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Title
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LA «STORIA D'ITALIA» EINAUDI, GRAMSCI E LE «ANNALES»: ELEMENTI DI RIFLESSIONE PER UN RAPPORTO FRA STORIOGRAFIA E SOCIETA’ CIVILE
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Creator
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Aldo Monti
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Date Issued
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1976-05-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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11
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issue
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32 (2)
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page start
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729
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page end
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765
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Due risposte sull'epistemologia, Italy, Lampugnani Nigri editore, 1971
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Rights
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Quaderni storici © 1976 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230920172626/https://www.jstor.org/stable/43776282?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxNiwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjM3NX19&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A086387dfef1be2d5f9a652a1af96a8f7
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Subject
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episteme
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history and historiography
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history of the present
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extracted text
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LA «STORIA D'ITALIA» EINAUDI, GRAMSCI E LE «ANNALES»: ELEMENTI DI RIFLESSIONE PER UN RAPPORTO FRA STORIOGRAFIA E SOCIETÀ’ CIVILE
1. È noto come già nel pensiero storico classico «ogni nuova interpretazione del rapporto tra il passato-presente e il futuro (cioè, ogni fondazione di autentiche forme del pensiero storico) è necessariamente connessa con la creazione di una nuova società»1. Ogni rivolgimento sociale, di conseguenza, sposta in avanti i confini dell’orizzonte storiografico, che segna a un tempo i limiti raggiunti dal nuovo orientamento egemone, sociale e culturale. Ciò dà luogo pure a nuove procedure selettive del materiale storico: ed è ancora con la storiografia greca che per la prima volta il racconto storico, sotto l’influenza dell’epica omerica, si pone come obbiettivo «la totalità degli avvenimenti accaduti», a differenza dalla storiografia egiziana e persiana, la cui narrazione «si fonda su di un’estrema selezione dei “fatti storici”: unici fatti sono le imprese dei re... Selezione e totalità sono i poli entro cui si muove la storiografia greca»2, e rappresentano i termini entro cui la visione egemone dello sviluppo storico-sociale organizza l’indagine storica, dall’antichità classica a oggi. E questo rapporto, quindi, di selezione-totalità, nell’insieme delle formule analitiche e ideologiche in cui storicamente si configura ed opera, e negli esiti di ricerca che ne determina, rappresenta il modo migliore, a me sembra, per abbozzare le linee generali di una riflessione che connetta la storia della storiografia e il movimento della società civile, secondo indicazioni e sollecitazioni in tal senso largamente ricorrenti nella riflessione di Gramsci nei Quaderni del carcere.
La Storia d'Italia deH'Einaudi rappresenta senz’altro un’occasione qualificata per una simile riflessione; essa, infatti, per gli orientamenti metodologici entro cui è stata redatta, per le ambizioni culturali cui tende, almeno nei propositi dei presentatori, per i moduli organizzativi con i quali è stata pubblicizzata, si differenzia nettamente dalle iniziative editoriali delle Storie d'Italia tradizionali, condotte lungo il consueto asse narrativo della
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storia politica événementielle. Luogo d’incontro, come è stato più volte osservato, di una pluralità di orientamenti culturali e metodologici, innanzi tutto la riflessione di Gramsci sulla storia italiana e la storiografia delle «Annales», aperta all’indagine di quegli aspetti «strutturali» (economici, sociali e culturali), tradizionalmente, se non trascurati, per lo meno appiattiti e in ultima analisi vanificati da una storiografia politica omogenea e lineare, sostenuta da un’istanza — ci si passi l’abusato sociologismo — di modernizzazione sociale e civile del paese, che ne fonda l’intento militante di storiografia al servizio «di un’educazione democratica [...] un’arma critica, capace di mostrare, oltre ai fasti e alle glorie, i limiti e le insufficienze delle vecchie classi dominanti, le scelte condizionatrici, l’origine dei problemi che oggi ancora gravano sulla nostra esistenza nazionale»3, la Storia einaudiana si pone al livello delle grandi Storie d’Italia che l’hanno preceduta, la Storia d'Italia dal 1871 al 1915 del Croce, e la Italia moderna del Volpe. Come queste, infatti, trascende il ristretto ambito editoriale per qualificarsi come sintesi e punto di riferimento di un’intera epoca culturale e politica, interpretazione storiografica egemone, strumento di civilizzazione culturale periferica, tramite le Università, gli istituti di cultura, le scuole e, più in generale, la fitta trama di canali a disposizione di una società democratico-industriale avanzata. E come la Storia crociana ha contribuito a formare un’intera generazione di insegnanti, studenti e intellettuali, con un’istanza militante antifascista liberaldemocratica, così la Storia einaudiana si propone — come risulta dalla presentazione dell’Editore — di offrire alle nuove generazioni il frutto del ripensamento antifascista della storia d’Italia, di cui la Resistenza, il pensiero e la storiografia gramsciana sono stati elementi decisivi e fondamentali. Ma se questa istanza militante antifascista è fatto senz’altro positivo, altro discorso è da farsi circa la sua traduzione in termini analitici e storiografici convincenti.
2. È stato notato dal Romeo come sia assente dalla Storia d'Italia un asse narrativo unitario, e come «la dichiarata integrazione delle varie parti resta un’asserzione meramente verbale»: non si tratta tanto, quindi, di una sintesi storica, ma di un’«enci-
clopedia», in cui è difficile, pertanto, trovare un «criterio unificatore» che non sia «meramente esterno e materiale»4. L’osservazione mi pare pertinente e sostanzialmente giusta. Non condivi-
do, tuttavia, la conclusione che il Romeo ne deriva, sulla base di un discutibile riferimento comparativo all’opera di G. Volpe.
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Scrive dunque il Romeo: «Un tentativo di giungere ad una visione organica della società italiana nella varietà dei suoi aspetti, ma in un periodo assai più breve, venne compiuto una trentina d'anni fa da Gioacchino Volpe nella sua Italia moderna, dedicata alla storia dell’Italia unitaria sino alla prima guerra mondiale: e, per quanto si possa dissentire dall’indirizzo ideologico di quell’opera, non v’è dubbio che il compito vi è assolto con organicità e coerenza incomparabilmente maggiori di quanto non accada nella Storia einaudiana» e ne deriva la conclusione che «un tentativo del genere potrà, forse, essere meglio condotto a termine da un serio sforzo di pensiero individuale che non da un’équipe»5. Ma, occorre subito osservare, la Histoire sociale et économique, ad es., di Braudel e Labrousse, è storia globale e d’équipe al tempo stesso, la cui organicità è salvaguardata da una metodologia omogenea, la cui struttura analitica è capace di offrire una mediazione realmente sintetica, e non meccanicamente giustapposta, dei vari contributi specialistici, secondo un tutto articolato, sulla cui natura torneremo più avanti, ma che certamente nulla ha di quella storia «per compartimenti o per cassettini» di cui parlava Croce, termine che il Romeo ripropone, riferendolo alla Storia einaudiana, forse in termini eccessivamente polemici. Inoltre il riferimento all’Italia moderna del Volpe, come esempio di una «visione organica ad opera di un serio sforzo di pensiero individuale» — ma alla Storia del Volpe si può aggiungere, allo stesso titolo, quella del Croce — non può costituire un termine metodologico di confronto: diverso il contesto storico e l’orizzonte culturale nel quale oggi ci muoviamo.
Croce e Volpe si muovevano in un clima culturale in cui, rispettivamente, la cos-iddetta «riforma» neoidealistica della dialettica hegeliana e la mediazione del marxismo offerta, a livello storiografico, dalla storiografia economico-giuridica, fornivano procedure analitiche di costituzione del soggetto storico molto più semplificate rispetto alla complessità con cui si presenta oggi tale operazione. Vale la pena soffermarsi un momento su questo punto, anche in riferimento alle condizioni nuove in cui la Storia einaudiana ha affrontato il problema di identificare un asse metodologico e narrativo unificante. Croce, distinguendo nell’ambito dello spirito pratico il momento morale o «intenzionale» dell’etico-politico da quello economiccnpolitico, pervenne a salvaguardare una dimensione privilegiata del ruolo degli intellettuali nella storia, in quanto creatori d’istituti e valori
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morali o più largamente etico-politici6. Questa ipostatizzazione del ruolo degli intellettuali si esprime infatti nel concepire la loro identità come «categoria spirituale», ceto «mediatore» non economico, ma «rappresentante della “mediazione” nelle lotte utilitarie ed economiche, la quale non si è attuata e non si attua mai altrimenti che col superare e perciò regolare quelle lotte mercé concetti non più economici, e neppure di mera e brutale politica, ma etico-politici»7. Su questa concezione degli intellettuali come soggetto, sul «passo indietro rispetto a Hegel», sul suo legame con la tradizione politica e culturale moderata del Risorgimento, caratterizzata dal ruolo egemone degli intellettuali e da quello subalterno dell’«iniziativa popolare», Gramsci ha svolto precise osservazioni, sul piano conoscitivo come su quello storico-culturale8.
In Volpe la determinazione del soggetto storico si maturò compiutamente, dopo l’originaria influenza marxista, nel periodo nazionalista e fascista, passando attraverso l'Italia in cammino, per concludersi con l'Italia moderna. Identificato il soggetto nella nazione, è da riconoscersi, tuttavia, al di là della qualificazione ideologica che tale categoria implicava, l’assunzione e la trattazione di un’ampia trama di elementi tratti dalla «società civile», riconosciuti nel loro specifico ruolo, che la storia intellettuale del Croce assorbiva e vanificava al tempo stesso.
Ai fini del nostro discorso, che è di caratterizzare un clima (generale) culturale, senza entrare in ulteriori specificazioni, ci limitiamo ad osservare che sia in Croce che in Volpe il soggetto si configura come entità aprioristica e finalistica, avente in sé le ragioni dei propri svolgimenti, secondo successioni storiche scandite da una temporalità unica, omogenea, essendo il soggetto sempre qualitativamente il medesimo. Tale concezione, che si fonda sul presupposto della coscienza come soggetto, attività originaria, costitutiva e garante di tutte le successive operazioni, si connette al grande tema della cultura storico-filosofica trascendentale dell’Ottocento, al «tema di una storia continua, perpetuamente legata a se stessa, e indefinitamente preposta ai compiti della ripresa e della totalizzazione. Bisognava reciprocamente che una soggettività costituente e una teleologia trascendentale attraversassero la storia perché essa potesse essere pensata nella sua unità»9. Ma questa omogeneità di fondo di metodo e di contenuto, di soggetto ed oggetto era già in crisi nella cultura europea quando Croce e Volpe scrivevano, anche se in Italia potè permanere anche grazie alla loro opera: les
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Annales rappresentarono, già al loro apparire nel 1928, la rottura di quella omogeneità che la crisi europea aveva già consumato alla fine dell’Ottocento a causa di decisivi mutamenti indotti dallo sviluppo sociale nelle condizioni della conoscenza economica e sociale e che comportò una diversa determinazione del soggetto storico10.
Il dissolvimento della concezione sostantivista del soggetto e della ragione storica ottocentesca, configurò la ricomposizione del materiale storico secondo una pluralità di trame ed articolazioni, private delle loro connotazioni teleologiche, e connesse non più da un «programma originario» svolgentesi linearmente nel tempo, ma dal modello funzionale di un insieme di rapporti reciproci costitutivi di una specificità storica, e portò a modificazioni istituzionali anche nell’organizzazione materiale della ricerca con la comparsa, almeno nei casi più avanzati, di un suo nuovo agente, l'équipe. In questo quadro, si devono tuttavia distinguere all'interno delle Annales — che di questa impostazione è stata l’espressione più organica — due orientamenti metodologici e di ricerca, la cui differenza di solito non viene evidenziata con la necessaria chiarezza: uno, che potremmo definire la linea Febvre-Braudel, è il più vicino alla concezione tradizionale, in quanto fa riferimento a un soggetto unitario ed originario, la «civilisation» che, pur specificandosi storicamente in una realtà densa di una molteplicità di piani e di indirizzi di indagine, e tempi diversi — «outillage mental» — tuttavia ne precostituisce il percorso, basata com’è sulla «croyance en des àges de l’intelligence: chaque époque de l'histoire, avec son “outillage mental” est accomplissement progressif de la raison»11 ; questa ipostasi eurocentrica del ruolo della «civilisation» europea nella storia moderna, perno di ricostruzione storica delle altre civiltà, ha poi avuto nella storiografia «imperialistica» di Braudel la sua più compiuta espressione12. L’altro orientamento, costituito dalla linea Bloch-Labrousse-Vilar, identifica il soggetto in una pluralità di «civilisations» o società globali che si succedono secondo temporalità intrecciate e differenziate. In Bloch la categoria storiografica (concetto di regime agrario, ad es.) assume di conseguenza un valore euristico con il compito di interpretare ed esporre non più la genesi unitaria ed originaria della civilisation, ma le «genealogie» differenziate di una pluralità di assetti storico sociali diversi. In Labrousse poi, l’analisi privilegiata del livello economico e il metodo quantitativo che ne è il supporto, assumono una funzione transitiva in quanto non sono
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fini a se stessi, ma, tramite l’esame quantificato delle congiunture economiche riescono alla qualificazione di una struttura sociale in crisi e in movimento; sicché «l’étude “cojoncturel” se transforme en analyse dynamique de la structure» 13. È quest’ulti-ma linea di metodo che vorrei porre in rilievo, poiché essa ha permesso, per la prima volta, di porre il problema della trasformazione sociale in termini nuovi, cioè in termini di transizione; e alla visione di lungo periodo tramite l’uso di concetti intuitivi e pregnanti, si oppone l’analisi di un lungo processo di transizione di una struttura sociale nei dettagli del breve periodo, mediante l’uso di concetti-modello, cioè di concetti dotati di maggior sofisticazione nel loro statuto logico e più analiticamente circostanziati nel campo d’applicazione. La tematica della transizione ne è uscita totalmente rinnovata14.
Ora, non voglio dilungarmi ulteriormente sui caratteri della cosiddetta «scuola francese»: ciò che mi premeva sottolineare è la radicale novità costituita dalla lezione delle Annales, con tutte le conseguenze per quanto riguarda la concezione sia dell’oggetto della ricerca storica, che le forme, i modi e gli istituti della sua organizzazione materiale. Non Croce e Volpe, dunque, possono essere il termine di confronto per la valutazione e definizione dei caratteri di una storia generale ai giorni nostri, ma, semmai, — come ho già segnalato — la Histoire economi-que et sociale, non un semplice, per quanto prestigioso ed esemplare «sforzo individuale», ma una pluralità di apporti specialistici mediati e unificati da una comune metodologia. È sul metro di questa impostazione, mi sembra, che si deve valutare la qualità critica dello sforzo collettivo della Storia einaudiana. E fissiamo subito, fra le due, una radicale differenza.
La Histoire francese, sia pure limitata a un secolo circa (1660-1789) — ma comunque secolo strategicamente decisiivo nel passaggio dall’antico regime al nuovo — è tutta costruita su una trama di letture incrociate dei diversi piani della realtà storica, di cronologie multiple e differenziate: popolazione, agricoltura ed industria, classi sociali, mentalità collettiva, istituzioni, tutto connesso secondo movimenti di diverso respiro e durata, che sfociano poi, risolvendosi, nella congiuntura rivoluzionaria dell'89. Ne deriva, tra la struttura e l’evento, una mediazione effettiva, grazie all'intercapedine analitica (cicli, scarti e oscillazioni temporali fra i vari movimenti economici e sociali) che l’analisi congiunturale assicura.
Nella Storia einaudiana invece è assente, a me pare, una
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simile intelaiatura metodologica: anzi, l’influenza delle Annales, sembra meramente culturale ed esteriore, fondata sull’«acculturazione» di un generico vocabolario strutturalista più che su una specifica assimilazione degli indirizzi della «école» francese. Confinare, infatti, nel I volume su «I caratteri originali» le relazioni strutturali di fondo della storia italiana (da quelle geografiche, economico-sociali e politico-istituzionali a quelle culturali e antropologiche) a guisa di invarianti storiche, riservate a un altro volume, il V, su «I documenti», la trattazione delle istituzioni storiche specifiche di quelle medesime invarianti (strade, catasti, monete, finanze, assetti urbani, moda e costume, tradizioni popolari, organizzazione della cultura, ecc.), e procedere, al loro interno con il tradizionale impianto storico narrativo, significa fare un’operazione che va esattamente in senso opposto a quella effettiva mediazione e sintesi di strutture ed eventi, di analisi strutturali e congiunturali, di istituzioni e «fatti» che, come abbiamo visto, rappresentano il contributo metodologico specifico delle Annales.
Ma prima di precisare ulteriomente questa valutazione complessiva della Storia d'Italia entrando nel merito di qualche suo contributo, vorrei accennare all’influenza dell’altra componente ideale e culturale cui mi sono riferito all’inizio di queste note, la lezione di Gramsci. E anche qui, si deve dir subito, per aprire il problema, che si tratta di influenza, come nel caso delle Annales, meramente (per l’appunto) ideale e culturale, non specificamente metodologica. Ciò pone subito una questione: il significato di ciò che è cultura e di ciò che è metodologia della ricerca in riferimento all’opera di Gramsci.
La distinzione, riferita alle Annales, è agevole da afferrarsi, poiché siamo di fronte a un corpus concreto di opere storiche in cui ha trovato applicazione un orientamento culturale generale, comprendente una attrezzatura di concetti e di prospettive euristiche aventi uno statuto epistemologico genericamente strutturalista, un insieme di tematizzazioni emergenti dal sorgere e svilupparsi delle scienze umane del nostro secolo portatrici di zone di realtà storiche prima trascurate, e una concreta traduzione pratica degli orientamenti teorici e di cultura. In Gramsci la situazione è più complessa: abbiamo una visione teorica generale costituita da una certa mediazione del marxismo, operata secondo molteplici tramiti (la giovanile cultura idealistica, l’assimilazione del leninismo, la milizia politica) e, nei Quaderni, la tematizzazione dei nodi fondamentali della storia italiana. Ma non pare d'immediato reperimento la metodologia di ricerca o
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meglio, Fanalisi storica della riflessione gramsciana, cioè l’attrezzatura di concetti predisposta all’analisi di breve periodo di fenomeni specifici, in ordine ai tempi, modi e ritmi in cui si trasforma un sistema sociale, al di fuori dell’oggettivismo del marxismo della II Internazionale, per il quale i rapporti di produzione capitalistici e con essi il proletariato, che ne era il motore specifico, si configuravano come supporti immediati di un processo storico di totalizzazione.
Ora, a me pare che in Gramsci vi sia, in riferimento alla questione della transizione, oltre a un insieme di nuclei tematici, anche ima trama di concetti analitici con uno statuto epistemologico non sostantivista, ma di natura funzionale, dotati di una prospettiva né lineare né omogenea, capaci di comprendere, in termini circostanziati, realtà storiche di diverso spessore e profondità. La sua formazione culturale di base (Croce, Marx e Lenin) non esaurisce l’intera curvatura del suo pensiero: linfe culturali «europee» delle moderne scienze sociali non gli dovettero essere estranee, per quanto indiretti, molteplici e forse anche disparati poterono essere i filtri attraverso cui gli giunsero-anche se solo una ricerca potrebbe dimostrarlo adeguatamente, documentando non solo il gioco delle influenze culturali, ma soprattutto la loro eventuale contestualità nel processo dell’elaborazione di Gramsci15.
3. I Quaderni costituiscono, com'è noto, un ampio inventario storico-sociologico dei nodi strutturali che hanno caratterizzato la intelaiatura della società italiana, dallo sviluppo economico — esemplificato dal rapporto città-campagna — alla funzione della Chiesa, al ruolo degli intellettuali, alla mentalità e fisionomia delle classi e delle istituzioni. La natura del quadro complesso delle articolazioni — in cui temi economici, sociali, istituzionali, culturali ed antropologici sono sempre strettamente intrecciati —, l’ordine e le priorità delle tematizzazioni che Gramsci veniva delineando, in senso logico e metodologico, non cronologico — la larghezza e la densità dei riferimenti storici e culturali che vengono via via inglobati, male si comprendono sulla scorta di un pensiero che si configurasse come mero processo di totalizzazione entro i quadri di categorie storiografiche presupposte: com’è noto, a questa impostazione sostantivista non sfugge nemmeno il modello marxiano del cap. XXIV del I Libro del Capitale, sulla transizione dal feudalesimo al capitalismo.
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Al contrario, nell'analisi gramsciana dei processi di transizione della società moderna, più ricca è la tematizzazione e più sofisticata la strumentazione analitica e lo stesso stile «frammentario», più che espressione di limitazioni imposte dalle circostanze della vita del carcere, o della presunta insufficienza teorica di fondo di un «marxismo in frammenti», si determina, sotto il profilo del metodo, come una «necessità» del procedere di un pensiero articolato teso ad organizzare secondo alcuni essenziali concetti sociologici e prospettive tematiche, il materiale storico disponibile, di cui manca solo la documentazione di massa per imprimervi il marchio di un’opera coerente ed organica.
Tra i princìpi, infatti, e le categorie teoriche di Marx e di Lenin, e la «ricognizione» storica, sta una robusta tessitura di concetti analitici, di natura «funzionale», atti a desostantificare i processi, a disaggregarli secondo una pluralità di direzioni di ricerca e ricomporli secondo un «senso» delimitato nella specificità dei suoi contorni storici. Stato, società civile, egemonia, blocco storico, rapporti di forza, rivoluzione passiva, crisi organica, guerra di posizione e guerra di movimento ecc., sono i più noti di questi concetti, e sul loro originarsi e svilupparsi nella riflessione di Gramsci influirono, da una parte, complesse mediazioni culturali di tematiche politiche e sociologiche non certo tutte riconducibili all’ambito marxista, e, dall’altro, la sua attività di dirigente politico rivoluzionario e di mediatore creativo, per l’Italia e l’Occidente capitalistico, della concezione del potere dei classici del marxismo, di Lenin in particolare.
Concetti analitico-scientifici, non puri indicatori empirici, essi, infatti, si alimentano delle specificazioni operative che l’attività e la riflessione politica propongono alla «presa di coscienza», prima, alla concettualizzazione teorico-scientifica poi, nella forma di concetti-modello, strumenti al tempo stesso di metodologia storica e di agibilità politica in una cornice storica di situazioni di «crisi organica», cioè di processi di transizione a «rotture» multiple, di varia intensità e grandezza (rapporti di forza) degli equilibri sociali. Di qui l'enuclearsi di una «scienza politica» costituita da questa attrezzatura analitica, che Gramsci tenne sempre rigorosamente distinta dalla filosofia della prassi, in quanto dottrina di principi teorici generali. Possiamo, quindi, fin d’ora, distinguere tre livelli dell’elaborazione teorica gramsciana; la filosofia della prassi (princìpi teorico-interpretativi di lungo periodo), la scienza politica (criteri di azione e riflessione politica), metodologia dell’analisi storica (concetti eu-
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Fistici di ricerca). Ma qui si deve dire qualcosa circa il cammino teorico di Gramsci al riguardo.
Già durante l’elaborazione degli anni giovanili, quando la crisi del capitalismo conseguente alla guerra e allo scoppio della rivoluzione russa — la rivoluzione «contro il “Capitale”», come ebbe a scrivere nel noto articolo del gennaio 1918 — avevano aperto una prospettiva di transizione al socialismo, Gramsci aveva intuito l’inagibilità politica e metodologica dei principi teorici del marxismo, commisurati alla loro capacità reale di comprendere e guidare una congiuntura storica di transizione rivoluzionaria16. È con l’esperienza ordinovista che, per la prima volta, tale intuizione si concreta nella consapevolezza della necessità e dell’autonomia di una scienza politica, distinta dal materialismo storico, capace di tale controllo di una situazione di crisi rivoluzionaria e quindi di rifondare la stessa nozione di «rivoluzione», nei confronti della tradizione secondo-internazionalista, influenzata dall’evoluzionismo positivistico.
La elaborazione e realizzazione di forme di vita sociale autogestita (i Consigli), costituiscono il primo tentativo di una mediazione originale del leninismo; la concezione leninista del potere e del partito che fa della rivoluzione un processo eminentemente «politico», in cui gli obiettivi di emancipazione sociale vengono tendenzialmente subordinati a quelli «politici» di presa del potere, viene riformulata da Gramsci tramite il filtro della elaborazione consiliare ’7. Ma la formazione di una cintura intermedia di istituti di potere della classe operaia, impone all’iniziativa politica una maggiore adesione alle pieghe e alla profondità della società civile, e quindi un andamento politico meno «lineare» e meno «omogeneo», cioè meno burocratico quanto alla realizzazione mezzi-scopi del fare politica. La politica non è più soltanto ideologia della «presa di coscienza» e scienza della presa del potere, ma scienza della formazione del consenso; tra i mezzi e i fini sta lo spessore profondo della società civile. Tutto ciò non è senza profonde conseguenze nella costruzione dell’analisi politica e della metologia storica gramsciana; contestuale è, infatti, nella riflessione di Gramsci ordinovista, la teorizzazione di questi meccanismi di potere intermedi, i Consigli, e la elaborazione di una strumentazione analitica intermedia tra i principi della dottrina e i processi dello sviluppo storico in atto. Ed è questa contestualità — di una costruzione metodologica collettiva di meccanismi di potere autogestiti e di nozioni funzionali di agibilità politica e di analisi storica, — che
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costituisce la grande forza di originalità della concezione dei processi storici negli articoli dell'Ordine nuovo.
Nei Quaderni la metodologia dell’analisi storico-politica assume una configurazione organica e definitiva. Il leninismo, dopo la sconfitta della rivoluzione in Occidente, viene ripreso in termini più specificamente politici e giacobini ed è la problematica del «moderno Principe». Ma anche in questa seconda fase del pensiero di Gramsci, è noto quale densa e profonda connotazione assuma il problema della formazione di una «volontà nazional-popolare» rivoluzionaria nella dimensione integrata di tutti i piani della vita sociale (blocco storico); giungono, di conseguenza, a piena maturazione la definizione, anche formale, e la connessione funzionale dei concetti politici di Gramsci, così da costituire quella scienza politica, autonoma dai principi di lungo periodo del materialismo storico, e cioè quella analitica del potere — nel duplice senso di analisi del blocco di potere dominante e del nuovo blocco rivoluzionario — che costituisce la trama singolare di un’analisi dei processi storici circostanziata sui parametri del breve periodo 18.
Si tratta di esiti teorici notevolmente elevati, che situano Gramsci al livello della problematica sociologica moderna, per quanto riguarda sia la metodologia della ricerca sociale che l’analisi concreta degli istituti e delle forme del potere e del comportamento sociale, del Weber in particolare, come vedremo più avanti. Questo rapporto di Gramsci con la sociologia va brevemente chiarito, perché la identificazione e la risoluzione della sociologia nella scienza politica è operazione che consente di articolare in concreto e simultaneamente i tre livelli della riflessione gramsciana: filosofia della prassi, scienza politica e analisi storica.
Sul rapporto sociologia-scienza politica, scrive Gramsci: «Ciò che di realmente importante è nella sociologia non è altro che scienza politica [...]. Se scienza politica significa scienza dello Stato e Stato è tutto il complesso di attività pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati, è evidente che tutte le quistioni essenziali della sociologia non sono altro che le quistioni della scienza politica»19. Se, dunque, come scrive in altro luogo, «nella nozione generale di Stato entrano elementi che sono da riportare alla nozione di società civile (nel senso che si potrebbe dire che Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizio-
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ne)»20, allora non vi può essere posto per una sociologia che cerchi di cogliere, tramite il ricorso alla generalizzazione, forme, sedimentazioni strutturate in profondità, uniformità dell'organizzazione del potere e del comportamento sociale, che non siano atteggiamenti sociali immediatamente politici, processi in atto. Infatti, «Se è vero che l’uomo non può essere concepito se non come uomo storicamente determinato, cioè che si è sviluppato e vive in certe condizioni, in un determinato complesso sociale o insieme di rapporti sociali, si può concepire la sociologia come studio solo di queste condizioni e delle leggi che ne regolano lo sviluppo? Poiché non si può prescindere dalla volontà e dall'iniziativa degli uomini stessi, questo concetto non può non essere falso»21. Di qui la necessità della dissoluzione della sociologia nella scienza politica, la quale, per l’appunto, «deve essere concepita nel suo contenuto concreto (e anche nella sua formulazione logica) come un organismo in sviluppo»22.
È certo che la sua formazione storicistica e volontaristica doveva impedirgli di arrivare al riconoscimento di orizzonti specifici, formalizzati, della conoscenza sociale: non che egli escludesse «l’utilità pratica di identificare certe “leggi di tendenza” più generali che corrispondono nella politica alle leggi statistiche o dei grandi numeri che hanno servito a far progredire alcune scienze naturali», ma subito aggiungeva: «Ma non è stato messo in rilievo che la legge statistica può essere impiegata nella scienza e nell’arte politica solo fino a quando le grandi masse della popolazione rimangono essenzialmente passive — per rispetto alle quistioni che interessano lo storico e il politico — o si suppone rimangano passive... È da osservare che l’azione politica tende appunto a far uscire le moltitudini dalla passività, cioè a distruggere la legge dei grandi numeri; come allora questa può essere ritenuta una legge sociologica?»23. È in questa maniera indiretta e politica, esemplare di un intellettuale alieno dall'idea dell’«avalutatività» della scienza e del «lavoro intellettuale come professione», che si presenta il problema dello spessore profondo degli apparati amministrativi delle istituzioni e dei comportamenti sociali standardizzati del capitalismo moderno, oggetto di analisi specifica e formalizzata in Max Weber. Il limite da essi posto viene sempre visto come contestuale alla lotta di classe, senza alcuna residualità istituzionalistica nella prospettiva della loro trasformazione da parte di masse organizzate che si emancipano socialmente e politicamente: «altrimenti si confonde lo Stato con la burocrazia statale», come annota in un altro punto24.
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Occorre, senz’altro, prendere onestamente atto di una generale insufficienza d’analisi nell’esame della logica specifica di tali strutture, delle forme del potere e dell’organizzazione sociale nell’età del capitalismo organizzato25: queste, concepite sempre come forme immediatamente politiche e non nella loro interna tessitura organizzativa, non «residuano» alcuna logica «economico-corporativa», che, in quanto eterogenea rispetto ai fini politici e ai valori, può essere con questi in contrasto, in ritardo, ecc. È noto come nella riflessione teorica, se non nell’attività politica di Gramsci, siano assenti la problematica dell’alienazione e del feticismo di Marx, come la sua specificazione contemporanea in quella della razionalizzazione e reificazione di Weber e Lukacs. Ma è anche da osservare che l’idea di politica propria di Gramsci non s’identificava immediatamente con l’ideologia e con la «presa di coscienza», bensì era una sorta di «gnoséologie de la politique»26 e gli consentiva quindi di recuperare, sul terreno dell’analisi, tale problematica delle sedimentazioni complesse, relativamente «autonome», delle relazioni sociali, e di caratterizzare le sue ricerche secondo una direzione chiaramente nomotetica.
Respinta l’impostazione dell’autore del Saggio popolare, il Bukharin, che aveva posto l’«ideologia come fase intermedia fra la filosofia e la pratica quotidiana»27, tale funzione intermedia viene, dunque, assunta dalla scienza politica, che si configura non come una sistematica dottrinaria, ma come un’attrezzatura concettuale di «movimento» che, in organico ricambio con la prassi, riqualifica e riarticola continuamente l’ambito e la capacità della sua prospezione analitica. Dotati di una connessione non dottrinaria, ma di tipo funzionale, i concetti politici gramsciani s’annodano secondo costellazioni atte ad assicurare, nel concreto dell’analisi e dell’azione politica, quella vivente traducibilità reciproca delle parti costitutive del marxismo (filosofia, politica, economia), che ne costituisce, secondo Gramsci, lo statuto filosofico unitario28.
Sotto il profilo epistemologico, si può osservare che il rapporto fra i principi della dottrina, la concettualizzazione politicosociale e l’analisi storica, non si pone in Gramsci in termini molto diversi da Weber, fondatore della sociologia critica, alla quale non si possono certo imputare quegli «schematismi» e quelle Classificazioni astratte proprie della sociologia positivistica, italiana in particolare, che più direttamente era oggetto della polemica di Gramsci. Il confronto con Weber può sembrare ardito, ma è proposto come ipotesi di ripensamento della rifles-
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sione gramsciana all’interno del pensiero europeo borghese critico, nel cui ambito va reinserita, in un confronto che può essere positivo e negativo per Gramsci, ma che deve essere perseguito, pena la sua inutilizzazione teorica, superando le chiusure interpretative ufficiali che tale contestualizzazione non hanno mai operato.
È da osservare, dunque, che entrambi operando all’interno della crisi dello storicismo hegeliano-marxista e della svolta soggettivistica di fine secolo, cercano di definire i termini in cui possono diventare agibili, nella ricerca storica e sociale concreta, i grandi apparati deduttivi della tradizione culturale e filosofica, d’istituire cioè un diverso rapporto fra «struttura» e «movimento storico», interpolando fra l’una e l’altro una ricca intercapedine di concetti analitico-funzionaliM. Tale operazione è resa possibile da ima rivalutazione del ruolo della soggettività nel processo storico e della ricerca: Weber accentuando e anche esasperando il ruolo dell’attività «tipico-ideale» del soggetto conoscente, dell’intellettuale professionale, Gramsci, quello della soggettività rivoluzionaria, la classe operaia, intesa in termini politici, oltre che economico-sociologici, contro l’assorbimento e l’appiattimento oggettivistico della tradizione positivistico-socialisti-ca. I fini politico-sociali e i valori vengono depurati di ogni connotazione immanentistica che li riferisca immediatamente alle strutture e li deduca da esse, se non attraverso la prassi politica e la concettualizzazione euristica, che per Gramsci s’identificava con la scienza politica e per Weber con la sociologia critica — anche se per il primo il circolo teoria-prassi è di reciproca ed organica traducibilità ad opera di organismi collettivi, mentre nel secondo è di formalizzazione critica, posto che l’oggetto residua una dimensione «razionalizzata» che sfugge all’azione della volontà politica. L’operazione teorica neocritica di Weber può forse estendersi all’elaborazione gramsciana30: il tentativo di ridefinire il campo di possibilità, per l’analisi storico-sociale concreta, della filosofia marxiana, porta, non certo alla morte della filosofia, ma alla configurazione della filosofia della prassi come filosofia critica, ossia come «metodologia generale della storia» i cui principi generali di lungo periodo («la scienza della dialettica o gnoseologia, in cui i concetti generali di storia, di politica, di economia si annodano in unità organica») devono essere posti in grado di costruire, tramite una contestualità di strumenti d’analisi e di potere, quella possibilità d’identificazione di teoria e prassi che non può essere più demandata al ruolo della oggettività economico-sociale31.
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La traduzione reciproca delle parti costitutive del marxismo trova, dunque, nella scienza politica o sociologica critica — andando certo oltre i termini, in questa identificazione, della consapevolezza sociologica di Gramsci — lo strumento di un dimensionamento critico della filosofia nella circostanzialità delazione politica, e della configurazione di quest’ultima come attività riflessa ed egemonica. Ma alla base, anche cronologicamente, di tutta questa elaborazione teorica sta l’analisi storica, il terzo livello della riflessione gramsciana che vorremmo esemplificare; quella originale sensibilità nel connettere l’osservazione minuta della vita sociale quotidiana32, la identificazione dei bisogni storicamente necessari delle masse, la genesi del potere dal basso e la generalizzazione politico-sociologica, si era già esercitata nel periodo giovanile ed ordinovista e nei Quaderni troverà soltanto — con la mediazione degli scritti del 1923-26 e la connessa esperienza internazionale e la riflessione significativa sulle differenze sociologiche e strategiche delle società europee di Occidente ed Oriente33 — enunciazioni teoriche più ragionate e tematizzate. Non è qui certamente la sede per un esame articolato dei concetti gramsciani; ci soffermeremo su due concetti-chiave, al fine di una breve esemplificazione della metodologia storica di Gramsci: i concetti di «rapporti di forza» e di «blocco storico».
Muovendo dalla considerazione di due celebri affermazioni di Marx della Prefazione del 1859 a Per la critica della economia politica, secondo cui «una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza»M, Gramsci afferma che «dalla riflessione su questi due canoni si può giungere allo svolgimento di tutta una serie di altri principi di metodologia storica. Intanto, nello studio di una struttura, occorre distinguere i movimenti organici (relativamente permanenti) dai movimenti che si possono chiamare “di congiuntura” (e si presentano come occasionali, immediati, quasi accidentali)». Rilevata la necessità che «il nesso dialettico tra i due ordini di movimento» sia sempre stabilito esattamente, nella ricostruzione storica come nell’arte politica, Gramsci afferma che l’utilità euristica di questi criteri può essere saggiata concretamente con riferimento agli «avvenimenti che si svolsero in Francia dal 1789 al 1870» — ed è noto che il caso francese è, costantemente, il modello esemplare di una egemonia riuscita. L’osservazione è
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di notevole densità metodologica: «Realmente le contraddizioni interne della struttura sociale francese che si sviluppano dopo il 1789 trovano una loro relativa composizione solo con la terza repubblica e la Francia ha sessantanni di vita politica equilibrata dopo ottanta di ri volgimenti a ondate sempre più lunghe: 1789, '94, '99, 1804, '15, '30, '48, 70. È appunto lo studio di queste ‘‘ondate” di diversa oscillazione che permette di ricostruire i rapporti tra struttura e superstruttura da una parte e dall’altra tra lo svolgersi del movimento organico e quello del movimento di congiuntura della struttura. Si può dire intanto che la mediazione dialettica tra i due principi metodologici enunziati all’inizio di questa nota si può trovare nella formula politico-storica di rivoluzione permanente»35.
È facile cogliere la rilevanza e la singolarità metodologiche di queste affermazioni: quasi contemporaneamente E. Labrousse quantificava le sequenze economiche della lunga crisi organica del Settecento francese e, a partire dal movimento dei prezzi, traduceva la dinamica congiunturale dei redditi negli antagonismi strutturali e nei comportamenti politici delle classi sociali, delineando così le linee di un medesimo impianto epistemologico36. Ancora più perspicuo diventa il paragone con Labrousse, se si passa all’esame del concetto di «rapporti di forza». Muovendo da una considerazione storica dei rapporti di produzione come prassi sociale in atto — secondo la consueta risoluzione delle forme strutturali in elementi viventi di analisi sociale e politica — e quindi inquadrando la «structure des classes dans la dialectique historique, reliant ainsi situations de classe (place dans les rapports de production) et positions de classe (place dans une conjoncture de lutte)»37, Gramsci articola i diversi gradi, sociali, politici e militari che costituiscono «la manifestazione concreta delle fluttuazioni di congiuntura»38.
Il nesso congiunturale «rapporti di forza» si configura, quindi, come un punto di passaggio analitico obbligato nel complesso itinerario in cui la struttura si fa concreto movimento storico, e l’economico diventa etico e politico (egemonia). In questa prospettiva, la nozione di struttura ne viene illuminata di una diversa significazione teorica e storiografica: depurata della sua connotazione sostantivistica di «dio ascoso», e quindi di ogni finalismo precostituito ed operante, essa viene riqualificata nella nozione di «blocco storico», unità contraddittoria di struttura e superstrutture, macchina analitica che esclude, nel percorso delle sue diramazioni concrete e costellazioni concettuali, le scor-
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ciatoie intuitive della storiografia lineare e «causativa»39. Alle successioni storiche di codesta storiografia, Gramsci oppone lo spessore complesso delle formazioni sociali, dei «blocchi storici», e delle «“ondate0 di diversa oscillazione» che ne percorrono gli scarti temporali, le sedimentazioni vischiose, le rotture delimitate nella specificità delle loro scansioni; la trasformazione sociale appare svolgersi, sul breve periodo, secondo congiunture date dai diversi momenti dei «rapporti di forza» che intercorrono fra i livelli di maturità del blocco storico in movimento, e quindi secondo processi di transizione in cui i momenti etico-politici ne ricompongono di volta in volta, gli squilibri, le instabilità, gli sfaldamenti e le rotture. Questo, per altro, sembra essere il significato analitico più vicino all’intenzione di Gramsci, riguardo a un altro suo concetto-chiave, quello di «rivoluzione passiva», inteso come «criterio d’interpretazione» «esatto non solo per l’Italia, ma anche per gli altri paesi che ammodernarono lo Stato attraverso una serie di riforme o di guerre nazionali, senza passare per la rivoluzione politica di tipo radicale-giacobino» 40.
Ricostruita, sia pure a linee necessariamente semplificate, la metodologia dell’analisi storica di Gramsci, rimane da chiedersi quanto di questa strumentazione analitica sia stata effettivamente assimilata ed utilizzata dalla storiografia gramsciana. Credo si possa essere equanimi affermando che dell’inventario gramsciano si è accolta più la tematizzazione di problemi e ricerche (il Risorgimento ad es.) che l’impalcatura euristica che, al di là dell’uso meramente illustrativo dei suoi concetti, non si è tradotta ancora, ch’io sappia, in un qualche tentativo di ricostruzione di una dinamica di strutture globali secondo quella articolazione di nessi che pone l’analitica gramsciana a un livello di sofisticazione euristica non inferiore alla moderna storiografia economica e sociologica41.
La posizione di sostanziale difesa che la storiografia gramsciana ebbe ad assumere al tempo del fin troppo noto dibattito sulla cosiddetta «rivoluzione agraria mancata», fu dovuta, forse, alla scarsa motivazione analitica dei suoi assunti interpretativi. Non fu, forse, chiara, dato il clima storicistico, la natura sociologica e non storiografica del ragionamento di Gramsci; esso verteva, com’è noto, sui modi in cui si costituisce un «blocco storico» e come viene attuandosi al suo interno l’integrazione dei gruppi sociali subalterni attorno l’egemonia della classe dominante, annodandosi quindi con la concettualizzazione sociologi-
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co-politica del Machiavelli*2. Così, difensiva ed insufficiente fu la polemica contro chi, come il Gerschenkron, intendeva individuare — senza misconoscere il ruolo del mercato e dei fattori, in genere, strutturali di lungo periodo — il ruolo particolare e circostanziato di una molteplicità di elementi funzionali, organizzati nella nota ipotesi dei «fattori sostitutivi», nei processi d’industrializzazione43. Eppure, i suggerimenti euristici impliciti nel-Tipotesi della «rivoluzione passiva», — in genere intesa in un’accezione prevalentemente politica — tesi a non trascurare le articolazioni funzionali di un processo, avrebbero potuto consentire il recupero della metodologia dello studioso americano. Lo stesso modello marxiano di accumulazione primitiva, non ha presentato, storicamente, le sue variabili in termini concomitanti e simultanei: che ciò abbia dato luogo a sviluppi squilibrati è certo, ma non pare che essi possano essere valutati in base a un «ideale» sviluppo armonico del capitalismo, e non invece secondo lo statuto teorico del suo funzionamento44. I lineamenti storici di uno squilibrio sono così emersi, nella ricerca neogramsciana, come appiattiti in formulazioni politico-sociali povere di motivazioni analitiche.
Non è comunque questa la sede per tentare un bilancio critico della storiografia gramsciana; si è voluto semplicemente rilevare una sua connotazione generale, analiticamente regressiva rispetto alla ricchezza euristica della metodologia di Gramsci. Né, d’altra parte, pare che, nella Storia einaudiana, dai contributi di Sereni, Giorgetti o Zangheri, siano venute novità di rilievo rispetto alla tradizione storiografica cui appartengono. Prima di avviarmi ad una valutazione conclusiva della Storia d'Italia, mi pare, tuttavia degno d’attenzione, il contributo di Zangheri sulla formazione dei catasti nel Settecento in Italia45, poiché esso può forse rappresentare un’espressione esemplare di un certo uso del gramscismo, in quanto codificazione ideologica e tematizzazione storiografica, ai margini del suo impianto analitico.
4. La formazione dello Stato unitario — tema classico della storiografia gramsciana — viene affrontato in uno dei suoi nodi storici fondamentali, l’età delle riforme, e nelle «ragioni tecniche e politiche» che furono alla base delle operazioni di formazione dei catasti settecenteschi ad opera delle monarchie assolute. Zangheri ha individuato i termini per una nuova valutazione e periodizzazione del movimento riformatore del Settecento, su
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cui vale la pena di soffermarsi. Contro l’interpretazione corrente che fa del moto per le riforme il punto di incontro nella seconda metà del secolo fra una volontà programmatica di riforma emergente dal basso (intellettuali riformatori) e quella strumentale delle monarchie assolute, motivata soprattutto da esigenze finanziarie, lo Zangheri tende ad enfatizzare la priorità e il ruolo decisivo dell’iniziativa dall'alto da parte delle monarchie assolute, ponendo in secondo piano quello del movimento intellettuale riformatore. Tesi in sé non nuova, in auge fra le due guerre, anche se riformulata dallo Zangheri in tutt'altra problematica ideologica e storiografica46. Ne riassumo brevemente le linee generali.
Lo studioso bolognese, dei catasti del nostro ’700 mette in risalto «il grado di approfondimento e di compiutezza» mai raggiunta dai coevi tentativi a livello europeo e ne sottolinea il carattere di certificazione e legittimazione della nuova proprietà borghese, per la quale la terra assume un nuovo valore economico, di merce liberamente disponibile sul mercato, sottratta all'immobilità della manomorta e del fidecommesso. Sicché il catasto «più che un metodo per accrescere le entrate del sovrano, è, in Italia, una vera e propria leva di un nuovo ordine sociale. Fino a che punto i monarchi riformatori che ne intraprendono l’esecuzione se ne rendano conto, è altro discorso. E neanche è questione qui di sapere perché proprio questa via, in fondo “burocratica”, di intervento fu congeniale agli Stati italiani, mentre altrove si procedette a più radicali sconvolgimenti e trasformazioni: penso alle enclosures inglesi, e alla confisca rivoluzionaria in Francia. Lasciamo il quesito allo storico generale, perché il problema è appunto delle grandi tendenze della storia». Strumento di politica economica che indirettamente favorisce lo sviluppo delle forze produttive agricole, in quanto l’imposta che vi si fonda colpisce la rendita, mentre alleggerisce l’onere gravante sul profitto agricolo, «ciò che è da sottolineare, è il carattere che il catasto presenta di provvedimento che scende dall'alto di una misura di Stato. Lo Stato forza il passo. Le riforme dei sovrani assoluti suppliscono, dove possono, l’assenza di un movimento rivoluzionario. La svolta è opera delle monarchie assolute, nel Settecento». La questione viene poi formulata in termini ancora più espliciti: «Se il riordinamento tributario, la perequazione fiscale, i catasti, sono un segno delle riforme fra i più impegnativi e singolari, le riforme sono avviate, si deve dire, fin dalla prima metà del Settecento. Il riformi-
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smo assolutistico precede su un punto capitale, e di buona misura, il dispiegarsi del movimento riformatore che si ispira direttamente alle idee illuministiche. La cronologia dell’età delle riforme, qual è comunemente adottata, può apparire deludente». Con riferimento al «grande modello» del catasto milanese, geometrico particellare a stima peritale, lo Zangheri afferma «che la riforma finanziaria iniziata da Carlo VI nasce da bisogni pratici, assillanti ed immediati. Ma il problema è di capire come da un inizio simile si svolga un arco di ricerche e di scelte, che conducono alla formulazione di un piano generale e sistematico di rinnovamento. Tale problema tocca sia il carattere della volontà politica che orienta e spinge nella direzione delle riforme, sia il progressivo affinamento ed adeguamento dei principi della tecnica e della scienza dell’imposta». E ciò perché il salto, e l’ampiezza del risultato, non sono di poco conto: da una generica situazione di bisogni, da imposizioni ancora occasionali e provvisorie [...] alla decisione di ripartire equamente, di accertare secondo criteri oggettivi, e quindi di riformare alla radice il sistema tributario; e l’inizio di questa riforma, prima che si possa parlare di un movimento riformatore, prima che abbiano luogo gli sviluppi moderni della cultura economica e finanziaria». E si conclude, circa il rapporto istituito dal catasto fra una spinta dall'alto e lo sviluppo delle forze produttive con un quesito sociologico: «[...] sarebbe interessante riflettere fino a che punto la mancata o contrastata assunzione di principi più apertamente rinnovatori nel campo dei rapporti sociali e politici, di attacco diretto all’ordine feudale, venisse sostituita in molti Stati italiani da una politica economica di manovra e d’intervento, diretta ad assicurare o a stimolare per altre vie la crescita del sistema produttivo agricolo»47. Con il che però, a mio avviso, si ricade nell’esame delle «grandi tendenze della storia», che, all’inizio, si era pur dichiarato di voler escludere. Manca, infatti, al quesito posto dallo Zangheri ,il respiro di una capacità euristica dotata di nessi ed articolazioni non programmatiche e ciò per una serie di ragioni, sia storiografiche che ideologiche.
In linea generale, è già stato rilevato come l’utilizzazione dei catasti per lo studio storico della distribuzione della proprietà terriera abbia rappresentato «un netto orientamento a isolare l’analisi di un tema: la quantità della terra posseduta e il suo valore imponibile: il significato economico di essa, i rapporti di produzione che vi si attuano, le condizioni di vita di
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quanti vi operano, costituiscono un’altra e diversa fase d’indagine da affrontarsi in tempi e con strumenti diversi»48.
Se con tale impostazione si sono comunque poste le basi istituzionali per studiare anche i rapporti di produzione e la dinamica fondiaria e quindi poste le condizioni per cui «attraverso l’ottica del catasto potrà semmai essere sollevata una domanda di più circa l’emergere del mondo borghese [...] in quella sede decisiva della vita economica che è, prima della rivoluzione industriale, la società rurale»49, come ha fatto altrove lo stesso Zangheri50, non pare però possano trarsi da tale ottica catastale estrapolazioni generalizzanti su un presunto ruolo decisivo dello Stato nella genesi della borghesia rurale italiana. La ricognizione quantitativa, sulla base di criteri giuridico-istituzionali, della consistenza economica della borghesia agraria italiana, riconferma tautologicamente la propria unilateralità interpretativa, trovando nell’ipotesi di una «supplenza» da parte dello Stato assoluto di un «movimento rivoluzionario» assente, un’estensione meramente ideologica. Sembra infatti eccessiva la statualiz-zazione della visione storica in cui uno «Stato che forza il passo» al di sopra di ogni tempo e spazio, opera come primo motore deH’emergere della moderna società borghese; uno Stato, di cui si danno per scontati i caratteri formali e l’intera articolazione del potere, senza storicizzazione alcuna. Se si considera quanto complessa sia la realtà politica ed amministrativa delle monarchie assolute d’antico regime, sì da sconsigliare l’attribuzione di qualsiasi orizzonte programmatico alla loro azione di governo anche aH’epoca delle riforme, possiamo senz’altro misurare l’ampiezza del divario tra l’ipotesi formulata e la concreta realtà da indagare.
D’altra parte, anche negli studi di storia del diritto, viene sempre più abbandonata un’impostazione statualistica dei fenomeni relativi alla problematica della formazione dello Stato moderno, e si propone una nuova indicazione di ricerca fondata sul riconoscimento per cui «il monismo indifferenziato della visione statualistica della politica (e del diritto) cede il posto ad un pluralismo di forze interagenti, ordinabili secondo un criterio aderente alla dinamica stessa delle loro interazioni. La esclusività del potere sovrano viene demitizzata e riavvicinata così ad altri rapporti di potere interni al sistema sociale considerato»51. Solo tramite questo spostamento dell’analisi dallo Stato, involucro vuoto di determinazioni concrete, al potere, non nella sua astrattezza sociologica, ma nella specifica curvatura dei
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suoi meccanismi, rapporti ed attori, è possibile una risistemazione dell’ipotesi che fa riferimento al ruolo dello Stato nel Settecento, operando un più corretto rapporto tra i vari livelli delle istituzioni e il movimento storico delle forze sociali. Si tratta allora d’introdurre — seguendo il filo rosso dell’ossatura amministrativa dello stato e del personale politico-burocratico — tra l’azione riformatrice delle monarchie assolute e il movimento riformatore — i due termini tradizionali dell'indagine storica — una ulteriore mediazione che ripercorra quella linea intermedia, priva comunque di svolgimenti predeterminati, dalla burocrazia alla politica, aperta ed indagata da F. Diaz nel caso esemplare del riformatore toscano Francesco Maria Gianni
Lo studio del personle amministrativo e politico che nel Settecento venne apprestando, al servizio delle monarchie assolute, più rigorose e tecnicamente affinate soluzioni in fatto di catasti, imposte, finanze ed amministrazione, può offrire il giusto tramite per cogliere i tempi e i modi in cui i fermenti di rinnovamento in una società in lenta lievitazione lungo tutto il secolo in una direzione borghese, si insinuarono prima nelle strutture istituzionali, per poi incontrarsi con le istanze di riforma dei sovrani assoluti, e coglier quindi anche le ambiguità e gli equivoci, su programmi e metodi, che s'annidarono fin dall'inizio in tale collaborazione. Il movimento intellettuale riformatore non è infatti riconducibile al solo momento della sua più organica e conseguente espressione nella seconda metà del secolo: il complesso delle idee, dei programmi, dei tentativi di riforma iniziò a costituirsi, come è noto, fra Sei e Settecento in Europa ed in Italia, e furono proprio curialismo e giurisdiziona-lismo le correnti che in Italia agitarono temi di riforma dello stato, in una concomitanza non sempre univoca con l'iniziativa monarchica, comunque sempre in un complesso scambio con le forze della società civile di cui non è legittimo trascurare, per un pregiudizio storiografico, la priorità nelle linee d'intervento nel processo storico di formazione del riformismo settecentesco 53.
In questa prospettiva è possibile, a me sembra, capire lo svolgimento di quell’«arco di ricerche e di scelte» che condussero a compiute e generali operazioni catastali: ma la «volontà politica» che vi presiedette non può assumersi come l'espressione prioritaria delle monarchie assolute, non può che essere il punto d’intersezione di complesse e molteplici forze interagenti. La linea mediana «funzionarne» della razionalizzazione che ebbe
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per ambedue le parti significati non convergenti e alla fine opposti, appare come la via più praticabile, sotto il profilo euristico, per una più organica connessione fra pensiero illuminista e volontà di riforma da una parte e pratica di governo e iniziativa monarchica dall’altra: al moto per le riforme verrebbe restituita così una sua profondità e un suo spessore, non altrimenti attingibili con i tradizionali apriorismi storiografici, siano essi la teologia delle idee o quella delle istituzioni.
Sembra, a tratti, che lo Zangheri idealizzi e contrapponga il lavoro dei «più audaci, sebbene meno celebri, e anzi addirittura oscuri... funzionari, i periti, i magistrati piemontesi, che per lunghi anni, sperimentalmente, fanno i conti con l’ardua problematica della perequazione e gettano le fondamenta del catasto»54, alle elaborazioni teoriche dei pensatori economici quali Vasco o Broggia, incapaci di comprendere il valore politico e teorico della dottrina finanziaria catastale basata sulla rilevazione diretta da parte dello stato: ma come non comprendere il lavoro di questi funzionari nell’ambito di un movimento di riforma cha ha avuto gestazioni complesse, tempi di maturazione più lunghi e più disparati di quanto risulti dalla periodizza-zione corrente, come non considerare l’elaborazione fatta sul «campo», nel vivo dei problemi concreti posti dalla quotidiana costruzione dei catasti, in rapporto dialettico con l’elaborazione più riflessa degli economisti settecenteschi?
Né vale citare, a sostegno della propria tesi, la nota affermazione di P. Verri, secondo cui «assai più che i progressi del secolo, hanno contribuito le illuminate determinazioni della Corte a scuoterci dalle tenebre e dal letargo in cui eravamo avvolti»55; è una testimonianza che ha lo stesso valore di quella, opposta, di G. Pecchio che, in pieno Risorgimento, affermava che l’Italia «nel secolo decimottavo [...] non uscì dagli affanni, e dagli abusi d’una micidiale amministrazione che con l’aiuto dell’economia pubblica»56. Entrambe testimonianze significative di due epoche: la seconda, a processo compiuto, della raggiunta egemonia politica da parte della borghesia risorgimentale e della compiuta autonomizzazione dell’economia politica, come scienza dei bisogni della medesima; la prima, del suo ruolo politico ancora subalterno e di una non acquisita autonomia, anche formale, della scienza economica nei confronti della scienza di governo assolutistica. Ma la subalternanza e la debolezza materiale ed ideologica della borghesia riformatrice settecentesca è fatto certo ed acquisito57, la «supplenza» della monarchia assolutistica è altra cosa:
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formule come «riformismo assolutistico» o «dispotismo illuminato» sono, come è noto, da tempo usurate. Il Sirugo così esemplifica l'ordine delle priorità storiche, riguardo alle operazioni catastali: «A una età in cui riniziativa economica era stata prerogativa quasi esclusiva di caste chiuse ne è succeduta una che vede le persone comuni prendere una conoscenza precisa del proprio stato e dei problemi tecnici del proprio lavoro. Potevano i governanti farsi sopravanzare dai trafficanti, dagli agricoltori, dagli artigiani? Alla scienza di governo [...] si imponeva un fattivo aggiornamento di mezzi, l’adeguamento della strumentazione conoscitiva al nuovo piano operativo dell'azione statale. In questa prospettiva va inserita quella nuova iniziativa statale nel campo della legislazione economica che si esplicherà soprattutto nella programmazione e nell'attuazione dei catasti, nelle operazioni deH’estimo censuario [...]»M.
In questo quadro, si può anche addivenire a una periodizza-zione più complessa dell’epoca delle riforme: ma non nel senso di una priorità cronologica della «supplenza assolutistica», ma neH’identificazione di nodi storici complessi, in cui l’intreccio di una pluralità di forze sociali e di poteri ha sedimentato fasi di respiro riformistico, lungo i ritmi della gramsciana «rivoluzione passiva». Ma ciò rimanda a una ricerca, non certo a una decisione ideologica.
L’idea di una «supplenza», in mancanza di materiali storici adeguati — che in Italia si avrebbero con ricerche ancora pionieristiche — spinge linearmente ad un quesito sociologico, povero di elementi euristici, circa resistenza di un nesso programmatico fra «una politica economica di manovra e d’intervento» da parte degli Stati italiani del Settecento, come seconda via, alternativa a quella rivoluzionaria francese ed inglese, e l’assenza di un «movimento rivoluzionario». Paiono affiorare in tale operazione suggestioni composite e molteplici, in parte ideologiche, in parte pratico politiche, con riferimento particolare al ruolo dello Stato e delle sue articolazioni nella vita economica e sociale: suggestioni legittime, purché si traducano in prime ricostruzioni storiche e non in altre suggestioni, di tipo storiografico. È nota, d’altra parte, la costante attenzione prestata dallo Zanghe-ri al ruolo dello Stato nel processo storico nazionale: è da segnalare un suo notevole articolo sul rapporto Stato-economia in età contemporanea59. Ma l’estensione di tale problematica a società d’antico regime, non pare produrre esiti costruttivi d’identificazione storica, ma ipotesi di sociologia storica circa il
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ruolo dello Stato in situazioni storiche tipiche, circa le due vie, diretta ed indiretta, nel processo storico della cosiddetta modernizzazione. La visione statualistica non sembra, inoltre, priva di una suggestione ideologica derivata da una lettura eccessivamente giacobina della lezione di Gramsci, sul ruolo del momento politico ed istituzionale nel risvegliare e organizzare forze sociali latenti o supposte inerti. Ma, come abbiamo già ricordato, è noto come anche nel Gramsci del «moderno principe», l’iniziativa politico giacobina e la ricognizione storica e sociale che presuppone, siano solidalmente unificate da una traiettoria né lineare né omogenea, ma profondamente segnata dalla circostan-zialità dello spessore sociale. Gramsci, d*altra parte, sul problema specifico del rapporto fra lo Stato e le forze sociali nel movimento storico concreto, ha lasciato precise annotazioni. In una nota Sulla burocrazia, come fenomeno di «significato primordiale nella scienza politica e nella storia delle forze statali», scrive: «È certo che ogni forma sociale e statale ha avuto un suo problema dei funzionari, un suo modo di impostarlo e risolverlo, un suo sistema di selezione, un suo tipo di funzionario da educare. Ricostruire lo svolgimento di tutti questi elementi è di importanza capitale: Il problema dei funzionari coincide in parte col problema degli intellettuali. Ma, se è vero che ogni nuova forma sociale e statale ha avuto bisogno di un nuovo tipo di funzionario, è vero anche che i nuovi gruppi dirigenti non hanno mai potuto prescindere, almeno per un certo tempo, dalla tradizione e dagli interessi costituiti, cioè dalle formazioni di funzionari già esistenti E...]»60. Osservazioni preziose anche al caso nostro, con il loro invito a una lettura meno immediatamente «politica» delle cose: nella definizione di un qualsiasi comportamento politico dei monarchi assoluti del Settecento, occorre almeno porsi, in via preliminare, il problema di metodo della profondità delle articolazioni burocratiche degli stati assoluti, dei suoi contrastati alimenti con i movimenti e i programmi delle forze sociali, onde meglio dimensionarne la rilevanza nel moto delle riforme.
5. Nell’awiarmi alla conclusione, vorrei appena richiamare il binomio analitico selezione-totalità con cui ho aperto queste note. La Storia dell’Einaudi costituisce senz’altro la migliore sintesi che la ricerca italiana abbia prodotto: maturazione di processi storici e progresso della cultura italiana ne hanno allargato molto il ventaglio delle tecniche e l’inventario dei temi e
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dei materiali storici. Il pluralismo dei metodi, dei temi e delle ispirazioni ideologiche non pare però aver trovato una mediazione effettiva in una metodologia unificata come base di una storia generale, intesa come genealogia differenziata di un presente storico. Forse perché su questo presente, il movimento della società civile, la sintesi politico istituzionale e la riflessione storica non hanno ancora trovato una sincronizzazione organica.
Ogni contributo pertanto, sembra seguire la sua particolare ispirazione — limitatamente a ciò che ho letto, I e V volume —: si tratti degli apporti della storiografia gramsciana, o dell'uso piuttosto «esterno» del lessico delle Annales da parte di R. Romano, che riesce non a una differenziazione, ma ad un appiattimento di un presunto «blocco» di quindici secoli, o della visione di «terza forza» di G. Galasso sulla storia delle forme di potere61. Il tessuto connettivo della Storia sembra dunque consistere in una riscoperta del «paese reale» alla luce del ripensamento resistenziale, cioè di un blocco storico antifascista che non sembra ancora aver chiarito i termini reali, cioè istituzionalmente transitabili e non ideologici, d)i una mediazione storica in corso, che ha i caratteri necessariamente fluidi della gramsciana «crisi» organica. Se manca quindi una storia generale, abbiamo per ora una sorta di archeologia della memoria storica nazionale o, se vogliamo, una sorta di catasto di un terreno già largamente dissodato, ma basato ancora sulle denuncie e sugli apporti delle volontà culturali, cui manca ancora la misura analitica di una «riuscita» egemonica unificante.
Per comprendere questo intreccio società ci vile-storiografia ci possono ancora soccorrere le annotazioni di Gramsci che, con l’attenzione sempre posta al caso esemplare della «riuscita» francese, illumina acutamente le differenze tra la cultura storica francese e quella italiana, in rapporto ai rispettivi assetti sociali ed istituzionali. In una nota La crisi in Francia, egli connetteva la molteplicità dei partiti in Francia con «la ricchezza di eventi rivoluzionari in Francia dal 1789 alT“affare Dreyfus”» e rilevava che questa molteplicità «ha permesso una vasta opera di selezioni individuali e ha creato il gran numero di abili uomini di governo che è caratteristica francese. Attraverso questo meccanismo molto snodato e articolato, ogni movimento dell’opinione pubblica trovava un immediato riflesso e una composizione. L’egemonia borghese è molto forte e ha molte riserve. Gli intellettuali sono molto concentrati (Istituto di Francia,
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Università, grandi giornali e riviste di Parigi) e, quantunque numerosissimi, sono in fondo molto disciplinati ai centri nazionali di cultura. La burocrazia militare e civile ha una grande tradizione e ha raggiunto un alto grado di omogeneità attiva»62. Da ciò ne derivava — in un'altra nota su Cultura storica italiana e francese — che «la cultura storica e generale francese ha potuto svilupparsi e diventare “popolare-nazionale” per la stessa varietà della storia politica francese [...]», mentre quella italiana, con riferimento in particolare alle interpretazioni risorgimentali, scontava i limiti imposti dalla «inconsistenza e gelatinosità» del processo risorgimentale e dello Stato unitario63.
Certo, lo stato odierno della cultura storica italiana non è quello che era presente agli occhi di Gramsci; e l’impresa einau-diana è la testimonianza di trent’anni di ricerche e di un rinnovamento sostanziale di temi e di strumenti d’indagine. Nondimeno, i rilievi gramsciani sul rapporto storiografia-società civile, indicano una direzione di riflessione e di ricerca, circa il rapporto tra una crisi organica in corso — le sue dislocazioni sociali e politiche, le tappe nodali di maturazione del suo svolgimento, il ruolo degli intellettuali e della cultura — e il grado e il tipo di «catarsi» operata dalla produzione storiografica. Ed è a Gramsci, io credo, che occorre riferirsi ancor oggi, per riformulare il senso e la prospettiva di un rinnovato rapporto fra i due termini. Rivalutando l’agibilità analitica e politica dei principi del marxismo tramite la definizione di una linea di transitabilità egemonica all'interno dello spessore sociale dell’Occidente capitalistico, Gramsci mutava le basi stesse dell’indagine storica, trasferendola dall’impostazione speculativa o, nei migliori dei casi, sociologico-classificatoria, in direzione di un’attitudine analitica di esame di processi storici di transizione. Certo, bisogna anche fissare, nelfambito di un ripensamento analitico della sua opera, i suoi limiti teorici, rilevare l’incertezza e l’approssimazione di molte sue affermazioni teoriche, soprattutto filosofiche; ma non si deve, nel porlo a confronto con il contesto teorico europeo, spingere l’opera di gnoseologizzazione delle sue posizioni, oltre il punto in cui si cadrebbe nel fraintendimento del loro senso e della loro intenzione. La valenza, infatti, specificamente politica del suo pensiero, fa sì che «l’unità della sua riflessione sembra consistere soprattutto in una evidenza di ordine eticapratico la cui verità è, per questa ragione, più vissuta che esaurientemente oggettivata»64. Vediamo i momenti salienti di questa carenza «gnoseologica».
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L’assunzione della società capitalistico-liberale a modello teorico della sua riflessione, il conseguente mancato rilievo dei moderni processi di reificazione e razionalizzazione, nonostante gli acuti ma scarsi accenni ai fenomeni di una «società “razionalizzata”, in cui la “struttura” domina più immediatamente le soprastrutture e queste sono “razionalizzate” (semplificate e diminuite di numero)»65 con riferimento alla società americana di cui, d’altra parte, si mostra di avere parecchi fraintendimenti66; questi limiti pesano, anche a livello politico, determinando un’idea ambigua della nozione stessa di prassi, intesa variamente in termini politici e tecnologici, con la conseguente esaltazione dell’ideologia e della disciplina produttivistica67, l’incomprensione della genesi nuova, utopistica e particolaristica insieme, delle moderne esigenze di libertà e delle tensioni sociali corrispondenti, con la risoluzione, infine, politica di queste, nel rapporto esclusivistico Partito-masse e l’inaccettabile privilegiamento del primo termine come moderna «divinità» o «imperativo categorico», nell’ambito di un duro totalitarismo68. Sotto il profilo più generale e storico, pare che a Gramsci sfuggisse la qualità nuova degli anni Trenta, come quell’età in cui s’integrarono quegli elementi di crisi della società liberale oggetto dell’analisi di Polanyi69.
La sua teoria dell’intellettuale «organico», chiave di volta del suo sistema e della sua teoria della egemonia, sconta in realtà, il limite teorico di una sopravvalutazione del ruolo politico rispetto a quello istituzionale dell’intellettuale nell’età del capitalismo di massa, tramite l’estensione, in base a pura analogia, anche alla classe operaia della possibilità e della nascita di intellettuali «organicamente» rivoluzionari, così come gli intellettuali organici del capitalismo urbano erano storicamente sorti in contrapposizione a quelli «tradizionali». Gli sfuggiva, forse, che in quanto produttori di rapporti sociali ideologici sotto il capitalismo massificato, essi costituiscono un gruppo sociale che, nella nuova committenza data dai bisogni di masse storicamente in ascesa, tende a identificare la possibilità di un rinnovato rapporto carismatico con esse, e nei loro partiti, gli organi della mediazione politica di tale rapporto; ciò che porrebbe questioni complesse alla praticabilità dell’egemonia operaia.
Sotto il profilo filosofico, l’accettazione di Gramsci della crociana categorizzazione della prassi in forme ed atteggiamenti del soggetto (i «distinti» che diventano gradi della superstruttu-ra), lo portò a concepire il passaggio dall’economico-corporati-
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vo all’etico-politico in termini troppo metaforici e secondo un’ impostazione che è stata definita «idealistico-repressiva, sublimante»70. L’idea, d’altra parte, di una politicità come dimensione originaria della vita sociale — pur respingendo la velleitaria identificazione di teoria e prassi deH’attualismo gentiliano — ne subiva tuttavia il fascino in un marcato volontarismo. Ma se sotto l’aspetto strettamente gnoseologico questi limiti paiono chiari, nella pratica politica del suo pensiero e della sua ricerca concreta, essi vengono nettamente superati. È infatti nella scienza politica che Gramsci formula quei concetti di «movimento» in grado di cogliere dei fenomeni storici, sia il lato istituzionale e il suo interno spessore, che il loro margine di permeabilità all’iniziativa politica. Posizione che a me sembra, fra le rivalutazioni dialettiche della soggettività rivoluzionaria compiute nel nostro secolo, la più avanzata e corretta; sono noti i limiti d’inagibilità politica di Storia e coscienza di classe di Lukàcs e della sociologia francofortese di Adorno, incapace, quest’ultimo, di gettare un ponte fra l’indagine micrologica del dettaglio storico e la sua universalizzazione politica71.
Se Gramsci ha potuto giungere a simili esiti teorici, malgrado i suoi limiti di fondo, lo si deve a una sua sensibilità storica quasi tattile e «morbosa», ossessionata dalla necessità di indagare e trasfondere continuamente l’esistenza dell’uomo nel dettaglio della vita quotidiana nella superiore luce dell’autocoscienza politica. È stato già notato come ima significativa aggettivazione, che poi rimarrà tipica in Gramsci, articoli, fin dalla riflessione giovanile, l’analisi storica del processo di formazione di una volontà collettiva dal basso: «molecolare», «capillare», «organico», «aderente», frequenze che nella perentorietà del loro ricorrere, stanno ad indicare quanto acuta ed analitica fosse la sua attenzione al germinare delle energie storiche operaie e quanto «capillare» e diffuso egli volesse il loro emergere e la loro espressione politica72.
Al di là delle polemiche e delle operazioni consumate sul pensiero di Gramsci, è da ribadire che questo tipo d’analisi storica, che riconosce i limiti discriminanti della selettività del materiale storico soltanto nelle esigenze di libertà storicamente necessarie, va acquisito e mantenuto, assieme alle preziose sedimentazioni teoriche, di analisi storica e sociologica cui ha dato luogo. La recente edizione critica dei Quaderni può essere l’occasione per ridefinire il discorso su Gramsci su una base di rimeditazione analitica come strumento di ricostruzione di un’im-
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magine criticamente mediata del nostro passato e del nostro presente; ma essa immagine, per costruirsi, deve pur alimentarsi degli stimoli di uno sviluppo sociale la cui «forma storica» di «rivoluzione passiva» assuma le cadenze di una effettiva trasformazione sociale.
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NOTE AL TESTO
1 S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, voi. I, Bari 1966, pp. 6-7.
2 L. Canfora, Totalità e selezione nella storiografia classica, Bari 1972, pp. 7-8. Si veda anche id., Teoria e tecnica della storiografia classica, Bari 1974.
3 Presentazione dell’Editore G. Einaudi, Una storia militante, in Libri nuovi. Periodico Einaudi di informazione libraria e culturale, n. 12, Marzo 1973.
4 R. Romeo, Chi siamo e dove andiamo, in «La Stampa», 5 marzo 1974. 5 Ivi.
6 B. Croce, Storia economico-politica e storia etico-politica, in Etica e politica. Dopo averne rilevato la differenza, sia nei riguardi della Histoire de la civilisation degli illuministi, che della Staatsgeschichte, della tradizione romantica tedesca, così Croce definisce l’oggetto e il soggetto della storia etico politica: «[...] la formazione degli istituti morali nel più largo senso, compresi gli istituti religiosi e le sette rivoluzionarie, compresi i sentimenti e i costumi e le fantasie e i miti di tendenze a contenuto pratico [. . .]. Creatori di quegli istituti sono i geni politici, e le aristocrazie o classi politiche che li esprimono dal loro seno e che essi a loro volta generano e mantengono».
7 B. Croce, Di un equivoco concetto storico: la «Borghesia», in Etica e politica.
8 A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, 1948, pp. 219 ss. e pp. 240-242.
9 M. Foucault, Due risposte sulla epistemologia. Archeologia delle scienze e critica della ragione storica, Milano 1971, p. 67. Si veda anche n>., L'archeologia del sapere, Milano 1971, pp. 9-39, dedicato al tema della storia dove tra l’altro si dice: «La storia continua è l'indispensabile correlato della funzione fondatrice del soggetto: la garanzia che tutto ciò che gli è sfuggito gli potrà essere reso; la certezza che il tempo non disperderà nulla senza restituirlo in una unità ricomposta : la promessa che il soggetto potrà un giorno — sotto la specie della coscienza storica — impadronirsi nuovamente di tutte le cose che la differenza tiene lontane, riaffermare il proprio dominio su di loro e trovarvi quello che si può ben chiamare la sua dimora. Fare dell’analisi storica il discorso della continuità a fare della coscienza umana il soggetto originario di ogni divenire e di ogni pratica, costituiscono i due aspetti di uno stesso sistema di pensiero. In esso il tempo viene concepito in termini di totalizzazione e le rivoluzioni non rappresentano mai altro che delle prese di coscienza» (pp. 20-21).
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10 A. Monti, Modelli euristici ed astrazioni determinate nell’analisi dei processi di transizione, in «Quaderni storici», 1974, n. 26, pp. 293-336.
11 G. Mairet, Les discours et l’historique. Essai sur la représentation histo-rienne du temps, Paris 1974, p. 86.
12 F. Braudel, Il mondo attuale, 2 voli., Torino 1966.
13 G. Mairet, op. cit., p. 113. Per le osservazioni sopra citate cfr. pp. 79-124.
14 Sull’opera di E. Labrousse, si veda ora AA.VV., Conjoncture économique structures sociales, Paris 1974, soprattutto il saggio di P. Vilar, Réflexions sur la «crise de l'ancien type»: «inégalité des récoltes» et «sous-développement», pp. 37-58.
15 Si sottolinea, generalmente, la scarsa conoscenza che Gramsci aveva degli sviluppi delle scienze sociali contemporanee, e una conoscenza di prima mano limitata a pochi autori. Tuttavia può darsi che assimilazioni più specifiche, sia di temi che di metodologia, gli siano giunte, come, ad es. di Durkheim mediato attraverso Sorel, secondo l'indicazione di A. Pizzorno, Sul metodo di Gramsci : dalla storiografia alla scienza politica, in «Gramsci e la cultura contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi gramsciani tenuto a Cagliari il 23-27 aprile 1967», Roma 1969, voi. Il, pp. 109-126. Inoltre, nonostante i giudizi negativi formulati da Gramsci sulla autonomia formale delle discipline sociali moderne, della sociologia in particolare, — d’altra parte la sociologia contro cui polemizzava non era quella critica-scientifica moderna, ma quella positivistica italiana tra Otto e Novecento, evoluzionistica e classificatoria — si deve, com’è stato notato, sulla base di una nota osservazione di Althusser, «andare oltre il senso immediato delle parole di Gramsci per vedere se nella sua opera non emergano in modo coerente gli elementi di una storia della società che si contrappone alle scienze «borghesi» del suo tempo non come negazione d’ogni scienza sociale, bensì in nome di una diversa nozione di scienza». L. Gallino, Gramsci e le scienze sociali, in «Gramsci e la cultura contemporanea», cit., p. 81. Sul rapporto Gramsci-Sorel, cfr. anche le osservazioni di N. Badaloni, Il marxismo di Gramsci, Torino 1975.
16 Cfr. le considerazioni di: M. L. Salvadori, Gramsci e il rapporto tra soggettività e oggettività nella prassi rivoluzionaria, in id., Gramsci e il problema storico della democrazia, Torino 1970, pp. 108 ss.; L. Paggi, La teoria generale del marxismo in Gramsci, in «Annali dell’Istituto Gian Giacomo Feltrinelli», Milano 1974.
17 Se il leninismo servì a Gramsci per dare agibilità politica ai principi del materialismo storico, è anche vero che esso subì, a sua volta, un’ulteriore mediazione prima e durante l’esperienza consiliare. La democrazia soviettista è considerata da Gramsci come l’essenza del regime uscito dalla rivoluzione d’ottobre e la stessa «legittimità storica del bolscevismo è di essere il presidio del soviettismo», in una direzione nettamente antigiacobina. M. L. Salvadori, Gramsci e il problema storico della democrazia, cit., p. 9. Sulla concezione leninista del potere, si veda un lucido saggio di L. Cafagna, Lenin e lo Stato in transizione, in «Il segnalatore. Rassegna trimestrale dei problemi del socialismo» a cura del Centro Studi PSI, I, 1971, pp. 4-27. Su una sostanziale differenza fra Lenin e Gramsci circa il rapporto dittatura-egemonia si vedano anche: S. Cambareri, Il concetto di egemonia nel pensiero di A. Gramsci, in
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«Studi gramsciani. Atti del convegno tenuto a Roma nei giorni 11-13 gennaio 1958», Roma 1969, pp. 87-94; A. Caracciolo, A proposito di Gramsci, la Russia, e il movimento bolscevico, in «Studi gramsciani», cit., pp. 95-104; H. Portelli, Gramsci e il blocco storico, Bari 1973, pp. 68 ss.; sulla continuità fra Gramsci e Lenin, insiste invece C. Buci-Glucksmann, Gramsci et l’Etat. Pour une théorie matérialiste de la philosophie, Paris 1975, pp. 205-229.
18 Scrive L. Paggi che elemento costante dell’attività teorica e politica di Gramsci è «il problema della individuazione della politica come determinazione autonoma della storia, non più immediatamente risolubile, quindi, nei canoni del materialismo storico». Machiavelli e Gramsci, in «Studi storici», n. 4, 1969, p. 874. Il che è vero, ma con questo non si può parlare di «morte della filosofia» in Gramsci, come sembra sostenere Paggi nel suo più recente contributo, La teoria generale, cit., p. 1327, in cui si afferma che lo storicismo gramsciano rappresenta «il modo in cui il marxismo determina un rinnovamento radicale nelle possibilità e nelle forme di esistenza della filosofia. È possibile anche dire che si tratta di una riformulazione e di una ripresentazione del tema della morte della filosofia». Sulla documentazione «opinabile» portata da Paggi a suffragio della sua tesi, si veda V. Gerratana, Note di filologia gramsciana, in «Studi storici», n. I, 1975, pp. 126-145.
Per quanto Gramsci definisca come «principi empirici e pratici» i concetti della scienza politica, tuttavia anche qui occorre andare oltre il significato immediato delle sue parole; non si tratta di puri criteri d'intervento politico, ma dimensionati sempre dalla riflessione storica, essi giungono ad includere «lo studio dei fenomeni di differenziazione e di integrazione sociale (in ogni senso: tecnico, economico, geografico, psicologico), dei modi in cui si forma la volontà collettiva, del funzionamento dello Stato. La scienza politica si presenta così [. . .] come una scienza unitaria dei fenomeni sociali, al punto da inglobare tutte le scienze sociali tradizionali». L. Gallino, art. cit., p. 90.
19 Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno, Torino 1955, p. 79.
2® Ivi, p. 132.
21 Ivi, p. 80.
22 ivi, p. 9.
23 II materialismo storico, cit., p. 127. Scrive Gallino che «nella sociologia positivistica Gramsci punisce non semplicemente un indirizzo sterile o dannoso di studi, ma l’idea stessa che nella società operino in modo sistematico forze capaci di affermarsi, come diceva Marx, “dietro le spalle" della volontà umana», art. cit., p. 86.
24 Note sul Machiavelli, cit., p. 161. La frase fa parte di un frammento significativo della concezione dello Stato di Gramsci: «... in realtà ogni elemento sociale omogeneo è “Stato", rappresenta lo Stato, in quanto aderisce al suo programma: altrimenti si confonde lo Stato con la burocrazia statale. Ogni cittadino è “funzionario" se è attivo nella vita sociale nella direzione tracciata dallo Stato-governo, ed è tanto più “funzionario" quanto più aderisce al programma statale e lo elabora intelligentemente». Documento ineccepibile del contrasto fra «la teorizzazione delle tendenze oligarchiche come elemento insopprimibile della vita organizzata» operata dalle scienze sociali del nostro
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secolo, e la Weltanschauung gramsciana. Cfr. Gallino, art. cit., pp. 94-97.
25 È significativa anche la sua incomprensione del Michels circa la struttura dei moderni partiti di massa. Concepito il partito come luogo e strumento dell’unificazione della presa di coscienza politica e del comportamento sociale (quindi filosofia della prassi + scienza politica), Gramsci elude il problema delle degenerazioni oligarchiche degli apparati politici, compresi quelle dei partiti operai, e la sua risposta è semplicemente politico-organizzativa, affermando che «la soluzione del problema, che si complica appunto per il fatto che nei partiti avanzati hanno una grande funzione gli intellettuali, può trovarsi nella formazione tra i capi e le masse di uno strato medio quanto più numeroso è possibile che serva di equilibrio per impedire ai capi di deviare nei momenti di crisi radicale e per elevare sempre più la massa». Note sul Machiavelli, cit., pp. 98-99. A Gramsci interessa «non il partito come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato» l’istituzione nella sua politicità programmatica, non l'istituzione-macchina. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerretana, voi. I, p. 432. Si tratta del frammento Marx e Machiavelli, già pubblicato da Gerratana in «Rinascita», 14 aprile 1967. Si veda anche il contributo di U. Cerroni, Il partito politico, in id., La libertà dei moderni, Bari 1968, pp. 214-255.
26 C. Buci-Glucksmann, op. cit..
27 IL materialismo storico, cit., p. 125. È noto il duplice significato di ideologia in Gramsci, strumento critico-denuncia torio ed elemento di coesione sociale. Circa il primo, posta l’identificazione critico-polemica di ideologia e filosofia, Gramsci si cautela stigmatizzando «l’errore [. . .] di elevare a momento metodico ciò che è pura immediatezza, elevando appunto l’ideologia a filosofia», dandone poi una sistemazione più ragionata: «è filosofia la concezione de] mondo che rappresenta la vita intellettuale e morale (catarsi di una determinata vita pratica) di un intero gruppo sociale concepito in movimento e visto quindi non solo nei suoi interessi attuali e immediati, ma anche in quelli futuri e mediati; è ideologia ogni particolare concezione dei gruppi interni della classe che si propongono di aiutare la risoluzione di problemi immediati e circoscritti». Ivi, p. 185 e p. 197. Su questi problemi si vedano le osservazioni di F. Fergnani La «questione Gramsci»: una proposta di riconsiderazione, in «Aut-Aut», 1974, n. 144, pp. 4-19.
28 Con riferimento alla lettura «funzionalista» di Pizzorno e Gallino, la Buci-Glucksmann scrive che «la dialectique révolutionnaire de Gramsci échappe à tout modèle "structural-fonctionnaliste”, où les modes d’integration à une structu-re (fonction) consolident des modes d’institutionalisation des contróles» e che «tout emploi d’un modèle d’integration appelle un modèle de désintégration, les couples théoriques et métodologiques de Gramsci étant bipolaires», op. cit., p. 75. Ma l’autrice non sembra cogliere a sufficienza nel corso della sua opera che anche la prassi rivoluzionaria, nella fattispecie l’egemonia, al pari di ogni istituzione, ha uno statuto residuale «structural-fonctionnaliste», che non può essere appiattito in un’accezione intuitiva e indiscriminata della politica, egemonia come immediato «opérateur gnoséologique et politique pour aborder les conditions d’une “reforme intellectuelle et morale de masse”». Ivi, p. 259. Tale statuto, che rinvia alla distinzione sociologica primordiale di Gramsci fra governanti e governati-ripresa dai «machiavellici» Mosca, Pareto e Michels (Cfr.
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G. Galli, Gramsci e le teorie delle «élites», in «Gramsci e la cultura contemporanea», cit., voi. I, pp. 201-216) — trova un tentativo di correzione nell’idea che sia la socializzazione dell’analisi politica e non la massificazione dell’ideologia, il veicolo della traduzione reciproca teoria-prassi: è, forse, da questo disperato sforzo di risolvere ogni cristallizzazione di potere nella processualità della lotta politica, che deriva a Gramsci quella forte «immaginazione sociologica» di cui parla Gallino.
29 Cogliendo il senso generale della rivoluzione gnoseologica e metodologica soggettivistica di fine secolo, T. W. Adorno, scrive che i concetti weberiani sono «non soltanto puntualizzazioni concettuali, ma piuttosto tentativi di esprimere accumulando concetti intorno a quello cercato ciò in cui consiste, invece di delimitarlo per fini operativi [. . .]. Appunto la tendenza alla crescente integrazione del sistema capitalistico, i cui momenti si annodano in una connessione funzionale sempre più completa, rende sempre più precaria la vecchia questione della causa rispetto alla costellazione, non la critica della conoscenza, ma in primo luogo lo sviluppo reale della storia spinge a ricercare costellazioni. Nella misura in cui in Weber esse si presentano in sostituzione di una sistematica, la cui assenza gli è stata volentieri rimproverata, il suo pensiero si rivela in questo qualcosa di terzo al di là dell’alternativa di positivismo e idealismo». Dialettica negativa, Torino 1970, pp. 148-149. Si veda anche di Adorno, il saggio Su soggetto ed oggetto, in id., Parole chiave Modelli critici, Milano 1974, pp. 211-231 e le osservazioni del prefatore T. Periini circa la rivalutazione di Kant da parte di Adorno, «nel rifiuto di ogni impostazione onto-gnoseologica implicante la subordinazione della prassi [. . .] ad una teoria che presuma, invocando per sé il requisito della retta conoscenza pienamente adeguata alla cosa, di poter porsi come il rispecchiamento verace dell’essenza del reale», ivi, ppi. XILXIIT.
30 L’influenza del pensiero di Kant su Gramsci, non sembra puramente analogica e generica, (come pensa Paggi in La teoria generale, cit., p. 1352), ma analitica, sia pure in un contesto di soggettività storicistico-rivoluzionaria, non gnoseologica. Non è inutile citare un passo di Kant sulla teleologia naturale che Gramsci, com'è noto (Cfr. Il materialismo storico, cit., pp. 164-165), estende alla storia, in polemica con Bukharin. Kant, pur definendo in linea di principio «del tutto tautologica» ogni spiegazione che invochi «una causa operante secondo fini per spiegare la finalità che crediamo di scorgere nelle forme stesse», afferma: «D'altra parte, è una massima egualmente necessaria della ragione di non trascurare il principio dei fini nei prodotti della natura; poiché, se esso non ci fa meglio comprendere il modo di essere di questi prodotti, è però un principio euristico per ricercare le leggi particolari della natura». Critica del giudizio, trad. di A. Gargiulo, Bari 1904, p. 272. Con riferimento alla teleologia kantiana ed husserliana, E. Paci scrive che in Gramsci «il problema della soggettività si risolve nella concezione del soggetto concreto: presenza, evidenza in prima persona [. . .] che si oltrepassa [. . .] verso il telos di una società umana [. . .] verso lo “spirito” concepito non come presupposto ma, appunto, come fine, come orizzonte e significato di verità che dà un senso a tutto il processo storico. Così considerato l’uomo è reale e “trascendentale”, e la sua prassi è prassi intenzionale [. . .]». Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Milano 1964, p. 331.
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31 L’idea di una soggettività rivoluzionaria criticamente connotata, funzionalmente connessa alla fase di transizione, appare integralmente nel celebre assunto gramsciano: «L’identificazione di teoria e pratica è una atto critico, per cui la pratica viene dimostrata razionale e necessaria e la teoria realistica e razionale. Ecco perché il problema dell’identità di teoria e pratica si pone specialmente in certi momenti storici così detti di transizione, cioè di più rapido movimento trasformativo, quando realmente le forze pratiche scatenate domandano di essere giustificate per essere più efficienti ed espansive, o si moltiplicano i programmi teorici che domandano di essere giustificati realisticamente in quanto dimostrano di essere assimilabili dai movimenti pratici che solo così diventano più pratici e reali», Il materialismo storico, cit., p. 39.
32 Si veda anche la recente raccolta A. Gramsci, Per la verità. Scritti 1913-1926, a cura di R. Martinelli, Roma 1974. Circa il terzo livello, l’analisi storica, Gramsci pone l’esigenza di una sua costituzione, anche formale, con riferimento alle opere storiche di Marx (18 Brumaio, ecc.) in questi termini: «Un’analisi di queste opere permette di fissar meglio la metodologia storica marxista, integrando, illuminando e interpretando le affermazioni teoriche sparse in tutte le opere. Si potrà vedere quante cautele reali Marx introduca nelle sue ricerche concrete, cautele che non potevano trovare posto nelle opere generali [. . .]. Esse potrebbero trovar posto solo in una esposizione metodica sistematica tipo Bernheim [. . .] in cui oltre al metodo filologico ed erudito [. . .] dovrebbe essere esplicitamente trattata la concezione marxista della storia», Il materialismo storico, cit., p. 96.
33 A. Gramsci, Un esame della situazione italiana, in La costruzione del partito comunista 1923-1926, Torino 1971, pp. 121-122. Testo del 1926.
« Roma 1957, p. 11.
35 Note sul Machiavelli, cit., pp. 41-44 passim.
36 E. Labrousse, Esquisse du mouvement des prix et des revenus en France au XVIII siècle, Paris 1933, 2 voli. id. La crise de l’économie frammise à la fin de Vancien régime et au début de la révolution, Paris 1944, di cui si veda anche l’esposizione generale del metodo nell’introduzione, pp. VII-LH. P. Vilar, Sviluppo economico e analisi storica, Bari 1970 pp. 140 ss. e p. 268.
37 C. Buci-Gluckmann, op. cit., pp. 118-119.
38 Note sul Machiavelli, p. 49. Scrive Labrousse che «la signification des fluctuations économiques varie selon leur durée, selon leur nature, selon leur époque, selon les catégories sociales sur lesquelles elles réfléchissent [. . .]. L'étude des fluctuations classées, hiérarchisées — mais dont on sait aussi toutes les nuances, tout le variable, toute l’historicité — de ces fluctuations qui couvrent de leur chaìne ininterrompue les saisons, les années, les siècles, est donc celle des avances et des reculs des revenus, celle des variations de la condition matérielle des Hommes. Ces variations intéressent la société tout cntière non seulement comme un grand fait humain, mais parce que vivement pergues par l’homme [. . .]. Bien entendu, le mouvement économique n’a pas que des conséquences économiques. Il est lié à toutes les autres activités humaines et dans une certaine mesure il les commande. Le problème est précisément pour nous de rechercher cette mesure». La crise, cit., pp. XII-XJII e p. XXL
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Aldo Monti
39 Scrive F. Fergnani: «Lo statuto formale del blocco storico è dato da un nesso di relativa continuità e compenetrazione che non soltanto esclude il più antiquato determinismo delle infrastrutture, ma anche un’interazione intesa come processo di influenze e contro-influenze fra termini-enti in una certa misura sostanzializzati. Messo definitivamente fuori gioco il causalismo a direzione univoca, Gramsci avverte che anche l’azione reciproca, con il suo postulare un potere reattivo e un effetto a feed-back delle superstrutture, non esce dall’orizzonte meccanicistico che al contrario essa conferma, pur consentendo di pervenire a risultati interpretativi meno rozzi». Di qui l’idea del blocco storico «come sintesi mobile di quantità e qualità: totalità sintetica non semplice, in cui il continuum non esclude un’estrema articolazione, in cui il totum della prassi è immanente e fungente in ogni parte, ma al modo singolare e specifico di essa parte. Nel “blocco” Gramsci ha il merito di indicare il luogo di concretizzazione del nodo hegeliano di quantità e qualità». Art. cit., p. 21 e pp. 23-24.
40 Quaderni del carcere, cit., voi. I p. 504; si veda anche Passato e Presente, Torino 1974, p., 53 e Note sul Machiavelli, cit., p. 70, sulla «rivoluzione passiva» come «forma dello sviluppo storico».
41 Sul privilegiamento, da parte degli intellettuali gramsciani, del referto tematico in Gramsci, a scapito di quello analitico, cfr. le osservazioni di L. Paggi, La teoria generale, cit., pp. 1369-1370.
42 Cfr. A. Pizzorno, art. cit.
43 Cfr. le ultime messe a punto di A. Gerschenkron, In difesa di un modo di vedere, in «Rivista storica italiana», 1968, n. 2 pp. 315-331. Critica da lontano: risposta, replica a I. N. Olegina, L’Industrializzazione capitalistica e quella socialistica nella trattazione di A. Gerschenkron, entrambi i contributi in «Riv. st. it.» 1972, n. 2, pp. 273-323. Tipico, per contro, il modo di ragionare di E. Sereni che, con riferimento a Gerschenkron e Saraceno, scrive che «quel che sostanzialmente ci divide è proprio la loro tendenza a riferire sistematicamente ogni dato processo o evento storico (e le strutture stesse di una determinata realtà) a null’altro che ad altri processi, ad altri eventi: i quali, a loro volta — in mancanza di un riferimento a una qualsiasi realtà strutturale, a qualsisai “sistema di rapporti necessari” — finiscono col presentarcisi sempre come processi ed eventi intrinsecamente arbitrari, casuali, occasionali». Capitalismo e
mercato nazionale, Roma 1966, p. XVI.
44 Si veda R. Zangheri, Agricoltura e sviluppo del capitalismo. Problemi
storiografici, in «Studi storici», 1968, n. 3-4, pp. 543-544.
45 I catasti, in Storia d’Italia, voi. V, parte I, I documenti, pp. 759-806.
46 Si veda E. Rota, Le origini del Risorgimento (1700-1800) 2 voli., Milano
1938.
47 I catasti, cit., pp. 804, 762-763, 767, 790, 804.
48 M. Berengo, A proposito di proprietà fondiaria, in «Riv. stor. it.», 1970 n. 1, p. 128,
49 R. Zangheri, I catasti, cit., p. 762.
50 R. Zangheri, La proprietà terriera e le origini del Risorgimento, nel Bolognese, I, 1789-1804, Bologna 1961.
51 P. Costa, lurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica
«Storia d'Italia» Einaudi, Gramsci e le «Annales»
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medievale (1100-1433), Milano 1969, p. 69. Si veda anche G. Astuti, La formazione dello Stato moderno in Italia, voi. I, Torino 1967.
52 F. Diaz, Francesco Maria Gianni dalla burocrazia alla politica sotto Pietro Leopoldo di Toscana, Milano-Napoli 1966. In questo volume il modulo biografico venturiano, articolandosi con l’analisi delle istituzioni, fa emergere con chiarezza il dilatarsi progressivo verso una consapevolezza politica delle riforme da una originaria visione funzionarile. Più in generale, è una linea di indagine che rinvia agli studi di storia parlamentare di L. Namier, ove la ricerca prosopografica concorre a cogliere un quadro sociale complessivo.
53 F. Venturi, Rapporto al XXXII congresso del Risorgimento (Firenze, 9-10 settembre 1953). La circolazione delle idee, in «Rassegna storica del Risorgimento», fase. II-III, 1954; id. Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969. Cfr. anche le osservazioni di A. Caracciolo, Nuovi studi sulle classi dirigenti e lo Stato moderno nel Settecento, in «Quaderni storici delle Marche», 1969, pp. 269-402.
54 I catasti, cit., p. 783.
55 Ivi, p. 803, citato dalle Memorie storiche sulla economia pubblica dello Stato di Milano.
56 Storia dell’economia pubblica in Italia ossia epilogo critico degli economisti italiani, Torino 1852 (I ediz. Lugano 1829), p. 20.
57 F. Sirugo, Intorno alla relazione tra cultura economica e pensiero civile del Risorgimento. L’opera di preparazione nel Settecento, in «Annali dell’istituto Giangiacomo Feltrinelli», 1959, pp. 11-54. Sulla necessità di studiare il rapporto tra l’affermarsi della cultura economica e la «formazione dei quadri della burocrazia statale», si veda pp. 50ss.
5» Ivi, p. 51.
59 R. Zangheri, Lenin, lo Stato e la teoria dell’imperialismo, in «Rinascita», Tl marzo 1970.
60 Note sul Machiavelli, cit., pp. 74-75.
61 Cfr. il dibattito sulla Storia d’Italia, in «Quaderni storici», 1974, n. 26, pp. 523-558.
62 Note sul Machiavelli, pp. 104-105.
63 Passato e Presente, cit., p. 35.
64 G. Nardone, Il pensiero di Gramsci, Bari 1971, p. IL
65 Note sul Machiavelli, p. 317.
66 A. Garosci, Totalitarismo e storicismo nel pensiero di Gramsci in id., Pensiero politico e storiografia moderna, Pisa 1954, p. 254.
67 F. Fergnani, art. cit.
68 A Garosci, op. cit., N. Matteucci, Antonio Gramsci e la filosofia della prassi, Milano 1931.
69 La Grande Trasformazione, Torino 1974. Cfr. anche le osservazioni di E. Galli Della Loggia, Verso gli anni Trenta: qualità e misure di una transizione, in «Belfagor», 1974, pp. 489-509.
70 T. Perlini, Gramsci e il gramscismo, Milano 1974.
71 Cfr. le osservazioni di Periini nella prefazione ad Adorno, Parole chiave, cit., pp. LXIII ss.
72 G. Nardone, op. cit., pp. 30-31.