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Title
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IL PATRONAGE NELLA STORIA DELLE DONNE
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Creator
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Alain Boureau
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L. Ferrante
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M. Palazzi
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G. Pomata
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Monica Turi
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Edoardo Grendi
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Sofia Boesch Gajano
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Date Issued
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1989-12-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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24
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issue
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72 (3)
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page start
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919
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page end
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937
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Storia della follia nell'età classica. Italy: Rizzoli, 1963.
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Rights
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Quaderni storici © 1989 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230920171735/https://www.jstor.org/stable/43778158?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxNSwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjM1MH19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A27fc9956fc4ee220ad0e9c30f3594959
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Subject
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confinement
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discipline
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biopower
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exclusion (of individuals and groups)
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extracted text
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IL PATRONAGE NELLA STORIA DELLE DONNE *
J **
La storia delle donne, così come si sviluppa da una ventina d'anni, presenta lo straordinario interesse di offrire ai nostri occhi il processo di costituzione di una nuova disciplina; l'occasione è rara, poiché la maggior parte delle innovazioni storiografiche del nostro tempo si verificano più per rettifiche e lievi inflessioni che per creazioni ex nihilo. Ragnatele di rapporti ne offre un esempio straordinario e appassionante, costruendo la nozione inedita - in questo contesto - di patronage/matronage, di cui Lucia Ferrante, Maura Palazzi e Gianna Pomata illustrano la portata e le implicazioni nella loro fondamentale introduzione.
Secondo l'articolo ormai classico di Joan Scott, Gender: A Useful Category of Historical Analysis \ la storia delle donne, se vuole andare al di là di una descrizione empirica di «oggetti femminili», si trova all'incrocio di due vie: la prima definisce l'essere storico del femminile attraverso strutture pregnanti e mascherate di realtà (essenzialmente il patriarcato, quadro permanente della dominazione maschile, collegato più o meno nettamente a strutture di classe o a modalità dell'inconscio). Joan Scott rimprovera a questa prima tendenza di fissare in maniera astorica una opposizione binaria che di volta in volta muterebbe soltanto i differenti rivestimenti; preferisce invece una seconda via che descrive il femminile come elemento storico di percezione e di rappresentazione sociale, che rafforza simboli, norme, politiche, identità soggettive, inducendo a metafore generali del potere.
La profonda originalità di Ragnatele di rapporti consiste nella
* Ragnatele di rapporti: patronage e reti di relazione nella storia delle donne, a cura di L. Ferrante, M. Palazzi e G. Pomata, Torino 1988.
* * Traduzione dal francese di Monica Turi.
QUADERNI STORICI 72 / a. XXIV, n. 3, dicembre 1989
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Alain Boureau
proposta di rintracciare il femminile nell'ambito di una forma sociale ambivalente, il patronage, che costituisce nello stesso tempo un sistema permanente di potere, un oggetto empirico variabile ed una rappresentazione del ruolo femminile. Per questo la ricchissima gamma dei contributi si dispiega su un ampio arco, tra il realismo delle strutture e il formalismo delle rappresentazioni. Da un capitolo all'altro, l'opera mette realmente in questione la propria materia. La ripartizione degli articoli in tre parti traduce bene questa molteplicità di oggetti e di risultati: il patronage, questo misto di verticalità e di orizzontalità, viene considerato nell'ambito della carità (verticalità etico-sociale), della devozione (verticalità religiosa) e della solidarietà (orizzontalità sociale). In questo quadro così vasto e differenziato, la questione della specificità femminile, designata problematicamente dal termine di «matronage», può essere impostata con chiarezza. Distingueremo quattro interpretazioni possibili del patronage in termini di dominio:
1) il patronage è una specie del genere potere, senza altra determinazione maschile o femminile se non quella che regola l'insieme di una società. Un micropotere ufficioso, che abbrevia e concentra gli scambi di prestazione. La relazione del dominus verso i suoi clientes, del deputato verso i suoi elettori, del barone universitario verso i suoi discepoli o protetti, illustra in modo molto semplice questo tipo di patronage: il servizio reso è nello stesso tempo una concessione ed una dimostrazione di potere. Nel volume, il saggio di Angiolina Arru illustra questo tipo di patronage: le serve del XIX secolo offrono i propri servizi in cambio di una legittimazione ed una tutela che sole consentono l'immigrazione urbana delle giovani donne. La femminilizzazione del mestiere di domestica nel corso del XIX secolo dipende proprio dal fatto che l'uomo non ha bisogno di tale garanzia urbana e sociale e può quindi rivolgersi ad altre attività. Ma nello stesso tempo l'aspetto di patronage, individuabile nell'uso frequente di non remunerare le serve (contrariamente a quanto accade per i domestici maschi), riguarda strettamente la relazione di potere che passa attraverso il mestiere. Se guardiamo invece alle donne che subiscono il patronage, i comportamenti non sembrano avere alcuna specificità sessuale, come dimostra Marina D'Amelia studiando la conquista di una dote a Roma nel XVII e XVIII secolo nell'ambito delle relazioni di patronage della confraternita del-l'Annunziata: le donne gestiscono la propria dote, o la loro possibilità di dote, nello stesso modo in cui gli uomini gestiscono un
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capitale oppure una competenza tecnica; la protetta - o le protette - gioca d'astuzia con i doni concessi o promessi, così come qualsiasi cliente gioca sull'influenza del patrono. Marina D'Amelia tenta di superare questa parvenza di neutralità funzionale, dimostrando che queste tattiche di clienti si integrano, orizzontalmente, con una solidarietà sottolineata dalla cessione di doti da una cliente all'altra, finalizzata alla costituzione di doti più consistenti a partire da frammenti troppo esigui. Anche Maura Palazzi e Margherita Pelaja individuano reti di solidarietà femminile, luna nelle modalità di coabitazione tra donne a Bologna alla fine del XVII secolo, l'altra attraverso il matrinato di bambini illegittimi a Roma nel XVIII secolo. Si può notare tuttavia che tale solidarietà non fa che sostituirsi al sostegno familiare della parte maritale assente. La solitudine bolognese ha come palliativo la residenza per le donne e il lavoro per gli uomini: anche qui, la differenziazione sessuale non fa che riprodurre la ripartizione generale dei ruoli sociali.
Incontriamo qui uno dei temi centrali di una certa versione della storia delle donne, ruotante attorno al concetto di «sorellanza»; spinta all'estremo (ma non è il caso di questi saggi) questa tendenza oppone, in tutti i tempi, una violenza ed una competizione maschili ad una solidarietà tipicamente femminile, derivante sia da un proprio modo d'essere, sia da una coscienza confusa, ma efficace, della necessità di offrire un fronte comune all'oppressione maschile. Paola Di Cori confuta questa tesi fondandosi sull'analisi della criminalità femminile a Roma all'inizio del XIX secolo, ma soprattutto fornisce una spiegazione estremamente interessante del mito della sorellanza femminile: il femminismo americano ha avuto come culla i «colleges» femminili degli Stati Uniti, dove si attua nello stesso tempo la separazione dalla famiglia, la convivenza femminile (almeno fino ad anni recenti) e l'accesso alla conoscenza e all'analisi. L'importanza duratura dell'esperienza di collegio e l'esistenza di archivi specifici relativi a queste istituzioni privilegiate hanno permesso il determinarsi di una solida visione dei felici progressi della liberazione femminista. Tale critica non implica la rinuncia allo studio storico delle forme di solidarietà sessuale, a condizione però di non trasformare il fenomeno in principio generale, e di porlo in rapporto a contesti precisi e in comparazione con le forme equivalenti della parte maschile (Jacques Revel, qualche anno fa sottolineava su «Quaderni Storici» questa necessità di legare l'analisi dei ruoli femminili e maschili) 2. Si pensi, per esempio, allo stu-
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dio di Klaus Theweleit sul ruolo delle associazioni maschili nell’avvento del nazismo 3.
La stabilità di questa forma «neutra» o almeno solo secondariamente sessuata di patronage non sfugge pertanto alla storicità e dispiace che Ragnatele di rapporti si soffermi soltanto sull’epoca moderna (ad eccezione dei contributi di Christiane Klapisch Zu-ber e di Anna Benvenuti Papi): sarebbe necessario considerare i rapporti feudali, nella loro dimensione di patronage generalizzato, in relazione con il maschile e il femminile, al di là delle considerazioni stereotipate sulla misoginia medievale.
2) Si può considerare una forma specificatamente femminile di patronage (o almeno un esercizio propriamente femminile di patronage): si tratta allora di una specie di delega minore del potere, che riporta sulla relazione di dominio il dislivello sociale tra uomini e donne. Anche qui abbiamo a che fare con una forma storicamente stabile, anche se particolarmente esplicita nell’esercizio della carità, così come l’ha costruita il cristianesimo. Si noterà la sua attualità, al di là di tutti gli aspetti religiosi: nel 1989, praticamente tutte le mogli di capi di stato o di governo gestiscono fondazioni caritative (colorate di terzomondismo quando si tratta di capi di stato di sinistra), mentre sembra viceversa incongruo che il marito di una donna attiva in politica si occupi di tali istituzioni. Il patronato femminile costituisce allora un complemento del potere sociale e/o politico. Ida Fazio, analizzando le funzioni sociali dell’azione caritativa della «Signora dell’oro», Caterina Principato e Castronovo, in Sicilia alla fine del XVII secolo e all’inizio del XVIII, dimostra che la sua eroina completa la rete di potere della famiglia del marito. In ambito religioso, troviamo l’equivalente di questa funzione sussidiaria: la santità femminile toscana studiata da Anna Benvenuti Papi tende al rafforzamento delle coesioni locali e civiche; ugualmente, nel XVI secolo, il prestigio religioso di Caterina de’ Ricci (articolo di Anna Scattigno) si pone al servizio della borghesia fiorentina, nostalgica dell’epoca di Savonarola per ostilità ai Medici; e il carisma epistolario di Caterina passa attraverso una gestione maschile.
Complessivamente, il patronage femminile «complementare» si colloca in una cronologia generale dei rapporti di potere. Montserrat Carbonnell, a proposito della Maison de Miséricorde di Barcellona dimostra come l’assistenza femminile ai poveri giochi un ruolo di transizione: l’istituzione si femminilizza nel XVII secolo, prima di lasciare il posto ad una professionalizza-
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zione prevalentemente maschile all'inizio del XIX secolo, momento che sembra coincidere col «grand renfermement» di cui parla Michel Foucault. Angela Groppi individua lo stesso fenomeno a Roma con un'analoga periodizzazione: ma qui il ricambio sembra garantito prevalentemente da alcune congregazioni religiose maschili.
Anche all'interno di questa sfera cronologicamente delimitata, l'autonomia del patronage femminile sembra debole: Lucia Ferrante descrive, nell'ambito delle congregazioni di carità bolognesi del XVII secolo, una distribuzione ineguale delle attività: gli uomini detengono il potere finanziario e decisionale, mentre le donne si occupano dell'informazione e della mediazione.
Questo tipo di patronage femminile allora non farebbe che riflettere una dominazione maschile, se non si rinvenissero a livello locale delle logiche capaci di sovvertire questo schema: Laura Guidi, a proposito dell'attività caritativa a Napoli nel XIX secolo, presenta il rapporto assistenziale come il luogo di una presa di coscienza che manda in cortocircuito l'ideologia dominante attraverso l'espediente di una metafora materna, mentre Annarita Buttafuoco dimostra che il movimento di emancipazione femminile alla fine del secolo scorso poteva passare solo attraverso il modello assistenziale, che in rapporto al movimento operaio equivarrebbe alla fase anarcosindacalista o prudhoniana di organizzazione. Anche qui, la nozione di patronage, malgrado la sua capacità descrittiva, non acquista molta autonomia in rapporto ai consueti sistemi di relazioni sociali; tuttavia bisogna considerare due altri tipi di patronage che indubbiamente giustificano meglio l'ipotesi del «matronage», in posizione di «supplemento», più che di «complemento», in rapporto alle reti di potere sociale. 3) Il cristianesimo ha contribuito a costruire un tipo di patronage che può essere classificato «ecclesiale», a condizione di non limitarne la portata alla semplice riproduzione dell'istituzione ecclesiastica, e di valutarne la possibile applicazione alle forme di patronage precedentemente ricordate. Si tratta in questo caso di un modello sicuramente ideologico, ma che si è strettamente mischiato ai modelli immanenti ed empirici del patronage classico. La Chiesa, in quanto comunità di fedeli e istituzione di gestione della salvezza, privilegia una metafora transitiva del patronage: ella stessa si vuole «serva» e «sposa» di Dio nell'offrire il manto della sua protezione tutelare ai fedeli. Città di Dio sulla terra, essa si presenta peraltro come la proiezione dell'asse verticale (la gerarchia assoluta di Dio creatore e Padre), sull'asse oriz-
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zontale della convivenza. L operazione si realizza a prezzo di un annullamento, di un rovesciamento o di una neutralizzazione delle gerarchie umane. La comunità ecclesiale ideale si realizza sulla neutralizzazione sessuale, privilegiando le vergini e le vedove, raccolte intorno a uomini continenti; insomma, questo patronage si costituisce attraverso una specie di androginato, femminile nella sembianza e maschile nella gestione. La forma «ecclesiale» di patronage ha svolto un ruolo considerevole nel Medioevo, anche se la realtà istituzionale della Chiesa è ricaduta nei modi classici della dominazione e del patronage: essa ha avuto la funzione di referente critico ed ha contribuito a giustificare la formazione di gruppi eterodossi o marginali, dove si è potuta avere una differente distribuzione dei ruoli sessuali. È sufficiente a questo proposito rievocare, come fa Edith Saurer, la credenza nella collusione tra donne e preti, diffusa fino al XIX secolo. Più in generale, la spinta antidinastica e antifamiliare del cristianesimo, così come è stata descritta da Jack Goody in un opera ormai classica4, intacca un anello essenziale della dominazione maschile. Lucetta Scaraffia, presentando la leggenda di santa Rita mette bene in evidenza come la santa, liberandosi dall'oppressione familiare e raggiungendo con un volo magico il luogo della sua comunità, assuma un ruolo positivamente analogo a quello della strega e del suo sabba. La strega, oppure la vecchia a cui fanno capo reti femminili di avvelenamento ai danni di mariti oppressori (oppure semplici ostacoli al desiderio di un nuovo matrimonio: vedere l'articolo di Giovanna Fiume), si trova an-ch'essa in questa posizione di neutralità sessuale, per condizione o per scelta, a fianco della vergine o della vedova.
Resta il fatto che questo patronage/matronage ecclesiale e/o sabbatico si presenta più come un supplemento virtuale che come un sistema alternativo. Edith Saurer, nell'esaminare i manuali di confessione, dimostra come in realtà il prete del XIX secolo assuma per delega posizioni maschili tradizionali. Prima della Riforma, prima dello stretto controllo del riferimento evangelico, le potenzialità di autonomia del sistema ecclesiale apparivano maggiori. Ma già nel XIV secolo la scelta dei nomi di battesimo a Firenze rivela che il consueto privilegio maschile prevale sulla neutralizzazione ecclesiale (articolo di Christiane Klapisch Zuber).
4) Il contatto locale tra Rita e la Sibilla (Lucetta Scaraffia) servirà da supporto per la designazione di un ultimo tipo di possibile patronage, che spinge agli estremi il ruolo ricoperto dalla santa
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o dalla vecchia. La figura dell'antica profetessa (Sibilla o Pitia), direttamente legittimata dalla divinità, senza mediazioni maschili e all'origine di una rete di accesso alla conoscenza, rovescia lo schema ecclesiale, mediante una supremazia del femminile anche nell’androginato. Ne ho segnalato un caso esemplare nel Medioevo, con la prepotente figura di Hildegarde de Bingen e del suo doppio maledetto, la Papessa Giovanna 5; certamente, la repressione clericale tende a sradicare tutte le forme possibili di matronage sibillino, come dimostra Marinella Romanello a proposito del caso di Marta Foscaris, profetessa di San Daniele nel XVI secolo. Ma bisognerebbe forse chiedersi se le grandi Ispirate dei salotti letterari o dei gruppi dottrinari, non abbiano attuato questo tipo di matronage in epoca moderna e con temporanea.
Il patronage/matronage appare insomma, nella sua ambivalenza strutturale, un ottimo strumento di indagine per quanto riguarda la costruzione dei ruoli sessuali, poiché permette di considerare delle forme maschili, femminili, miste o neutre, nell’ambito di una trasversalità che è il prodotto geometrico della combinazione di forze verticali di dominio o d'influenza con forze orizzontali di coesistenza e di solidarietà.
Rimane, tuttavia, un ultimo interrogativo provocato dalla storia delle donne nel suo insieme, considerata come storia sociale della differenza tra i sessi; questo interrogativo si coglie anche leggendo l'articolo di Michela De Giorgio sui modelli di comportamento legati alla questione del matrimonio in Italia alla fine del XIX secolo: nel momento in cui gli obblighi religiosi sul matrimonio si affievoliscono e in cui il matrimonio è trattato come problema sociale, la differenza tra donna sposata e donna nubile mantiene tutta la sua pertinenza, probabilmente in termini di sessualità. La figura centrale della «zitella» traccia un confine che non è più esclusivamente sociale, ma che è propriamente sessuale, nel senso stretto della parola.
Ora, la sessualità, presa in se stessa, sembra curiosamente assente dalla storia delle donne, anche nelle sue prime versioni che finivano per costituire una sfera femminile radicalmente indipendente dall'universo maschile, definendo il patriarcato come una risposta socio-politica all'invidiato privilegio della procreazione; la sessualità in se stessa non interveniva che come aspetto particolare della «sorellanza». Certamente, lo storico recalcitra di fronte ad ogni pertinenza di ordine fisiologico o psico-fisiologico, sia perché non ne riconosce la realtà, sia perché non è di competenza del suo discorso. Tuttavia, queste pertinenze esisto-
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no, in concorrenza con le pertinenze propriamente storiche. Uno storico non può, per esempio, mettere tra parentesi il fatto che l'uomo sia mortale e lo sappia, anche se questa «natura» subisce delle modificazioni culturali (allungamento della speranza di vita, credenza in un’altra vita etc.). La differenza tra i regimi sessuali maschili e femminili è stata raramente espressa in termini diretti ed espliciti, se non nel mito greco di Tiresia: Tiresia, un giorno, vide due serpenti che si stavano accoppiando; egli li separò e divenne istantaneamente donna. Sette anni più tardi, vide un altro accoppiamento di serpenti e nel ripetere il suo gesto ritrovò la sua natura maschile. Queste metamorfosi lo resero famoso; Zeus ed Hera fecero appello a lui in occasione della disputa che li vedeva su posizioni contrapposte: chi provava il godimento maggiore, l’uomo o la donna? Tiresia soltanto era in grado di testimoniare. Lo fece senza esitare dicendo che se si divideva il piacere sessuale in dieci parti, la donna ne avrebbe avute nove. Hera, furiosa per questa rivelazione, lo punì con la cecità; Zeus invece gli accordò in compenso il dono della profezia e la longevità. Sarebbe evidentemente un azzardo rischiare una analisi quantitativa al modo di Tiresia, ma sembra certo che l’uomo abbia sempre percepito la propria sessualità come fragile, debole e sensibile con il declino dell’età. Si immagina abbastanza facilmente come questo fatto «naturale» (o fortemente percepito come «naturale») abbia potuto modellarsi secondo le determinazioni storiche della fisiologia umana e secondo le trasformazioni delle pratiche sessuali, ma la costante astorica permane, tanto forte quanto quella della mortalità; si potrebbe immaginare una storia della differenza sessuale che colloca questa costante al centro della sua indagine, per misurarne gli effetti nelle ostentazioni, nelle trasposizioni, nelle ritorsioni a cui essa storicamente può indurre.
Un’opera letteraria capitale, Les liaisons dangereuses di Cho-derlos de Laclos (1782), ci servirà da illustrazione allegorica di come il patronage/matronage sia in relazione con questa «costante» propriamente sessuale. I due protagonisti, il visconte di Val-mont e la marchesa di Merteuil, ugualmente e egualitariamente libertini, pretendono di annullare gli effetti naturali e culturali della differenza sessuale, reprimendo i sentimenti e i pregiudizi a vantaggio di un dominio razionale e calcolato dei piaceri. Se la prendono dunque col patronage, che pretende di separare e differenziare i due sessi a favore della dominazione sociale maschile; si tratta così di far sedurre da Valmont la giovane Cécile Volan-
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ges, uscita dal convento per soddisfare all’esigenza di una sposa verginale da parte di Gercourt, di cui Valmont e Merteuil devono vendicarsi; Valmont intende anche sedurre la Presidentessa di Tourvel, completamente assorta nella sua devozione caritativa; la scena di seduzione, che porterà al successo, poggia precisamente su di un sovvertimento del patronage: Valcourt, per dissipare i pregiudizi provocati dalla sua reputazione di seduttore, approfitta della virtuosa sorveglianza di madame de Tourvel per fingere di esercitare una sincera carità nei confronti dei poveri. Valmont e Merteuil mirano ad un nuovo tipo di patronage, fondato sull'iniziazione alla libertà sessuale: «mi sembra che in questa missione d'amore voi abbiate fatto più proseliti di me. [...] e se quel Dio lassù ci giudicasse in base alle nostre opere, voi sareste certo un giorno patrona di una qualche grande città, mentre il vostro amico sarà tutt'al più un santo di paese» 6. Ma l’intesa tra i due libertini, in questo nuovo patronato, si spezza e si trasforma in «guerra» allorché Valmont si affeziona alla Presidentessa, pur organizzando una rottura che non può soddisfare la marchesa di Mereuil: le successive sincerità di Valmont, immagine di una inquieta sessualità di conquista, non possono aver senso nel patronage libertino, dove la serena permanenza di un desiderio superiore può inglobare e sussumere soltanto iniziazioni. Laclos, femminista sincero, autore di un’opera suìVEducation des femmes (1785), ma anche di un trattato De la guerre et de la paix, sembra nello stesso tempo pronunciarsi per la necessità di forme sociali di contestazione del dominio maschile (il patronage razionale contro i patronages oppressivi) ma anche per l’ineluttabilità strutturante della differenza sessuale.
Alain Boureau
NOTE AL TESTO
1 In «American Historical Review», 91 (1986), n. 5, pp. 1053-1095.
2 Maschile/femminile: tra sessualità e ruoli sociali, in «Quaderni Storici», 59 (1985), pp. 575-603.
3 K. Theweleit, Mànner Phantasien, Frankfurt a. M. 1977.
4 J. Goody, The Development of thè Family and Marriage in Europe, Cambridge 1983.
5 A. Boureau, La papesse Jeanne, Paris 1988, pp. 213-20.
6 P.A.F. Choderlos de Laclos, Les Liaisons Dangereuses, Lettre IV (ed. Livre de Poche, Paris 1952, p. 31).
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Beninteso, un Convegno è sempre una scommessa: nel senso che non necessariamente le relazioni sposano l'indicazione tematica. Vien da pensare infatti che la proposta di porre problematicamente al centro dell'attenzione lo schema del patronage come categoria per l'analisi storica dei rapporti fra i sessi avrebbe dovuto indurre le studiose a concentrare l'attenzione su questi stessi rapporti. Ma questo accade solo parzialmente. «Ci saremmo aspettate - scrivono le curatrici - che l’attenzione si concentrasse prevalentemente sulle donne nel ruolo di clienti, in quanto parte debole del rapporto. In realtà, molti dei saggi qui presentati mettono a fuoco le donne non tanto come clienti ma come patrone...» E, concludendo: «Quel che ci occorre è la ricostruzione e decifrazione minuziosa di quelle ragnatele di rapporti e di simboli che le donne hanno tessuto per esprimere, nel linguaggio esplicito delle parole ma anche in quello implicito dei rituali, il loro senso di sé e del proprio mondo di relazioni» 2. Ed è proprio questa opzione culturale che ispira i saggi qui raccolti e questo forse ci preserva da un eventuale appesantimento ideologico, affiorante soltanto nell'intervento, dal piglio più sistemico, della Carbonell. Rimane comunque indubbio che la questione suggerita come cruciale non è stata affrontata, sviscerata, sia pure illustrativamente, nei piani diversi di una relazione di potere complessa.
In ogni caso il tema del patronage scandisce le tre sezioni del convegno: rapporti di carità, culto dei santi, solidarietà nelle reti di relazione femminili. Che la carità debba essere analizzata come struttura politica è ormai assioma generalmente accettato, così come il fatto che essa sia locus classicus per l’esame del patronage: del tutto legittimo, mi pare, che il tema del genere ne costituisca un approccio-chiave. Chi governa l’istituto, chi esercita l’assistenza, chi la riceve. È logico così che si riscopra un ruolo femminile prevalente nelle situazioni di potere informali: mediazione e carità privata (donde l’aggancio fra filantropismo ed emancipazionismo).
Mi pare ovvio che l’ascesa al governo ufficiale degli istituti di alcune gentildonne costituisca un riconoscimento sociale al prestigio delle famiglie dei mariti: Lucia Ferrante articola e affina questo discorso. Ma era necessario quantificare?
Per altro verso, gli studi descrittivi della carità urbana ottocentesca (Groppi, Guidi) soffrono di una certa genericità, in assenza di una specificità di problemi. Proprio perché la situazione
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di potere è una situazione di ampia contestualità, mi viene naturale prediligere i lavori che sviluppano tale contestualità illustrativamente, nella concretezza del caso. Come fa Ida Fazio nel suo studio sull'ascesa della «signora dell'oro» di Capizzi, donna Caterina Principato, appartenente a una famiglia del quartiere sconfitto, che sposa un Russo del quartiere vittorioso e, disponendo di risorse economiche e politiche, fonda il locale Collegio di Maria. La carità come risorsa della concorrenza politica 3 e come strumento di un potere sociale familiare che si struttura e si ramifica. L'altra componente dell'analisi concreta, quella relativa al comportamento degli assistiti e alla loro selezione è perlopiù risolta dalle autrici in chiave normativo-descrittiva: soluzioni più felici si ritrovano nella terza sezione 4.
Ma anche la seconda sezione, sulla santità, si occupa soprattutto di patrone, più che di patronage. L'eccezione è il breve saggio di C. Klapisch dove il processo di denominazione è ricondotto nella Firenze tardo medievale, in piena rivoluzione antroponimica, alle ragioni di una fondamentale asimmetria sessuale: raramente le figlie sono poste sotto la protezione di una santa (che le denomina), si mantengono i nomi germanici, si ricorre alle forme diminutive, femminilizzando addirittura i nomi maschili.
Se Edith Saurer, discutendo la tesi di una femminilizzazione della chiesa nel primo Ottocento, nega al rapporto prete-donna penitente gli elementi di reciprocità essenziali allo schema del patronage, l'assunto di uno studio del patronage femminile mi pare assente nello studio su Marta Fiascaris (Romanello) e di fatto disperso nella generale categoria della devozione nel saggio di L. Scaraffia su Rita da Cascia. Qui in effetti il tema della polise-manticità della vicenda di S. Rita, ritmata sulle tre scansioni cronologiche del tardo Quattrocento e dei processi di canonizzazione del 1626 e del 1897, è risolto in chiave puramente politicosimbolica: la ragione del successo culturale affidata alle ambiguità della biografia-simbolo, di una Rita protettrice-patrona ma anche sorella di sventura, assommandosi e giustapponendosi contestualità diverse. Solo la Scattigno, sulla base della corrispondenza di Caterina de' Ricci, ne esplora l'influenza operativa. Sicché si può dire che l'unilateralismo, già presente nella prima sezione, risulta ulteriormente accentuato.
Si esce decisamente da questa prospettiva, che è poi quella della storia del protagonismo femminile, con il bel saggio di Marina D'Amelia che apre la terza sezione e che sceglie decisamente una prospettiva «dal basso», facendo oggetto della propria atten-
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zione la «costante attivizzazione e continua apprensione per ottenere una dote che caratterizza i comportamenti di alcune donne attorno a confraternite e corporazioni in numerose città» 5. La disponibilità di memoriali che illustrano i casi delle petizionanti alla confraternita dell’Annunziata di Roma, consente all’autrice di mettere in risalto caratteristici comportamenti solidaristici e di chiarire pratiche sociali femminili che mirano solitamente a sommare più dotazioni dotali. Sicché è felicemente documentato lo scarto fra statuto ed esperienza. Naturalmente il cumulo dotale è posto in rapporto «all’attivizzazione di specifiche reti di patronage» e quindi a un uso discrezionale delle assegnazioni: anche se, col procedere del Settecento, l’esperienza delle applicanti si carica di contenuti sempre più ansiogeni in relazione al crescente disciplinamento e al restringimento della risorsa.
In assenza di un repertorio di storie-caso, Margherita Pelaja ricorre, nel suo studio sulla illegittimità nell’800 romano, a un incrocio di fonti demografiche (registri di battesimo e stati delle anime) e soprattutto alle rilevazioni sistematiche del comparaggio per documentare la relativa solitudine e gli apporti di solidarietà orizzontali al battesimo dell’illegittimo, e presumibilmente in occasione del parto. Più difficile inquadrare gli studi della Palazzi, sulla distribuzione dei «ménages» femminili nella Bologna tardo-settecentesca, e della Arni sulla femminilizzazione del servizio nella Roma ottocentesca, ricondotta alla diffusione di uno status di «patronage domestico»: ove tuttavia l’accento forte è posto sulla trasformazione diacronica del mestiere e sulla radicale diversità delle esperienze di servi e serve.
È invece curioso che la fonte criminale sia stata poco battuta: di fatto solo da Giovanna Fiume nel documentare l'intreccio delle solidarietà femminili nell’esecuzione di «un sordido macello dei mariti» palermitano6.
Non c'è dubbio che la riscoperta degli spazi d'autonomia femminile sia il motivo ispiratore della maggior parte dei saggi; meno convincente mi sembra invece l'opzione dominante per le donne al comando, cioè per le donne-patrone: ciò che sembra contraddire l’assunto della marginalità femminile. Non è un caso, credo, che sia stato sistematicamente trascurato il campo dei rapporti familiari, e cioè il cuore, reale e simbolico, del rapporto di patronage. Se i «generi» vanno invece percepiti «collettivamente», l'esame analitico della struttura dei loro rapporti storici implicherebbe un’indagine, sia pure per il lustrazioni, sulle dimensioni giuridiche, politiche ed economiche che il volume tra-
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scura sistematicamente: un impianto analitico-problematico di questo tipo non affiora quasi mai. Come si può porre al centro dell attenzione un problema di rapporti di potere fra i generi, e poi trascurare questi campi di analisi? Non soffre questo progetto di storia delle donne di un certo eccesso di privatismo, di un respiro troppo corto?
Edoardo Grendi
Università di Genova
NOTE AL TESTO
1 Ragnatele di rapporti, pp. 43-44.
2 Ibid., p. 47.
3 II saggio esemplare in questo senso rimane quello di S. Cavallo, Strategie politiche e familiari intorno al baliatico. Il monopolio dei bambini abbandonati nel Cana-vese tra Sei e Settecento, in «Quaderni Storici», 53 (1983), pp. 391-420.
4 Ida Fazio ha sviluppato questo scritto in La Signora dell’oro, Palermo 1987.
5 Ragnatele di rapporti, p. 306.
6 II tema è stato ripreso e sviluppato in «Quaderni Storici», 66 (1987). Sulle fonti criminali ha lavorato Paola di Cori, della quale è stampata nel volume una curiosa «confessione».
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Assente dal titolo, il potere è al centro del convegno, organizzato nel novembre 1986 dal Centro di documentazione delle donne di Bologna, e ora del volume che di quel convegno è frutto: Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di relazioni nella storia delle donne, curato da Lucia Ferrante, Maura Palazzi e Gianna Pomata. Un problema quello del potere che, è ben noto, si è andato riproponendo con una sempre maggiore articolazione nella recente storiografia, ma che viene qui rielaborato e riproblematizzato, attraverso una riflessione che mette certamente a frutto la ricca e variegata esperienza femminile e femminista, con i suoi peculiari intrecci tra dimensione personale e politica. Non è impossibile ipotizzare che una esperienza come quella dell'autocoscienza possa essere stata determinante nella scomposizione delle forme e relazioni di potere, nel rifiuto di ogni semplificazione nella analisi dei rapporti tra i sessi, nella società e nella cultura, che appare rapporto scientificamente più rilevante del volume.
Se la storiografia dominante - in modo particolare la storia politica cui tradizionalmente è riservato il tema del potere - ha
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ignorato il rapporto tra i sessi, la storia delle donne ha ormai da tempo contrapposto ^importanza della categoria di «identità sessuale» e l'urgenza di «collegare il problema del potere con quello dell'identità di genere», superando anche «la proposta foucaul-tiana di scomporre la dimensione macroscopica del dominio nella microanalisi di poteri e contropoteri [...] per esplorare quell'aspetto dei rapporti di potere che è fatto di scambio, interdipendenza, condizionamento reciproco, complementarità [...] particolarmente rilevante nel caso dei legami sociali fra donne e uomini, legami in cui la dimensione della contrapposizione frontale o dell’oppressione non mediata né velata sembra eccezionale rispetto a una quotidianità fatta invece di dipendenza reciproca, complicità ambigua, complementarietà (pur nella subordinazione)» (Introduzione, p. 9). Di qui l’uso della categoria di patronage, per indicare appunto non un rapporto di dominio, ma «una relazione di scambio, seppure ineguale, tra due soggetti parimenti attivi» (Introduzione, p. 10). Una categoria usata 'strumentalmente’, sia pure richiamando le implicazioni linguistiche e storico-giuridiche, per la sua capacità di evocare aspetti di «vischiosità e ambiguità» e ancora - a riprova del valore delle esperienze di cui parlavo - di emotività: «la natura più paradossale del rapporto cliente/patrono è la presenza di un legame affettivo, fatto di fedeltà, gratitudine, attaccamento reciproco. Per noi che siamo profondamente legate all’idea di eguaglianza, per noi che crediamo che i sentimenti umani più positivi, come l’amicizia e l’amore, siano genuinamente possibili solo fra eguali (o almeno non in presenza di forti squilibri di potere) questo è forse l’aspetto più inquietante del rapporto di patronage: il fatto cioè che il legame fra cliente e patrono possa essere vissuto con una intensità affettiva che raggiunge in taluni casi la devozione» (Introduzione, p. 11). Metterei la presenza e l’insistenza sui sentimenti - i più vari - tra gli apporti storiograficamente più significativi del volume nel suo complesso, con un segno particolarmente incisivo lasciato dai saggi di Giovanna Fiume, Angela Groppi, Paola di Cori.
Rapporti di carità, culto dei santi, reti di relazioni femminili, sono i tre ambiti di ricerca proposti e le tre sezioni in cui sono raccolti i saggi. I quali tutti, va detto, fuoriescono dall’ottica della 'verifica’ arricchendo con varietà di fonti, temi, problemi, ipotesi la proposta stessa. Intendo con questo - faccio solo alcuni esempi - la capacità di instaurare un nuovo rapporto con la storia delle istituzioni, considerate anche nella loro fisicità fatta di
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spazi e confini, reali e simbolici, mutevoli nel tempo (Montserrat Carbonell), e nella loro polivalenza fatta di interessi e strategie, sociali e religiose, orizzontali e verticali (Ida Fazio, Marina D’Amelia, Lucia Ferrante); con la storia dell’istruzione e dei modelli educativi (Ida Fazio, Laura Guidi, Annarita Buttafuoco); di affermare definitivamente la necessità metodologica e storiografica dell’intreccio tra storia di genere e storia sociale (Angiolina Ami, Maura Palazzi, Margherita Pelaja, Michela De Giorgio); di offrire suggerimenti per una nuova dimensione della biografia femminile (Laura Guidi, Anna Scattigno, Giovanna Fiume).
Non sembrerà strano che una medioevalista e agiografa pensi che nella proposta generale il rapporto tra santità e patronage possa godere di una sorta di diritto di primogenitura, la definizione del santo come patronus essendo «costitutiva e centrale nelle origini stesse del culto dei santi» (Introduzione, p. 23), come aveva già dimostrato in anni ormai lontani la ricerca pionieristica e ormai classica di Alba Orselli e come Peter Brown ha descritto nel suo affascinante affresco della società tardo antica. Ancora centrale nel suo sviluppo altomedioevale e medioevale, qui ben delineato da Anna Benvenuti Papi: «Giocato, come la definizione classica del feudalesimo, intorno a tre termini, commendati), patrocinimi e tuitio, tutto il significato della delega patronale ai santi era definitivamente fissato intorno al VII secolo e queste caratteristiche, omologate dalla validità e continuità lessicale dei termini giuridici, sarebbero giunte fino ai secoli bassi dell'età di mezzo, quando il frammentarsi delle richieste di patrocinio in ambienti più eterogenei avrebbe creato tutta una serie di specificità patronali ed agiografiche ad essi rispondenti, esprimendo, come sistema di rappresentazione, i modelli culturali e religiosi dell’intera società» (p. 206).
Forte di questa ‘primogenitura’, ma ancor più confortata dalla centralità del rapporto donne/religione nella recente storiografia, (e molto aiutata dalle conversazioni con Angiolina Ami e Lucetta Scaraffia), prendo lo spunto dal culto dei santi per qualche riflessione su potere/patronage. Momento essenziale di esercizio del potere l’autocostruzione della santità: dominio sul corpo, e ancor più sui sentimenti, strutturazione di una personalità unitaria, per questo ‘forte’ e capace di resistere al ‘nemico’, il male, fisico, psichico o morale, la natura, gli uomini. Dal potere su di sé al potere sugli altri: che si tratti della virtus taumaturgica -forse il ‘potere’ per eccellenza —, o della capacità di dominare la volontà di altri/e, o ancora un potere istituzionalizzato politico-
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ecclesiastico. Questo aspetto diventa particolarmente interessante nel caso delle donne: la loro scelta di vita rappresenta in genere, pur in una grande varietà cronologica, affermazione di sé contro modelli e condizionamenti sociali e familiari, o imposizione subita, ma ben gestita; l’iter della costruzione della santità deve superare - ciò si evince chiaramente anche attraverso le fonti maschili - opposizioni frontali o forme di opposizione maschile; infine il potere così acquisito sarà sorvegliato, controllato, favorito, ma anche duramente represso: Umiliana de’Cerchi (Anna Benvenuti Papi), Caterina de’Ricci (Anna Scattigno), Marta Fiascaris (Marina Romanello) sono casi davvero esemplari. Accanto ai quali si potrebbe richiamare il caso più noto, ma non meno inquietante, di Caterina da Siena, con la sua scelta religiosa anomala - non claustrale -, la sua sostanziale disobbedienza alla famiglia e alla gerarchia ecclesiastica, la sua caparbia volontà di penitenza; infine la sua intensa vocazione scrittoria, sia pure esercitata attraverso i segretari. Nel suo caso certamente una delle forme di esercizio del potere: non repressa in vita, ma ‘censurata’ dopo la morte della santa da forbici maschili intenzionate a eliminare il quotidiano, il personale, l’individuale, in una parola, il ‘superfluo’ e il ‘perituro’, e eternare, in un malinteso concetto di edificazione, il messaggio religioso, ‘imperituro’.
Il rapporto con la scrittura non ha sempre le stesse valenze individuali e sociali. È vissuto ad esempio contradditoriamente da Caterina de’Ricci: prima come imposizione, e dunque sentito e visto come una prova di umiltà e obbedienza, poi esercitato volontariamente: «Se alla trascrizione delle proprie esperienze mistiche aveva dovuto piegarsi per obbedienza, le lettere sono invece l’esercizio dapprima incerto, poi sempre più sicuro e consapevole, di un’autorità che le derivava da un sapere - i doni profetici, la «cognizione dei cuori» - che, gelosamente custodito e mai coinvolto nella scrittura, conferiva tuttavia alle sue parole, per la fonte - «dicitur esse ut sancta» - più che per la forma, un’autorevolezza capace di suscitare rispetto e dedizione» (Scattigno, p. 222). La scrittura delle sante si dimostra così uno dei momenti più significativi dell’intreccio di poteri: manifestazione cosciente di una vocazione, di una volontà, di un potere - si pensi a Teresa d’Avila -; luogo di incontro e scontro di potere maschile e subalternità femminile - caso forse il più frequente -, di potere intellettuale e potere spirituale; ma anche luogo in cui possono coincidere inferiorità e subalternità spirituale e affettiva con superiorità tecnica - la capacità dello scrivere - e potere gerarchico. La
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scrittura può divenire anche il luogo privilegiato dell’intreccio del maschile e del femminile, per le ambiguità derivanti dal rapporto dettatura-stesura del testo, ispirazione e condizionamento psicologico. Luogo in cui si esprimono forse ambiguità sessuali, certo un complesso rapporto con le identità sessuali dei personaggi divini.
Dal potere - costruito e esercitato - al patronage - proposto e accettato. Un patronage scomponibile in una molteplicità di attori, scene, pubblici. Il caso di Marta Lascaris (Marina Romanello) e quello di Caterina de’ Ricci (Anna Scattigno) rivelano rapporti verticali e orizzontali specificamente femminili. Una prima più ravvicinata Clientela’ femminile delle sante compare spesso nella agiografia medioevale. In particolare i miracoli sono sempre un buon osservatorio per cogliere la diversità di genere per quanto riguarda tipologia, fruizione, partners, mettendo in evidenza, in alcuni casi esemplari, contrastanti rapporti con il sacro: così nel ben noto episodio di S. Scolastica e S. Benedetto dove la santa provoca con le sue lacrime un temporale per impedire l’allontanamento dell’amato fratello, ma provoca insieme la sua sorpresa e il suo rimprovero per un atto dai connotati magi-co-rituali. Un caso, fin troppo ‘classico’ di coppie oppositive: ma-schile/femminile, istituzionale/individuale, norma/trasgressione. Forse da reinterpretare anche alla luce della coppia insieme oppositiva e complementare fratello/sorella.
Ma il patronage femminile non è solo costruito da donne, per donne e con donne: può essere costruito o controllato e gestito da individui o collettività diverse: ecclesiastiche, monastiche, istituzionali, familiari, o comunità cittadine (Benvenuti Papi). E può mutare di significato nel tempo, stranamente intrecciando motivi antichi con nuove funzioni, non senza ambivalenza di significati: Rita da Cascia si trova alla fine - proprio fine? - di un itinerario agiografico pesantemente segnato da mani ecclesiastiche e maschili, «in una zona di confine fra le reti verticali di patronage e quelle orizzontali dei rapporti di solidarietà e complicità: unisce le caratteristiche della protettrice - verso la quale il rapporto è pesantemente asimmetrico e, quindi, la tensione è molto alta - a quella della compagna di sventura, della ‘donna come noi’, con la quale poter instaurare quel rapporto di confidenza intimo e personale che si ha con un’amica» (Lucetta Sca-raffia, p. 284).
Proprio il caso di S. Rita permette di rilevare però anche le ambiguità del patronage in vita e in morte dei santi. Il bellissimo
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libro di Peter Brown sul culto dei santi ha avuto un impatto forte e benefico sugli studi di storia religiosa e in particolare agiografica. Ma credo che sia pericoloso applicare certi approcci interpretativi a contesti molto diversi nel tempo e nello spazio. Fuori del mondo tardo antico, 1"amico celeste’ con la sua funzione rassicurante può avere meno motivi di esistere; fuori del mondo tardo antico, in una società in cui l’organizzazione del potere è così profondamente segnata dal cristianesimo, il concetto di 'potere incontaminato’ attribuibile ai vescovi e alle reliquie di quei martiri su cui il loro potere si fondava, sembra ben più difficilmente applicabile: l’agiografia merovingia e carolingia ben dimostra il progressivo avvicinamento del mondo religioso al potere politico. Ma soprattutto da ricordare le ambiguità nella costruzione e nella gestione di culti femminili largamente diffusi. Maria Maddalena, ad esempio, - sempre segnata dal suo passato di peccatrice - ha un culto legato a grandi e potenti istituzioni monastiche, e con una 'clientela’ certamente femminile, ma difficilmente definibile come spontanea, in alcuni casi fortemente segnata anch’essa dalla vita passata, ma non dimenticata a livello individuale e sociale. Oggetto dunque di una devozione dai connotati sociali e religiosi diversi, promossa da un clero diviso, variamente nel tempo e nello spazio, fra ansia di conversione e gestione non traumatica dell’ordine morale e sociale. La categoria agiografica della santa peccatrice è davvero ben diversa da quella del santo peccatore (o bevitore): diversità legata a quella del corpo e della perdita irreversibile della verginità. Mai davvero redenta Margherita da Cortona, ossessionata dalla sua colpa, complice il confessore, anche in questo caso personaggio ambiguamente interagente con la sua penitente. Il maschile e il femminile nel confessionale nell’Ottocento sono del resto oggetto in questo volume della analisi di Edith Saurer, illuminante anche in altri contesti per tutto il problema della direzione spirituale.
Un elemento di riflessione più generale propostoci qui dal rapporto santità/patronage riguarda la funzione stessa della santità 'per gli altri’ nei suoi connotati reali e simbolici, strettamente connessi a quelli di genere. L’evocazione del «potere misterioso e sacro dell’intercessione dei santi» solo per i figli maschi secondo l’ipotesi di Christiane Klapisch per la società fiorentina del ’300 e '400 sembra suggerire un uso strumentale del rapporto di patrocinio per «forzare» il santo, «il cui potere è già stato messo alla prova», a «continuare ad agire a beneficio [...] del fedele mediante il nome che questi ha preso in prestito da lui» (p.
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198 e 199). Entrano così opportunamente in discussione la fruibilità e la fruizione dei modelli agiografici, il concetto di imitabili-tà e quello di edificazione, l'idea di protezione spirituale. Si delineano funzioni più sfumate e complesse, che costringono anche a mettere in discussione il valore solitamente attribuito ai termini di reale e simbolico, naturale e soprannaturale: rapporto con figure completamente 'altre' rispetto alla propria esperienza - vere proiezioni fantasmatiche - o al contrario straordinariamente 'vicine' per dimensione umana e quotidiana e dunque per gli aspetti meno strettamente religiosi; gradazioni e modalità di questi rapporti incentivati, mediati, identificati con rituali, strumenti (dalla reliquie all'immagine), invocazioni.
Forte di esperienze private e pubbliche, politiche e culturali, sociali e individuali, la storia delle donne, uscendo da separatismi e settorialità, si presenta qui in una dimensione interpretativa complessiva. La mia attenzione prevalente a una delle sezioni non era una tangenziale. Certo una scelta, che spero di avere sufficientemente motivato. Lo stesso mi dispiace di avere per così dire abbandonato l'analisi ravvicinata di molti altri aspetti del problema complessivo posto dal volume. Voglio almeno non eludere la domanda finale posta dalle curatrici: patronage o mater-nage?
Patronage è certo una parola sessualmente segnata. Così carica tuttavia di ambiguità di significati da potere essere usata aldilà della sua etimologia. Un calco femminile matemage mi sembra una scelta debole rispetto alla sfida. Non è meglio trovare nuove definizioni per le nuove scoperte? Forse la 'ragnatela dei rapporti' ha già acquistato un suo posto nel linguaggio storiografico.
Sofia Boesch Gajano
Dipartimento di Culture Comparate
Università de L'Aquila