affidata esclusivamente (data anche la centralità del saggio di De Seta) ai viaggiatori forestieri? Non c'è un salto di ambito culturale rispetto ai due saggi ora citati di Le Goff e Venturi? Non è poi imprudente sostenere — come ancora fa De Seta quasi per trovare una giustificazione a posteriori — che fra la «scoperta» dell'Italia dal di dentro e quella dal di fuori e cioè da parte dei viaggiatori stranieri è quest'ultima «che porta il contributo maggiore alla formazione complessiva dell'immagine del paese» (p. 134)?
Perché poi alcuni saggi intrecciano con risultati interessanti le rappresentazioni dello spazio pittorico con quelle dello spazio letterario, le arti visive e le arti della parola, come è il caso dei saggi di Romagnoli e dei Garms, mentre altri, come i saggi di De Seta e di Di Mauro mancano addirittura di un qualsiasi confronto con la documentazione iconografica? Come dimenticare per l'età moderna il ruolo del disegno tecnico, richiamato nelle conclusioni del memorabile saggio di Gianni Romano del 76 (Q.S., n. 31), che malgrado tutto continua a intrecciarsi con la pittura anche fra Sette e Ottocento? Come non mostrare anche visivamente la stretta connessione fra la letteratura di viaggio, le guide da ima parte e le rappresentazioni cartografiche, le stampe e poi le fotografie dall'altra? Come dimenticare, sempre a livello di iconografia, per fare un solo esempio concreto, il filone fortunatissimo dei voyages pittoresques, certamente più interessanti nelle vedute che nelle descrizioni?
E sotto questo aspetto perché sprecare il contributo di Gian-
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ni Romano, che ci ha abituato a finissimi collegamenti tra letteratura, pittura, cartografia e storia, affidandogli un'antologia di immagini che tutto sommato, oltre a non coprire gli interessi iconografici dei saggi privi di illustrazioni, ha anche il demerito di appiattire una storia che gli altri saggi complessivamente dimostrano essere assai più mossa e varia?
L’elenco delle domande potrebbe continuare quasi all’infinito: per un lettore ottimista potrebbe essere questa la qualità maggiore del libro. Come in ogni labirinto anche qui ad ogni incrocio bisogna interrogarsi su quali percorsi lasciare e quali imboccare, facendo attenzione a non tornare sui propri passi.
Non vale comunque trincerarsi dietro ragioni contingenti e di ordine pratico, occorre semmai avere ima buona bussola. Qui, a giudicare dalla premessa, la bussola doveva essere costituita dai metodi della storia delle mentalità. In realtà questa bussola ha funzionato poco e seguendo i meandri del libro succede spesso di dover tornare all’indietro, sui propri passi. A mio avviso ciò avviene non perché il paesaggio non possa essere l’oggetto di una storia delle mentalità o dell’immaginario, ma perché qui lo è in maniera poco coerente. Infatti, accade che l’ago della bussola tenda ad un altro polo magnetico, che è il più tradizionale approccio dell’utilizzazione delle rappresentazioni o immagini del paesaggio come fotografie o specchi di realtà materiali storicamente e spazialmente determinate. Su questa facile e meccanica corrispondenza fra «paese ideale» e «paese reale» (per usare espressioni di De Seta) si gioca uno dei più grossi equivoci degli studi sul paesaggio, nel quale era già caduto Emilio Sereni e che si credeva superato dopo il saggio di Gianni Romano del ’76. E invece l’equivoco ritorna e ritorna soprattutto per le rappresentazioni-descrizioni dei viaggiatori o in altre sedi ritorna per particolari documenti figurativi come le carte e le mappe che sembrano più realistiche solo perché l’autore (e non per caso) rimane più facilmente nell’ombra 6.
Con questo non si vuol certo dire che i documenti figurativi di qualsiasi genere e le descrizioni letterarie non possano usarsi per attingere, oltre gli spazi della cultura delle mentalità e del potere, anche le concrete configurazioni paesistiche. Si vuole dire che le due prospettive di studio sono allo stato attuale delle ricerche poco compatibili, non fosse che perché chi usa il documento figurativo o la relazione di viaggio per ricostruire realtà storiche concrete, entità paesistiche (come direbbe Gambi), gioca con l’ottica del rispecchiamento e del riflesso non deformato (o il
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meno deformato possibile), mentre chi studia gli stessi documenti per se stessi, per esempio in chiave di storia dell’immaginario o delle mentalità, parte dal riconoscimento della deformazione, perché è solo attraverso la sua natura deformante che la rappresentazione ci riconduce all’immaginario. Non è dunque un caso se De Seta, affascinato dall’ottica ingannevole dello specchio — si ricordi il titolo del saggio: L'Italia nello specchio del Grand Tour — non si pone la domanda fondamentale: è veramente l’Italia che si specchia nei diari e nelle relazioni dei viaggiatori o sono i viaggiatori che si specchiano nell’Italia o meglio nell’immagine che dell’Italia si sono fatti già in patria e quindi in se stessi? Lo specchio, come noto, non può che restituire l’immagine di chi lo usa.
Al di là della metafora fuorviante dello specchio — ma è pur sempre significativo che il tema del paesaggio dimostri, anche se involontariamente, la sua contiguità con la scienza degli specchi, con questo grande «teatro d’illusione» (Baltrusaitis) — è evidente che qui si apre tutto lo spazio dei meccanismi e procedimenti di costruzione della relazione di viaggio e dei suoi rapporti con le realtà rappresentate che in quanto infinitamente mediati sono assai difficili da cogliere.
Nell'apertura del saggio più volte ricordato Gianni Romano invitava a riflettere sulla lapidaria definizione dell’operare artistico fornita da Tommaso d’Aquino: «L’artefice concepisce l’immagine secondo cui intende lavorare in base ad un’opera vista in precedenza». Anche i paesaggi dei viaggiatori sono discorsi su discorsi e quindi i nostri sui viaggiatori sono discorsi su discorsi di discorsi. È di queste molteplici mediazioni e di ciò che in esse si nasconde — e cioè nelle fattispecie le condizioni dello sguardo del viaggiatore e del suo discorso sul paesaggio: i silenzi del viaggiatore che sono non meno significativi dei luoghi cornimi, i limiti variabili fra dicibile e indicibile, visibile e invisibile — che continuiamo a farci un concetto troppo limitato, come se volessimo continuare a sentirci parte di questo grande teatro d’illusione. È probabile che la ragione della grande fortuna del tema-paesaggio sia da ricercare proprio in questo nostro atteggiamento. Se questo è vero, allora la scelta che abbiamo di fronte è veramente fra labirinti o strumenti analitici e critici.
Massimo Quaini
Università di Genova
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NOTE AL TESTO
1 La sopracoperta del volume riproduce in realtà, se non vado errato, un paesaggio napoletano, in onore del suo curatore. Ma il castello-fortezza, immerso fra il cielo e il mare, potrebbe benissimo rappresentare la fortezza, anch’essa mediterranea, di If di cui parla Calvino nel racconto raccolto in Ti con zero, Torino 1967.
2 Sulla struttura metaforica del concetto di paesaggio spero di tornare in altra occasione: qui mi limito a dire che contrariamente alle apparenze non ritengo che metafore e miti debbano avere, relativamente alla spiegazione «scientifica», una connotazione necessariamente negativa.
3 Non si può, a questo fine, considerare sufficiente la voce Atlante di Ugo Tucci.
4 Mi riferisco alla voce Paesaggio ne]!'Enciclopedia Einaudi, voi. 10.
3 Cfr. AA. W., Paesaggio. Immagine e realtà, Milano 1981, pp. 295 ss.
6 Qui l’esame potrebbe allargarsi alla fortuna di carte e mappe come fonti per la storia urbana e allargarsi per esempio alle aporie riscontrabili nella collana laterziana sulle Città nella storia d'Italia, diretta dallo stesso Cesare De Seta.
II
Nella serie degli Annali, il quinto volume è quello che presenta maggiori ambizioni, e quindi maggiori rischi, di novità e di Sperimentalismo. La transizione dal feudalesimo al capitalismo, lo sviluppo tecnico e scientifico, il rapporto fra intellettuali e potere cui erano dedicati i volumi precedenti rappresentavano strade già accuratamente percorse, e per quante parole nuove si possano dire su questi argomenti, l’opera di ricapitolazione e di sistemazione si presentava senza dubbio più comoda e sicura. Un'eccezione che si avvicina al caso del «paesaggio» era invece fornita dall’Immagine fotografica 1845-1945, il secondo volume, che riguarda però un «genere» unico, un materiale compatto, e un periodo molto ben delimitato nel tempo. Non si può dire che il paesaggio, come problema ideologico, estetico e tecnologico fosse finora rimasto escluso dagli interessi della storiografia italiana, ma certo non vi è comparso come problema centrale, sul quale far convergere ipotesi, discussioni e ricerche di notevole respiro, se non negli ultimi vent’anni — e non ha prodotto un vero e proprio corpus scientifico consolidato se non negli ultimi dieci. Tentare un bilancio di ima vicenda così relativamente breve non
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era un'impresa facile, per la varietà dei generi, dei materiali rilevanti e dei periodi — cioè la quasi illimitata prospettiva temporale — che dovevano essere considerati. E le difficoltà sono evidenti nel disegno generale composto da Cesare De Seta, e, senza nulla detrarre dal valore degli autori delle singole sezioni, in molte pagine del libro, per le lacune, i ritardi, le correzioni di obiettivo con cui tutti hanno dovuto, dichiaratamente o meno, venire a patti. Per questo non mi pare utile parlare del libro opponendo l'eterogeneo all'organico, ovvero cercando di decidere un'impostazione e ima linea di sviluppo alternativa, più corretta o più coerente, che sulla carta potrebbe anche apparire ideale, senza tener presenti gli ostacoli e le impasses in cui comunque si imbatterebbe la sua realizzazione. Un volume come questo, di aperta «frontiera» scientifica, è interessante soprattutto per il suo carattere composito, per i vari aspetti della storiografia contemporanea che ha saputo o dovuto portare in gioco, insomma per l'ordito a maglie larghe, di work in progress, che scopre nel suo sottofondo.
Sono considerazioni non molto lontane da queste a ispirare la «Presentazione» di De Seta, soprattutto per quel tanto di cauteloso utopismo che essa contiene: «Sarebbe auspicabile una storia dei paesaggi che attraversasse orizzontalmente le strutture linguistiche, che non separasse i diversi modi attraverso cui i paesaggi vengono rappresentati e offerti: una storia, dunque, che non riducesse i paesaggi ad un «genere» nel novero delle arti, o ad un capitolo della geografia antropica ma che l'assumesse a motivo dominante, a soggetto privilegiato, a vertice e centro a cui condurre i diversi sistemi della sua rappresentazione... Con questa ricerca si è tentato un abbozzo di quel che si potrebbe fare se gli steccati disciplinari si fossero d'incanto dissolti e ciascuno, con umiltà, avesse vestito il saio della penitenza (disciplinare) alla ricerca di nuove relazioni ed aggregazioni nel vasto campo del sapere storico» (p. XXXII). Tale processo di scomposizio-ne/riaggregazione dei campi disciplinari deve essere fondato secondo De Seta in un nuovo atteggiamento epistemologico, che privilegi accanto alla grande sfera della storia materiale una sfera minore, una storia della mentalità autonoma e autosufficiente, in quanto dotata di «strumenti e metodi propri» — anche se egli deve poi aggiungere, a queste chiare e sufficienti parole, la complicazione di un «ricorrendo a competenze e strumenti di indagine diversi» (p. XXXI), che sembra chiamare in causa un'operazione in qualche modo separata e secondaria, un'adozione o una
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riduzione di tecniche e punti di vista già plasmati da una propria storia, e da applicazioni, appunto, «diverse» (che non si tratti qui soltanto di una sofisticata questione stilistica lo conferma un altro passo, in cui De Seta ribadisce di aver sistematizzato la sua materia «utilizzando talora le lenti particolari di talune discipline guida»). Il volume nella sua interezza dimostra fin troppo bene questo stato di fluidità metodologica, del resto riconosciuto da uno degli stessi fondatori della storia della mentalità, l'ampia-mento citato e ampiamento presente Jacques Le Goff. Ma è proprio ima simile incertezza a renderlo interessante: lungi dal fornire una prospettiva compatta su quanto uno storico della mentalità dovrebbe fare, esso accampa vari percorsi e vari approdi, e permette di istituire alcuni istruttivi rapporti fra novità della ricerca, varietà degli strumenti e valori dei risultati.
È chiaro a questo punto che non tutti i temi, non tutti i «tagli» di ricerca possibili si presteranno a una completa omogeneizzazione nel programma di De Seta, di rendere l'esperienza del paesaggio italiano attraverso i modi di «pensarla e dunque progettarla e di prefigurarla nelle sue semplici o complesse articolazioni» (p. XXXI). Nel momento in cui si sollecita il passaggio dallo studio dei monumenti a uno studio dei documenti — mi si conceda la semplificazione terminologica della nota formulazione di Foucault — bisognerà mettere in conto qualche resistenza e scabrosità, qualche tenace residuo consuetudinario, il fatto insomma che le «lenti particolari di talune discipline guida» non si adattino di buon grado alle esigenze della nuova storiografia.
Per questo non vorrei occuparmi del saggio di apertura, «L'immaginario urbano nell'Italia medievale», che è opera di Le Goff, che per segnalarne l'intelligenza e le piccole disinvolture (p. 42: non credo sia un «segno dei tempi» il fatto che alcuni monumenti cittadini compaiano raffigurati realisticamente in un dipinto della seconda metà del '500: cfr. il Panofsky citato da Maria Antonella Fusco a p. 760, e tutta la pagina della stessa Fusco), e per raccomandarne a chiunque la lettura. Nessuno più di Le Goff ha diritto a essere considerato un padre e un maestro del tipo di storiografia cui mira ogni contributo del volume, e il saggio ne è piena testimonianza. I problemi di adattamento stanno altrove, e meritano ora più attenzione.
Per cominciare dalle resistenze maggiori, lo stesso curatore ne indica una probabile fonte quando avverte che «la storia della mentalità contraddice quella storia del pensiero così cara alla nostra tradizione storiografica» (p. XXX), dalla quale è dunque lecito
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aspettarsi che venga a sua volta contraddetta. La «storia del pensiero» è variamente coltivata, repressa o dissimulata nel volume, a riprova della lunga egemonia goduta in consimili studi «tematici»; ma resiste vittoriosamente nel contributo di Sergio Zoli, «L'immagine dell'Oriente nella cultura italiana da Marco Polo al Settecento». Zoli segue la formazione e le trasformazioni dell’idea dell'Oriente con raffinatissima, ammirevole dottrina (e con faticosissimo stile), attraverso i monumenti tradizionali, privilegiando dunque l'immagine politico-ideologica, senza darsi troppo pensiero di mentalità e interpretazioni collettive. Ne deriva un eccellente quadro sintetico delle influenze anche poliedriche esercitate dall'Oriente non soltanto sulla cultura italiana ma sull'intero Occidente fino al '700 — ma sulla cultura alta, di un Paolo riletto in funzione proto-rinascimentale, di un Machiavelli, di un Boterò, dei libertini francesi e inglesi. Non viene considerato invece quel tanto di fermento, di divertimento e di sgomento che l'Oriente e gli orientali potevano suscitare a livelli più comuni, «popolari» per pronunciare la metodologicamente malfida parola. Insomma non c'è posto in questa sintesi per la cocciuta e non poi tanto bizzarra passione per l'Oriente di un Menocchio, tanto per fare un esempio; ciò che spiega l'aggettivo di «mirabolante» offerto come unico riconoscimento a Mandeville — i cui Viaggi furono poi diffusi in Europa dello stesso Milione, se dobbiamo credere al numero dei ms. sopravvissuti, e stampati in Italia almeno venti volte tra il 1480 e il 1567 —; e spiega anche l'assenza di riferimenti alle pur ricchissime immagini dell'Oriente presenti nelle opere di Boccaccio, Boiardo e Ariosto, per non fare che i nomi più ovvi. Che questo fosse il destino riservato alle figure meno impegnate sul versante filosofico e ideologico che ha ‘fatto storia' (ma non proprio nel senso proposto da De Seta) si capisce considerando le parole con cui Zoli esclude dal suo obiettivo il loro contributo tutto fantastico e favolistico, radicato nei documenti dell'antropologia più che nei monumenti della storia intellettuale: «il Medioevo fu soprattutto la fucina, la ferrieria di quell'immagine di sogno, non l'ambito suo più congeniale di espansione e di fruttificazione. Ché la figurazione del sogno esotico avrebbe dovuto impattare ima sensibilità sociale, incarnarsi in una società, per storicizzarsi» (p. 61), dove la forza delle divisioni disciplinari sembra più tenace degli esorcismi che il curatore le lancia.
Un caso diverso di resistenza, ma questa volta per difetto, non per eccesso di tradizione storico-critica, si palesa nel saggio
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dello stesso De Seta, dedicato all'«Italia nello specchio del Grand Tour», un argomento che se finora ha incontrato all'estero un qualche tiepido favore, in Italia non ha mai superato il limite dello studio frammentario, delle edizioni — poche — dei singoli autori, e delle iniziative culturali di sapore campanilistico. De Seta è fin troppo generoso e ottimista nel contemplare le piccole oasi che si aprono neirimmenso deserto scientifico affrontato, e nel metterle a frutto: ma «i luoghi di studio lussureggianti di titoli» cui si riferisce in apertura riguardano soltanto la reperibilità dei testi primari, in raccolte che sono il risultato di individualissime, devotissime abnegazioni di eruditi collezionisti come il Tursi, cui si possono aggiungere ora le imprese collettive ma non sempre coordinate di un CIRVI, che continuano comunque a reggersi su un lavoro poco riconosciuto e poco finanziato. Ma nell'interpretazione di un fenomeno così complesso come il Grand Tour De Seta ha predecessori di vero rilievo scientifico — un contributo di prim'ordine limitatamente al viaggio rinascimentale è quello del polacco Antoni Maczak, «La vita quotidiana nei viaggi in Europa nei secoli XVI e XVII» (Varsavia 1978), che però da noi nessuno conosce e nessuno cita. L'accenno a queste condizioni di lavoro va fatto, perché l’assenza di un «fondo» generale di studi compiuti, e di un preliminare consenso sui risultati, non poteva non pregiudicare l'impegno di arrivare a ima precisa tipologia del viaggiatore in Italia e dei suoi interessi. Infatti De Seta deve affidarsi a una sintesi per campionatura, per figure e vicende individuali — Coryat l'awenturiero, Addison l'erudito, Misson il diarista e guida, Goethe il naturalista, Seume il viaggiatore controcorrente... — ed a contare più sulla descrizione del viaggio che sull’esplorazione delle sue coordinate intellettuali. Il lavoro di collegamento è comunque intenso, e l'esigenza tipologica viene ad essere soddisfatta da paragrafi connettivi di grande importanza e interesse, che sono le parti più originali dello studio, e che raggiungono lo scopo di creare un primo valido impianto interpretativo del fenomeno.
Il vero nodo metodologico del volume viene allo scoperto con maggiore evidenza nel saggio di Elisabeth e Jòrg Garms su «Mito e realtà di Roma nella cultura europea», che si preoccupa di mantenere uno strettissimo legame fra novità della ricerca e tradizione critica. Di fronte al problema di sistematizzazione che tutti gli autori hanno dovuto affrontare, i Garms accampano la coscienza più esplicita e la soluzione più coerente: «Un altro tema è quello particolare, dell'incontro soggettivo dell'artista con
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questa città, con i suoi monumenti e con le sue opere d'arte. Per uno studio che si propone di individuare ima o più mentalità collettive in rapporto con l'immagine di Roma, non può interessare l’effettivo viaggio romano di tale o talaltro artista» (p. 620). Non è di secondario rilievo che queste parole siano scritte da studiosi che hanno come «disciplina guida» la storia dell'arte, perché è in quell'ambito che sono maturati alcuni presupposti essenziali della piattaforma critica qui operante. Va ricordato infatti che un notevole impulso al genere di studi che si è poi dato il nome di storia della mentalità è venuto, scopertamente e sotterraneamente, dalle ricerche sui processi di comunicazione che gli storici dell'arte, insieme agli storici della letteratura, hanno avviato da almeno tre quarti di secolo sotto categorie e nomi diversi, dalle teorie sulla lettura agli studi sulla convenzionalità e la tradizionalità dell'arte, a quelli sulla visualità, su norma e forma, fino all'estetica della ricezione. L'esigenza di individuare delle corrette tipo-logie nelle vicende della psicologia collettiva, il richiamo a topoi e stereotipi così frequente in tutto questo libro, ha le stesse radici teoriche che spingono a individuare i sistemi stilistici o le convenzioni espressive che stanno alla base dell'opera individuale. Il merito dei Garms è di avere saputo segmentare l'immenso testo costituito dalle reazioni europee all’esperienza e all'idea di Roma fra '500 e 700 secondo alcune chiare direttive di approccio — il viaggio morale-politico cui succede il viaggio culturale-artistico — di fruizione e di «lettura» — caratteri religiosi e caratteri laici della visita, opposizione fra antico e moderno, fra eterno e caduco, fra barbaro e civile — di valutazione e appropriazione erudita — educazione alla magnanimità, senso dello spettacolo, totalità dell'esperienza che solo l'Urbe può risvegliare. La parte più riuscita dello studio riguarda però i riferimenti, splendidamente documentati anche dal punto di vista iconografico, alla funzione ideologico-politica dell'idea di Roma, ed al movimento con cui il modello delle virtù civiche e private dell'antichità volta a volta si impone e si eclissa dalla coscienza europea.
Con i contributi che hanno per oggetto il costume turistico e le «immagini di massa» arriviamo al cuore della novità che un volume così concepito era in obbligo di presentare, ma anche a terreni nello stesso tempo delimitati, relativamente maneggevoli, e liberi da ipoteche consolidate. Leonardo Di Mauro e Maria Antonella Fusco non si lasciano sfuggire l'occasione, e affrontano il loro compito con invidiabile freschezza. Il primo soprattutto,
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scrivendo su «L’Italia e le guide turistiche diall’Unità a oggi», inette in opera una fruttuosa comparazione di modelli, ma più ancora segue i fitti itinerari culturali che stanno dietro alla produzione letteraria per il turismo; ne risulta un quanto mai esauriente inserimento delle guide nelle problematiche estetiche del nostro tempo, con un vertice brillante nella trattazione della serie del Touring Club ispirata da Bertarelli.
Forse un po’ più scolastico e «tecnologico», ma sempre molto penetrante, è il saggio di Maria Antonella Fusco sul «Luogo comune paesaggistico nelle immagini di massa», che include una breve storia della rappresentazione delle città come strumento di dominazione simbolica, e traccia la nascita e l’evoluzione del topos «secondo la sua valenza semantica, quella che lo ha reso l’unico — o uno dei pochi — luogo deputato a significare un inteso tessuto monumentale sociale, civile» (p. 755), allargando la sua visuale a tutti i media moderni, dal libro alla pittura, dalla fotografia al cinema, alla grafica, alla propaganda politica.
L’incontro più raffinato fra nuovi indirizzi interpretativi e salda base di strumentazione critica si ha nei contributi sul paesaggismo letterario. In «Pietà poèsis: Ricerche sulla poesia e il giardino dalle origini al Seicento», Gianni Venturi prende in esame le implicazioni letterarie e pittoriche di un importante aspetto dell’estetica dei secoli passati, nell’ambito della più ampia problematica del paesaggio; dimostrando come nell’immagine e nella teoria del giardino confluiscano fondamentali significati politici, filosofici e civili, e una ricchissima simbologia. Il suo lavoro è forse il più originale dal punto di vista della sistemazione epocale: diffidente nei confronti di periodizzazioni altrove presenti piuttosto staticamente, esso ricostruisce, pur nell’arco di cinque secoli, una vicenda estetica e intellettuale quanto mai unitaria, con un giardino che da «immagine di una realtà ultramondana» si fa «specchio della storia come privilegio del potere o luogo deputato della saggezza e dell’amore, o possibilità ultima Idi un’utopia idillica che si sfrangia e si lacera nella contemplazione della tragedia dello stato umano», per finire in un giardino che è soltanto parola inattuale e favolosa, Arte suprema e perfetta, e come tale sostituzione e negazione della Vita.
Al paesaggio come privilegiato angolo visuale sulla maggiore e minore letteratura italiana moderna è dedicato il finissimo Saggio di Sergio Romagnoli, «Spazio pittorico e spazio letterario da Parini a Gadda», certo lo specimen più complesso e articolato del volume. Il Romagnoli fa tesoro di una lunga esperienza di
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analisi testuale, che gli permette per così dire una finitezza, una impeccabile tornitura del discorso critico; ma misurandone sempre gli esiti nel confronto con le più generali categorie del contesto — le sollecitazioni delle mode e delle scuole, gli umori degli ambienti intellettuali, le qualità del vedutismo pittorico coevo ecc. Prevedibilmente, questi procedimenti rendono memorabili soprattutto le pagine su Manzoni e Montale, i cui paesaggi sono fonti ed elementi essenziali della poetica personale, ma senza fermarsi allo scontato: si veda ad esempio la minuziosa e per me inedita ricostruzione del graduale inserimento della figura umana nella natura dei Promessi Sposi. Inoltre, Romagnoli sa dare evidenza ai luoghi emblematici della letteratura minore — agli stilemi vedutistici che hanno contribuito a formare il romanzo storico, ai paesaggi urbani che presiedono alla produzione degli scapigliati e poi dei futuristi, alle nostalgie del mondo rurale di un Alvaro; e sa rendere in tutta la loro variegata corposità quelli dei maestri, di Nievo come di Gadda, come di D'Annunzio, l’insensibile magniloquente D'Annunzio, accumulatore in letteratura come in antiquariato di «tanta negativa dovizia», che neanche le grandi liriche riescono a salvare da un giudizio rigoroso. Mai però, in queste pagine, la citazione viene declassata a puro sviluppo o commento di ima tesi: quelli che Romagnoli ci restituisce sono atti creativi pieni, in cui scrittura, pittura, plasticità diventano aspetti di un'unica storia.
Franco Marengo
Università di Torino