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Title
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OLTRE LE FONTI CRIMINALI: CHIERI NEL '500
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Creator
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Luciano Allegra
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Date Issued
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1982-04-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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17
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issue
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49 (1)
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page start
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265
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page end
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274
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
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Rights
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Quaderni storici © 1982 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230920165526/https://www.jstor.org/stable/43777038?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxNCwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjMyNX19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A2bd4fc960db12d209a1171746fb0da29
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Subject
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surveillance
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discipline
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confinement
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extracted text
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OLTRE LE FONTI CRIMINALI: CHIERI NEL '500
Nella seconda metà del Cinquecento, la comunità di Chieri raggiungeva le dimensioni di piccola grande città, alla stregua della Romans di Le Roy Ladurie: distante poco più di venti chilometri da quella che sarebbe diventata la capitale del regno sabaudo, contava infatti una popolazione oscillante tra le sei e le diecimila unità, situandosi dunque tra i centri più popolati della regione. Ma anche fra i più ricchi e importanti. Adagiata sul declino delle colline e aperta verso una pianura intensamente coltivata, essa rappresentava un crocevia verso l'Astigiano e il Monferrato, ed era sede di un mercato molto vivace.
Le risorse agricole tuttavia, e il commercio ad esse collegato, non costituivano che ima delle voci dell'economia locale: erano invece la lavorazione del cotone e la massiccia esportazione del prodotto finito a caratterizzare la struttura produttiva e occupazionale della cittadina. Di diffusione relativamente recente — non pare risalire oltre la metà del secolo XV —, l'imprenditoria tessile chierese aveva conosciuto da subito uno sviluppo impetuoso, e nel 1482 aveva deciso di consociarsi e regolamentarsi mediante la creazione di un'arte a carattere protezionistico. Di fatto il numero delle botteghe e dei mercanti fustanieri raggiungerà a fine '500 le centocinquanta unità, seguendo una linea di tendenza di continua espansione che le pur frequenti guerre non riusciranno a invertire. Quanto poi al volume del prodotto esportato, basterà richiamare qui un dato-spia relativo alla costante presenza del fustagno chierese sui mercati esteri: a Lione, nel 1569, la percentuale di tessuto lavorato proveniente da Chieri e da Chambéry sfiorava il 50°/o dell'importazione totale di questo prodotto1.
Una città di artigianato diffuso quindi, innestato su una solida base agricola che una forma di dominio sulle campagne
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circostanti rendeva ancor più stabile: fin dal 1347 infatti, anno in cui il consiglio cittadino aveva stilato un patto di dedizione verso i principi Acaja-Savoia, Chieri non solo esercitava per privilegio la giustizia sui suoi abitanti, ma estendeva tale giurisdizione su di un territorio comprendente quasi una trentina di piccole comunità. Questa supremazia era poi rafforzata dall'impossibilità, per i chieresi, di ricorrere ad altri tribunali: il giudizio, articolato in tre gradi, era inappellabile e sanciva la contemporanea presenza di una protezione rassicurante e di un forte controllo sull'intera comunità.
Le tracce di questa attività giudiziaria non ci sono state restituite nella loro integrità: le serie criminali, seppur ricche, si presentano molto discontinue e pongono un primo ordine di problemi alla ricerca. Scartata una campionatura per anni, che avrebbe necessariamente costretto l'indagine entro un ambito di comparazione limitato alla storia della criminalità, ho preferito seguire la documentazione lungo un arco di tempo che fosse quanto mai ampio, compatibilmente con i limiti posti dalla possibilità di controllo dei dati e daH'esuberanza delle fonti. Ho potuto così analizzare poco più di seicento processi, diluiti nel venticinquennio 1555-1580, e schedare un totale di circa milleottocento persone, fra imputate e testimoni, coinvolte negli interrogatori. Va subito detto che la scelta di questi estremi temporali non è stata voluta, ma determinata proprio dalla frammentarietà della documentazione, che per altri periodi presenta gravi lacune. In questi anni, invece, la serie dei Libri maleficiorum subisce poche interruzioni e ci si può inoltre avvalere, tra l'altro, del ricco supporto costituito dai protocolli notarili, dai libri di taglia, dai catasti e dagli ordinati comunali.
Le prime indicazioni suggerite dalle fonti giudiziarie ci restituiscono un panorama di criminalità spicciola e diffusa, dove il litigio, rappresentato in forme verbali o manesche, è presente in più del 90% delle cause dibattute e monopolizza il teatro del crimine. Insignificanti sono le quote assorbite dagli altri reati: ima qualche diffusione, anche se molto contenuta, del furto, talvolta l'infrazione delle disposizioni di vicaria, alcuni casi di usura, rari i delitti a sfondo sessuale, ancor di più gli omicidi premeditati. Nel complesso, quindi, il modello di criminalità che è stato riscontrato in molti degli studi condotti sull'Ancien régi-me 2, e che è qualificato da una quotidianità della violenza tesa a concretarsi in reati contro le persone, anziché contro le cose, risulterebbe ancora una volta pienamente confermato.
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La sola analisi delle carte processuali rischia però di restituirci una realtà monotona e ripetitiva, nella quale molto di rado viene denunciata resistenza di particolari forme di crimine. Certo essa fa riaffiorare le cause accidentali del reato, disegna l'entità e la forza dei singoli schieramenti coinvolti nel dibattimento, fornisce qualche dato sulla biografia e sul vissuto dei rei e dei testi, dati, questi, estremamente utili se si vuole circoscrivere Lambito del delitto. Ma quando gli episodi di violenza non vengono esaminati singolarmente, si trasformano, nelle carte criminali, in misure gelide dell'adesione o del rifiuto del sistema normativo, che appare così ben più definito di quanto non fosse; e tali episodi cominciano ad allinearsi in lunghe sequele di risse, furti o ingiurie, in cui a malapena riusciamo a scoprire motivazioni che non ci sembrino futili, scontate, o comunque straordinariamente simili le une alle altre.
Il quadro non diventa più chiaro qualora, nell'intento di rappresentare la distribuzione sociale dei reati, il fuoco seriale venga spostato dai crimini ai criminali: sulla scorta stessa dei documenti chieresi, si potrebbe certo affermare che gli artigiani erano più riottosi dei braccianti, o che gli uomini venivano tratti in giudizio più spesso delle donne, o ancora che erano i contadini a opporre le maggiori resistenze ai gabellieri. Ma compiere questa operazione significherebbe solo credere ciecamente nel potere taumaturgico dei numeri e limitarsi agli epifenomeni. La ragioneria del delitto infatti non solo non può spiegarne l'insorgenza, ma rischia persino di falsare le cifre. Ad esempio ima bassa percentuale di cause per furto, in un segmento qualsiasi della società, non comporta necessariamente un numero esiguo di ladri: in un determinato contesto, può essere ampiamente tollerata una soglia di latrocinio entro la quale non scatta alcuna denuncia, o addirittura il furto stesso potrebbe essere regolato informalmente da rapporti di reciprocità, come spesso capita nel caso dell'abigeato. Comunque l'istituzione non registrerebbe il fatto, offrendo all'analisi quantitativa soltanto dei dati grezzi e fuorvianti.
Le caratteristiche e le regolarità riscontrabili nelle fonti criminali vanno dunque sciolte in una serie di precisi contesti, che non possono prescindere dal contenuto relazionale e dai codici di comunicazione dei loro protagonisti, né dal rapporto che necessariamente s’instaura con i poteri giudicanti. Se le cause, anziché essere interpretate come entità a sé stanti, verranno lette quali sintomi di processi sociali più profondi, allora anche la monotonia comincerà a diluirsi e ad avere una sua rilevanza. Così, nel
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caso di Chieri, la ricorrenza endemica della lite si è finalmente frantumata in mille sfaccettature, assumendo significati diversi, solo quando i singoli processi sono stati intesi come spie di altrettanti conflitti. E le vicende giudiziarie, invece di essere assunte a testimonianza di comportamenti anomici e eccezionali, «devianti», sono apparse come episodi solo particolarmente intensi di tensioni radicate e vissute all'interno della comunità.
Indirizzata secondo questa prospettiva, l'analisi delle cause criminali del tribunale chierese ha finito col suggerire resistenza generalizzata di una forma peculiare di conflitto: quello fra «pari»3. Nella quasi totalità dei dibattimenti, la regola della separazione di status è fermamente osservata: «miserabili», contadini, artigiani, mercanti e infine nobili interagiscono all'interno del proprio ceto e della propria professione, raramente intersecandosi. I comportamenti reciproci, o quanto meno le situazioni di conflitto, sono determinati da relazioni di status4, e questa compartimentazione sociale trova ima prima verifica nell'intersezione con il notarile. Lo strumento della pacificazione, che recupera ai nostri occhi buona parte del «sommerso» della criminalità, di quanto cioè non passa attraverso sanzioni pubbliche, ci restituisce degli insiemi di interazione fortemente omogenei sotto il profilo sociologico. Ma non solo. I processi chieresi indicano ancora un notevole addensamento dei conflitti nelle sezioni intermedie della società: chi viene tratto in giudizio raramente fa parte dell'élite locale o degli strati più soggetti del tessuto urbano, pur così numerosi. Apparterrà invece, di preferenza, a gruppi di artigiani e contadini, quasi a confermare che il conflitto stesso esplode in quei segmenti della stratificazione sociale dove si possono realmente innescare processi di mobilità5. È precisamente in questa fascia che la competizione per l'accesso alle risorse e per il miglioramento, o quanto meno il mantenimento, del proprio status tende ad accendersi, dando luogo a configurazioni di potere e sistemi di alleanze passibili di continue trasformazioni.
La costruzione di questi reticoli, che rappresentano la filigrana dei processi e che ne spiegano in ultima analisi l'intima essenza, non poteva tuttavia basarsi su una lettura interna al processo stesso: esigeva che si uscisse dalla vischiosità di una fonte, pur prioritaria, qual è quella rappresentata dai costituti, e costringeva a ricorrere al supporto di altre serie documentarie. Lo spoglio integrale dei fondi notarili della città, che si sono rivelati molto ricchi, è stato dettato proprio da queste esigenze: il
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notarile infatti, in quanto fonte privilegiata nel delineare traiettorie individuali e famigliar!, ne consente soprattutto l'accorpamen-to in strategie più complesse. Conoscendo il tipo di risorse e la qualità delle articolazioni sociali in gioco, possono quindi esserci restituiti esattamente quegli elementi che caratterizzano la dinamica dei conflitti riflessi nelle cause giudiziarie chieresi. L'esplorazione dei protocolli, che è ormai in fase avanzata, ha portato finora alla raccolta di più di settemila atti, comprendenti ogni sorta di strumenti: questo consentirà ima prima interpretazione con i dati desunti dal criminale, nella prospettiva di ricostruire catene di informazioni che, partendo da casi individuali, giungano a identificare quegli ambiti e quelle strutture relazionali più allargate, di cui i processi rappresentano momenti di coagulo. Questa fase della ricerca dunque non si proporrà tanto di giungere a una migliore connotazione dei profili dei «criminali», quanto di penetrare meccanismi economici e circuiti sociali caratterizzati, come s’è visto, da una forte competitività. Quali e quante situazioni conflittuali si dispongano lungo un asse di relazioni spaziali, come il vicinato, o siano determinate da tensioni inerenti a strategie famigliali o parentali, o si verifichino in fasi critiche del ciclo di vita, o affiorino solo per motivazioni connesse col mantenimento del proprio status, potrebbero allora diventare altrettante domande cui dare risposte meno improbabili. E se saranno individuate la natura dei conflitti e la conformazione dei gruppi sociali coinvolti, gli stessi processi potranno essere riletti sotto una luce diversa, che faccia perder loro quegli elementi di casualità o monotonia che ne caratterizzano l'apparenza.
La causa criminale però non è soltanto un teatro di relazioni interpersonali fra «eguali»: è anche sede di una relazione tra giudici e giudicati, asimmetrica in quanto i rituali che vi sono recitati, dall'istruttoria fino alla sentenza definitiva, esprimono un rapporto di potere fortemente sperequato. La comprensione di questo rapporto non chiarisce soltanto i problemi connessi con l'amministrazione della giustizia e le trasformazioni del diritto, ma getta luce proprio sulla natura dei reati e sull'uso che viene fatto dell'istituto giudiziario. Da questo punto di vista, il caso di Chieri tradisce un'intima coessenza fra la peculiarità dei conflitti, le forme di procedura penale e l'attività dei giudici6.
L'idea della reclusione e della detenzione dei condannati è, come noto, una forma di pena che si è fatta strada molto lentamente, finendo col soppiantare tutte le altre solo a Settecento inoltrato. Sino ad allora le strutture carcerarie avevano assolto
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a una mera funzione di appoggio, subordinate a un coacervo di misure punitive volte all'esemplarità della condanna: l'equazione controllo=repressione, assente dai paradigmi penali precedenti, verrà impostata solo quando anche le istituzioni giudiziarie secolari riusciranno a monopolizzare il concetto di norma, introducendo quello di devianza7. Prima di quel momento dunque, il carcere non costituisce ima pena usualmente comminata. Su un campione di circa centotrenta sentenze emesse dal tribunale di Chieri nel periodo 1563-838, si ricorre a questa forma di condanna una volta sola, quando uno stupro commesso da un delinquente abituale viene castigato con la detenzione a vita. Ad altri delitti invece, altrettanto gravi, viene riservato un diverso trattamento. Talvolta, ma molto di rado, gli imputati vengono pubblicamente frustati, o sono banditi dalla città, o vengono spediti per qualche anno sulle patrie galere, quando non decapitati al cospetto di tutta la popolazione; in tutti gli altri casi il pagamento di una pena pecuniaria, variabile a seconda della gravità del delitto e della «qualità» del reo, espia qualunque tipo di colpa, anche se connessa con i reati maggiori.
A parte la fustigazione, generalmente riservata ai colpevoli di lesa maestà, il crescendo nella gradazione del castigo non obbedisce né a un criterio di specializzazione, né a una nozione gerarchica del crimine: non si commina cioè il bando perché il reato viene considerato «minore», o la pena di morte se ritenuto particolarmente efferato. Queste punizioni vengono prescritte solo quando l'imputato risulta recidivo o estraneo al corpo sociale della comunità, elemento, questo, di estrema importanza, come si vedrà più avanti9. La multa quindi dirime la quasi totalità dei delitti, dall'ingiuria all'omicidio, e, pur rappresentando una peculiarità del diritto penale dell'epoca, nel caso chierese si associa a un corpo di norme procedurali che configurano una concezione particolare dell'istituzione giudiziaria10.
Il grado di severità della sentenza non è certo l'unico indicatore della volontà di punire: la solerzia e la tenacia con le quali si procede all'accertamento dei fatti ne rappresentano un sintomo altrettanto significativo. Nei processi chieresi però questi atteggiamenti risultano quasi del tutto assenti: l'indagine giudiziaria scatta solo eccezionalmente, il dibattimento si conclude molto spesso nella fase istruttoria, gli interrogatori vengono reiterati di rado, e i testimoni uditi sono per lo più di parte. Persino gli episodi criminali, anche quelli gravi, giungono nelle aule del tribunale più per querele di parte che per iniziativa del vicariato,
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di quell'ufficio cioè che doveva rivestire proprio la funzione di garante deirordine pubblico.
Se però gli imputati avevano la sventura di non appartenere al novero degli habitatores della città, o perché non residenti o in quanto forestieri, sperimentavano sulla propria pelle un trattamento inusuale per durezza e zelo. Allora l'indagine procedeva con ritmo realmente serrato, non si esitava affatto a ricorrere alla tortura per estorcere confessioni e carpire complicità, e la condanna giungeva puntualmente pesante. Né tale disparità scattava solo nei confronti di quei gruppi marginali che, bollati come zingari, cerretani o malandrini, si vedevano affibbiare qualunque sorta di delitti. Era allo straniero in quanto tale, non importa se vagabondo o nobile, che si riservava il rigore di ima giustizia inquisitoria e punitiva. Ne fa fede, ad esempio, il processo intentato al ricco gentiluomo genovese Giobatta Spinola, che, di passaggio a Chieri, invitato a un ballo in maschera nella casa del vicario, trova modo di attaccare rissa con un soldato, viene subito arrestato, e subisce un interrogatorio particolarmente stringato nel quale è costretto a fare un resoconto estremamente minuzioso di tutti i suoi trascorsi e i suoi spostamenti11.
L'istituzione giudiziaria quindi, prima di assolvere qualsiasi altro compito, preserva i confini sociali della comunità, non tanto per difenderla da presunte ingerenze esterne, o per riaffermare la propria supremazia sulle corti limitrofe, o per resuscitare antiche velleità comunali, quanto invece per mantenere un livello di violenza accettabile entro dei circuiti locali e circoscritti12. Di qui, la presenza contemporanea di due poteri: uno, eminentemente arbitrale, a cui il corpo sociale urbano delega la conciliatura di tensioni non altrimenti solvibili; l'altro, sostanzialmente punitivo, che si estende a chi, in quanto straniero, importa dall'esterno conflitti nuovi e sconosciuti, non controllabili mediante meccanismi sociali collaudati.
Ovviamente non bisogna pensare a questa duplicità di poteri come a un meccanismo regolato e istituzionale: essa invece va iscritta nelle coordinate di una precisa configurazione13 che richiama in gioco altre variabili. I giudici chieresi che poterono esercitarla si trovarono infatti ad agire in una congiuntura nella quale i processi di incapsulamento avviati dai nascente stato sabaudo erano appena agli inizi, l'espansione della città sotto il profilo demografico e commerciale garantiva ai gruppi sociali delle possibilità di mobilità verticale, e le tensioni che nei primi anni sessanta avevano violentemente scosso il quadro religio-
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so-politico erano state disgregate e disperse14. In seguito, a mano a mano che lo stato avrà soffocato la pluralità della violenza, avocandone a sé il monopolio, e avrà eroso i privilegi giurisdizionali della comunità, i giudici si vedranno inseriti in un contesto tutt'affatto differente, dove, elemento particolarmente sintomatico, saranno i criminali stessi ad aver mutato la loro natura e il loro rapporto con la giustizia.
Non stupisce allora il ricorso generalizzato a una forma di condanna come la multa pecuniaria, né la mitezza che sembra percorrere tutte le fasi del processo: ambedue sono intimamente connesse con l'esercizio di un potere arbitrale che regola e sancisce, anziché punire. E quando invece sceglie di castigare, lo fa per non dover fronteggiare tensioni di tipo nuovo, o perché, come nel caso dei criminali incalliti, si trova alle prese con dei conflitti che non è stato in grado di conciliare in passato. I gruppi sociali chieresi paiono dunque aver delegato alla loro istituzione giudiziaria ima funzione prevalentemente compromissoria, e non a caso limitavano il mandato del vicario e quello dei giudici a un solo anno, operandone la scelta sempre e soltanto fra candidati esterni alla comunità. Così, anziché esserne inquisiti, essi ricorrevano alla giustizia usandola come una vera e propria risorsa politica, in quel gioco di scambi di accuse che la letteratura antropologica ha chiaramente messo in luce15. La stessa multa pecuniaria, epilogo di molte delle querele sporte, finiva col rappresentare una minaccia densa di conseguenze sociali: pagarla, poteva infatti significare per il reo il ricorso all'indebitamento, o la vendita di terre, o una accentuazione delle forme di autoconsumo. In un circuito monetario rarefatto, essa avrebbe comunque comportato una correzione o un mutamento delle strategie di sopravvivenza, risultando alla fin fine molto meno indolore di altre pene quali il carcere.
In un contesto, come questo, caratterizzato da conflitti di mobilità, da una pluralità di fonti della violenza e da un funzionamento arbitrale della giustizia, l'analisi di network può costituire un utile strumento per comprendere la vischiosità di processi giudiziari stereotipi, come comunque sembrano quelli ricorrenti in tutto l'Ancien regime. Ma si vuole proporre anche quale metodo più generale di intepretazione dei fatti criminali e di decodificazione di gran parte delle fonti in cui questi han lasciato traccia. Se si individuano le peculiari forme di conflitto che si celano alla base di rapporti interpersonali sfociati nella violenza, e si tiene conto delle precise configurazioni di potere in cui esse
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sono inserite, l’eccezionale, che nei documenti presenta spesso raggravante del suggestivo, può ridiventare normale e svelare atteggiamenti, comportamenti, strategie. Porre il crimine al centro di una serie di relazioni e inserirlo nelle realtà del potere stesso e delle sue risorse permetterà allora di dare ima risposta, forse più soddisfacente, al problema della violenza e delle sue rappresentazioni. Diversamente si continuerà a rimanere intrappolati in interpretazioni descrittive, finalistiche e tautologiche, che eludono la vera natura del problema16. Infatti avviare la conta dei reati e dei rei, o costruire tipologie onnicomprensive — una criminalità «tradizionale» in opposizione a una «moderna» —, significa obbedire solo a preoccupazioni tassonomiche, che tutt’al più finiscono col fornire impalcature rassicuranti: i normali da un lato, i devianti dall’altro. Quanti invece ricorrono a unità analitiche quali i «valori» o la «subcultura» continuano a riproporre modelli circolari, e ricadono a loro volta nelle secche della pura descrizione. Chi infine si spinge a spiegare il livello della violenza con parametri biologici e materiali non riesce a sottrarsi alla falsa equazione progresso=diminuzione della violenza stessa. Mediante questi approcci, la comprensione, dall'interno, dei meccanismi e delle modalità del «disordine» sociale non potrà essere mai raggiunta. L'analisi del contesto criminale per lo meno ci prova.
Luciano Allegra Università di Torino
NOTE AL TESTO
1 R. Gascon, Grand commerce et vie urbaine au XVIe siècle. Lyon et ses marchands, Paris-La Haye, Mouton, 1971, vi. I, p. 117; sull'industria tessile chierese, Statuti dell’arte del fustagno di Chieri, a cura di V. Balbiano D’Aramen-go, Deputazione Subalpina di Storia Patria, Torino 1966, con un’ampia introduzione di Anna Maria Nada Patrone. Si intende che questo breve tratteggio di Chieri assolve funzioni puramente introduttive.
2 Non è certo questa la sede per una rassegna. Basterà qui ricordare che, in gran parte delle ricerche dedicate al tema, si è finito col definire questo «modello di criminalità» come «tradizionale».
3 Non si tratta soltanto di persone di pari livello nella piramide sociale; vanno inclusi anche quanti ritengono che vi sia uno scarto tra il loro status effettivo e quello loro attribuito nei rapporti interpersonali.
4 M. Gluckman, Potere, diritto e rituale nelle società tribali, Torino, Borin-ghieri, 1977, p. 268.
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5 J. Davis, Antropologia delle società mediterranee, Torino, Rosemberg & Sellier, 1980, pp. 107-08.
6 Un’analisi esemplare di questa interrelazione è in AA. W., Albioni Fatai Tree. Crime and Society in Eighteenth-century England, Harmondsworth, Penguin, 1977.
7 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976.
8 Le sentenze purtroppo non si trovano in calce ai processi: queste sono tutte quelle che sono riuscito a rintracciare.
9 In più del 10% delle cause, sono tratte in giudizio persone «straniere», abitanti in altre comunità o di passaggio a Chieri.
10 A questo proposito va osservato che la multa pecuniaria non è affatto simbolica, ma di regola corrisponde a un esborso che in taluni casi può risultare molto gravoso. Inoltre essa viene effettivamente pagata, cosa che, come si vedrà in seguito, ha notevoli implicazioni sociali. Una conferma della diffusione di questa pena nella procedura del tempo è in G.S. Pene Vidari, Sulla criminalità e sui banni del comune di Ivrea nei primi anni della dominazione sabauda (1313-1347), in «Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino», LXVIII (1970), pp. 157-211. Sulla gradazione del castigo cfr. Statuti criminali del comune di Chieri nel 1362, a cura di F. Cognasso, in Monumenta Historiae Patriae, XX, Leges Municipales, t. IV, Torino, Mardersteig, 1955, pp. 277-362.
11 Archivio Comunale di Chieri, art. 114, par. 1, voi. 46, 1570-71, ff. n.n.
12 Si intende che tale mantenimento non è un controllo sui conflitti, ma semplicemente un contenimento entro un'oscillazione «consuetudinaria».
13 Uso la nozione di configurazione nell’accezione di Norbert Elias: un insieme di relazioni fra diversi tipi di persone, dove i modelli di interdipendenza tra individui e gruppi di individui vanno considerati nel loro continuo mutamento. Due applicazioni esemplari di questo concetto a situazioni di criminalità: A. Blok, The Mafia of a Sicilian Village, 1860-1960, New York-Hagerstown-San Francisco-London, Harper & Row, 1975; E.P. Thompson, Whigs and Hunters. The Origin of thè Black Act, Harmondsworth, Penguin, 1977.
14 In questa sede basterà accennare al fatto che il nascente stato sabaudo imporrà a Chieri lo scioglimento della «Società popolare di san Giorgio», sorta di aggregato politico nato per controbilanciare le associazioni nobiliari, e vieterà il culto riformato che era molto diffuso nella città.
15 Per tutti, La stregoneria. Confessioni e accuse, neU’analisi di storici e antropologi, a cura di M. Douglas, Torino, Einaudi, 1980.
16 Riprendo parte di queste critiche da A. Blok, *Selbsthilfe» and thè Monopoly of Violence, in Human Figurations. Essays for Norbert Elias, Amsterdam, Amsterdams Sociologisch Tijdschrift, 1977, pp. 179-189 (cfr. in particolare p. 179).