L'ONORE RITROVATO. DONNE NELLA CASA DEL SOCCORSO DI S. PAOLO A BOLOGNA (SEC. XVI-XVII)

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Title
L'ONORE RITROVATO. DONNE NELLA CASA DEL SOCCORSO DI S. PAOLO A BOLOGNA (SEC. XVI-XVII)
Creator
Lucia Ferrante
Date Issued
1983-08-01
Is Part Of
Quaderni Storici
volume
18
issue
53 (2)
page start
499
page end
527
Publisher
Società editrice Il Mulino S.p.A.
Language
ita
Format
pdf
Relation
Le Désordre des familles: lettres de cachet des Archives de la Bastille au XVIIIe siècle, France, Gallimard, Julliard, 1982
Rights
Quaderni storici © 1983 Società editrice Il Mulino S.p.A.
Source
https://web.archive.org/web/20230920174651/https://www.jstor.org/stable/43777166?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxNywic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjQwMH19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A950e4c1539c25b7e06ec592ab428f893
Subject
biopower
surveillance
discipline
extracted text
L'ONORE RITROVATO.
DONNE NELLA CASA DEL SOCCORSO DI S. PAOLO A BOLOGNA (SEC. XVI-XVII)
1. A partire dalla seconda metà del XVI secolo sorsero a Bologna e in varie città d’Italia istituti per peccatricix. Le donne «cadute» diventarono oggetto di un intervento più articolato e preciso di quanto avvenisse in precedenza. Ai tradizionali conventi per le convertite penitenti si aggiunsero altri istituti, sia religiosi che laici, la cui azione era piuttosto diversificata.
Le istituzioni bolognesi ebbero ciascuna una propria storia che ne modificò nel corso del tempo il rapporto con le altre: tuttavia, tra la fine del XVI e la metà del XVII secolo, che è il periodo considerato in questo lavoro, non vi furono, a quanto mi risulta, mutamenti significativi delle loro principali caratteristiche.
Nel breve del 1560 di Pio IV, con cui venne istituita l’Opera dei Poveri Mendicainti di Bologna, il meretricio sembra considerato corollario inevitabile del vagabondaggio e della miseria2. Il ricovero delle questuanti è presentato implicitamente come un’azione contro la prostituzione. Nei successivi statuti dell’Opera del 1574 si esorta a non mettere a servizio le donne che prima dell’internamento ai Mendicanti fossero «use alla mala vita»3.
L’opera caritativa, che in queste disposizioni rivela già una preoccupazione venata di sfumature leggermente coercitive, acquista in seguito un forte carattere punitivo. Per castigo, le donne peggiori di altre istituzioni vengono mandate ai Mendicanti4. Nella seconda metà del ’600, tuttavia, e nel ’700, furono previste all’interno dell’opera sezioni tese piuttosto al recupero che alla sola punizione delle internate5.
La Casa del Soccorso di S. Paolo, che è il tema di questo lavoro, fu fondata nel 1589 6. Era destinata ad accogliere «giovani povere, vistose e cadute» nel peccato, desiderose di redimersi, che, «per mancamento di dote», non potevano accedere al Monastero delle Convertite7. Il loro mantenimento non era mai, salvo
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casi eccezionali, a carico dell’opera, anche se alcune donne pagavano una retta molto bassa8. Era previsto il reinserimento nella società mediante il matrimonio, la monacazione con l’aiuto di qualche benefattore, o qualche altra onorevole sistemazione9. Un certo numero di donne ricoverate in S. Paolo proveniva dalla Casa della Probazione. Questa istituzione, di cui possediamo pochissime informazioni, aveva funzioni simili a quelle del S. Paolo, da cui la distingueva soprattutto la rapidità della procedura d’ammissione 10. In taluni casi di comportamenti particolarmente cattivi le donne venivano mandate ai Mendicanti11.
Il Convento dei Santi Giacomo e Filippo, detto delle Convertite, fu fondato nel 1559 e prese il posto dei più antichi monasteri medievali per le penitenti ormai scomparsi12. Ad esso accedevano le donne che volevano ritirarsi dal peccato e che disponevano di una dote monacale13.
Nella prima metà del XVII secolo accanto alle monache troviamo anche «mondane» e «malmaritate», «a educazione», «in deposito»14. La retta pagata era relativamente più alta di quella versata alla Casa del Soccorso di S. Paolo, anche se col trascorrere del tempo la differenza sembra ridursi. Alcune delle monache avevano trascorso un periodo di tempo nella Casa del Soccorso prima di entrare in convento15.
Da questi troppo rapidi cenni, che possono solamente suggerire la complessità dei problemi, anche di ordine etico e culturale connessi alle varie istituzioni, si può intrawedere una specie di scala economico-sociale su cui erano disposti gli istituti bolognesi per le peccatrici. La caduta o l’ascesa dall’una all’altra istituzione, lungi dall’essere consueta, era tuttavia possibile. In particolari condizioni di merito o demerito, mutate condizioni economiche, interventi di benefattori e patroni, avveniva il passaggio: Caterina Merighi, che godeva della protezione della nobildonna Ippolita Boncompagni, uscì dai Mendicanti nel 1624 per entrare in S. Paolo, e di qui nel 1625 per monacarsi nelle Convertite16. Al contrario Ippolita Bertucci che era ricoverata in S. Paolo nel 1592, «perseverando nel pensiero del peccato et per altri suoi delitti fu cacciata nelli Mendicanti acciò non facesse più peccati» 17.
2. Fatta questa premessa, vorrei passare all’analisi di alcuni
problemi legati alla Casa del Soccorso di S. Paolo, l’istituzione
mediana nella gerarchia socioeconomica degli istituti per pecca-
trici.



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La capienza di S. Paolo era piuttosto modesta (eccezionalmente vi furono più di trenta ricoverate)18 e dal 1589 al 1662 vi entrarono complessivamente poco più di 600 donne, in media meno di dieci all'anno. In alcuni anni non viene registrato alcun ingresso (1597, 1648), in altri le ammissioni superano le 20 unità. I fattori che intervengono a determinare questo andamento sono molteplici. Se la fine del '500 e il 1648 sono anni di gravi difficoltà annonarie per Bologna19, il 1635 fu invece un anno di crisi per la Casa della Probazione, cui forse S. Paolo si sostituì almeno in parte. Quattro anni dopo, nel 1639, vi fu «un’introduzione straordinaria» di penitenti dovuta alla predicazione, per il ravvedimento delle donne cadute, compiuta dal padre Innocenzo Salvi in S. Pietro 2°.
Tabella 1. Numero delle donne presenti in S. Paolo nel periodo 1589-1662 *.
Numero delle donne di cui è certificata l’entrata e l'uscita 445
Numero delle donne di cui è certificata la sola entrata 115
Numero delle donne entrate e uscite più volte 43
Totale 603
* Nei documenti compaiono i nomi di altre 26 donne la cui entrata risulta incerta, e di 63 la cui domanda d'ammissione non viene accettata per mancanza dei requisiti o è resa nulla da un mutato, negativo atteggiamento nei confronti dell’internamento stesso.
Le internate erano suddivise in «ordinarie» che pagavano L. 3 il mese e in «straordinarie» che pagavano somme che potevano raggiungere le 15-16 lire mensili, almeno dal 1627 21. Chi non aveva una famiglia o dei benefattori in grado di pagare l’intera «doze-na» doveva supplire col proprio lavoro22. Maddalena Rioli fu accettata a condizione «che potendo lei con i suoi lavori soddisfare all’obbligo della settimana lo facci e non potendo, il fratello suo Giovanni Domenico s’obblighi di supplire al compimento»23. La carità interveniva a seconda dei casi in modi e misure diversi: un buon comportamento faceva sperare in un abbassamento della retta se non proprio nell’ammissione tra le ordinarie, ma erano



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possibili anche altre soluzioni. Per esempio Angela Anna Bonasso-ni fu accettata nel 1611 con raccordo di pagare «lire 3 il mese quando farà la cusina e il bugato et lire 8 il mese quando non li faccia»24. Qualche donna che avesse dato particolari prove di buona volontà e obbedienza poteva addirittura venire integrata al personale di governo: Prassede Bersani, che aveva chiesto una riduzione della retta, ottenne invece di servire «per madonna nella detta Casa acciò non paghi per l'avvenire provisione alcuna perseverando però lei di bene in meglio a tale servizio»25. Come spesso accade nelle istituzioni cosiddette totali i più vecchi internati finiscono per trovare nell’antico reclusorio l’unico posto in cui poter vivere, e da sorvegliati si trasformano in sorveglianti26.
In taluni casi erano mariti e parenti che chiedevano le riduzioni27.
Non sappiamo se esistessero delle differenze di trattamento tra le ordinarie e le straordinarie, se il lavorare o meno per la Casa configurasse una gerarchia simile a quella esistente nei conventi tra converse e coriste o, al contrario, producesse fenomeni di leadership; se alcune riuscissero a risparmiare qualche soldo per sé e in quale rapporto fossero con quelle che potevano evitare qualsiasi lavoro retribuito. L’unico indizio di una differenziazione è costituito dal fatto che alcune sembrano godere di una stanza singola grazie al pagamento di una somma supplementare
Il modello organizzativo e di convivenza era quello conventuale: un periodo di prova, non sempre necessario, presso la Casa della Probazione o presso qualche membro della Congregazione era seguito da un regime che potremmo definire claustrale29. Le donne non avevano diritto a ricevere visite se non autorizzate dal presidente della Congregazione, né potevano ricevere lettere. Gli eventuali regali destinati a qualcuna di loro dovevano essere divisi egualmente tra tutte, mentre donatore e destinataria dovevano rimanere ignoti. Lo stesso luogo predisponeva al silenzio, al raccoglimento, alla separazione dal mondo: le tavole del refettorio erano disposte in modo che le donne stessero tutte su di un solo lato per indurre al minimo la socialità conviviale; spazi affittati contigui alla Casa furono ad un certo momento tenuti liberi per evitare un possibile contatto con l’esterno; più volte ci si preoccupò di assicurare la porta con grossi catenacci e fu anche decisa la costruzione di una nuova muraglia e di una bussola30. Come nei pressi dei conventi femminili venivano impediti canti e suoni31. Le colpe, a seconda della gravità e della



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condizione della donna, potevano essere punite col carcere o con l'espulsione32.
Nonostante fossero ammesse soltanto donne che lo richiedevano esplicitamente è possibile scorgere molti indizi di insofferenza e anche di ribellione. Alcune fughe, l'allusione a comportamenti irriverenti e litigiosi, le crisi isteriche o depressive («spiritate», di «humore melanconico») e le molte invocazioni ad essere lasciate libere suggeriscono dei dubbi circa l'autentico desiderio di espiazione di diverse internate33. Nell'impossibilità di verificare il grado di consenso alla reclusione, si può ipotizzare che una disciplina più rigorosa del previsto scoraggiasse molte buone intenzioni.
Un livello a cui concretamente avveniva l'incontro/scontro tra internate e congregazione era quello del personale di governo, due o tre «madonne» di cui una portinaia. Custodi, sorveglianti, secondini sono, in tutte le istituzioni di questo tipo, elementi cardini del funzionamento; il loro ruolo è quello di mediare tra chi è rinchiuso e chi rinchiude e l'efficacia della loro funzione è il risultato di delicati equilibri che un'eccessiva durezza o un'eccessiva familiarità possono mettere in pericolo. Nella storia di San Paolo del Soccorso il problema dei sorveglianti è fonte di costante preoccupazione e per lunghi periodi appare irrisolto34. A più riprese vengono nominati degli assenti per trattare con le recluse al fine di «bonificarle e quietarle» 3S. Si decide anche di cambiare interamente il piccolo corpo di custodia, «non gustandosi di continuare con le presenti madonne per molti accidenti seguiti e riferiti» (poco tempo prima c'era stata la fuga di tre donne); si cerca di «conoscere distintamente gli difetti e disordini che succedono e disgusti che passano fra le madonne e donne della Casa ... conoscendosi ... che il capo principale della inquietudine viene causato dalla madonna della Casa...» ^ Francesca Morandi fu licenziata «per essersi troppo impadronita et non stare alla obbedienza dei padroni», mentre madonna Isabella venne mandata via «per essere troppo austera e non aver modo nel comandare». Altre, al contrario, furono licenziate per essere «troppo amorevoli» 37.
Accanto ai conflitti esisteva anche la solidarietà. Solidarietà e simpatia sperimentò Gentile Pulzoni quando, maritandosi dopo un anno e mezzo di soggiorno in San Paolo ricevette 5 lire come regalo di nozze da Maddalena Campagnoni che era già tornata in famiglia da qualche mese e da Isabella, madonna della Casa38. L'amicizia nata aH'interno dell'istituzione poteva addirittura sug-



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gerire il modo per uscirne. Margherita Pritoni, dopo ben dieci anni di internamento, sposò Stefano Fanagaressi, padre di Costanza, sua compagna nella Casa del Soccorso; quest’ultima, alcuni mesi dopo il loro matrimonio, potè uscire da San Paolo consegnata al padre e all’antica compagna, ora divenuta sua matrigna39. La lunga convivenza nella Casa poteva talvolta costituire la premessa di legami che andavano al di là deH’internamento per assumere caratteristiche prossime ai vincoli familiari. Santa Manzolino rappresenta uno dei rari casi in cui la durata della reclusione è veramente lunghissima: 21 anni. Entrata in S. Paolo nel 1595, dopo che il marito l’aveva abbandonata per andarsene con un’altra donna, Santa vi rimase fino al 1616, quando andò a vivere «in compagnia» di Lucia Gavazzi40. Quest’ultima, rinchiusa da quattordici anni, aveva deciso di uscire per andare a «governare» le sue due figlie. Alla richiesta di farne entrare ima nella Casa le era stato risposto che non bisognasse «introdurre novità» e che, soprattutto, abitarvi sarebbe stato «di pregiudicio» alla ragazzina. Per «ricognizione della longa servitù et obbedienza osservata» fu fatta una colletta tra i congregati per Santa e Lucia41.
In tutti i documenti pervenutici si lamenta la povertà dell’Opera, che non solo non può accettare tutte le richieste, ma stenta addirittura a mantenere le donne che si trovano già al suo interno42. Data la mancanza dei registri d’amministrazione non è possibile verificare la reale situazione finanziaria del S. Paolo: tuttavia, dai verbali di congregazione e da im sondaggio compiuto negli atti notarili, si direbbe che le sue condizioni economiche non fossero floride. La consistenza del patrimonio immobiliare risulterebbe limitata, fino al 1644, all’edificio in cui vivevano le donne e a un’altra casa posta nella stessa strada43. I legati testamentari, non numerosi, riguardano beni di consumo (uva, grano, legna da ardere) e alcuni censi44. Una eccezione è costituita dall’eredità della marchesa Virginia Malvezzi Ruini che nel 1644 lasciò un podere situato nel comune di Gesso, valutato L. 3250 circa45. La rendita di questo lascito avrebbe dovuto permettere, per la prima volta nella storia deH’istituzione, il mantenimento completamente gratuito di una internata. Nei 1630, invece, Isabetta Sirantoni, «ab ipsa Congregatione educata cum gravi ipsius Congregationis pau-peris dispendio copiatque» per una ventina di mesi, dovette cedere all’opera ima porzione di casa ricevuta in eredità dal fratello46. Nel 1595 Lucia Piazza era stata accettata con l’impegno della madre a versare L. 3 il mese e quello del datore di lavoro

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del marito a darne altrettante, detratte ogni mese dal suo salario, fino a raggiungere una somma equivalente alla dote versata dalla famiglia di Lucia47. Inoltre la carità dei benefattori non doveva essere sempre tempestiva se nel 1660 fu deliberato che «non si accetti et introduchi nella Casa donna di qualsivoglia sorte a convivere, se per essa non sarà stata data sigurtà idonea di persona commoda e maneggiabile come di mercante o negociante o cittadino, ma non gentiluomo, cavaliere o altro di rispetto contro il quale, occorrendo, non sia facile agire o da esso venir pagato con facilità»48. Probabilmente era tanto difficile sottrarsi alla richiesta di assistenza che persone di rango elevato finivano col promettere aiuti che non sempre erano in grado di dare. Il caso di Giacinta Betocchi, certamente estremo e non generalizzabile, rivela dei rapporti di patronage dagli sviluppi imprevedibili49. Giacinta, «buona figliola», ma maltrattata del tutto ingiustamente dal marito, alla protezione del canonico lateranense don Salvatore Bairozzi volle aggiungere quella del nobile Ferdinando Ignazio Bolognini. Purtroppo l'intervento dei patroni «non fece frutto alcuno... per esser quello [il marito] un homazzo»50. Il ricovero in S. Paolo parve allora la soluzione migliore e Giacinta vi fu condotta dallo stesso Bolognini, mentre il canonico si impegnava a pagare la retta. La speranza era che un periodo di separazione avrebbe indotto un mutamento nell’atteggiamento del marito, ma non fu così: la sua cocciutaggine si rivelò superiore ad ogni previsione.
A questo punto dai verbali dell'Inquisizione, davanti alla quale comparve più tardi il Bolognini, emerge una storia a dir poco curiosa. Secondo il racconto del nobile, quando il Barozzi volle «rimediare all’aggravio che egli aveva per mantenere la detta donna in quel luogo», prese a coinvolgerlo in ima serie di sortilegi che avevano lo scopo di «riunire o di dividere per sempre i due sposi». Insomma, in mancanza della riconciliazione, la morte del marito avrebbe loro consentito di liberarsi dell'impegno preso. La comprensione di questa vicenda si presenta indubbiamente problematica, ma credo vi si possa ravvisare un aspetto poco convenzionale del problema del rinchiudimento: la pressione cui erano sottoposti quelli che ne erano in definitiva gli autori, nella misura in cui la promessa di protezione impegnava il patrono nei termini del codice d’onore.
Dedicarsi alle opere pie era al contempo gravoso, ma anche ricco di potenzialità positive come l'aumento del prestigio personale attraverso l’ampliamento delle clientele e il rafforzamento di



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interessanti rapporti interpersonali mediante la collaborazione alle medesime benemerite attività. Don Girolamo Negri accettò infatti di coprire il ruolo di presidente, da diverso tempo vacante, a patto di poter introdurre chi voleva nella Casa e sottoponendo solo a fatto compiuto la ratifica delle sue decisioni al resto della Congregazione51. Le dame «visitatrici», nella pratica reali autrici del controllo sulle ragazze, e spesso parenti degli stessi congregati, entrarono talvolta in conflitto con questi per la rivendicazione di una maggiore autorità nella gestione della Casa52.
3. Passiamo ora ad esaminare alcune vicende di donne rinchiuse nella Casa del Soccorso di S. Paolo per capire cosa significava nella pratica quella caduta nel peccato che giustificava ideologicamente l’istituzione. Angela Silvestri, Cecilia Cavazzoni e Ippolita Cortesi erano vere e proprie prostitute, benché, almeno in un regolamento più tardo, si previlegino le donne «cadute per accidente» alle pubbliche meretrici53. I loro nomi compaiono nei registri dell’Ufficio delle Bollette, organo preposto al controllo del pubblico meretricio, tra il 1601 e il 1606 M. Le date e le somme pagate certificano i periodi per i quali queste donne hanno ottenuto la «patente» d’esercizio.
Nel caso di Angela Silvestri notiamo che il nome del pagatore alle Bollette, probabile amante o addirittura lenone, è il medesimo del benefattore che assicura alla Casa del Soccorso il suo mantenimento. Il regolamento di S. Paolo ammetteva che gli «amici carnali» pagassero una elemosina «per soccorso della vita penitente» delle ex-amanti55.
Cecilia Cavazzoni restò pochissimo tempo in S. Paolo: in capo a un mese fu rimandata alla Casa della Probazione da cui proveniva ^
Ippolita Cortesi entrò in S. Paolo con la protezione della signora Panina Fasanini che le promise 100 lire57. Negli anni che seguirono, Ippolita decise di dedicarsi alla vita religiosa, ma la somma su cui poteva contare non era certo sufficiente a pagare la dote monacale e tutte le altre spese per le candele e la cerimonia della vestizione. Era necessario l’aiuto di qualche altro benefattore e Ippolita potè procurarselo nel 1608, dopo tre anni di internamento, quando il conte Giovan Battista Bentivoglio si impegnò ad intervenire a suo favore. Nello stesso periodo la Congregazione decise che il signor Banzi e lo stesso Bentivoglio fossero nominati «assonti per la cerca» presso tutti i congregati



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al fine dii procurare la somma necessaria a far entrare Ippolita nel Convento delle Convertite58.
Maria Gandolfi, figlia diciottenne di Paolo e Gentile, faceva bottoni e i vicini ne avevano una buona opinione 59. Da quanto lei stessa racconta al giudice del Foro Ecclesiastico, organo competente in materia di reati sessuali, non aveva mai «parlato» con un uomo fino a quando non aveva conosciuto Pietro Padoano, figlio del sarto presso cui lavorava suo fratello Matteo e sarto lui stesso. L’amore era nato una sera di settembre in cui, insieme a sua madre e a Matteo, Maria se ne stava sull’uscio di casa a prendere il fresco. Pietro era passato di là per caso, aveva riconosciuto Matteo, s’era fermato, aveva scherzato con sua madre, l’aveva vista. Qualche altro incontro casuale ed ecco Matteo arrivare a casa una sera con «una rama di giacinti odorosi quali io accettai — raccontò poi Maria al giudice — e in questa guisa Pietro si scoperse invaghito di me». Ma in seguito Pietro aveva abbandonato Bologna piuttosto che mantener fede alle promesse di amore e di matrimonio. In casa di Maria era scoppiata la tragedia. Angelo, il fratello maggiore già sposato e fuori di casa, aveva addirittura minacciato di ammazzarla. Allora era intervenuta Gentile, la mamma, e le due donne, sole, erano andate al foro arcivescovile, si erano fatte ricevere da monsignor Vicario, avevano chiesto giustizia e protezione. Gentile sapeva che tutti i vicini avrebbe potuto testimoniare dell'onestà di Maria e dei teneri colloqui con Pietro al calar della sera sull’uscio di casa; per questo, probabilmente, s’era risoluta a sporgere querela, a rivolgersi alle autorità, che per prima cosa avevano sottratto Maria alla collera del fratello inviandola in San Paolo. La versione che ho dato della vicenda è quella proposta dalla stessa Maria confermata da due vicine. È possibile che la collera del fratello sia stata un pretesto per far intervenire la giustizia in maniera ancora più decisa che se fosse stato denunciato un semplice stupro, sempre difficile da provare.
Di alcune donne era in gioco la vita stessa: per Livia Tederisi vivere con il marito, «affatturato malamente» significava «pericolo dell’offesa di Dio e della propria vita»: per lei San Paolo era dunque un luogo sicuro, un rifugio60. Ma quando il signor Cesare Bianchetti, suo benefattore, le intimò di ritornare con suo marito, dovette obbedire: da sola, pur lavorando per la Casa, non era certo in grado di pagare l'intera retta. Tutti sapevano però che la sua situazione era difficile e quindi fu deciso di «riservarle il luogo nella Casa ogni volta che abbia giusta causa di partirsi dal



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detto marito» tanto più che Livia era «bonissima donna meritevole di ogni aiuto»61. Sei mesi dopo avrebbe effettivamente usato di questa possibilità rimanendo ancora in San Paolo un altro periodo di tempo prima di ritornare di nuovo col coniuge. Non sappiamo molto della storia di questa coppia, ma è sufficiente rilevare che in momenti di crisi coniugale particolarmente acuta San Paolo poteva diventare un luogo sicuro per il ricovero della moglie e, date le caratteristiche di vita quasi monacale che vi si conduceva, esso garantiva, forse meglio di qualsiasi famiglia, quella salvaguardia dell'onore femminile indispensabile alla riconciliazione. Tutto questo in assenza del minimo sospetto sul comportamento precedente l’internamento della donna62.
Da S. Paolo alcune donne fuggirono. Tra gli altri è il caso di Messina Vignola internata nel 1626, moglie del signor Flaminio Seghelli, medico. È questa una delle poche donne appartenenti ad uno strato piuttosto elevato di cui si abbia notizia certa. Credo che in questo caso ci troviamo di fronte ad un castigo privato messo in atto con l’aiuto e la protezione di una serie di persone influenti63. Non abbiamo trovato infatti traccia di alcuna risoluzione presa in ambito giudiziario né laico, né religioso; si riscontrano invece una cospicua elemosina pagata dal marito, una promessa del pagamento della «dozzena» e una fideiussione da parte di persone nobili e facoltose. La procedura di internamento è inoltre piuttosto inconsueta: da un lato non vengono rispettate alcune norme statutarie come il consenso da parte della donna, la visita medica, il divieto di accettare donne maritate, la visita degli assonti; dall’altro assistiamo ad un mercanteggiare relativo alle condizioni economiche accompagnato da un’estrema discrezione nei confronti della famiglia.
In questo come in altri casi, allorché il presidente si riserva di fare il nome della donna solamente dopo che la Congregazione abbia accettato di ammetterla, evidentemente senza prendere le solite informazioni, è probabile si debba ravvisare la volontà di non diffondere inutilmente la notizia di uno scandalo ancora limitata ad un ambito ristretto. La solidarietà di ceto e di gruppo sembra imporre un aiuto discreto. Messina fuggì dalla sua prigione dopo circa sedici mesi, con un’azione violenta che comportò lo scassi-namento della porta e una colluttazione con la portinaia.
Diversa è la vicenda di Isabetta Dini. Questa volta si tratta di un amore sfociato in un omicidio prima e in ima pena capitale poi. La vicenda si svolge in un villaggio di collina nel contado bolognese, Oliveto, poco distante dal confine modenese.



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Isabetta, diciottenne, figlia unica di una famiglia molto povera, ama Tommaso Gardiani, alfiere della milizia di Bazzane, benestante, ammogliato, «cervello fantastico» M. Ad un certo momento decide di fuggire con lui, dice di essere stanca dei maltrattamenti paterni, della povertà. La reazione del padre, Biagio, è immediata: va a Bologna, sporge denuncia, fa venire un notaio dei Foro Criminale ad Oliveto. L’esito del procedimento è quello di far pagare le spese alla moglie di Tommaso e di scatenare l’ira più feroce di quest’ultimo. L’ultima sera di ottobre del 1616 Biagio viene ucciso da un colpo di archibugio sulla porta di casa. Dopo un processo durato alcuni mesi la giustizia decide la condanna a morte in contumacia di Tommaso Gardiani per ratto e omicidio. All’inizio di febbraio del 1617 Tommaso e Isabetta vengono trovati dagli sbirri modenesi e estradati. Isabetta viene immediatamente internata nella Casa della Probazione dove rimane fino all’inizio di settembre quando si trasferisce alla Casa del Soccorso. Nel marzo dell'anno seguente entrerà nel Convento dei Santi Giacomo e Filippo a «probazione»65. L'internamento nella Casa della Probazione si spiega forse con il fatto che la ragazza, oltre a dover in qualche modo pagare per la leggerezza commessa, non poteva ritornare al paese dove ormai era più che disonorata, essendo stata la causa indiretta della morte del padre. Il passaggio a San Paolo e, in seguito, alle Convertite appare invece legato altri fattori: oltre agli immaginabili problemi di ordine psicologico che dovevano tormentarla, Isabetta era erede di 100 scudi. Quella somma non le veniva dal padre, «pover homo», ma da Tommaso che prima di essere giustiziato, il 25 febbraio 1617, fece testamento e lasciò vari legati ad altrettante opere pie e quel denaro a lei.
Le vicende narrate mostrano che le donne rinchiuse nella Casa del Soccorso avevano storie personali molto differenti. Alcune non sembrano nemmeno essersi macchiate di quel peccato che avrebbe dovuto essere il presupposto deH'internamento. Questa complessità di situazioni individuali conferisce una fisionomia ambigua alla istituzione almeno rispetto alla sua dichiarata intenzione ideologica: offrire la possibilità di redimersi alle peccatrici. L’ambiguità va affrontata facendo forse riferimento ad un altro codice morale, diverso da quello religioso, ma altrettanto importante nella società df ancien régime: quello laico dell’onore 66 La sfasatura òhe percepiamo tra gli intenti dichiarati e i casi concreti è forse conseguenza di una nostra lettura che utilizza solamente i parametri dell'etica cristiana. Sfasatura che potrebbe



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essere semplicemente il manifestarsi nell'attività dell’Opera dell’interazione di due sistemi di valori differenti. Il problema che si pone è quello di riconoscerli e interpretarli. Mentre le nozioni di peccato e di grazia hanno una definizione teologica sufficientemente precisa, quelle di onore/disonore sono invece più sfuggenti, perché alla loro determinazione concorre una molteplicità di fattori. Le condizioni economiche, sociali, familiari contribuiscono a determinare vari stati di onore secondo regole di cui sappiamo ben poco67. Mentre lo stato di grazia è fatto individuale, realizzazione di un rapporto personale e interiore con Dio, l’onorabilità, almeno nella ricostruzione antropologica del concetto mediterraneo di onore, è fatto eminentemente sociale68. Non può esistere onore al di fuori dell rapporto con gli altri, ed è nell’esteriore riconoscimento da parte degli altri che consiste il valore di un individuo, valore che al pari di un bene materiale può essere intaccato, distrutto, ricostruito69. L’onore femminile, benché sia soprattutto sessuale, non sfugge a questi condizionamenti70. Per capire fino in fondo i criteri usati nel rinchiudimento delle donne bisognerebbe ad esempio capire il valore sociale, in termini di erosione dell’onore, del semplice sospetto del peccato. Un simile sospetto aveva la stessa rilevanza per la nubile e per la maritata? per la figlia o la moglie di un salariato e per quella di un padrone di bottega? per l’orfana e per colei che aveva i genitori? L’ipotesi più probabile è che nei diversi casi il sospetto incidesse in maniera differenziata sulla reputazione della donna e dei suoi familiari innescando reazioni modulate sulla gravità del danno temuto71. La cosa certa è che le donne che entravano in S. Paolo si trovavano in una situazione di perdita dell’onore. Lo prova a contrario il rifiuto di ammettere la figlia giovinetta di Lucia Gavazzi, con la motivazione che il soggiorno in S. Paolo, in qualunque condizione si realizzasse, sarebbe «di pregiudicio» a lei, fanciulla ancora intatta72.
Solo apparentemente è contraddittoria la richiesta di Gentile Machiavelli che già una volta era stata in S. Paolo e vuole ritornarvi per sposarsi con «maggior sua reputazione»73. Per Gentile un altro periodo trascorso nell’istituzione significava giungere alla cerimonia che sanciva il suo reinserimento nella società con il maggior onore possibile nelle sue condizioni di donna già caduta.
Il soggiorno nell’istituzione ha la doppia valenza di togliere o aggiungere onorabilità a seconda della qualità e quantità della medesima posseduta all’entrata. L’importanza dell’onore nella so-



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cietà d’ancien regime e la cura posta nel salvaguardarlo sono testimoniate dall'esistenza dei «conservatori», istituti espressamente concepiti al fine di custodire quello che veniva considerato il bene più prezioso delle fanciulle74. All'interno di questa cultura è possibile collocare la ricostituzione, che si compie in S. Paolo, di un certo tipo di onorabilità delle donne che in qualche modo l'hanno perduta. Questa delicata operazione avviene coniugando insieme i principi dell'etica cristiana (il rito della penitenza e il perdono) e quelli della morale laica dell'onore. Ovviamente non bisogna escludere che motivi pratici inducessero internamenti che avevano soltanto come scopo secondario la riacquisizione di una buona reputazione.
4. Cerchiamo ora di verificare le ipotesi circa la ricostituzione dell'onore mediante l'internamento in S. Paolo, prendendo in esame alcuni elementi di carattere sociologico relativi all'esito e alla durata del rinchiudimento.
Ho suddiviso le 445 donne per le quali è certificata l'uscita secondo l'esito. Le categorie utilizzate sono suggerite dalle fonti:
Tabella 2. Donne suddivise per esito all’uscita.
Maritate
Consegnate alla famiglia
Consegnate alla <sigurtà» * Senza indicazioni ** A servire Monacate
110
107
89
81
33
25
Totale 445
* Considero consegnate alla <sigurtà» tutte le donne per cui viene nominato un responsabile non familiare.
** All'interno di questa categoria sono raggruppate le donne la cui uscita risulta priva di qualsiasi indicazione e quelle che vengono cacciate. Numerosi indizi suggeriscono che le modalità di questi esiti fossero simili.
Il matrimonio, per lo più con artigiani, e la monacazione sono una acquisizione di status che testimonia intuitivamente un ripristino della onorabilità. Più problematica si presenta l’inter-



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prelazione degli altri esiti che non rappresentano necessariamente un insuccesso (fatta eccezione per le uscite senza indicazioni in larga misura assimilabili alle cacciate per cattivi comportamentali). Per esempio, nel numero delle donne riconsegnate alla famiglia sono comprese quelle che ritornano coi mariti. Alcune sono adultere o sospette tali, mentre altre sembrano piuttosto malmaritate (abbandonate, maltrattate dal marito) 75. Dal 1618 si tese ad escludere da S. Paolo le donne già sposate, ma di fatto esse continuarono ad entrare. In tutto il periodo studiato se ne contano complessivamente 56; di queste, 22 si riconciliano con lo sposo all'uscita dalla Casa del Soccorso di S. Paolo76.
Data la cura con la quale la congregazione si preoccupa di individuare i responsabili cui affidare le donne nel momento in cui vengono dimesse, le informazioni relative al trasferimento della custodia possono essere considerate significative. Ricevere in consegna una giovane appare un segno di particolare coinvolgimento nelle sue vicende. A partire da queste considerazioni, la presenza maggioritaria dei parenti più stretti (rari sono zii e cugini) parrebbe indicare che i problemi connessi alla condotta sessuale femminile venivano gestiti all'interno della cerchia familiare più intima. Un ruolo decisamente prevalente sembra attribuibile alla figura materna: il numero delle madri attive nel rapporto con l’istituzione è pari a quello di padri, fratelli, sorelle sommati insieme77. In numerosi casi le madri gestiscono la situazione procurando rinternamento, conservando le doti, riprendendosi le figlie. Anche in casi di donne sposate cogliamo la presenza di una tutela materna che si prolunga al di là dell’abbandono della famiglia d’origine per intervenire nei momenti di acute crisi coniugali78. La precarietà della condizione di domestica è nota: proprio in relazione a questo esito troviamo la concessione del rientro, nonostante si tendesse in generale ad escludere questa eventualità, probabilmente per avvalorare una immagine del S. Paolo come luogo di redenzione definitiva79. A Lucrezia Ruggeri viene detto che quando «avrà servito per due anni continui, né avrà commesso cosa alcuna indecente le sia lecito ritornare nella nostra Casa». Anche in altri casi si specifica che perdendo il posto non per propria colpa e avendo «trattato seco onoratamente» sarà possibile rientrare nell’istituto80. Di fatto il problema dei rientri esisteva: alcune decine di donne trascorsero diversi periodi della propria vita tra le mura della Casa del Soccorso. Segno che al di là del ravvedimento e dei buoni comportamenti seguiti al soggiorno nell’istituzione, posto che fos-



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sero veramente colpevoli — e non sempre lo erano — molte di loro si trovavano a vivere in situazioni affettive, familiari, sociali instabili. Di queste situazioni l’opera di S. Paolo era nella pratica struttura ausiliare. Barbara Mazza entrò ben cinque volte nell'arco di un ventennio: già presente nella primavera del 1636, pagando una retta ridotta, entrò una seconda volta nel settembre dell'anno seguente per i «molti pericoli nei quali poteva incorrere [...] a causa del marito». Circa un anno dopo uscì per andare a servizio presso la famiglia Biondi, ma «per non voler star[ci] volentieri» fu mandata dalla madre. Nell'aprile del 1639 la ritroviamo introdotta dalla signora Lucrezia Malvasia. Questa volta è gravida, ma viene ugualmente accettata. All'inizio di agosto è riconsegnata alla signora Malvasia «per partorire poi ritornare». Nel registro delle entrate e delle uscite in data 11 novembre 1639 si legge: «Barbara Mazza è ritornata per continuare ad essere buona figliola». Il giudizio su di lei continua dunque ad essere positivo. Nel maggio del 1640 è nuovamente consegnata alla sua protettrice che promette di «accomodarla in luogo onorato». Ben quindici anni più tardi, nel 1655, «fu ancora accettata di nuovo Barbara Mazza altre volte sata in essa Casa pagando il solito e dando perciò la solita sigurtà»81. L'età ormai inevitabilmente matura non costituisce, eccezionalmente, un ostacolo.
Crisi coniugali ricorrenti risultano causa di molteplici internamenti: Caterina Lanzini chiese di entrare per un mese nel maggio del 1612, perché «essendo in discordia col marito» pensava che la permanenza in S. Paolo sarebbe stata utile «per meglio riappacificarsi con detto marito». Tuttavia la situazione non si evolse secondo i suoi desideri e un anno dopo fu nuovamente accettata per tre mesi, «essendo bella e in gran pericolo per essere in disgrazia o disgusto del marito e d'altri dei suoi». Leggiamo ancora la speranza che possa in breve tempo avvenire la riconciliazione, ma non fu così. Caterina rimase chiusa in S. Paolo non tre mesi, ma tre anni: fino al 1621, quando finalmente, dopo aver a lungo invocato la liberazione, fu consegnata alla madre82. L'obbedienza e la remissività dimostrate durante il periodo di internamento sono alla base di ulteriori ammissioni: così Camilla Galvani potè rientrare dopo il parto «havendo altra volta lei dato molta soddisfatione» M.
Il matrimonio e la monacazione sono gli esiti che più verosimilmente rappresentano una riacquisizione certa della onorabilità. Se, come sembra, questa era funzione di molteplici fattori,



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l’indagine per verificarne la ricostituzione andrebbe svolta a più livelli. Poiché l’individuazione stessa di questi livelli è tutt’altro che immediata e le informazioni in nostro possesso sono relativamente scarse, limitiamoci per il momento a prendere in considerazione un aspetto del problema: il livello economico. La caratteristica più evidente che accomuna le donne avviate alla vita coniugale e religiosa sembra essere il possesso di una dote. Senza di essa esistevano poche probabilità di sposarsi o monacarsi 84. La dote è dunque da considerarsi un elemento costitutivo dell’onore? non si potrebbe addirittura pensare che si potesse «comprare» una buona reputazione con una buona dote?
Vediamo come venivano costituite le doti maritali per le donne della Casa del Soccorso. Dai contratti di matrimonio reperiti risulta che tre erano i potenziali donatori: la famiglia, i patroni, la Congregazione, presenza e assenza dei quali si combinano in vario modo (ciascun donatore compare in circa due terzi dei casi, che sono complessivamente una trentina)85. La dote è generalmente composta di due parti, ima in danaro (da un minimo di 100 ad un massimo di 650 lire) e una in "mobilium et apparatus” (200 lire circa)86. Mentre le somme minori vengono quasi sempre erogate immediatamente, quelle più elevate vengono talvolta versate in più rate con un interesse annuale previsto del 6%. Nei patti qualche volta compare la clausola che una parte del danaro venga spesa per l’acquisto di ''ornamenta” (collane, anelli, bracciali) e vestiti nuovi per la donna87. Le norme che regolano i contratti di matrimonio delle donne di S. Paolo sono del tutto simili a quelle che stanno alla base di ogni altra transazione dello stesso tipo che avvenisse in quel tempo a Bologna: dall’impegno a conservare ed eventualmente restituire la dote, "salva parte lucranda per maritum UH uxore premoriente sine communis liberis” all’obbligo di investire le somme maggiori "in aliqua re stabili in civitate vel guardia vel comitatu Bononiae idoneo fideiussore”. E di garanti ne compaiono diversi, sia per assicurare allo sposo che parti di dote promesse saranno effettivamente versate, sia per garantire i donatori che in ogni caso lo sposo sarà in grado di ridare la somma ricevuta. Particolarmente attenta a questa condizione si mostra la Congregazione ogni qualvolta eroghi una quota della dote, giungendo talvolta ad imporre il proprio controllo sul suo uso anche nel periodo successivo all matrimonio88. Posto che le famiglie non sempre contribuiscono o non contribuiscono in maniera sufficiente a costituire la dote, sarebbe estremamente interessante sapere co-



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me una donna riuscisse a procurarsela. Il caso di Violante Guicciardini è forse significativo. Violante risulta «introdotta ad istanza delTill.ma signora Ippolita Boncompagni» il 3 luglio 1602 e consegnata alla medesima signora Ippolita per sposarsi con Benedetto “filatoliero”, il primo aprile 160389. Nel marzo di quell’anno, presso il notaio Achille Canonici, era stato redatto l’atto di matrimonio da cui risulta una dote costituita di poco mobilio non valutato, e di ben 650 lire in parte versate e in parte da versare90. Ed ecco come si giunse a questa somma: il padre Ortensio Giovannelli, agostiniano, diede “de pecuniis habitis amore Dei prò elemosina” L. 200 e promise di darne altre duecento scaglionate nei due anni successivi, garante il signor Cesare Gessi, orefice. Il presidente della Congregazione si impegnò a consegnare, in nome della stessa, altre 200 lire il giorno degli “sponsalia in faciem ecclesiae”. Domenica, sorella di Violante “dedit solvit et exbursavit” L. 50 in buona moneta d’oro e d’argento. Infine il signor Gerolamo Boncompagni, marito di Ippolita, promise due casse di noce e qualche altro mobile “ad arbitrium”. Violante era orfana di padre e non sappiamo se avesse molti altri parenti oltre la sorella, ma è possibile individuare in quest’ultima un personaggio chiave. Infatti Domenica, all’epoca della stipulazione del contratto, era “in domo illustrissimi domini Hieronimi Boncompagni degens prò nutrice”. Lo stesso Boncompagni era uno dei membri più attivi della Congregazione del Soccorso e fu a casa sua che il notaio Canonici stipulò il contratto di matrimonio. La sequenza nutrice-moglie del congregato-congregato-Congregazione potrebbe costituire un’ipotesi per interpretare la generosità dell’Opera nei confronti di Violante. Che un comportamento remissivo durante di periodo di internamento fosse elemento importante per ottenere qualche aiuto è probabile, ma è forse spiegazione non esaustiva91.
Come sappiamo, non tutte le ragazze che si sposarono ebbero la dote dall’istituzione, e tuttavia questa non mancò mai di presiedere al contratto di matrimonio: in più casi, anche quando la somma è data interamente da altri, troviamo i congregati “agentes et auctorantes”, anche quando il matrimonio è stato contrattato dal padre essi sono “praesentes et consentientes” ^ Al contrario, vivente il padre, matrimoni negoziati dall'Opera avvengono senza che compaia il suo consenso93. Sappiamo del resto che uno dei compiti dei membri della Congregazione era procacciar mariti per le proprie «figlie» e che quando un pretendente si presentava veniva aperta un’inchiesta per verificare se fosse il



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caso di «concedere il parentando» ^ L’istituzione sembra quindi assumere le caratteristiche proprie delle patria potestas fino al punto di allontanare le giovani da famiglie giudicate indegne e di proteggerne i diritti ereditari contro gli stessi parenti95. L’Opera si configura come una nuova, prestigiosa famiglia di cui fanno parte nobili, ecclesiastici, avvocati, banchieri, che accoglie le donne sotto la propria tutela96.
Il ruolo dell’istituzione come famiglia configura una rete di relazioni basata su una parentela artificiale in cui la donna viene a trovarsi inserita. Vediamo cosa può significare tutto questo a partire dall’ipotesi che non esista onorabilità per l’individuo isolato, ma soltanto per quello che è all’interno di un gruppo che gli riconosce un certo valore. In questo caso il valore riconosciuto sarebbe l’avvenuta redenzione della donna; il gruppo che lo riconosce è costituito di cittadini nobili, ricchi, stimati che, durante il periodo di internamento, hanno vegliato sul processo di rigenerazione morale della reclusa. I congregati, apraesentes et consentientes” nel momento altamente formalizzato del contratto di matrimonio, esprimerebbero in modo esplicito questo riconoscimento garantendo allo sposo la buona condotta della donna durante la sua permanenza nell’opera. La buona condotta di per sé non è riconquista d’onore, ma lo diventa solo se è riconosciuta da qualcuno degno di fede, da una persona onorevole: come se nella garanzia si compisse una sorta di trasferimento d’onore dai patroni alle protette/recluse97. Transazione non del tutto priva di reciprocità, se pensiamo che una vera redenzione attestava l’efficacia dell’istituzione provando la credibilità di chi la gestiva. Da questa ipotesi l’importanza del fattore economico in relazione all’onore non viene smentita, ma complicata da una serie di altri elementi condizionanti: la buona reputazione non si compra con il denaro della dote, ma un certo modo di ottenere questo denaro può aiutare a riconquistarla. Per provare questa ipotesi bisognerebbe sapere se e quante donne cadute nel peccato, ma in possesso di ima dote si sposassero e, posto che ve ne fossero, se e quante godessero della protezione dii un patrono. Bisognerebbe insomma capire se un pentimento e una redenzione maturati fuori dall’istituzione e sostenuti da un rapporto personale con un cittadino facoltoso e onorevole conducessero al medesimo risultato del ripristino dell’onore testimoniato in S. Paolo. Nell’impossibilità di compiere una simile verifica, quello che si può dire è che il soggiorno nell’istituzione sembra rappresentare comunque una sorta di «rituale di purificazione» certamente non privo di



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efficacia. Parlo di rituale di purificazione e non di pena, perché il senso punitivo della «vita penitente» che indubbiamente esisteva, veniva attenuato dalla durata relativamente breve dell'internamento: in media meno di un anno, spesso pochi mesi98. Il periodo di tempo trascorso tra le mura della Casa del Soccorso acquisterebbe quindi un valore quasi autonomo dalla sua durata. Il passaggio nell'istituzione avrebbe un valore simbolico in riferimento alla concezione di un onore che si può riguadagnare mediante il contatto fisico col luogo deputato alla purificazione ". L'ipotesi di un valore simbolico deH'internamento sembra plausibile in una società d'ancien régime caratterizzata da «elevata segnicità», almeno per quanto riguarda le transazioni d'onore 10°.
Dopo il tentativo compiuto per analizzare i fini e i modi della Casa di S. Paolo, viene da chiedersi quanto contasse in ima città che aveva più di 60.000 abitanti, un'istituzione che ospitava un numero certamente esiguo di persone. Oltre a proporre l'analogia con le relativamente piccole case per i catecumeni, certamente non previste per accogliere tutti gli Ebrei, ma i «migliori» tra loro; penserei ad una funzione simbolicamente integrante dell'intera cittadinanza. Infatti, a livello politico, il S. Paolo rappresentava un luogo di inoontro/mediazione tra gruppi sociali differenti (non penso solo ai rapporti donne/congregati, ma anche a quelli tra gli stessi congregati, tutti onorevoli, ma non socialmente omogenei); a livello culturale ed etico costituiva luogo di mediazione tra il codice morale religioso e quello laico dell'onore, tenendo insieme norme e criteri di entrambi, come la riconferma del principio della pudicizia femminile. Responsabile e garante nei confronti della città di queste mediazioni era la Congregazione, che gestiva così un patrimonio essenzialmente simbolico. Le complesse e delicate operazioni necessarie alla riacquisizione, almeno parziale, dell'onore da parte di donne cui diventava lecito aspirare ad un dignitoso reinserimento nella società101, sembrano alludere ad una sorta di meccanismo redistributivo di una risorsa importante, l'onore cittadino, analogo per certi versi alla distribuzione dei beni di prima necessità agli indigenti.
Lucia Ferrante Università di Bologna



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NOTE AL TESTO
1 L'esistenza di istituti per peccatrici tra XVI e XVII secolo a Torino, Venezia, Genova, Firenze, Roma è testimoniata in: S. Cavallo, Assistenza femminile e tutela dell’onore nella Torino del XVIII secolo, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», voi. XIV, 1980, p. 142; B. Pullan, Rich and Poor in Renaissance Venice: thè Social Institutions of a Catholic State to 1620, Oxford 1971, pp. 391-4; A. Barzaghi, Donne o cortigiane? La prostituzione a Venezia. Documenti di costume dal XVI al XVIII secolo, Verona 1980, pp. 145-152; E. Grendi, Pauperismo e Albergo dei Poveri nella Genova del Seicento, in «Rivista storica italiana», a. LXXXVII (1975), n. 4, pp. 645-6; S. Cohen, Convertite e Malmaritate. Donne «irregolari» e ordini religiosi nella Firenze rinascimentale, in «Memoria. Rivista di storia delle donne», (1982), n. 5, pp. 46-63; B. Pullan, The old Catholicism, thè new Catholicism and thè Poor, in «Timore e carità. I poveri nell'Italia moderna», Atti del convegno «Pauperismo e assistenza negli antichi stati italiani» (Cremona, 28-30 marzo 1980), Cremona 1982, pp. 13-25. In questo stesso saggio B. Pullan sviluppa l’idea di una atmosfera culturale informata della «aggressive religion» (p. 25), propria della controriforma, in cui verrebbero concepiti gli istituti per peccatrici (p. 16) insieme agli altri per poveri e catecumeni.
2 Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi ASB), Opera Mendicanti, Notizie storiche, cart. 2, Statuti del 1560.
3 Ibidem, Statuti del 1574 ristampati nel 1603.
4 ASB, Demaniale, SS. Giacomo e Filippo, 99/6918, Libro dove si scrivono le donne quali entrano in S. Paolo del Soccorso 1589, c. 6 v., c. 23 v.
5 G. Calori, Una iniziativa sociale nella Bologna del *500. L’Opera Mendicanti, Bologna 1972, pp. 45-57.
6 Istituita nel 1589, vescovo Gabriele Paleotti, da Bonifacio Dalle Balle e da Pazienza Barbieri vedova Bolognetti, la Casa prima detta delle «Malmaritate» e in seguito del Soccorso di S. Paolo, dopo alcuni trasferimenti in S. Petronio Vecchio e nella Seliciata di Strada Maggiore, rimase per dodici anni in Broccaindosso per trovare poi la sua sede definitiva in Via Galliera dove si installò nel 1602 (G. Guidicini, Cose notabili della città di Bologna, Bologna 1868-73, 4 voli., II, p. 191). Papa Benedetto XIII soppresse nel 1729 la Casa del Soccorso attribuendone i beni al monastero dei SS. Giacomo e Filippo detto delle Convertite «a causa che simili donne — quelle di S. Paolo — assuefatte ai peccati, quantunque apparentemente convertite venissero licenziate dalla predetta Casa, al più delle volte però ritornavano al primo tenore di vita lubrica e scandalosa [...]» (Costituzione di nostro Signore Benedetto Decimo quarto sopra la confermazione, rinnovazione et am-pltazione de’ privilegi e ragioni del monastero e monache de’ SS. Giacomo e Filippo di Bologna, Bologna, 1745). Questo lavoro prende in esame il periodo che va dalla fondazione al 1662, perché alcune delle fonti su cui si basa, cioè i verbali di congregazione e i registri delle entrate e delle uscite si limitano a quegli anni.
7 Biblioteca Comunale dell'Archiginnasio di Bologna (d'ora in poi BCAB), Raccolta Gozzadini, 244, s.d. databile 1640 circa. Nonostante questo documento sia tardo, il suo contenuto appare confermato da tutta la documentazione che verrà analizzata nel seguito di questo lavoro, anche per l'epoca precedente.
8 Soltanto dal 1644 in poi, cioè dal momento in cui la Casa entrò in possesso



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dell'eredità della marchesa Virginia Malvezzi Ruini venne mantenuta una donna completamente gratis secondo le disposizioni testamentarie della marchesa (ASB, Ufficio del Registro, registro 404, c. 176 v.).
9 BCAB, Raccolta Gozzadini, 244.
10 La Casa della Probazione si trovava nella Via S. Mamolo ed era stata fondata nel 1600 (ASB, notaio Achille Canonici, Atti 1631, 5 settembre Emptio Congregationis Domus Probationis a Garberio; ASB, Demaniale, SS. Giacomo e Filippo, 99/6918, Sessioni della Congregazione della Casa del Soccorso di S. Paolo, Libro primo, c. 120).
11 ASB, Libro dove si scrivono cit., cc. 3, 6, 24, 62, 78, 118.
12 G. Gudicini, Cose notabili cit., p. 315; G. Zarri, I monasteri femminili a Bologna tra il XIII e il XVII secolo, in «Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Provincie di Romagna», Bologna, 1973, pp. 141, 180.
13 La dote monacale che erano tenute a versare le donne che volevano entrare nelle Convertite era molto più alta di quella che le stesse donne del Soccorso di solito versavano per il matrimonio. Come vedremo più avanti, difficilmente la quota in danaro superava le 600-650 lire; al contrario la somma di 1400 lire erogata da ima donna che volle entrare nel convento dei SS. Giacomo e Filippo nel 1663 venne definita «dote solita» (Archivio Arcivescovile di Bologna, d'ora in poi AAB, Miscellanee vecchie, 266, fase. 14 c)_.
14 ASB, Demaniale, SS. Giacomo e Filippo, 3/6822, Libretti delle provisioni che già pagavano le malmaritate e mondane che habitavano nelle Convertite.
15 Durante tutto il periodo esaminato troviamo donne che passano da S. Paolo alle Convertite. Nel 1630 l’Arcivescovo di Bologna chiese esplicitamente alla Casa del Soccorso di S. Paolo di assumere la funzione di «probazione» per le Convertite (Sessioni cit., c. 112).
16 Libro dove si scrivono cit., cc. 60 v.-61.
17 Ibidem, c. 6.
18 II numero delle donne di volta in volta effettivamente presenti nella Casa del Soccorso costituisce un problema, perché esse risultano assenti dagli stati delle anime della parrocchia di S. Benedetto di cui pure la casa faceva parte, e dai registri dell'opera emergono solo informazioni parziali (Sessioni, cit., c. 96). Nel 1627 si fa riferimento al numero 12 per quanto riguarda le ordinarie; ma, a seconda delle contingenze economiche, appaiono cifre complessive differenti. Nel 1622 si delibera che nella Casa si accolgano soltanto 12 donne senza specificare se ordinarie o straordinarie (Sessioni cit., c. 75). Nel 1629 viene espressa l’opportunità di disfarsi del maggior numero possibile di internate (Ibidem, c. 109). Nel 1639, in occasione dell'«introduzione straordinaria» si dice che si possono accogliere con «qualche scomodo» fino a 36-37 donne (Ibidem, c. 129). Nel 1640 si decide che le presenze non possano superare il numero di 24 (Libro dove si scrivono cit., carta non numerata, 29 marzo). Nel 1648, in occasione dell’aumento delle «provisioni mensuali» alle straordinarie, queste ultime risultano essere 14 (Sessioni cit., c. 153).
19 A. Guenzi, Pane e fornai a Bologna in età moderna, Venezia 1982, pp. 20, 55.
20 Sessioni cit., cc. 120, 127.
21 La suddivisione in «ordinarie» e «straordinarie» rimane costante, ma non è



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possibile capire se esistesse un rapporto fisso tra il numero delle une e delle altre.
22 L’Opera tende ad avvalorare l’immagine secondo la quale le giovani internate sarebbero provviste di tutto (v. i vari fogli a stampa distribuiti per chiedere le elemosine, particolarmente esplicito quello che comincia «Molto Reverendo Padre Predicatore nella Casa del Soccorso di S. Paolo si ricevono giovani cadute in peccato . . .», BCAB, Raccolta Gozzadini, 244, databile 1640). Ma noi sappiamo che non era così: le donne pagavano una retta limitata a 3 lire per le ordinarie, ma che raggiungeva le 15 e le 16 lire per le straordinarie e le maritate (Sessioni cit., c. 96, delibera del 4 febbraio 1627; Ibidem, c. 153, delibera del 7 dicembre 1648). Queste cifre restano invariate per diversi decenni intorno alla metà del secolo. Per avere un punto di riferimento del valore della lira si noti che una «tiera» di pane da 2 soldi pesava 14 once nel 1654 e 21 nel 1660. Questo significa che il prezzo del pane al kg. era in quegli anni pari a L. 0,23 e a L. 0,15 (A. Guenzi, Pane e fornai cit., p. 63). D'altra parte il lavoro era previsto come necessario corollario educativo di ima vita penitente (BCAB, Raccolta Gozzadini, 244, Condizioni che devono havere le Donne per essere ammesse e potere stare nella pia Casa del Soccorso di S. Paolo). Caterina Ferrari nel 1615 rischiò di essere cacciata in quanto non era o «non voleva più essere atta a guadagnare quello bisogna per lei e per la Casa [. . .] conforme ai suoi obblighi», tanto più che si era fortemente indebitata con l’Opera (Sessioni cit., c. 31).
23 Sessioni cit., c. 52.
24 Ibidem, c. 24. Caterina Rossi «pagando L. 16 il mese attenta l’istanza fatta e stante le buone sue qualità e rellationi e la sua povertà fu habilitata e fattagli la grazia di non pagare se non L. 10 il mese» (Ibidem, c. 162).
25 Ibidem, c. 121.
26 Utilizzo qui il termine di istituzione totale nel senso definito da E. Goffman, Asylums, le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Torino 1968, p. 34 ss. Assumendo come riferimento le cinque categorie in cui Goffman suddivide le istituzioni totali, la Casa del Soccorso si collocherebbe in una posizione intermedia tra la terza (prigione) e la quinta (monastero).
27 Laura Bordoni entrò in S. Paolo per fuggire alle minacce di morte del marito, Giovanni Zagni. Poco tempo dopo, lo stesso Giovanni, avendo rinunciato ai suoi feroci propositi, supplica la Congregazione di concedergli una diminuzione della retta (Sessioni cit., c. 143; Libro dove si scrivono cit., c. 134 v.).
28 Anna Maria Spighi che pagava nel 1654 L. 16 il mese fu «habilitata» a (pagarne soltanto 14, ma continuò a pagare 2 lire «per la stanza che gli fu concessa» (Sessioni cit., c. 163). In anni non lontani fu concesso a Vittoria Guaraldi di pagare una lira e mezzo «per la stanza che ella gode essendo piccola» (Ibidem, c. 167) e fu deciso di intervenire «appo il signor conte N.N. che fa stare in casa Domenica Manfredini acciò paghi per quel ch’ella resta debitrice per gli allimenti et commodità di stanza separata» (ASB, Demaniale, SS. Giacomo c Filippo, 99/6918, Libro di memorie, carta non numerata, 14 gennaio 1660).
29 Parecchie donne al momento della presentazione del memoriale col quale richiedevano rammissione nella Casa del Soccorso si trovavano nella casa di qualche congregato o in quella della Probazione, la cui funzione viene così descritta nel 1635 dal signor Alessandro Massarenti: «[. . .] avendo la Casa del



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Soccorso conosciuto il frutto che si faceva nella detta Casa di Probazione (anche essa per donne penitenti) gli parse bene di notificare a quelli di detta Casa se volevano aggregarsi in detta del Soccorso [...] perché in detta del Soccorso non si accettavano (le giovani) se non con lunghezza di tempo et in quella di Probazione si accettavano subito e si provavano se avevano buon desiderio di far bene et se erano capaci per il Soccorso le accettavano, se non erano si procedeva altrimenti» (Sessioni cit., c. 120).
30 Ibidem, cc. 130-130 v.
31 Ibidem, c. 21.
32 Ibidem, c. 130.
33 Nella notte tra il 26 e il 27 luglio 1615 fuggirono Angela Vaccari, Isa-betta di Messer Antonio e Antonia dalla Mano (Sessioni cit., c. 38), nel 1626 le imitò Messina Seghelli, nel 1630 Susanna Rizzi «fuggì via della Casa per i coppi» (Libro dove si scrivono cit., carta non numerata, 5 agosto). Le donne cacciate per cattivi comportamenti sono nel complesso una ventina. Dalla delibera messa a punto nel 1662 appare evidente l’allusione a pratiche di corruzione nei confronti delle guardiane allorché si decide di aumentare loro il compenso in modo da assicurare una maggiore fedeltà alla Congregazione (Sessioni cit., c. 130). Lucia Magnani «fu cacciata per essere inspiritata» nel 1592 (Libro dove si scrivono cit., c. 5) e Lucrezia Fani fu fatta uscire nel 1616 «per dubbio di essere pressa da humore melanconico» (Ibidem, c. 38). Tra le 63 donne per cui fu presentata domanda d’ammissione, ma poi non entrarono, molte fecero intendere ai visitatori di non aver nessuna intenzione di entrare in S. Paolo.
34 Gli anni 1636-40 testimoniano l’avvicendarsi di 7 donne di governo e la forte preoccupazione della Congregazione per la custodia delle ragazze (Sessioni cit., cc. 126, 136; Libro dove si scrivono cit., cc. 90-91, 102 V.-103, 103 V.-104 V.-105, 106 V.-107, 109 v.-UO v.-lll, 114 V.-115).
35 II 21 marzo 1624 «furono fatti assenti il signor Canonico Ringhieri e il signor Vitale Bonfioli per andare alla Casa et sedare le controversi e risse che sono tra le donne» (Ibidem, c. 82) v. inoltre la nota 33.
36 Sessioni cit., cc. 28 (15 gennaio 1613), 41 (27 ottobre 1615), 69 (25 giugno 1621).
37 Libro dove si scrivono cit., cc. 102 v., 122, 103, 110.
38 Sessioni cit., c. 121.
39 Ibidem, cc. 21, 35-36; Libro dove si scrivono cit., cc. 12 v., 13, 23, 28 v., 29, 35.
43 Libro dove si scrivono cit., cc. v.-8; Notaio Achille Canonici, Atti 1615, 22 gennaio, Absolutio Domini Sinibaldi de Claris a Congregatione Succursus Sancti Pauli. Dal 1595 al 1611 Santa aveva ricevuto l'aiuto di un benefattore, che aveva poi formalmente dichiarato di voler sospendere i versamenti.
41 Libro dove si scrivono cit., cc. 9 v.-lO; Sessioni cit., cc. ZI, 43.
42 V. i fogli a stampa per la richiesta di elemosine (BCAB Raccolta Gozzadi-ni, 244) e verbali della Congregazione (Sessioni cit., cc. 75, 109, 102, 121, 131, 158).
43 Nel 1602 la Congregazione del Soccorso acquistò dai fratelli Annibaie e Giovanni Pellicani per il prezzo di L. 6500 una casa posta in via Galliera, che fu pagata in rate successive e col fondamentale apporto della donazione di Lorenzo Banzi, futuro canonico della chiesa metropolitana di S. Pietro (G. Guidicini, Cose



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notabili cit., voi. II, p. 191; notaio Achille Canonici, Atti 1603, 26 giugno, Absolutio Congregationis Succursus Sancti Pauli a Giraldinis prò Pellicanis, Idem, Atti 1606, 13 marzo, Absolutio Congregationis Succursus a Pellicanis, Ruccola et Giraldinis). Questa casa sarebbe stata ampliata nel 1616 con l’acquisto di ima parte di un fabbricato contiguo per cui, tra l’altro, furono impiegati i soldi dell’eredità del signor Giovan Domenico Locatelli, banchiere, già congregato (L. 400) e del signor conte Mario Orsi, anch’egli della Congregazione (L. 500). Nel 1606 l’Opera di S. Paolo entrò in possesso delle eredità della signora Lucrezia Zancari vedova Savenzani, consistente in una casa posta anch’essa in via Galliera e di un censo di L. 1000, ma anche dei numerosi debiti e ipoteche sui beni della medesima signora (Idem, Atti 1606, 24 maggio, Inventarium hereditatis quondam Dominae Lucretiae Zancariae Savenantiae).
44 Sottolineando che le fonti in mio possesso non possono essere considerate esaustive rispetto alla conoscenza della situazione economica del Soccorso, ritengo tuttavia che il tipo e la frequenza dei legati testamentari da me reperiti possano essere considerati abbastanza indicativi dello stato patrimoniale dell’opera che, almeno per tutto il periodo preso in esame, non potè certamente vivere delle rendite del proprio capitale. Inoltre, se da un lato i legati testamentari non paiono esser né ricchi né numerosi, dall’altro assistiamo a non poche contestazioni relative alle medesime eredità (Sessioni cit., cc. 14, 14 v., 25, 28, 88, 100, 156; notaio Achille Canonici, Atti 1611, 15 dicembre, Procura Dominorum Officialium Congregationis Succursus Sancti Pauli, Idem, Atti 1613, 18 giugno, Absolutio Dominorum Marii et Pompila de Ursis a Congregatione Succursus Sancti Pauli, Idem, Atti 1628, 12 ottobre, Absolutio Heredum quondam Domini Sfortiae Gandul-phì a legato Sancti Pauli, Idem, Atti 1628, 10 maggio, Procura Dominorum Congregationis Sancti Pauli prò legato Luminasii, Idem, Atti 1629, 12 dicembre, Procura Dominorum Congregationis Sancti Pauli prò legato Luminasii).
45 Nel suo testamento la marchesa Malvezzi Ruini stabiliva che la giovane mantenuta con la rendita del suo lascito potesse godere di questo beneficio fino al momento in cui si sposasse e restasse in S. Paolo, anche nel caso in cui volesse abbracciare la vita religiosa. L’entrata nelle Convertite o in qualunque altro convento avrebbe comportato la perdita immediata di ogni sussidio. Nel caso poi l’Opera di S. Paolo fosse stata soppressa per una qualsiasi ragione i suoi beni sarebbero dovuti passare ai Padri Camaldolesi detti dell’Eremo. Questa clausola avrebbe costituito la base di un lungo contenzioso giudiziario tra questi religiosi e le Convertite quando Benedetto XIII soppresse la Casa del Soccorso e attribuì i suoi beni al convento dei SS. Giacomo e Filippo (ASB, Ufficio del Registro, registro 404, c. 176 v.; Sessioni cit., cc. 137, 152; Libro delle memorie cit., carte non numerate, 14 marzo 1659, 20 aprile 1660; Costituzione di nostro Signore Papa Benedetto Decimo quarto cit., p. 20).
46 Libro dove si scrivono cit., c. 70 v., Sessioni cit., c. 118, notaio Achille Canonici, Atti 1630, 21 gennaio, Procura Dominorum Congregationis Sancti Pauli prò Domina Elisabeth de Serantoniis, Ibidem, 8 giugno, Cessio Congregationis Sancti Pauli a Domina Elisabeth de Serantoniis.
47 Libro dove si scrivono cit., c. 6 v., notaio Achille Canonici, Atti 1595, 16 febbraio, Obbligatio Domus Succursus Sancti Pauli a Lucia Piazza.
w Libro di memorie cit., carta non numerata, 14 gennaio 1660.



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49 BCAB, Inquisizione, Processi, ms. 1883. Voglio qui ringraziare Milena Brugnoli, autrice di una tesi di laurea dedicata all’Inquisizione di Bologna nel XVII secolo redatta sotto la direzione del Professor Carlo Poni presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna presentata nell’A.A. 1982-83, che mi ha gentilmente segnalato questa fonte.
50 Ibidem, c. 473.
51 Sessioni cit., c. 108.
52 Ibidem, cc. 34, 130, 133. Una funzione di mediatrici tra il proprio ceto e quello inferiore viene riconosciuta, a livello culturale, alle nobildonne da P. Burbe, Cultura popolare nell’Europa moderna, Milano 1980, p. 30.
53 Condizioni che devono avere cit. Questo documento, posteriore al periodo in cui le meretrici citate entrano in S. Paolo, sembra riflettere un irrigidimento dei criteri di ammissione di cui peraltro in fonti diverse non compare traccia.
54 L’Ufficio delle Bollette era l’antico organo preposto al controllo dei forestieri, delle osterie, delle meretrici e prima anche degli ebrei (L. Simeoni, L'ufficio dei forestieri a Bologna dal secolo XIV al XVI, in «Atti a Memorie della Regia Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna», serie IV, voi. XXV, (1935), pp. 71-91).
55 ASB, Governo misto, Ufficio delle Bollette, Campione 1606, carte prive di numerazione in quanto i nomi sono posti in ordine alfabetico; ASB, Demaniale, SS. Giacomo e Filippo, 99/6918, Libro dove si scrivono cit., carta non numerata, 22 settembre 1607. Condizioni che devono avere cit., quinto capoverso.
56 Campione 1605; Libro dove si scrivono cit., c. 16 v.
57 Campioni 1601, 1604, 1605; Libro dove si scrivono cit., c. 15 v.
58 Sessioni cit., c. 7.
59 AAB, Foro Arcivescovile, Processi criminali, 1691, c. 7 e segg., La versione dei fatti proposta da Maria venne confermata, almeno per quanto riguarda in generale la sua onestà e la frequentazione con Matteo, da due vicine di casa, Maria Brunetti, vedova, e Maria Ferrari.
60 Libro dove si scrivono cit., cc. 14 v.
61 Ibidem, c. 15.
62 Barbara Miola fu fatta entrare nel 1635 per ordine di monsignor Vicario «non per errore (commesso) ma per quiete di casa sua» (Libro dove si scrivono cit., c. 100 v.), mentre ima certa Anna viene introdotta «perché fu levata a forza da suo marito da un gentiluomo» (Ibidem, c. 128 v.). In entrambi i casi è ravvisabile, più che una colpevolezza della donna, ima situazione familiare instabile.
63 Libro dove si scrivono cit., cc. 64, v. 65; Sessioni cit., c. 86. La segretezza dell’internamento e della colpa commessa, quindi la salvaguardia dell’onore di un intero gruppo familiare doveva essere un grosso problema, anche se nella pratica di improbabile risoluzione. Nella Francia del XVIII secolo il disonore per il rinchiudimento in una casa di pena richiesto per un proprio familiare era esorcizzato dal ricorso diretto all'autorità del sovrano (Le désordre des familles. Lettres de chachet des Archives de la Bastille, a cura di Arlette Farge e Michel Foucault, Paris 1982, pp. 350-356).
64 ASB, Tribunale Criminale del Torrone, lib. 4793, c. 299 ss. Si noti che nel corso di questo processo in cui vennero ascoltati numerosi testimoni e lo



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stesso Tommaso Gardiani non compare alcuna deposizione di Isabetta Dini.
65 Sessioni cit., cc. 51, 55.
66 L’importanza di tener conto di sistemi di valori differenti, facenti capo non solo ad una etica religiosa, ma anche ad una etica laica, viene messa in evidenza da E. Grendi, Ideologia della carità e società indisciplinata: la costruzione del sistema assistenziale genovese (1470-1670), in «Timore e carità. I poveri nella Italia moderna», atti del convegno «Pauperismo e assistenza negli antichi Stati italiani» (Cremona, 28-30 marzo 1980), Cremona 1982, p. 62: «. . .poiché l’oggetto reale d’analisi sono i comportamenti sociali, ciò implica la diagnosi complementare di un piano di valori mondani, cioè non deducibili «tricto sensu» dall’ispirazione religiosa. La tradizione sintetizza questo riferimento alternativo nel tema dell’onore che presiede in effetti allo schema medesimo della società degli ordini o delle diverse 'condizioni'».
67 Accettando la nozione di onore differenziato, di origine antropologica, son ben conscia delle critiche portate da E.P. Thompson ad un uso indiscriminato di concetti provenienti dalla antropologia nella storiografia (E.P. Thompson, L'antropologia e la disciplina del contesto storico, in Società patrizia, cultura plebea, Torino 1981, pp. 251-273). Penso tuttavia che l’uso di tali concetti fatto in questo lavoro ne indichi l’utilità senza oltrepassare i limiti imposti dalla peculiarità delle fonti storiche.
68 La caratteristica dell'onore come fatto unicamente sociale viene ampiamente messa in luce da J. Pitt-Rivers, The Fate of Shechem, or thè Politics of Sex. Essays in Antropology of thè Mediterranean, Cambridge 1977, pp. 2-3 e passim. Un'applicazione convincente di questo concetto in sede storiografica appare nel saggio di S. Cavallo e S. Cerutti, Onore femminile e controllo sociale delia riproduzione in Piemonte tra Sei e Settecento, in «Quaderni Storici», a. XV (1980), n. 44, pp. 346-376. Un’altra conferma viene dal campo della critica letteraria: H. Wfinrich, Mitologia dell'onore, in Metafora e menzogna: la serenità dell’arte, Bologna 1976, pp. 227-249.
69 J. Pitt-Rivers, The Fate of Shechem cit., p. 5; S. Cavallo e S. Cerutti, Onore femminile controllo sociale cit., p. 349.
70 E. Grendi, Ideologia della carità e società indisciplinata cit., p. 64.
71 H. Weinrich, Mitologia dell'onore cit., p. 230.
77 V. nota 41.
73 Libro dove si scrivono cit., c. 124 v. Essere stata nella Casa di S. Paolo era considerato un indizio di meretricio, come esplicitamente ci spiega un ufficiale dell’Ufficio delle Bollette, quando tra le cause che lo hanno spinto ad indagare sul conto di Vittoria Balzani dice che inoltre Vittoria «era stata nella Casa di S. Paolo dove vanno le donne che hanno fatto male per ritornarsi dal mal fare» (ASB, Governo misto, Ufficio delle Bollette, Filza 1605, 3 febbraio).
74 Per la rilevanza dei conservatori femminili si veda L. Ciammitti, Fanciulle, monache, madri. Povertà femminile e previdenza a Bologna nei secoli XVI-XVIII, in Arte e pietà. I patrimoni culturali delle opere pie, Bologna 1980, pp. 461-547.
75 Sicuramente adultera doveva essere Isabetta Machelli, sposata e incarcerata nelle prigioni dell’Arcivescovado al momento della richiesta d’ammissione. Infatti l’adulterio era un reato contro la morale di stretta competenza del Foro Ecclesiastico. In questo caso la connessione tra l’incarcerazione per un reato di



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tipo sessuale è suggerita dall’ordine di Monsignor Suffragane© di consentire l'uscita dal carcere solo a condizione che si aprano proprio le porte di S. Paolo (Sessioni cit., c. 91). Invece Flaminia Duci, «donna assai modesta» era tornata per la seconda volta in S. Paolo dopo che il marito «havendole venduto quasi ogni cosa», minacciava di condurla via da Bologna per una non ben definita, ma sicuramente infelice destinazione (Libro dove si scrivono cit., cc. 127, 131 v.).
76 Sessioni cit., cc. 53, 59.
77 Delle 107 donne che ritornano in famiglia, a parte le 22 che vanno col marito, 30 sono consegnate alla madre, 10 ad entrambi i genitori, 10 al padre, 10 ad un fratello, 10 ad ima sorella, 10 a degli zii, 5 a dei cugini. Interpreto queste indicazioni come segni di particolare coinvolgimento nelle vicende delle donne, almeno per quanto riguarda il momento dell’internamento e i rapporti con l’istituzione.
78 Di Lucia Piazza si è già detto (v. nota 47), Isabetta Ughi e Caterina Ortolani, che entrarono rispettivamente nel 1633 e nel 1640 ed erano entrambe sposate, vissero il loro rapporto istituzionale sotto lo stretto controllo materno (Libro dove si scrivono cit., cc. 86 v.-87, 121 V.-122: Sessioni cit., c. 115).
79 Condizioni che devono avere cit. Nel 1611 Fiordimonte Nicolini viene riammessa nella Casa dopo che il marito, al quale era stata data in sposa un paio d'anni prima, l’ha abbandonata, ma viene sottolineata l’eccezionlità del caso che non potrà costituire un esempio per il futuro (Sessioni cit., cc. 19-20).
80 Sessioni cit., cc. 83, 21.
81 Libro dove si scrivono cit., cc. 106 V.-107; Sessioni cit., cc. 123, 165. Si noti che le donne gravide normalmente non venivano accettate.
82 Libro dove si scrivono cit., c. 42 v; Sessioni cit., cc. 49, 55, 56 v., 68.
83 Libro dove si scrivono cit., cc. 41 v.-42; Sessioni cit., cc. 50, 52, 54 v., 56, 64 v., 79.
84 La dote tuttavia non sembra essere condizione sufficiente a concludere un matrimonio, almeno attraverso la mediazione dell'istituzione. Francesca Agostini e Gentile Gioannelli, entrambe provenienti dalla Casa della Probazione, vi fecero ritorno nonostante possedessero somme di danaro abbastanza consistenti (Libro dove si scrivono cit., cc. 47 V.-48, 48 v.-49; Sessioni cit., cc. 66, 69). Queste vicende suggeriscono che in presenza di comportamenti giudicati negativamente la Congregazione non dava luogo a negoziazioni matrimoniali nonostante preesistessero condizioni economiche positive.
85 Oltre le doti di cui si ha notizia nel registro delle entrate e nei verbali di congregazione, ne sono state reperite alcune decine negli atti di Achille Canonici, notaio della Congregazione e congregato lui stesso per più di mezzo secolo. Il fatto che questi contratti siano concentrati grosso modo nei primi vent’anni della vita dell’opera e nel terzo decennio del XVII secolo fa supporre che in altri periodi al Canonici si affiancasse un secondo notaio. L'esame degli atti di Vittorio Barbadori, anch'egli notaio e congregato non ha dato alcun frutto. Un'analisi approfondita dei meccanismi economici e giuridici che presiedevano alla erogazione dotale, con particolare riferimeno ad un conservaorio femminile bolognese, appare nel saggio di L. Ciammitti, Quanto costa essere normali. La dote nel conservatorio femminile di S. Maria del Baraccano di Bologna (1630-1680), in questo stesso numero di «Quaderni Storici», pp. 471-499.



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86 Due rilevanti eccezioni sono costituite da Angelica Ghedini che accanto a L. 700 in danaro portò un apparatum del valore di 1156 lire e da Anna dall’Oro che diede al marito 1540 lire in denaro cui si aggiungeva un apparatus invece del normale valore di L. 219 (notaio Achille Canonici, Atti 1604, 9 settembre, Dos Angelicae Ghidinae et Leonardi Gardiani; Idem, Atti 1628, 14 luglio, Dos Annae de Auro et Joannis Baptistae de Mezzettis). Leonardo Gardiani e Giovan Battista Mezzetti erano rispettivamente pescivendolo e «gargiolaio» (canee pino).
87 Lorenzo Leli, ad esempio, spese L. 38 in «una collana d’oro a catenella» e L. 18 in due anelli d’oro «uno a pietra bianca e l’altro a pietra rossa» delle 200 lire, provenienti in parte dal fratello e in parte dalla Congregazione, che Lucrezia Alberghetti gli portava in dote (Idem, Atti 1606, 18 gennaio, Dos Lucretiae de Alberghettis Leliaé).
88 Silvestro Rizzoli, gargiolaio, nel momento in cui si apprestava a ricevere le 400 lire della dote di Angela Turlaia si impegnò nei confronti della Congregazione che non aveva dato nemmeno un soldo, ad investire quella somma nell’acquisto di canapa necessaria al suo «esercizio» e, nel caso questo un giorno cessasse, m qualsiasi altra cosa stabile ecc.. In nessun caso comunque avrebbe potuto fare una qualsiasi operazione utilizzando quel denaro, anche in presenza di un fideiussore idoneo, «absque consensu [. . .] Dominorum dictae Congregationis» (Idem, Atti 1600, 21 gennaio, Dos Laurae Turlaiae et Silvestri Rizzoli).
89 Libro dove si scrivono cit., cc. 20 v.-21.
90 Notaio Achille Canonici, Atti 1603, 18 marzo, Dos Violantis Guicciardinae Montanariae.
91 Nel 1618 fu fatta una colletta per Francesca Parmesani, «giovane benemerita» (Sessioni cit., carta non numerata, 1° febbraio).
92 È il caso di Angela Turlaia e Angelica Ghedini (v. note 88 e 86).
93 Notaio Achille Canonici, Atti 1610, 3 luglio, Dos lustinae Venturae et Bartolomei Sabatini.
94 Sessioni cit., c. 28, c. 23. Nel 1624 furono deputati due assenti «a procurare occasione di maritare delle donne che sono nella nostra Casa» (Ibidem, c. 84).
95 II conte Francesco Caprara fu ufficialmente incaricato dalla Congregazione di «avere a cuore il negozio» di Persia Giacomazzi che reclamava la propria quota di eredità (Ibidem, c. 84). Ancora la Congregazione che aveva donato per intero la dote a Lucia Magnani, chiese ed impose al neomarito di questa l’impegno a rivendicare presso i fratelli e la madre la medesima somma che avevano già dato in dote alla sorella di Lucia, Tommasa e che negavano a lei (notaio Achille Canonici, Atti 1596, 12 agosto, Dos Luciae de Magnanis uxoris Dominici Consolinì). Angela Maccari dovette dichiararsi pentita del «suo grave errore» e promettere di non rivedere mai più la madre per essere riammessa nella Casa (Sessioni cit., c. 55) e quando Alessandra chiese di uscire per andare a curare la madre ammalata i congregati, dubitando che la donna avesse inventato un pretesto per riavviare la figlia al male, decisero di compiere degli accertamenti e di trovare eventualmente una soluzione che permettesse alla figlia di restar lontana dalla madre (Ibidem, c. 43).
96 Adriano Prosperi, a proposito delle confraternite che assistevano i condannati a morte e che nel corso del tempo restrinsero la propria base sociale a persone di grande prestigio, dice tra l’altro: «avere a che fare col boia e col patibolo vole-



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va dire immischiarsi in cose di par sé ignominiose, tali da riverberare disonore su chiunque non fosse più che tutelato dalle proprie qualità» (A. Prosperi, Il sangue e l’anima, in «Quaderni Storici», a. XVII (1982), n. 51, p. 968). Fatte le debite differenze tra i condannati a morte e le peccatrici, si può forse intrawedere una certa analogia nella gestione degli uni e delle altre. In entrambi i casi occorre l’intervento dei più onorevoli cittadini, perché «just as capitai assures thè credit, so thè possession of honour guarantes against dishonour [. . .]» (J. Pitt-Rivers, The Fate of Shechem cit., p. 15).
97 L’ipotesi di un trasferimento d’onore dai congregati alle recluse sembra plausibile, perché l’onore maschile e quello femminile «are aspects of honour manifested by either sex rather than opposed concepts of honour, for they are united in thè family honour of which they are thè external and internai facets» (Ibidem, p. 78).
98 La durata dell’internamento in relazione all’esito è stata calcolata sui dati relativi a 351 delle 445 donne di cui è conosciuto l’esito. Per quanto riguarda le rimanenti 86, pur sapendo le condizioni di dimissioni dall'istituto, non abbiamo potuto farle rientrare in questo calcolo perché non erano note con assoluta precisione o la data di entrata o quella di uscita. A proposito del valore simbolico connesso alla pena in relazione alla «condizione» dei puniti si veda E. Grendi, Ideologia della carità e società indisciplinata cit., p. 64.
99 J. Pitt-Rivers, The Fate of Shechem cit., p. 5.
100 La nozione di «società ad elevata segnicità» è desunta da Lotman che la definisce a partire dalla condizione «per cui una certa attività sociale [. . .] diventa [va] significativa solo mutandosi in rituale» (Ju. M. Lotman, L’opposizione «onore-gloria^ nei testi profani del periodo di Kiev del medioevo russo, in «Tipologia della cultura» di Ju. M. Lotman e B. A. Uspenskij, Milano 1975, p. 255). L’analisi di Lotman, pur riferendosi al medioevo russo, sembra offrire una griglia interpretativa, perché il suo lavoro riguarda specificamente l’analisi semantica del codice d’onore.
101 Per quanto riguarda sapere «chi sposa chi», i dati in mio possesso non mi fanno vedere in maniera nitida lo strato sociale in cui si collocano le donne di S. Paolo prima e dopo il soggiorno nell’istituzione. Ho notizie, sporadiche, di artigiani, commercianti, ma non so se si tratta di padroni di bottega o di dipendenti, e la differenza non è irrilevante. Quello tuttavia che credo di poter dire è che non sembrano presenti né persone miserabili, né veramente ricche, tantomeno nobili, ma forse semplicemente «poveri» che vivevano del proprio lavoro.