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Title
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PRESUNZIONI DI NOVITA’, INCERTEZZE DEL SAPERE: FOGEL, HENRETTA E LA STORIOGRAFIA AMERICANA
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Creator
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Alberto Caracciolo
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Date Issued
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1980-08-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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15
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issue
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44 (2)
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page start
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656
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page end
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664
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Rights
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Quaderni storici © 1980 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230920180402/https://www.jstor.org/stable/43776827?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxNywic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjQwMH19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A950e4c1539c25b7e06ec592ab428f893
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Subject
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history and historiography
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extracted text
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PRESUNZIONI DI NOVITÀ', INCERTEZZE DEL SAPERE: FOGEL, HENRETTA E LA STORIOGRAFIA AMERICANA
1. La presenza degli «storici» nei dibattiti del momento sui più diversi campi del sapere ha preso, qui in Italia, un'estensione senza precedenti. E non importa ora soppesare quanto in essa ci sia di valido e quanto di effimero, quanto appartenga al fecondo e quanto al vano: perché sicuramente Timo e l'altro coesistono. Quel che sorprende è una tonalità di sicurezza che sembra comune a tutti, anche ai più sottili e ai più critici, nell'avanzare proposizioni cariche spesso di implicazioni molto generali e ben più che storiografiche. C'è una specie di diffusa caduta del senso del limite e persino del sense of humor, si direbbe, per cui tutti insieme sembriamo pronti a rifondare non solo la storiografia ma tant'altro ancora.
I più maliziosi dicono che questa temperie sarebbe in fondo una prova di dominante superficialità, di provincialismo. Invece i più convinti — come chi firma questa notarella — partendo dalle molte valenze autenticamente novatrici, suggestive, liberatorie che stanno alla base dei più colti contributi e delle più meditate direttrici dei recenti dibattiti, si chiedono qualche altra cosa. Se cioè la perentorietà con cui certe proposte vengono talora avanzate, la drasticità con cui consuetudini o istituzioni dominanti vengono contestate, la facilità con cui si risale da un caso o da un settore verso le generalizzazioni più ampie, non nascondano in realtà — come spesso accade — l'angoscia di crescenti incertezze; se tutto ciò non sia una forma di difesa da situazioni di sconcerto, di perdita di paradigmi, di incrinatura di sistemi di pensiero e di valore, che oggi ci investono particolarmente; se in definitiva certe aggressività non esprimono, a loro modo, il grado di accentuato disorientamento che il cammino degli storici — ma, naturalmente, non solo degli storici — presenta in questi ultimi anni.
Questa mescolanza di dubbi e di presunzioni, se ci guardiamo intorno, vediamo però subito che fra gli studiosi di storia (o in
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genere di scienze umane) non è certo soltanto italiana. Un procedimento di affannose e qualche volta improvvisate revisioni è scattato, o si è accelerato, anche in paesi non precisamente periferici, come gli Stati Uniti. Da lì vengono anzi soprattutto prove preoccupanti di come la corsa degli studi al «New» di questa o quella branca disciplinare conceda talora ad una sbrigatività tale, che crea molta più confusione di quanta non ne risolva. E vorrei riferirmi in questo senso a un paio di interventi che entrambi si collocano in qualche modo nella gran barca — dove alla fine ci troviamo insospettatamente in parecchi — della cosiddetta «storia sociale».
Sono freschi di circolazione, in America, due pezzi autorevoli: un manifesto di Fogel, padre incontestato della New Economie History, e una rassegna (con codicilli) di Henretta sulla rivista ufficiale statunitense, entrambi datati 1979 (entro l'Ottanta vedremo poi che altro saprà offrirci l'ampio bilancio che Iggers raccoglie su «Social Research» intorno alla storiografia sociale europea, così come il dibattito aperto da Laurence Stone sul n. 85 di «Past & Present» col titolo The Revival of Narrative: Reflections of a New Old History). E si può dire subito che se queste sortite, anche così diverse, un po' fanno testo, allora in America gli storici non se la passano, quanto a disorientamento e fors'anche quanto a mancanza di humor, molto meglio di noi.
2. L'articolo di R. W. Fogel, — che in bozze, da cui lo cita come noi anche Stone su «Past & Present», si intitola «Scientifica History and Traditional History, e uscirà a fine anno — benché si apra con ima visione corale delle speranze conoscitive che involsero la storiografia con altre scienze sociali al tempo della rivoluzione industriale, impressiona subito per la mancanza di spessore nella sua visione del discorso non solo storiografico, ma più generalmente intellettuale del secolo passato e del nostro. Se ad esempio per la distinzione fra scienze nomotetiche e ideografiche nella citazione Fogel non ricorda Dithey ma un libro assai recente del professor Elton (Sydney, 1967), per la questione della «obiettività» e del documento viceversa resta fermo a Ranke, cioè a un secolo e mezzo fa, con tutta l'acqua che è passata sotto quei ponti. E poi, a chiusura di rapidissimi excursus su autori scelti quasi a caso e sui tentativi di sviluppo che avrebbero fatto capo — nell'età fra le due guerre — a James Harvey Robinson negli Stati Uniti e alle «Annales» in Europa, ecco la definizione: «What I mean by “traditional" history is thè type of history that [...] was practi-
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ced during thè 1930s, 1940s and 1950 by thè authors of thè Harvard Guide and by such others distinguished historians as Vann Woodward, Kenneth M. Stampp, Allan Nevins, and Richard Hofstadter in thè United States; by R. H. Tawney, G.M. Treve-lyan, Herbert Butterfield, J. H. Plumb, and G. R. Elton in Great Britain; and by Marc Bloch, Lucien Febvre, and Fernand Braudel in France». Questa legione di storici andrebbe la mano nella mano a ricercare, sostiene Fogel, «to portray thè entire range of human experience, to capture all of thè essential features of thè civilisations thè were studying, [...]. The most common tendency was to be eclectic. [...] An intuitive motion of “imaginative understanding" or “historical imagination" remained thè basis for overall thematic integration» (pp. 9-10).
L'errata seduzione delle correnti «tradizionali» deriverebbe, secondo Fogel, dall'accostamento alle cosiddette scienze sociali, che per la maggior parte tali non sono. Di esse si rifiuta infatti proprio il metodo analitico: «The mathematica! modelling and thè preoccupation with measurement that were flowering in thè social Sciences were widely viewed as anti-historical, sterile, and a threat to thè most intrinsic qualities of history: its literary art, its personal voice, and its concern for thè countless subite qualities that are involved in thè notion of individuality. Most traditional historians valued literary art not only for its esthetic qualities but as an essential ingredient in conveying thè experience of thè past [...]. Quantitative evidence was generally consi-dered of ancillary importance» (pp. 11-12).
Più avanti nel suo articolo Fogel tornerà a descrivere lo stato di questa storiografia tradizionale, aggiungendovi peccati di presunzione e di velleitarismo in cui cadrebbero illustri autori da Felix Gilbert a Lawrence Stone a David Landes: gente prevenuta, al punto che «cliometric results are grudgingly accepted but not acknowledgd» (p. 39). Ma più interessante è l'autodefinizione di scientifico, data alla propria scuola, che prescinde singolarmente da un approfondimento dei criteri epistemologici che si immagina dovrebbero elaborarsi per questo «genere nuovo» di studi storici: essa non prende le mosse da alcuno dei dibattiti sui principi stessi del procedimento scientifico, o sulla loro applicabilità a discipline sociali, o sui loro protocolli e sui loro paradigmi, sicché non farà meraviglia che in bibliografia manchino Weber e Wittgenstein, Popper e Foucault, tanto per fare nomi di clamorosi assenti. La nuova scuola nasce scientifica perché nuova e perché cliometrica.
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E in che cosa dunque si distingue la cliometria? I suoi padri, tra cui Fogel stesso ed altri che ne discussero senza soste fra anni Cinquanta e Sessanta, avevano proposto una serie di tratti distintivi abbastanza complessi. Per esempio, l'uno stava nel nesso irrinunciabile fra teoria economica e processi storici, l'altro consisteva nell'uso di procedimenti simulati, definiti come counterfactual analysis. Adesso Fogel sembra essersi stancato di siffatte originali articolazioni (così come preferisce ignorare ogni discorso sulla «storia seriale», che comporterebbe di vedersela con Marczewski, Chaimu ecc., o tacere totalmente dell'esistenza di una Deane o di un Gerschenkron e di qualche altro di questo calibro). E perciò afferma che, al di là di molte differenze di tematica e di orientamento, «thè common characteristic of clio-metricians is that they apply thè quantitative methods and beha-vioral models of thè social Sciences to thè study of history. The cliometric approach was first given systematic development in economie history, but like a contagion it rapidly spread to such diverse fields as population and family history, urban history, parliamentary history, electoral history, and etlmic history. Clio-metricians want thè study of history to be based on explicit models of human behaviour [...]. The models will be explicit with all thè relevant assumption clearly stated, and formulated in such a manner as to be subject to rigorous empirical verifica-tion» (p. 13).
Questa fiducia nella chiarezza modellistica, questa aspettativa di rigore, sono ahimè contrapposte da Fogel non ai rischi reali di genericità, ambiguità, approssimazione, a cui lo storico spesso concede, ma ad una pesante caricatura dei non-cliometrici: descritti, in alcuni passaggi dell'articolo, come astuti aggiratori della mancanza di fonti, inclini alla «sensitivity», fermi al letterario e quasi sempre all'individuale, magari trasferito a interpretare il collettivo. Qui comunque, su concreti modi di approccio a fenomeni inerenti il gruppo, la società, il singolo, l'esposizione di Fogel si fa più articolata: se non altro perché alla area «scientifica» appartiene secondo Fogel quel gruppo di Cambridge — Peter Laslett in testa — che ha lavorato a fondo originalmente sulla storia delle famiglie ed ha perciò, si voglia o no, notevoli titoli per farsi ben giudicare. Mentre l'apporto cliometrico all'analisi del sistema schiavistico ha trovato, per quanto ne sappiamo, critici spesso distruttivi, malgrado quel che in contrario afferma Fogel prima di concludere — né si poteva dubitarne — che «thè majority of thè articles published in thè main economie history
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journals of thè U.S. are now quite mathematica! and cliometri-cians predominate» (p. 20). Del resto, ima vera «fame di matematica» sembra afferrare i più giovani storici e studenti universitari, malgrado le ostilità dei vecchi maestri.
3. La superiorità degli storici scientifici e del loro «set of intellectual concepts» trova conferma se si scende ad esaminare, con Fogel, le differenze di scuola intorno a diversi caposaldi. Tra i quali la predilezione per le «collectivities of people and recur-ring event» contro l’inclinazione tradizionale verso «particular individuals and particular events». E ancora più grave diventa la controversia a proposito dei «types of evidence»: su questo terreno lo storico tradizionale si lascia facilmente ingannare, per esempio, da testimonianze letterarie, come quelle intorno alle sofferenze della famiglia schiavistica del Sud su cui si basano Handlin e Kembe. Costoro volutamente ignorano di «seek data hearing on thè entire distribution of family responses to thè slave System» oppure svalutano l'attendibilità dei dati rinvenibili, negando alla base l'utilità di molte fonti statistiche, per esempio di quelle di stato civile, e mettendo in dubbio l'effettiva «tipicità» di certe indicazioni che esse offrono.
Sul rapporto con le fonti non mancano in Fogel dichiarazioni degne di essere sottoscritte, come quella sul vantaggio per i cliometrici di non aver bisogno di pesanti apparati di note o anche quella di poter presentare certi risultati (come le tabelle à la Tilly) senza giustificare ogni singolo passaggio o ogni previa elaborazione. Ma poi si torna, in queste pagine, a svolgere il discorso con tonalità cariche di autocompiacimento, dove si oppone alle leziose ricerche di un «legai model of proof» dei tradizionalisti la propria procedura di verifica di modelli empirico-scientifici: «The strategy is to make explicit thè implicit empirical assumptions on which many historical arguments rest and then to search for evidence, usually quantitative, capable of confirming or disconfirming thè assumption», si dice, con una ovvietà rispetto a qualsiasi metodo corretto di verifica che è temperata solo da quell'inserimento in posizione di rilievo del-l’«usually quantitative» (p. 29).
Al polo opposto dello scientifico che cosa si colloca di solito, nel senso comune, se non l'artistico? E proprio qui Fogel va a parare, al culmine della sua polemica. La diffidenza tradizionale verso il quantitativo «reflects a confusion — egli sostiene — between artistic and scientific processes» (p. 32). Il metodo antico
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andava bene per studiare un'opera d'arte, che di solito ha un itinerario breve e un protagonista isolato, ma non va bene per i problemi di storia di più ampio respiro o dalle forti implicazioni tecniche e scientifiche. E tutto ciò si riflette anche nel modo di lavorare abitualmente isolato, o al più raccolto in collane più o meno organiche, che la storiografia ha prediletto prima dell'avvento della sua nuova scuola. «The great classics of traditional history have all had a higly personal voice: juste as it is Shakespeare, Julius Caesar, it is Gibbon's Decline and Fall of Roman Empire and Prescott's History of thè Conquest of Mexico» (p. 34). Lo storico tradizionale combatte più per la diversa scelta morale e valutativa che può dare di un evento, che non per l'obiettività dei propri risultati (p. 35). Tende al moralismo, all'estetismo, a proporsi come «thè moral guardian of thè young» (p. 37), a scrivere per il piacere del pubblico. Così almeno afferma Fogel: e scusate se è poco.
Accade dunque che fra le due scuole sia in atto in America una «guerra culturale»: in essa, i cliometrici hanno il torto di un'aggressività impietosa ma gli storici tradizionali quello di sottovalutare su tutta la linea, salvo per alcuni risultati sul terreno strettamente economico, «that cliometric labors have produced important results» (p. 39). Essi non colgono rapporto che, finalmente, vien dato dai cliometrici a intendere la relatività storica di certi parametri, a guardarsi dalle generalizzazioni: a costoro si deve l'aver mostrato «that regularities which can be estimated by cliometric methods, such as demand curves for particular commodities, equations that relate fertility to social and economie variables, or equations that describe politicai behaviour, are not thè same for all times and places but differ in varying degrees from time to time or place to place» (p. 41). Ma qui temo che una folla di storicisti e di marxisti, i quali predicavano molti decenni fa queste cose, si rivoltino nella tomba.
È da notare che l'articolo di Fogel, qui citato forse troppo a lungo e anche troppo sommariamente, nelle ultime righe finisce con un abbraccio. Stabilito chi è scientifico e chi no quanto a materia, metodo, stile, si possono sempre ritrovare fra i due campi — egli dice — elementi di complementarietà, magari ricordandosi di im Tucidide che fa la conta delle forze militari greche in campo o di im Lincoln che mescola nel suo messaggio cifre e poesia. E poi ci sono momenti in cui il ruolo dell'individualità, dell'imprevedibilità, persino dell'irrazionalità va tenuto presente: ben vengano a occuparsene allora gli storici «tradizionali».
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I quali, resi uguali nel loro sterminato esercito dall’uniforme per essi disegnata dagli «scientifici», possono ora ringraziare del compito e dello spazio loro graziosamente concessi da Fogel.
4. Senonché nelle file stesse di quell’esercito fervono le lotte intestine. E anche in America, a quanto pare, con sconfinamenti e accavallamenti fra i campi opposti. Se non bastassero né certa improvvisa proliferazione di libri francesi ed europei né certe imprese neo-marxiste alla Eugène Genovese («Marxist Studies», ecc.) o filo-«Annales» alla Immanuel Wallerstein («Fernand Brau-del Center»), c’è l’articolo di James A. Henretta su «The American Historical Review» del dicembre scorso (A. 85, n. 5) a darcene conto. Si tratta di un saggio che, presentato preliminarmente in varie sedi e dopo diverse messe a punto, è qui pubblicato nella rubrica «Forum» sotto il titolo Social History as Lived and Written.
Rispetto ai discorsi di Fogel ci si trova subito spiazzati. La dicotomia di scuole si rompe, anzi compaiono affiancate l’una all’altra, nello sforzo di ricerca intorno al carattere della società e delle sue gerarchie, «thè quantitative techniques and structural approaches of Annalistes, Marxists, and social scientific histo-rians» (p. 1321). La New Social History — che verbalmente parrebbe in parallelo o in opposizione con la cliometrica New Economie History — comprende, com’è descritta da Henretta nel suo crescere degli anni Sessanta fra proposte quantitativiste e no, storia delle mentalità e storia delle classi: sicché un elenco sommario di autori mette talvolta uno accanto all’altro Fogel medesimo e Stone, E. P. Thompson e Tilly, Rudé e Conrad & Meyer (p. 1293). La storia sociale a cui si guarda ha certo in comune il rifiuto della narrazione letteraria, spesso biografica, accentuatamente non-analitica, così forte nelle generazioni precedenti: poi però si articola, a giudizio di Henretta e secondo la sua esemplificazione, in una «multiplicity of aims and methods [...], with often complementary and sometimes contradictory approaches» (p. 1295).
Non si tratta a questo punto di disputare — chimericamente — sulla superiorità di questa o quella premessa epistemologica, bensì di individuare una concezione dell’analisi storica che soddisfi in pari tempo — dichiara Henretta con un linguaggio inconsueto alla cultura americana dominante — alle esigenze della metodologia, della teoria sociale, dell’ideologia politica. Che ciò sia possibile lo dimostrerebbero due scuole europee, quella
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delle «Annales» e quella dei marxisti inglesi, come pure i tentativi in atto ormai anche negli Stati Uniti quando si utilizza il gusto per l'empiria nella ricerca di un'esperienza storica «come fu realmente vissuta» da uomini e donne del passato: può essere che un «modello propositivo» (così tradurrei action model) riuscirà a delinearsi infine dall'insieme di lavori che da un paio di decenni si muovono, in America, nell’area della New Social Hi-story.
Il lettore italiano non può non sentire qualche eco, in discorsi di questo genere, di altri discorsi sull'unità fra teoria e prassi, sull'uso politico della ricerca, o da ultimo sulla storiografia come recupero del vissuto, ben familiari a vecchie dispute di tradizione europea e specialmente marxistica o affine. Henretta le riprende dal punto in cui la recente produzione gliene offre i materiali: e il suo incontro non è perciò con le suggestioni della storiografia sociale tedesca da Lamprecht a Weber o francese da Michelet a Simiand, salta anzi in gran parte le premesse marxiste o positi-viste da cui prendono le mosse anche i due grandi filoni attuali da lui esaminati, giungendo in modo accorciato e quindi talora un po' schematico a fare i conti col suo oggetto.
Non è il caso di seguire qui l'intero svolgimento o la completa rassegna svolta da Henretta, peraltro molto informato sia su quel che affermano di sé per esempio E. P. Thompson o Eric Hobsbawm o Raymond Williams da un lato, Braudel o Goubert o Le Roy Ladurie dall'altro, sia su quel che è stato detto dai loro critici anglosassoni più attenti, da Iggers a Hexter. Va sottolineata comunque la ravvicinata lettura e la forte adesione dell'autore rispetto ai lavori dei marxisti britannici per la loro tensione a operare secondo «a criticai methodology and a moral purpose that American social historians might well emulate» (p. 1306). E, per altro verso, va notato il riconoscimento di come abbia preso a svilupparsi, nel suo paese, l'attenzione verso la storia del quotidiano e del vissuto, cioè verso uno dei settori più caratteristici della storiografia sociale d’oggigiorno.
Interessato alla storia delle mentalità e dei paradigmi culturali attraverso studiosi come Mandrou, Geerts, soprattutto Bourdieu, Henretta trova l’autore prediletto in Louis O. Mink, con le sue proposte di triplice lettura da parte della mente umana dei dati rispettivamente derivati dalla sensazione, dalla memoria, dall’immaginazione. Proposte che possono a suo giudizio applicarsi ad altrettanti approcci della storia sociale americana attuale. E vale la pena di citare: «Some authors employ quantitative
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techniques, seeking — in Mink's terms — a theoretical under-standing of human reality. Others instinctively conceptualize their data, creating categories of social groups and types of historical behaviour. Finally, stili other historians rely on a narrative framework as a prime analytic device, assuming that meaning will emerge from a dose description of thè chronologi-cal process». E in definitiva questi approcci rispettivamente quanti tativistici, concettualizzanti, narrativi, dovranno sboccare in un complessivo criterio di presentazione, in un action model sintetico (p. 1315).
Il discorso di Henretta, sottolineando resemplarità dello studio sulle streghe di Salem (pubblicato, questa volta negli Stati Uniti, da Boyer e Nissenbaum pochi anni fa), finisce col proporre che si recuperi, grazie alla tradizione pragmatica e antropologica americana, precisamente un versante, almeno, della più aggiornata storiografia sociale: ed è il versante che guarda all'agire degli individui nelle loro sensazioni, valori, comportamenti. Così, dopo il lungo excursus attraverso la ricerca e la cultura europea, torna ad emergere un progetto che si presume percorribile in quanto ha riferimento con la tradizione americana.
Peccato che proprio questo fatto D. Rutman, autore di un impaziente commento in calce al saggio, lo contesti: «Neither of these Systems (cioè gli Annalistes e i Marxisti inglesi) can serve us», poiché — e Henretta in fondo lo sa — la cultura americana liberal rifiuta tutto ciò non solo in parte, ma in blocco. Così, se Rutman parla davvero a nome di ima realtà intoccabile, l’intervento di Henretta si ridurrebbe a un elegante giro di walzer con storiografie definitivamente «altre». Un po' poco, come risultato operativo, e ben fuori da qualsivoglia action model. Anche trascurando a questo punto le sortite, in altra sede, di un Fogel, fermandosi anzi solo sul discorso di Henretta, ci si lasci dire allora che quanto a improvvisazione metodologica e quanto a facilità nelle generalizzazioni talvolta si aggiunge, rispetto a certi pericoli che in Italia non ignoriamo, precisamente una buona dose di ingenuità e provincialismo.
Alberto Caracciolo
Università di Perugia