IN RICORDO DI DENIS RICHET: A PROPOSITO DI UN LIBRO NON TRADOTTO

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Title
IN RICORDO DI DENIS RICHET: A PROPOSITO DI UN LIBRO NON TRADOTTO
Creator
Christian Jouhaud
Paolo Piasenza
Date Issued
1990-12-01
Is Part Of
Quaderni Storici
volume
25
issue
75 (3)
page start
919
page end
935
Publisher
Società editrice Il Mulino S.p.A.
Language
ita
Format
pdf
Relation
Storia della follia nell'età classica, Italy, Rizzoli, 1963
Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
Rights
Quaderni storici © 1990 Società editrice Il Mulino S.p.A.
Source
https://web.archive.org/web/20230920164624/https://www.jstor.org/stable/43778205?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxMywic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjMwMH19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A35dfae6fafad77079616b4d41533150b
Subject
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IN RICORDO DI DENIS RICHET:
A PROPOSITO DI UN LIBRO NON TRADOTTO
I.
Alla sua uscita, questo libro venne in più occasioni presentato come un corso destinato agli studenti di storia. Un corso brillante e di straordinaria chiarezza, una sorta di manuale per lo studente intelligente del dopo '68. Non si era disposti a cogliere, al contrario, l'originalità e la forza delle sue prese di posizione storiografiche; o la proposta, che il libro conteneva, di un approccio nuovo e coerente della storia politica e sociale della Francia dal XVI al XVIII secolo, dal Rinascimento alla Rivoluzione. L’anno di pubblicazione, il 1973, rappresentava del resto il trionfo della storia seriale, e il successo arrideva agli storici che scoprivano «nuovi oggetti», «nuovi territori».
Si trattava di un entusiasmo che impediva alla corporazione degli storici di mettere in primo piano un libro che ostentava come sottotitolo L’esprit des institutions. La storia politica era in quegli anni abbandonata alla frangia più conservatrice (e spesso più arcaica) della ricerca universitaria e agli studiosi di formazione giuridica. Quanto alla storia sociale dell’assolutismo, essa restava immersa nelle polemiche sterili e rassicuranti che opponevano marxisti e antimarxisti. Alla Sorbona, Roland Mousnier, di cui Denis Richet era stato assistente prima di insegnare all’Università di Tours e quindi all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, imperava sul fronte antimarxista; le numerose ricerche che egli suscitò non si allontanavano tuttavia dai dogmi della «società di ordini» (contrapposta alla società di classi), della «fedeltà» e della natura eminentemente progressiva della monarchia autoritaria nella sua opera di imbrigliatura dei partico-
* Denis Richet, La France moderne. L’esprit des institutions, Paris, Flammarion 1973.
QUADERNI STORICI 75 / a. XXV, n. 3. dicembre 1990



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larismi locali. Dal punto di vista scientifico queste polemiche avevano un che di artificiale ma per gli alfieri dei due campi erano utili in termini professionali. Si instaurava una sorta di spartizione dei territori (a ciascuno le proprie riviste, le proprie associazioni, i propri locali, i propri studenti) che non invitava a mettere in discussione le grandi categorie sociologiche - molto spesso definite in modo tautologico - che precedevano le ricerche, e alle quali le ricerche dovevano adattarsi. In tale contesto, il libro di Denis Richet non passò inosservato, ma nessuno riconobbe davvero il rovesciamento di posizioni storiografiche che egli proponeva. (Nessuna componente della storiografia accademica aveva, del resto, alcun interesse a riconoscerlo). Quanto a ciò che si è indicato come «la scuola delle Annales», le sue figure più rappresentative non praticavano affatto, allora, la storia politica. In quegli anni Richet (e Furet) erano quasi soli nello sforzo di mantenere vivo questo settore della ricerca.
Taluni punti della luminosa sintesi proposta da Richet possono (o potranno) apparire superati, ma, con il favore di una diffusione adeguata, essa è destinata ad assumere gradualmente la posizione di un classico, non inferiore a\V Autunno del Medioevo di Huizinga, ad esempio.
Pubblicato a pochi anni di distanza dalla Storia della Rivoluzione Francese, che egli aveva scritto con Francois Furet, questa France moderne, pur arrestandosi al 1789, non fa della rottura rivoluzionaria un punto di riferimento obbligato. In sostanza, essa propone una storia lunga della crisi del sistema assolutistico. E proprio per auspicare un determinato approccio a questa storia lunga, Denis Richet rifiutava di usare il termine «ancien régi-me». Da un lato perché, non diversamente da Pierre Chaunu, vi scorgeva un vizio di anacronismo (del genere «definire un movimento solo attraverso il suo punto di arrivo»), ma anche perché non era possibile ai suoi occhi separare la storia politica dalla storia sociale, dalla storia dell’esercizio del potere politico e sociale. Storico del notabilato in una prospettiva di lungo periodo (o storico delle élites: e tuttavia il suo attaccamento a questo termine di cui aveva in precedenza contribuito a creare la fortuna storiografica, non era che moderato), egli riteneva che, su questo piano, gli avvenimenti rivoluzionari non avessero avuto un peso determinante. In effetti, una volta messa in discussione la condizione mitica dell’unità della nobiltà, egli poteva constatare come, nonostante la scomparsa delle rendite «feudali», la rivoluzione avesse indotto trasformazioni lievi nel mondo dei dominanti:



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gli «uomini del re» (i grandi sconfitti del 1789, ma alla riscossa più tardi con il regime imperiale e con la monarchia censitaria), i proprietari fondiari nelle campagne (nobili e non), le élites liberali nelle grandi città.
Questa opposizione centrale tra dominanti e dominati mal si conciliava sia con la società di ordini, cara a Roland Mousnier, sia con l'opposizione - sostenuta dalla storiografia marxista - tra una «borghesia in ascesa» (inevitabilmente in ascesa a partire dal secolo XII) e la nobiltà. Agli occhi di Denis Richet, il mondo dei dominanti era caratterizzato dalla sostanziale unità, che assicuravano sia la condivisione comune di un certo numero di rotture culturali, ad un ritmo progressivamente più intenso a partire dagli anni 1680-90, e successivamente dagli anni 1750-60, sia, soprattutto, l'accesso alla rendita fondiaria. In questo senso, la sua analisi si fa apertamente «marxiana». Egli aveva approfondito la storia lunga delle congiunture economiche (si veda soprattutto l'articolo su «Croissance et blocages en France du XVe au XVIIIe siècles» comparso sulle pagine delle «Annales» nel 1968) e si proponeva di tornare su questo aspetto, che identificava come il profilo «duro» della storia sociale; del resto, L*esprit des in-stitutions, si chiudeva con queste parole: «Solo due tipi di ricerche, distinte seppur complementari, permettono di illuminare il nostro passato. Una ricerca economico-sociale, volta ad osservare con attenzione l’anatomia e la fisiologia dei gruppi in funzione della loro posizione nelle grandi categorie della macroeconomia: la produzione, il consumo, il profitto, la rendita, il salario. Abbiamo intenzione di dedicarvi un’altra opera [Richet non ebbe il tempo di terminarla]. Un’indagine che si situa alla convergenza del politico, del sociale e del culturale: è ciò che abbiamo tentato di fare in questa sede».
Le partizioni che rendono legittimo concepire la società dei dominanti come un gruppo (e ne autorizzano una storia specifica), non ne escludono affatto le tensioni reciproche. Se l’opposizione tra dominanti e dominati è uno dei punti qualificanti della France moderne, un secondo è rappresentato dalle divisioni, dai conflitti interni al mondo dei dominanti, e costituisce incontestabilmente una sorta di motore della storia politica dell’assolutismo. La Lega, la Fronda sono analizzate come momenti in cui i notabili si affrontano reciprocamente. Per Richet la gravità delle crisi è direttamente legata alla profondità di tale confronto, della posta in gioco e delle sue conseguenze. La monarchia autoritaria



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dei Borboni sostiene, suscita, sfrutta questi conflitti. Essa favorisce la lotta tra corpi; essa, che siamo soliti definire come la grande livellatrice dei particolarismi, produce senza posa frammentazione nel mondo sociale dei notabili. In questo senso, le solidarietà politiche e civili della città antica, grazie alle quali i differenti gruppi dominanti cittadini si trovavano uniti da prerogative comuni, si piegano al centralismo di Luigi XIV. Gli agenti di questo centralismo raggiungono una nuova potenza politica e sociale, che intacca la coerenza politica del mondo degli uffici, dal quale traggono origine. In questo caso, i dominanti non sono indeboliti in quanto dominanti (William Beik ne ha dato una illustrazione briosa per la Linguadoca), ma in quanto «corpi intermedi». Perciò si rende possibile a Richet dire che «più l’assolutismo si rafforza, più esso si indebolisce».
Questo aforisma sottolinea senza dubbio quanto il libro di Richet contiene di più importante: il fatto di analizzare il sistema politico da un punto di vista decisamente dinamico. Il ricorso alla dimensione giuridica, con cui il libro si apre, non ha la funzione di fissare un quadro rigido entro il quale si suppone che le pratiche degli uomini dei secoli XVI e XVII abbiano trovato il loro significato ultimo. Le battaglie per la definizione della norma, le forze che esse mettono in moto, le tensioni che rivelano, gli scarti che rendono manifesti, danno al contrario alle norme giuridiche la funzione di autentici rivelatori del movimento e del cambiamento - e non quelle di punto fisso capace di ricondurre azioni ed evoluzioni a modelli rigidi. In tal modo, i fondamenti giuridici del sistema - il primo dei tre «libri» che compongono la France moderne - consentono a Denis Richet di mettere in evidenza «le ambiguità dell’assolutismo», piuttosto che la sua essenza.
I due libri successivi sono consacrati rispettivamente alla «pratica del sistema», e alla «crisi del sistema». Nella «pratica del sistema», dopo aver identificato la nozione di congiuntura politica, Richet adotta in successione il punto di vista di «chi governava», di «chi partecipava» (i corpi, le élites), di «chi contestava». Quest'ultimo capitolo ci coglie di sorpresa: la contestazione non ha trovato posto nell’analisi della crisi, o delle crisi del sistema bensì nell’ambito della pratica che lo contraddistingue, e ciò implica lo spostamento dell'enfasi sulla sua funzionalità. Che la contestazione faccia parte del sistema; cioè che contribuisca alla sua sopravvivenza, è un’idea ancora nuova. Essa si riallaccia



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nondimeno a un’opinione fatta propria dai parlamentari ai tempi della Fronda.
Ma Denis Richet prende soprattutto la contestazione come un sintomo dell’evoluzione del regime, del suo progressivo irrigidimento. Si tratta di un irrigidimento che rende i governanti sordi proprio alla dimensione funzionale delle opposizioni, fino alla rottura finale. La contestazione assume in questa prospettiva una nuova funzione di rivelare l’evoluzione di un sistema considerato nel suo insieme. L’argomentazione è essenziale per comprendere come l’assolutismo si indebolisca proprio mentre si rafforza. Essa ha tuttavia, e paradossalmente, il limite di irrigidire la frattura fra «popolo» ed élites, nella misura in cui le politiche popolari vengono ricondotte alla dimensione quasi immobile degli «equilibri ancestrali». Le masse reagiscono alla messa in discussione di questi ultimi, ai movimenti di lunga durata di un lento processo di acculturazione. Si tratta di un approccio e di una visione dei movimenti popolari che è ormai difficile sostenere dopo i lavori di E. P. Thompson e di Carlo Ginzburg.
La crisi del sistema è presentata con un taglio cronologico, in quattro capitoli dai titoli tutti espliciti: 1. Le temps des nostal-gies (1560-1660), 2. Le temps des ouvertures (1680-1750), 3. Le temps des Lumières (1750-1787), 4. Naissance et mort de l’An-cien Regime (1787-1789). Da un capitolo all’altro, la contrazione della durata indica che la dimensione fattuale della politica e dei confronti ideologici ritrova qui una posizione privilegiata. Ciò non significa rinunciare alla dimensione sociale, ma deriva dalla constatazione che la crisi sociale che investe il mondo dei dominanti è innescata fin dagli anni sessanta del ’600. Il processo è all’opera: il regime si ossifica nella sua rincorsa autoritaria, le élites urbane, frantumate e, per buona parte, tenute ai margini dell’esercizio del potere, iniziano a subire allora - secondo modalità diverse e talvolta contraddittorie - una medesima «crisi di coscienza» (secondo la vecchia espressione di Paul Hazard). A partire da quel momento, si fanno sentire i meccanismi e i fenomeni di accelerazione del processo.
L'allontanamento maggiore da Roland Mousnier, o da storici come Michel Antoine - il cui recente Louis XV rende parossistica l'identificazione tra governo monarchico e progresso - si manifesta nei passi consacrati alle resistenze all’assolutismo di determinati gruppi di notabili, a prescindere dalle congiunture di crisi. Lotta degli ufficiali (robins) contro le «misure straordinarie» del

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governo prima del 1660, abbozzo di una opposizione aristocratica alla fine del regno di Luigi XIV, opposizione parlamentare durante quello di Luigi XV. In queste lotte, tanto spesso definite come sussulti nostalgici e incoerenti di privilegiati inaciditi nei confronti del razionalismo statale, Denis Richet identifica - al di là delle contraddizioni e della difformità delle radici sociali -una logica liberale: l'avvio, per difetto, di una forma di rappresentanza.
Si capisce forse meglio, al termine di questo rapido esame, ciò che rappresenta VEsprit des institutions. Ad imitazione di Montesquieu (L1 Esprit des Lois, 1748), Denis Richet sostiene di interessarsi, più che alle istituzioni in se stesse, «alla loro logica e alla loro coerenza storica». Sfidando sul loro terreno quanti «si attardano nella storia tradizionale», egli propone una storia politica che comprende nello stesso tempo le idee, il diritto, le divisioni e i confronti sociali. Egli fonda questa storia delle dinamiche politiche della «Francia moderna» sulla nozione talvolta esplicita ma più spesso implicita, di pratica. Sono le pratiche, comprese quelle discorsive, a permettere di definire i contorni di uno «spirito» delle istituzioni, cioè di restituire, oltre la lettera dei testi, la complessità dei loro usi e, per questa via, di cogliere la realtà dei loro significati storici. In tal modo la scommessa di situarsi «alla convergenza del politico, del sociale e del culturale» viene vinta con lo studio delle pratiche sociali, delle pratiche politiche, delle pratiche culturali e di quanti le praticano. Grazie a questo percorso di ricerca, le norme giuridiche, le innovazioni istituzionali sono messe in relazione con azioni, con serie di azioni anche distanti ed eterogenee, ma che trovano nella propria coerenza un senso nuovo. La redazione di un'ordinanza regia che riprende le conclusioni di un'assemblea di notabili sfugge a una storia - meramente giuridica - delle ordinanze regie se solo non ci si rifiuta di ricondurla alle discussioni, ai conflitti in cui si traducevano quelle discussioni, alla produzione culturale e alle circostanze politiche o religiose. I notabili in assemblea sono, insieme, i prodotti e gli attori di questo contesto in movimento: il loro linguaggio dà anche un senso alla stessa ordinanza regia. Questa storia che, secondo un’espressione cara ad Alain Boureau, potremmo chiamare la storia delle pratiche sociali, politiche, giuridiche, culturali e delle loro aree di contatto, si mantiene molto spesso a livello programmatico. Da allora, le ricerche condotte in questa direzione hanno confermato la ricchezza potenziale di



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questo programma e Inefficacia della prospettiva. È una ragione in più per leggere o rileggere Richet.
Christian Jouhaud CNRS, Paris
II
Molto noto (e discusso) per la sua collaborazione con Furet e per le posizioni «riformatrici» della loro Storia della rivoluzione francese, Denis Richet è stato quasi dimenticato come storico della Francia moderna. Scelta davvero difficile da giustificare, visto l’impegno teorico e metodologico presente soprattutto nella sua opera più rilevante: proprio quello studio delF«esprit» delle istituzioni francesi tra Cinque e Settecento che quasi nessuno ha recensito nel paese d’origine e che non si è ancora riusciti a tradurre in Italia.
Certo, anche ad una lettura sommaria e soprattutto «accademica», non sembrano mancare i motivi per questo scarso favore: Richet non lesina polemiche anche molto violente contro la storiografia di quegli anni. Le ragioni di questo atteggiamento sono sempre ampiamente argomentate, come si vedrà, ma si tratta di «remises en cause» molto personalizzate, estese e senza appello. Mousnier e la sua storia istituzionale (specialmente la concezione di «società di ordini») vengono esplicitamente accusati di formalismo e rigidità, se non trattati con sufficienza; la genealogia rivoluzionaria legittima, quella di Lefebvre-Mathiez-Soboul, che pure aveva prodotto, per la penna di quest’ultimo, una ben nota storia di Francia «à la veille de la revolution», resta sovranamente dimenticata. Gli altri marxisti, specialmente quelli sovietici o impegnati nell’annosa questione della «transizione dal feudalesimo al capitalismo», vengono liquidati (nel 1973 . . .) come chiosatori di falsi problemi, per non parlare della posizione, implicita in tutto il libro ed esplicita nelle conclusioni, contro i primi passi della «nuova storia» e dei suoi «nuovi oggetti», ai quali si contrappone il primato di una storia politica che sta lentamente agonizzando in tutta l’accademia francese.
A questo isolamento professionale e personale di Richet è stata attribuita una grande importanza per spiegare l’insuccesso di La France moderne. Naturalmente è probabile che ci sia molto di vero in questa interpretazione; ancora di più, però, se la si legge con un lieve spostamento di accento. I libri come quello di Ri-



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chet non vengono affossati per le polemiche accademiche che ingaggiano; spesso l’effetto è del tutto opposto e può produrre invece alluvioni di carta stampata. L’indifferenza collettiva per quel lavoro non è forse il risultato di attacchi che, d’altronde, avrebbero potuto essere rintuzzati, ma piuttosto di proposte e di idee imbarazzanti, talvolta incomprensibili per gli interlocutori ai quali erano destinati. È insomma più il frutto di uno sconcerto che di una offesa: attraverso le pagine di Richet perdono di senso e diventano inutilizzabili gran parte delle definizioni e dei nomi cari a molti modernisti, senza troppe distinzioni di scuola tra liberali, marxisti o «annaliani».
Si considerino, ad esempio, due questioni classiche e di apertura come la discussione sul titolo del volume o la periodizzazio-ne della modernità. I postulati apologetici della definizione «liberale» di «Antico Regime» (utilizzata, poi, per individuare soltanto il biennio precedente alla rivoluzione), di quelle marxiste di «Transizione dal feudalesimo al capitalismo» o di «Monarchia feudale-assolutista», vengono rivisitati con una decisione che, se pure consente a Richet di tollerare l'uso del più neutrale (ma non del tutto innocente) «Francia noderna», suggerisce anche al lettore l’assoluta e generale inutilità di simili definizioni «epocali». I tempi unitari della Francia moderna, apparentemente recepiti dalla storiografia ed accettati da Richet, vengono continuamente ridiscussi e frammentati nelle diverse prospettive della congiuntura economica, della storia delle idee, dei «tempi deboli e forti» delle istituzioni o della saldezza monarchica. La stessa categoria di «congiuntura politica», utilizzata da Richet per introdurre una nuova periodizzazione delle crisi istituzionali, viene così spesso interrotta da ritmi più brevi da risultare difficilmente utilizzabile e da rendere palese la diffidenza dell'autore per ogni schematizzazione di «fasi» compiutamente definite. Argomenti non del tutto nuovi o per sé sconvolgenti, come si vede, se il contesto nel quale simili capovolgimenti di prospettiva vengono situati non fosse così insistito e compatto. Se, infatti, la cronologia è in serio pericolo, sorte non migliore tocca alle istituzioni della modernità ed all’uso comune delle fonti che hanno permesso di elaborarne il profilo. L'impressione di spaesamento teorico che si è già notato raggiunge proprio su questi temi uno dei suoi punti maggiori: già nell'esaminare il concetto di «istituzione» Richet ne critica l'interpretazione storiografica corrente in termini di «legge o regolamento» e di «costituzione». Stranamente, però, non ne richiama il significato giuridico più tradizionale, quello



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di corpo di funzionari e di uffici preposti a compiti normativamente determinati, ma lo lascia sfumare in una idea illuministica ed apparentemente vaga di «istituzione umana [. . .] soggetta al cambiamento». La stessa utilizzazione delle fonti giuridiche, alla quale Richet riconosce un posto centrale di «acheminement» per lo studio della Francia dal Cinque al Settecento, è subordinata alla comprensione, nient’affatto scontata, del carattere ideologico e celebrativo dei testi normativi, delle commistioni tra «costume», diritto pubblico e privato, della natura fuorviante ed «unilineare» degli studi di storia del diritto. Considerazioni tanto più sconcertanti per il lettore in quanto tutto il libro è denso di riflessioni su istituzioni propriamente burocratiche e giudiziarie, condotte, almeno apparentemente, su fonti tradizionali.
In realtà, in questa continua scomposizione di cesure cronologiche ormai consolidate, di concettualizzazioni apparentemente pacifiche o nella stessa presenza di aporie interne al testo che sembrano volere scardinare l’unità dei periodi e delle istituzioni oggetto del libro, è possibile rintracciare la duplice ambizione di Richet: quella di proporre un modello per lo studio delle società, della politica e dei loro conflitti e quella di sostenere una concezione esigente, inattuale e poco malleabile della storia. In questo senso l’unità e l’individuazione tradizionali della «Francia moderna» possono risultare di impaccio e lo studio di un’«epoca» può diventare soprattutto l’occasione per applicare un metodo di conoscenza più generale.
Naturalmente, però, la scelta di quei tre secoli non è casuale. Al contrario rivela una polemica ancora più impegnativa, anche se mai esplicitamente esposta nelle pagine del libro: il periodo che va dal Cinque al Settecento non è solo centrale per la formazione di tutti gli stati europei, ma racchiude, nelle letture che ne sono state date, il più presente e negato dei miti fondatori, non solo francesi. È infatti proprio nella ricostruzione storiografica e letteraria di quei tempi che si sono consolidate le immagini di una società irrigidita nei corpi costituiti o nei conflitti tra ceti rigorosamente predeterminati, per non parlare della accettazione acritica dell’apologetica dinastica, specie seicentesca, o della identificazione tra monarchia, centralizzazione amministrativa e progresso, tutte categorie ben presenti, ancora oggi, nelle opere di molti storici francesi. Per Richet, invece, «come ogni sistema, quello che ha retto la Francia dal Quindicesimo al Diciottesimo secolo era un campo di forze mobili, nel quale si imbricavano le grandi tendenze dell'evoluzione economico-sociale, le correnti in-



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tellettuali e religiose, le esigenze di certe scelte politiche. Né costruzione armoniosa e logica, né magma irrazionale, ma il risultato di forze in continua mutazione». Compito dello storico sarà proprio quello di ricostruire percorsi, alleanze e scontri che uniscono o dividono gruppi apparentemente coesi o concorrenti, di analizzare i loro interessi e le loro giustificazioni teoriche. In questa elaborazione interpretativa occorrerà diffidare sia delle eredità ideologiche (soprattutto di quelle cristallizzate nel diritto) che alcuni di loro hanno potuto lasciarci, sia delle categorie storiografiche elaborate dai gruppi «vincenti» per studiare i nemici «sconfitti». Soprattutto qui, nell'indagine sulla politica e sulla distribuzione del potere, Richet riconosce e ricostruisce genealogie di preconcetti che hanno nella produzione accademica un’eco tutto sommato sbiadita rispetto all’influenza decisiva che esercitano sulla società e sui suoi modi di rappresentarsi.
Così, dalla contestuale preoccupazione di studiare la specificità della «Francia moderna», utilizzando però un modello dinamico di analisi dei conflitti sociali e politici che prescinda dai referenti consolidati dalla tradizione storiografica e dalla «fissità» delle definizioni giuridiche, emergono diversi temi dominanti. Ne vanno ricordati almeno quattro principali: la natura del cosiddetto «assolutismo», la composizione delle «élites», la misura della loro partecipazione al potere ed il loro rapporto con i «dominati».
Sul primo punto Richet è molto chiaro nel rifiutare, ancora una volta, un’interpretazione unitaria e definita di regime politico ed è certamente significativo che il brano teorico appena citato si riferisca proprio alla polemica sull’«assolutismo»: nella pratica di ciò che lui chiama «il sistema», nei testi di legge, nella pubblicistica colta che si occupa delle caratteristiche della regalità, si distinguono periodi tra loro inconciliabili e permangono ambiguità teoriche irrisolte. Richet preferisce parlare di «potere regio» che subisce accelerazioni e concentrazioni ripetute, incontra ostacoli e si rafforza soprattutto sulla base del prelievo fiscale. Il permanere di limiti tradizionali al potere sovrano (le cosiddette «leggi fondamentali») non rappresenta una vera costituzione del regno, come voleva Mousnier, ma non permette neppure di immaginare la Francia, sia pure nel momento massimo del potere di Luigi XIV, come la «monocrazia» che descriveva Lavis-se. D’altronde, tutto ciò che, nel breve periodo, rafforza l’«assolutismo», tende anche ad indebolirlo a più lungo termine: sia le difese della sacralità o della forza del Re da parte di cattolici,



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libertini o protestanti i quali, collegando troppo strettamente la divinità (o l'«astuzia») alla legittimità sovrana, la sottopongono ai rischi dell'empietà o della maggiore forza, sia le lotte di fazioni e le concorrenze esasperate suscitate dalla Corte tra le varie componenti delle «élites».
I «dominanti», comunque, non sono soltanto posti in competizione dalla politica del sovrano: è la stessa composizione dei loro gruppi a spezzarne la unicità in imprevedibili e molteplici conflitti. Quindi, non solo non ce crescita regolare nell'«assolutismo», né, tanto meno, compimento in Luigi XIV, ma non sono utilizzabili i dibattiti che vedono la società francese divisa tra nobiltà e borghesia, tra ordini o classi, tra «commissari» e proprietari degli uffici. O, almeno, simili distinzioni sembrano a Richet troppo riduttive: una grande atomizzazione domina tutte le «élites» e provoca non «un conflitto di ordini, non un conflitto di classi ma molteplici conflitti in cui interferiscono interessi materiali e valori ideologici», dati congiunturali, personalizzazione degli uffici, «interessi di corporazione». In più pagine appaiono «notabili divisi», «élites atomizzate» o scartate da qualsiasi influenza sulla distribuzione del potere. Le comode interpretazioni che, basandosi sulla collocazione «ufficiale» e nominalistica dei ceti in lotta, hanno consentito giudizi e definizioni di destra-sinistra sulle fazioni impegnate nella Lega o nella Fronda, sembrano, in questa prospettiva, ancora più insostenibili. Nonostante alcune riserve, sulle quali si tornerà, i giudizi di Richet sui notabili sono il frutto, talvolta volutamente sconcertante, delle sue posizioni anti-convenzionali che, ad esempio, riconoscono nelle correnti aristocratiche del primo Settecento «i primi grandi rivoluzionari» ed i primi veri sabotatori «anti-sistema». La diffidenza per gli schemi di divisione tradizionale della società moderna si avverte anche nella descrizione delle clientele. La loro organizzazione, che fa innanzitutto capo ai ministri, si costituisce più sulla base della effettiva collocazione di ogni notabile nel servizio del Re che su quella del titolo giuridico dell'impiego: funzionari e giudici si schierano certo in modi diversi, ma sono innumerevoli le contrapposizioni interne a «offices», a condizioni d'«onore» e a categorie professionali. I raggruppamenti delle «élites» non corrispondono che molto secondariamente ad interessi di classe o a privilegi di ordini. Così, mentre viene sottolineata la polarizzazione dei conflitti tra nobiltà di toga e di spada, non si dimenticano le diverse collocazioni che dividono tra loro, in molte circostanze rilevanti, gli stessi «robins» o le oligar-



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chie municipali. I gruppi che si costituiscono nel corso dei decenni non sono sempre prevedibili sulla base delle ipotesi di «classe» o di «ordine». In uno dei suoi passaggi più sintetici Richet disegna il destino di lungo periodo di tre importanti gruppi di «dominanti», emersi tra Sei e Settecento e destinati a segnare la successiva storia di Francia: i funzionari ed «esecutori» del Re, più autoritari e livellatori della magistratura, travolti dalla Rivoluzione e poi vincitori nell’Ottocento; i nobili ed i notabili provinciali, prima emarginati dalla Corte, entusiasti poi per il ritorno agli stili partecipativi della monarchia nel 1788, delusi l'anno seguente e successivamente più che compensati dalla nascita dell’Impero; le grandi città e Parigi, i cui notabili passano rapidamente da una condizione di minorità politica ad una vittoria decisiva nel secolo seguente.
Come si è detto, Richet affronta anche il tema della natura e dei limiti della partecipazione di almeno una parte di queste «élites» alla gestione del potere «assolutista». Un intero capitolo, dedicato a «coloro che partecipano», prende spunto dal riconoscimento, almeno giuridico, di diversi gradi di autonomia a vari corpi istituzionali dello stato: non solo agli Stati generali o alle Assemblee dei notabili, ma al clero, agli Stati provinciali, alle città o comunità ed a diverse categorie professionali, senza dimenticare il vasto potere amministrativo e di controllo della magistratura. Certo, esiste un problema di «miti e realtà della partecipazione» e qui viene ancora una volta abbandonato il quadro istituzionale per riconoscere solo ai grandi gruppi di pressione organizzati tra i maggiorenti del clero o dell’alta burocrazia l’effettivo utilizzo delle possibilità giuridiche astrattamente attribuite anche ad altri notabili. Torneremo su questo punto, non sempre chiaro in Richet; suo merito principale sarà comunque l’averlo compreso come un cardine del modo di funzionamento del-l’« assolutismo».
Sul versante degli «esclusi», invece, la posizione di Richet sembra, in molte pagine, netta e senza appello: posti violentemente al di fuori di ogni partecipazione, rimarrebbero separati dalle «élites» da una barriera sociale definitiva e invalicabile. La nettezza della contrapposizione utilizzata non sembra lasciare adito al riconoscimento di spazi intermedi tra «dominanti» e «dominati», oppressi dalla fiscalità e dalla esclusione dal sapere. Seguendo questa interpretazione, in una pagina sorprendente, Richet paragona il binomio deculturazione-acculturazione imposta ai «dominati» in Francia tra il Cinque ed il Settecento a ciò



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che il colonialismo europeo ha imposto all’Africa nell’Otto e Novecento. Osservazioni che potrebbero ricordare i più classici temi di Foucault, specialmente quelli deìVHistoire de la folie del 1961 e di Surveiller et punir, apparso solo due anni dopo la France moderne. Ma in altre pagine si avverte un accento diverso, specie a proposito delle «contestazioni» o delle lotte di fazione (Lega e Fronda) e delle posizioni che i diversi gruppi sociali vi occupano. Qui il popolo, che utilizza i conflitti politici tra i notabili a fini del tutto diversi, appare legato a loro da «mille corde di trasmissione» che permettono agli esclusi di trovare un proprio spazio: il popolo riconoscerà «nelle loro ideologie in guerra le espressioni convenienti per i propri interessi e per il proprio destino». Non vi è dubbio, comunque, che l’ambiguità delle due posizioni non sarà risolta da Richet, il quale su questo punto ondeggia tra una interpretazione schematizzata, talvolta volutamente rigida, e la sua propensione per l’indagine «spregiudicata» dei conflitti e delle alleanze sociali.
Da queste troppo brevi considerazioni sono rimasti in ombra molti passaggi «tecnici» che esigerebbero una lunga contestualizzazione ed un notevole aggiornamento storiografico, specie quelli legati ai dibattiti sulla Lega o sulla Fronda. Ma è forse apparsa, almeno per qualche aspetto, la vastità dell’impegno teorico del programma di Richet: un’indagine che all’ambizione di riconoscere ed interpretare la pratica effettiva dei conflitti politici unisce la discussione stringente dei «nomi» della storia e dell’uso consolidato delle fonti. Occorre tuttavia riconoscere subito che, proprio rimanendo all’interno di questi stessi presupposti metodologici, l’esigente programma esposto ne La France moderne è stato solo in parte realizzato.
Se si pensa, ad esempio, alla violenta polemica di Richet contro la storia giuridica, la parcellizzazione degli studi istituzionali e la lettura «ingenua» dei testi normativi, non si riescono a spiegare facilmente alcune sue pagine di commento quasi pandetti-stico alle leggi dinastiche o alle astratte competenze di istituzioni (come i Parlamenti o i Consigli del Re) che poi, nella «pratica del sistema», si rivelano molto lontane dai principi che dovrebbero regolarne le competenze. Sembrerebbe ancora una volta che il diritto, oggetto spesso ostico per gli storici, non possa sganciarsi da una prima lettura formale e debba ricevere solo in un secondo tempo, esclusivamente da altre fonti, il «vero» senso che il contesto gli attribuisce. Senza dubbio un simile passaggio è in



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gran parte inevitabile: sorprende comunque che neppure chi, come Richet, considera il diritto espressione linguistica privilegiata dei conflitti politici, voglia poi trattare il testo di legge come una fonte che, contemporaneamente ad altre, contribuisce a chiarire il senso degli interessi divergenti. Anche Richet, insomma, e contro i suoi stessi principi, sembra ritenere davvero proficua la lettura delle norme solo quando altri indizi più «veri» ne riescano a svelare la «falsità» ideologica, attribuendo così al diritto una collocazione paradossalmente privilegiata che ne compromette la potenziale utilità per l’indagine storiografica.
Analoghe considerazioni potrebbero valere per il binomio «progresso-regresso» e per l'utilizzazione di altre categorie politiche tradizionali nel giudizio sulle impostazioni teoriche dei gruppi sociali e degli individui in conflitto. Tutto il libro è esplicito nel condannare l’uso di simili termini (per non parlare degli ancora più detestati «sinistra» e «destra»), e nell'istituire una frattura netta tra la pratica politica e le sue giustificazioni teoriche. Tuttavia, in alcune circostanze, Richet sembra adottare quegli stessi atteggiamenti che condanna: è soprattutto il caso dell’interpretazione del discorso frondista, nel quale si dà grande rilievo ai caratteri passatisti delle rivendicazioni di parlamentari e teorici in rivolta. Se una simile caratteristica della letteratura polemica contemporanea è incontestabile, risulta difficile giustificare, nella stessa prospettiva di Richet, le conclusioni che egli ne trae e che valutano quel movimento alla stessa stregua del discorso che ha prodotto, quasi che anche all’interno di una ideologia risolutamente appoggiata alla tradizione ed a principi di autorità legittima non possano essere elaborate richieste che nella realtà si riveleranno radicalmente eversive. D’altronde una certa tendenza alla sopravvalutazione del contenuto esplicito degli scritti teorici e della loro capacità di dirigere o frenare la «pratica del sistema» emergono ne La France moderne, torse a dispetto del suo autore: molte pagine sui «lumi» o sulla «crisi» di fine Seicento possono dare a chi legge più l’impressione di essere state scritte da un grande storico della cultura come Hazard che da un meticoloso ed empiristico indagatore della pratica politica.
Al di là di queste aporie, a ben vedere abbastanza circoscritte, Richet sconcerta spesso i suoi lettori con grandi intuizioni che non sempre vengono sviluppate coerentemente o fino in fondo. È questo il caso della già ricordata discussione sulla «natura» dell’assolutismo e, in modo particolare, sulla possibilità di «parteci-



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pazione» al potere, teoricamente indivisibile, di popolo e notabili. Si tratta di due questioni inestricabili e la soluzione della prima dipende in modo necessario dall'impostazione che si dà alla seconda. Volutamente semplificando, si potrebbero così riassumere le due possibili soluzioni «estreme» della questione: in un caso i limiti all’assolutismo consisterebbero esclusivamente in poche e delimitate «leggi fondamentali» (devoluzione della corona, uso del demanio, ecc.). Questi strumenti, semplici barriere legali contrapposte al volere dispotico del Re, sarebbero pensate soprattutto come strumento di difesa per i grandi notabili, senza che in esse sia riconoscibile alcuna visione complessiva del potere legittimo, destinata a valere per l’intera società. Per la posizione opposta, invece, è possibile riconoscere, proprio in una società che prevede un dominio accentrato e indiscutibile, resistenza di una serie di vincoli costringenti, di interdipendenze limitative, fatte di pratiche sociali e di costruzioni ideologiche, considerate collettivamente necessarie per mantenere la legittimità della forma di governo, la coesione tra sovrano e sudditi, tra «élites» e popolo, tra gruppi ed individui. Richet non accoglie la prima tesi e sembra spesso riconoscere ai limiti posti all’assolutismo un valore sostanziale che va al di là del semplice controllo da parte di alcuni corpi organizzati sulle regole di funzionamento dell’amministrazione del patrimonio o della successione dinastica.
Sono sue le sottolineature dell’importanza della personalizzazione degli uffici nell’organizzazione burocratica moderna, il riconoscimento dell’esistenza di legami sociali giustificati da esigenze, magari arcaiche, di «giustizia», la rivalutazione del senso non soltanto particolaristico delle secolari rivendicazioni partecipative dell’alta magistratura e, come si è detto, la constatazione di un rapporto intenso tra vari settori popolari ed «élites» nei momenti di forte crisi politica. A ben vedere, si tratta di osservazioni che implicano un’immagine fortemente contrattualistica della società francese moderna, organizzata su immagini dell’autorità «legittima» e su interdipendenze tradizionali che neppure il sovrano assoluto avrebbe potuto modificare, se non al prezzo del rinnegamento del proprio significato simbolico e reale. Anche l’interpretazione del movimento sanculotto quale erede diretto delle rivendicazioni legittimistiche e «reazionarie» della Fronda, sia pure in forme «di nostalgia e fantasma», sembrerebbe tendere ad un pieno riconoscimento dell’importanza di quegli «equilibri ancestrali» ai quali si allude in più pagine del libro. Nono-



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stante questi presupposti, Richet non compie il passo successivo, quello di ammettere che r«assolutismo» non è solo una forma di governo che prevede una vastissima delega alle varie personalizzazioni degli uffici, ma soprattutto un'organizzazione relativamente stabile di interdipendenze e di scontri che costituiscono la vera costituzione sociale ed istituzionale (anche se non giuridica) del regno. Nei confronti delle interdipendenze, la cesura troppo netta e senza appello fra «dominanti» e «dominati» dimentica la rilevanza di molte figure sociali di passaggio e limita in modo poco credibile il rapporto di scambio reciproco tra i due gruppi ai soli momenti di crisi politica, senza pronunciare parola su quelli, inevitabili, che devono pure averli preceduti e seguiti. Per ciò che riguarda gli scontri, soprattutto quelli interni a burocrazie ed «élites», non ne viene riconosciuta a fondo la duplicità di carattere: di indebolimento, certo, della coesione complessiva dei «dominanti», ma anche di limitazione del potere monarchico «assoluto». Coperti da un’ineccepibile adesione al discorso dinastico, i conflitti violentissimi tra fazioni costituiscono la vera ossatura dei rapporti tra «élites», specie burocratiche, che continuano a percepire la gestione del potere effettivo come bene personale, famigliare o dell’ufficio. Il Re stesso, anche Luigi XIV, appartiene a questo sistema di deleghe che non solo non può essere impedito, ma che prevede necessariamente fazioni o gruppi concorrenti in lotta per il potere effettivo connesso alle loro cariche. Così, grandi ideologie tipiche della regalità (paternità, giustizia, legittimità) diventano campi di scontro tra «élites» che si contendono il primato di interpretarle secondo la loro «vera» natura. In questo modo le confermano ufficialmente come cemento ideologico della società e, nella realtà, le indeboliscono come attributi della Corona sui quali il potere di decisione e di interpretazione appartiene al solo sovrano.
Contrariamente a quanto vorrebbe far credere il grande «mito fondatore» francese, tutto orientato all’apologetica della centralizzazione e dell'«assolutismo» unificante, è stata proprio un'organizzazione di conflitti, e non di «ordine», ad avere costruito una delle migliori macchine burocratiche d’Europa. Come ciò sia stato possibile e come sia avvenuto è un problema che gli orientamenti tradizionali della ricerca hanno più imbrogliato che contribuito a chiarire.
Volendo leggere attentamente Richet, questi temi appaiono spesso accennati, talvolta contraddetti; non bisogna comunque dimenticare che nel 1973 la ricerca «istituzionale» e la storia po-



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litica, abbandonate dall'accademia francese più per la difficoltà di situarsi tra insoddisfacenti tradizioni storiografiche e miti rivoluzionari che per vero disinteresse, è stata rinnovata e difesa soltanto dalla sua France moderne. Questo lavoro, ricco di idee nuove, tuttora poco sfruttate, propone un modello dinamico e potenzialmente molto ricco di analisi della società, intesa soprattutto come campo di conflitti e di alleanze, al di fuori di schemi e di posizioni ideologiche precostituite. Propone anche, senza dubbio, una visione molto esigente della storia. La conclusione del libro non potrebbe essere più esplicita nel sostenere che solo due tipi di indagine riescono davvero a chiarire il nostro passato: una relativa alle categorie macro-economiche e l’altra situata «al convergere del politico, del sociale e del culturale», come egli stesso amava definire il proprio lavoro. Anche tenendo conto degli ondeggiamenti che si possono riscontrare in Richet, del suo frequente ricorso a modelli interpretativi rifiutati con sdegno poche righe prima, occorre davvero sottolineare l'illusorietà (ed anche la tendenziale faziosità) di una pretesa così definitiva? Ma è proprio il contenuto del libro a fornire ai suoi lettori gli strumenti teorici ed i suggerimenti necessari per controbattere l’aspetto totalizzante di questo programma.
Paolo Piasenza
Università di Torino