LE FATE E IL FATO DEI POETI

Item

Title
LE FATE E IL FATO DEI POETI
Creator
Corrado Bologna
Date Issued
1991-08-01
Is Part Of
Quaderni Storici
volume
26
issue
77 (2)
page start
630
page end
642
Publisher
Società editrice Il Mulino S.p.A.
Language
ita
Format
pdf
Relation
Le parole e le cose: un'archeologia delle scienze umane, Italy, Rizzoli Ed., 1967
Rights
Quaderni storici © 1991 Società editrice Il Mulino S.p.A.
Source
https://web.archive.org/web/20230920181257/https://www.jstor.org/stable/43778613?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxNywic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjQwMH19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A950e4c1539c25b7e06ec592ab428f893
Subject
episteme
extracted text
LE FATE E IL FATO DEI POETI
1. Fra i numerosi punti di vista originali che Laurence Harf-Lancner propone nella sua ricostruzione della figura letteraria della fata, amante soprannaturale e insieme signora del destino d'un uomo, mi sembra di altissimo rilievo, così sul piano antropologico come su quello storico-letterario, appunto l’aspetto del patto fatale con un essere umano. Due gli schemi strutturali prevalenti, specularmente rovesciati ma quasi perfettamente isomorfi: quello «melusiniano» (da Melusina, la fata che entra nel mondo dei mortali e stringe con l’eroe un impegno che poi non verrà rispettato), quello «morganiano» (da Morgana, la fata che



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seduce l'eroe attirandolo e in certa misura imprigionandolo nell’aldilà, al modo tenuto da Circe con Odisseo).
Ben oltre la stessa distinzione tra universo folklorico e «rielaborazione» colta (nei cicli irlandesi, bretoni, francesi ecc.), e al di sotto dei racconti intrecciati sulle trame del meraviglioso ferico a partire dal grande snodo culturale dei secoli XII-XIII (che L. Harf-Lancner esamina dettagliatamente offrendo un ricchissimo, prezioso repertorio tematico sostanzialmente ispirato a S. Thompson e a V. Propp) \ il dato comune, imprescindibile, nelle narrazioni incentrate sulla fata è proprio il tema del legame fatale.
La figura della fata, nel lungo processo di razionalizzazione che la porta a liberarsi dei tratti mitologici pre-cristiani fino ad assimilarsi, nella svolta cortese, al personaggio della maga o incantatrice (cfr. Harf-Lancner, cap. XVI, pp. 495 ss.), conserva però inalterato un elemento originario, che è anche la connotazione culturale di maggiore spicco e nel contempo più resistente all’esegesi storiografica: il nesso con il destino, con il Fato.
2. L’elaborazione in sede di etimologia o di paretimologia ha posto il nome della fata al centro della costellazione ideologica che fa della figura mitica, mera funzione narratologica, un personaggio letterario il cui statuto resiste, almeno in parte, all’indagine di stretta osservanza proppiana (ci sono personaggi e funzioni, e ad ogni personaggio corrisponde un certo numero di funzioni) o greimasiana (tutti i possibili personaggi, o attori, sono riducibili a sei attanti, che si collegano al «significato» delle funzioni-base) 2. Di fronte alla sostanziale tenuta cronologica e geoculturale, ma nel contempo anche alla radicale ambiguità di «significato» funzionale-diegetico del personaggio-fata, riesce forse più utile ripensare all’ipotesi di Lotman, per il quale razione rappresenta il «passaggio» di un personaggio da un campo semantico ad un altro 3: e si potrebbe precisare che esistono personaggi capaci di agire da complessi operatori epistémici, ossia da interpreti/mediatori, entro una o più culture, non solo fra campi semantici solidali, in quanto riconducibili ad un solo e coerente sistema di codici ordinatori e di relazioni interne a quegli ordini, ma fra diversi livelli dell"epistéme in apparenza incongrui 4.
Non tanto i singoli personaggi-fata catologati ed analizzati da L. Harf-Lancner, bensì «la» fata in quanto personaggio, nel mo-



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mento in cui diviene protagonista di un sistema narrativo articolato e polidimensionale, com'è quello cortese dei secoli XII-XIII, può venir riconosciuta nel suo ruolo di operatore epistémico. Questa sua disposizione a mediare la trasformazione culturale, assorbendo e risolvendo nella propria immagine dialettica tratti del «passato», del «presente» e dell'«avvenire» 5, risiede probabilmente nella relazione originaria tra fata e Fato.
Le radici di tale relazione furono portate alla luce già a metà del secolo XIX da Alfred Maury: un assai probabile legame genetico connette le fate per un verso con le dee madri della tradizione religiosa gallica, per un altro con le antiche Parche, che le fonti antiche e medievali chiamavano anche Tria Fata o Fatae, per un altro ancora con le ninfe, le quali talora furono dette Fa-tuae, e caricate così delle stesse valenze profetico-divinatorie del dio Faunus e di sua sorella Fatua (o Bona Dea), soprannominati Fatuus e Fatua 6.
L'identificazione Fate = Parche (dunque Fate = Fato) è indiscutibile in Isidoro di Siviglia: e proprio in quel luogo del libro Vili delle Etymologiae in cui, dopo aver trattato De poetis (cap. 7), De Sybillis (cap. 8), De magis (cap. 9) e De paganis (cap. 10), passa a dedicare il lunghissimo (104 paragrafi) capitolo 11 a De diis gentii^n: Tria [...] fata fingunt in colo et fuso digitisque fila ex lana torquentibus, propter tria tempora: praeteritum, quod in fuso iam netum atque involutum est: praesens, quod inter digitos neentis traicitur: futurum, in lana quae colo inplicata est, et quod adhuc per digitos neentis ad fusum tamquam praesens ad praeteritum trai-ciendum est. Parcas kat’anttphrasin appellatas, quod minime par-cant 7. Ma come L. Harf-Lancner vede bene (pp. 15 ss.), dal VII al XII secolo si compie una metamorfosi epistémica trasparente nel personaggio-fata: e già per Burcardo di Worms (Decretum, libri X, De Incantatoribus et Auguris, e XIX, De poenitentia): le sue Parche sono ormai streghe, prossime alle sylvaticae che con le fate spartiscono l’erotismo delle nymphae, degli incubi e dei demoni generati dalla stirpe di Pan 8.
3. «Profetico», «diabolico», «erotico» e «mostruoso» sono le categorie entro cui la cultura altomedievale riplasma l’antica figura della fata.
Ad esse si riconduce quasi senza riserve anche il dono profetico, il potere oracolare di fari, cioè di esprimersi secondo un codice linguistico ed una modulazione espressiva diversi da quelli della comunicazione «normale», quotidiana. «Cantano» con voce



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incantatrice-seduttrice-mostruosa-oracolare la Sfinge, le Sirene, Circe 9. E come loro, anche il poeta/profeta antico, di cui la filosofia presocratica, poi in particolare l’Orfismo, hanno descritto la natura ai confini tra naturalità e umanità, semiferina e semiumana, dicendolo dotato di quella straordinaria, quasi-animalesca forma di sapienza/astuzia che i greci chiamavano mètis10. Né è insignificante che la radice di mètis, la forma indoeuropa *me, presieda al greco métron «misura»: in forma «metrica», con il mythos, la parabola (ainos) e l'enigma (ainigma) si concretizza il fari del poeta/profeta, che come l'oracolo di Delfi «non dice (légei) né nasconde (kruptei), ma significa per cenni (semainei)» 11. D'altra parte Platone (Fedro, 245 a-b) ed Euripide (Baccanti, v. 299), con etimologia dimostratasi scientificamente corretta, rapportavano il termine màntis al verbo mainomai «infuriare, impazzire, uscir di senno, esser fuori di sé»: la mantica si associa al delirio, al sogno, alLinnaturalezza, alla mostruosità.
Fisicamente e culturalmente, il poeta/profeta spartisce la natura del segno che interpreta. È un monstrum, un segno «ammonitore» (la radice del termine è la stessa di monere) che l'interprete riconosce sul piano semiotico come puro segno, e che immediatamente, traducendolo in discorso da comprendere, trasferisce sul livello semantico 12. Secondo la formulazione di Cicerone (De divinatone, I 42, 93), «gli ostenta, i portenta, i prodigia, sono stati saggiamente chiamati così degli antichi perché ‘portano alla vista’ (ostendunt), ‘annunziano' (portendunt), ‘mostrano e ammoniscono' (monstrant), ‘preannunziano' (praedicunt)».
L'interpretazione fa dei segni «naturali» veri segni linguistici «artificiali», lega il monstrum tramite la congiunzione dei due impossibili (significante/significato). In quella barra, nella frattura che la parola enigmatica non colma, ma a cui fa cenno, s'installa la duplice unità monstrum / divinatore13.
4. Laurence Harf-Lancner insiste sull'idea che il personaggio-fata si sia progressivamente allontanato dal campo semantico del «destino fatale», cui presiede la stessa origine etimologica.
Senza dubbio la connessione iniziale tra il mondo ferico e quello magico si stempera fra VII e XII secolo, scolorandosi nelle fonti più tarde entro lo schema della bellissima incantatrice che seduce il mortale. Ma ancora nella Mélusine di Jean d’Arras, massimo esempio di narrazione ferica d'ambito borghese (cfr. Harf-Lancner, pp. 177 ss.), al di sotto dell’intreccio arditamente romanzesco persistono gli elementi strutturali-funzionali della



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«più romanzesca delle chansons de geste» (ibid., p. 25), quello Huon de Bordeaux nel quale una recente, ancora inedita ricerca di Aurelio Roncaglia ha individuato un testimone importantissimo per ricostruire alcuni crocevia fondamentali nella vicenda deW’Ur-Chanson de Roland. Non si pensi al meraviglioso soprannaturale, né alla trama a molti strati, ove il regno di Carlo Magno si sovrappone a quello del signore di Féerie, Aubéron, figlio della Fata Morgana e di Giulio Cesare, che in tal modo condensa su di sé le materie di Roma e di Bretagna: la chiave sta invece proprio nella funzione nella fata-madrina (Harf-Lancner, pp. 20 ss.), che «contaminandosi» con l'altra della fata-amante (pp. 36 ss.) contribuisce all'elaborazione del nuovo «tipo» letterario.
Il tema di fondo resta il destino dell’eroe segnato dalle fate, in particolare da quelle cattive e invidiose: comunque donne fuori del normale, ispiratrici-seduttrici-interpreti che «danno senso» alla confusa e generica «naturalezza» facendo «mutare natura», cioè «condizione», all’individuo che ha la buona sorte di essere prescelto per il contatto, ed al quale spetta quindi un destino straordinario. Qualcosa di molto simile avveniva già nelle narrazioni della mitologia vicino-orientale e greco-latina (ma ne esistono tracce anche a livello etnologico) in cui ad un mortale tocca la ventura di amare una divinità: Gilgamesh sedotto da Ishtar a Babilonia; Hupasiyas che fa l'amore con la dea Inaras nel mito ittita di Illuyankas; Anchises sedotto da Aphrodite, secondo il racconto del quinto inno omerico 14.
La fatandi potestas, o fatatio, propria delle creature dette fatae o fatatae nel De Universo di Guglielmo d'Alvernia, vescovo di Parigi (1180-1249), è un potere di questo genere (Harf-Lancner, pp. 47 ss.). Della stessa natura è la fatalitas di cui parla Gualtiero Map (cfr. ibid. pp. 42 ss.), che attribuisce il carattere a una donna di straordinaria bellezza, in altri luoghi del De nugis curia-lium intesa come una vera chimera, una finzione irreale: insomma un’«apparizione», un’«illusione diabolica», un «fantasma» (phantasticum aliquid, phantastica mulier, apparicio, phantasia, daemonium). E se in Guglielmo le fate sono «le più ingannatrici (falsissimae) e le più vane (yanissimae) delle idee», il loro nome torna a legarsi a quello del fato e della sua determinazione-interpretazione, che ne è altresì un orientamento (nomen [...] fati vel fatae vel fatationis: cfr. ibid., pp. 48 ss.).
La fata rimane in realtà l’interprete del destino, dunque il suo monstrum, il suo segno personificato, che consente la conoscenza e la comprensione di ciò che è oscuro e non ha forma.



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5. In questo senso non è del tutto vero che le fate «indissociabili dalla nozione di Fatum sono indiscutibilmente le discendenti delle Parche e non presentano alcun tratto delle fate amorose dei romanzi bretoni» (ibid., p. 49). È probabile invece che anche questa seconda categoria di figure abbia conservato tracce del nesso con la fatalitas e con il fatum, assorbendo inoltre, nei decenni cruciali per la plasmazione dell'ideologia cortese, numerose qualità della «donna ispiratrice», che è il vero phantasma della poesia volgare delle origini. L’immoderata cogitatio a cui Andrea Cappellano, aprendo il De amore (1170-90 ca.), riconduce l’origine della passio erotica, è immaginazione-riflessione-interpretazione di un fantasma interiore 15. Quel phantasma sarà un’illusione, o un diavolo, o una fata, o l’Amore: «la scoperta medioevale dell’amore su cui, non sempre a proposito, si è così spesso discusso, è la scoperta dell’irrealtà dell’amore, cioè del suo carattere fantasmatico» 16.
La luminosità, la bellezza radiosa, sono elementi tipici del personaggio-fata, al pari dell’estraneità alla temporalità storica. La sua natura fantasmatica la riconduce al campo semantico di fòs, la luce; e nell’aldilà che costituisce, pur «entro» il mondo storico, il regno ferico, il tempo non scorre, tanto che il soggiorno nel mondo ultra terreno sancito dal modello «morganiano» coincide, in numerosi racconti celtici, con il mito della fuga soprannaturale dal tempo (e con la fondazione della sua impossibilità in una vita «normale»): come spiega ad Ossian la regina dell’isola dell’eterna giovinezza, che, al modo di Circe con Odisseo, tenta invano di dissuaderlo dal ripartire verso la patria per lunghi anni dimenticata e d’improvviso ricordata, «il Tempo, escluso da quel paese, avrebbe immediatamente fatto sentire il suo potere su Ossian se egli avesse lasciato il paese» (Harf-Lancner, pp. 255-56).
Ma forse per afferrare pienamente lo sviluppo di un simile nucleo ideologico occorrerebbe precisare il nesso tra la bellezza della fata, intemporale, aerea, fatta di luce, e, appunto, la categoria filosofica di phantasma 17.
Sotto il segno dello Spiritus phantasticus, cioè de\Vimmaginazione 18, il «corpo sottile» da cui dipende la creatività umana e che come un veicolo semi-immateriale consente agli influssi magici, ai sogni, all’amore, di penetrare nel corpo, si pongono il genio e la malinconia. Già per Platone (Filebo, 39a-40a) la phanta-sia è un artista che disegna nell’anima le immagini (eikónas) delle cose: e queste immagini sono «fantasmi» (phantàsmata), lumi-



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nose impressioni sensibili a partire dalle quali, intorno alle quali, ai muovono la conoscenza e la parola.
Nell'aristotelismo medievale e nella scolastica phantasia e imaginatio sono spesso utilizzati in endiadi; talora sono sinonimi. Nella Summa theologica di S. Tommaso sono sinonimi perfetti; e nonostante le differenziazioni introdotte dai lessicografi, tali rimarrano nella psicologia del XIII secolo, che esercita un ruolo decisivo sullo svilupparsi dell’ideologia stilnovistica bolognese e toscana 19. La formulazione scolastica fa del phantasma uno strumento gnoseologico imprescindibile; se per Aristotele «quando l’uomo contempla, necessariamente contempla insieme un qualche fantasma» (De anima, 432a), per S. Tommaso nullo modo in-telligimus abstrahendo a phantasmatibus (Summa theologica, p. I, q. LXXXV, art. 1, 4) 20.
Lo spiritus phantasticus è il soggetto delle sensazioni, dei sogni, della divinazione, degli influssi che gettano un ponte dall’esteriorità all’interiorità21 : là ha luogo l'illusione della fata / phantasma, l'illuminatrice-ispiratrice che seduce con la forza erotica di «colei che fa dono del destino».
6. Secondo José Enrique Ruiz Doménec 22 la trasformazione in senso cortese delle figure feriche va inserita in una costellazione «di fenomeni immaginari che si cristallizzarono verso la metà degli anni ’70 del secolo XII in un preciso circolo della società più elevata, incentrata sulla corte monarchica angioina, in rapida via di trasformazione». E nel cuore di questa metamorfosi ideologico-antropologica, di cui la letteratura rispecchierebbe l’impulso, starebbe una presa di coscienza legata alla complessa, dialettica relazione dei giovani cavalieri da un lato nei confronti del matrimonio, istituzione capace di aprire verso il futuro la speranza di una «realizzazione» sociale, e dall’altro nei confronti del desiderio di aventura come realizzazione concreta della propria libertà e della propria forza: ovvero di quella joven senza la quale, dichiarerà l’intera poetica trobadorica, non può darsi cortesia (e il matrimonio è per definizione estraneo, anzi ostile a questa prospettiva).
L'irruzione della fata nell’universo cortese si spiegherebbe come «regressione allo spazio materno attraverso il meraviglioso», allo scopo di destorificare l’insorgere della crisi di fronte all’alternativa. La regressione «al rapporto con la madre, o con il suo sostituto, la fata», può essere «cronologica», «topica» o «funzionale», a seconda che miri a «sospendere la storia per dare spazio

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al mito», ad elaborare in senso iniziatico e senza traumi il lutto per la separazione dallo spazio materno, sostituendo con la fata «l'amore familiare che il giovane ha perduto» (così nello Cheva-lier de la Charrete di Chrétien de Troyes, in cui una fata-madrina svolge il ruolo iniziatico-protettivo del «fedele messaggero, esponente delle idee ecclesiastiche»), oppure ancora ad «inserire i doni meravigliosi del mondo delle fate nell’universo dei valori genealogici», rinvigorendo in tal modo i legami di discendenza attraverso un mito ferico di fondazione 23.
Il quadro ora sintetizzato è in ampia misura condivisibile (a patto forse di ridurre in sede di esegesi letteraria il rilievo delle coordinate sociologiche e psicoanalitiche): e non solo non contesta, bensì completa ed arricchisce lo schema della fata «fatale», fantasmatica interprete del destino umano, che rappresenta, all’altezza del XII secolo, una delle forme storiche del personaggio-« donna ispiratrice». La fata come fantasma ispiratore e la fata-gione come sphragis sovrannaturale, marchio dell’eccezionale destino spettante al poeta, diventano i segni misteriosi del rango superiore assunto, proprio attraverso la creazione poetica, dall’artista cortese.
Sarà necessario tener conto di questo elemento all’interno di quel complesso narratologico che Laurence Harf-Lancner chiama (pp. 500 ss.) l’«arte di essere fata», e che nei romans ispirati alla nuova ideologia coincide con la sapienza magico-negromantica (così nel Roman de Troie, così nello stesso Chevalier della Charrete, così nel Partonopeu de Blois e nel Bel inconnu, due «romanzi dominati dal meraviglioso ferico»: ibid., p. 502) 24.
7. Meriterebbe infatti d’essere studiata, proprio in quanto momento di riassetto epistémico, la presenza nella poesia volgare del secolo XII, in ispecie quella trobadorica, del personaggio-fata e della funzione-fatagione/dono soprannaturale della parola poetica: cioè di un fari non riducibile a discorso «normale», e accostabile invece - per lo meno sul piano generale di una radicalmente laicizzata funzione mitico-letteraria - all’antica parola allusiva che legava all’oracolo il suo interprete. S’intenda: non una presenza occasionale, di meri dati estetico-esornativi, bensì una presenza organica come componenti strutturali dell’ideologia e della poetica cortesi, per cui la fata (al modo della dama cantata, Midons, ma con ancora maggiore astrazione, che prescinde dalla realtà oggettiva e visibile, secondo una linea privilegiata ad esempio da Jaufre Rudel) «ispira», «arricchisce» e «segna» il fato



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del poeta; e questi, ormai «fatato», dovrà per sempre interpretare il proprio fato, nel doppio senso che assume così lo spiegare/svolgere rispirazione attraverso la performance lirica.
La «fata», dunque, rimette in gioco e rilancia la stessa incommensurabilità del ruolo storico-sociale che spetta al poeta: l'accoglimento, da parte di quest’ultimo, e la traduzione nella parola lirica assoluta dell’« ispirazione fatale» (l’« estro», oistros, il ronzante animaletto metaforizzato dei greci) si traduce anche nell’assunzione del proprio ruolo di scrittore come consapevolezza d’uno statuto culturale autolegittimantesi.
A titolo puramente esemplificativo, e senza neppur ipotizzare un’esegesi puntuale del tema nei singoli contesti lirici, ricordo qui, per le primissime generazioni trobadoriche, che già Guglielmo IX, e proprio nel cuore del Vers de dreit nien, che potrebbe valere quale parodistico e polemico (in direzione anti-curiale) «manifesto» di poetica del nonsenso25, subito dopo aver dichiarato (vv. 5-6) che il vers è stato trobatz en durmen / sus un chivau («composto mentre dormivo su di un cavallo»), sviluppa il tema del poetare essendo endormitz (v. 13) 26 amplificandolo con multipli rinvii alla sfera semantica dell’astrologia, del sortilegio, e in un crescendo scandito da una martellante anafora della negazione, ricorre al termine fadatz «fatato», contestualmente rilevante, per quanto di «carattere semanticamente neutro» 27.
No sai en qual hora.m fui natz,
no soi alegres ni iratz,
no soi estranhs ni soi privatz,
ni no.n puesc au,
qu’enaisi fui de nueitz fadatz
sobr’un pueg au
(«Non so in qual ora son nato, non sono allegro né triste, non sono estraneo né sono intimo, né posso farci altro, poiché fui stregato così, di notte, sopra un alto monte») 28.
Per quanto in apparenza il termine e la situazione sembrino alludere ad un incantesimo che causa una perdita di presenza e il conseguente sregolamento della percezione sensoriale, il ritorno del termine pueg «monte» (v. 38) in connessione con Vamigua induce a pensare ad una «fatagione» legata all’amore: e tanto più rilevante risulta allora il dettaglio, dal momento che Guglielmo, forse in opposizione ad una linea ideologica appena elaborata, favorevole all’idealizzazione dell’esperienza erotica, ribadisce qui la propria «ideologia affermativa dell’amore concreto (‘ogget-



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tivo'), che costituisce anche il Leitmotiv dei componimenti ai companho» 29.
8. L’ipotesi è suffragata dalle riemergenze intertestuali del medesimo quadro di allusività, in luoghi quali il celebre «manifesto» rudeliano deWamor de lonh, in cui il rovesciamento della presa di posizione guglielmina è anche lessicalmente puntuale, come in altra sede conto di mostrare nei dettagli:
Ver ditz qui m’apella lechai ni deziron d amor de lonh, car nulhs autres jois tan no.m piai cum jauzimens d amor de lonh.
Mas so qu’ieu vuelh m’es atahis, qu'enaissi.m fadet mos pairis qu’ieu ames e non fos amatz.
Mas so qu’ieu vuelh m'es atahis.
Totz sia mauditz lo pairis
que.m fadet qu’ieu non fos amatz!
(«Dice il vero chi mi chiama ghiotto e bramoso d’amore lontano, perché nessun’altra gioia mi piace tanto quanto il godimento dell’amore lontano. Ma ciò che voglio mi è vietato, perché il mio padrino mi ha dato in sorte che io amassi e non fossi amato. / Ma ciò che voglio mi è vietato. Sia stramaledetto il padrino che mi ha dato in sorte ch'io non fossi amato!») 30.
Dove la determinazione della responsabilità del padrino al battesimo nell’atto di fatagione che condiziona il destino esisten-ziale-poetico di Jaufre riprende ed esplicitamente sviluppa in direzione polemica l’impostazione data da Guglielmo, dislocando sul pairis i poteri (e le responsabilità) della fada. Allora proprio quest'ultimo sarà, com'è stato proposto31, il «padrino» odiato, cioè, ormai senza riserve, la fata-padrino che impone un fato (il proprio segno, o marchio, o charactér: da intendersi, ben più che in dimensione esistenziale, soprattutto in senso ideologico-poeti-co) al quale è possibile ribellarsi, non sfuggire.
Credo che nel riesame, entro la prospettiva qui indicata, dell'intero dossier ferico relativo alla poesia dei trovatori sarà necessario partire da questo originario confronto fra scelte di poetica: se ormai generiche sono le numerose epifanie di fachura (addirittura personalizzato come «il Mago incantatore») e di enchanter in poeti della generazione successiva, come Bernart de Venta-dorn 32, mi sembrano da ricondurre all’ordine d'idee finora espo-

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sto i richiami alla fatagione di Marcabruno, uno dei quali (nella famosa «pastorella») è chiaramente parodico nei confronti di Guglielmo IX 33 all’incirca sul medesimo piano che Jaufre Rudel edifica con trobar meno clus, ma con strumenti ideologici affini 34.
Il sottile, raffinato gioco delle allusività trobadoriche ha catturato nelluniverso del meraviglioso pre-cortese il personaggio-fata e, sottoponendolo a una profonda rotazione epistémica, lo ha ri-funzionalizzato nella propria fittissima rete di codici e di cerimoniali letterari.
Corrado Bologna
NOTE AL TESTO
1 Cfr. i classici: S. Thompson, The folktale, New York 1946, e Motif Index of Folk Literature [...], 6 voli., Bloomington 1932-36 (2a ed. Copenhagen 1955-58); V. Propp, Morfologia skazki, Leningrad 1928 (tr. it. Morfologia della fiaba, Torino 1966), e Isto-rièeskie korni volSebnoj skazki, Leningrad 1946 (tr. it. Le radici storiche dei racconti di fate, Torino 1949).
2 II riferimento è soprattutto a: A.J. Greimas, Sémantique structurale, Paris 1966 (tr. it. Semantica strutturale, Milano 1968) e Du sens, Paris 1970 (tr. it. Del senso, Milano 1974.
3 Cfr. per tutto ciò Ju.M. Lotman, Struktura chudotestvennogo teksta, Moskva 1970 (tr. it. La struttura del testo poetico, Milano 1980) e C. Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino 1985 (che raccoglie saggi precedentemente pubblicati).
4 Ricorso all’uso di epistéme nel senso chiarito da M. Foucault nel magistrale Les mots et les choses, Paris 1966 (tr. it. Le parole e le cose, Milano 1967: ivi cfr. spec. pp. 12 ss., 175 ss., 370 ss.).
5 Mi permetto di rinviare, per una puntualizzazione della categoria di «operatore epistemico», al mio La generosità cavalleresca di Alessandro Magno, in «L’immagine riflessa», XII (1989), pp. 356-392 (numero speciale contente gli Atti di un incontro sul tema La cavalleria: storia e cultura, tenutosi a Bagni di Lucca nel giugno 1987 per cura di F. Cardini, A. Fassò, M. Mancini).
6 Su Fatum si v. almeno (nell’ampia bibliografia) L.L. Tels de Jong, Sur quel-ques divinités romaines de la naissance et de la prophétie, Paris 1959, e le voce di Otto nella Realencyclopàdie der classischen Altertumswissenschaft, VI, coll. 2047 ss. (anche per tria fata e per l’identificazione con le Parche); su Faunus cfr. la voce di K. Latte, ibid., IX, coll. 1731 ss., nonché E.C.H. Smits, Faunus, Diss. Leiden 1946. Per tutti i problemi qui trattati cfr. l’illuminante G. Dumézil, La religion romaine archa'ique, Paris 1974 (tr. it. La religione romana arcaica, Milano 1977, spec. pp. 428 ss.), ed anche A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, 2a ed. Roma 1976, pp. 34 ss.
7 L. Harf-Lancner cita il passo a p. 18, nota 13 della tr. it. de Les fées au Moyen Age. Morgane et Mélusine. La naissance des fées, Paris 1984 (tr. it. Morgana e Melusi-na. La nascita delle fate nel Medioevo, Torino 1989); correggo qualche svista sulla scorta dell’ed. W.M. Lindsay, Oxford 1911, usata dall’autrice.
8 Su Pan e la sua generazione cfr. la voce di F. Brommer in Realencyclopàdie cit., Suppl., Vili, coll. 949-1008, e R. Herbig, Pan, der griechischer Bocksgott, Frankfurt a. M. 1949.



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9 Rinvio a quanto ho scritto negli artt. Mostro e Voce, neWEnciclopedia (Einaudi), risp. IX, Torino 1980, pp. 556-580 e XIV, Torino 1981, pp. 1257-92 (quest’ultimo, in una veste più ampia, apparivà in un volume in corso di stampa presso il Mulino di Bologna.
10 Cfr. il classico M. Detienne - J.P. Vernant, Les ruses de l’intelligence - La métis des Grecs, Paris 1974 (tr. it. La astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia, Bari-Roma 1977: una splendida sintesi a p. 37), nonché M. Detienne, Les mattres de véri-té dans la Grèce archaique, Paris 1967 (tr. it. I maestri di verità nella Grecia arcaica, Roma-Bari 1977).
11 Si tratta del frammento 93 di Eraclito, raccolto nel classico H. Diels, Frag-mente del Vorsokratiker, 6a ed. a cura di W. Kranz, 3 voli., Berlin 1951, I, p. 172.
12 L’opposizione vige nel senso stabilito da E. Benveniste, La forme et le sens dans le langage, nei suoi Problèmes de linguistique générale, 2 voli., II, pp. 215-229.
13 Mi permetto di rinviare ai dati che ho già raccolto e discusso nel mio Mostro cit., spec. pp. 560 ss.
14 Cfr. G. Piccaluga, La ventura di amare una divinità, nel suo Minutai. Saggi di storia delle religioni, Roma 1974, pp. 9-35.
15 Per brevità rimando a quanto ho esposto in proposito in un mio studio recente: Lo sparviero, l'allodola e la quaglia. (Sulle «fonti» cortesi di Andrea Cappellano), in corso di stampa in «L’immagine riflessa», XIV (1991).
16 G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura medievale, Torino 1977, p. 96.
17 Cfr. ibid., spec. pp. 28 ss. e 73-155, largamente basato sul classico R. Klein, La forme et l'intelligible, Paris 1970 (tr. it. La forma e l’intelligibile. Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, Torino 1975: ivi cfr. spec. pp. 5-74). Cfr. anche la nota seguente.
18 Per tutto ciò rimangono indispensabili, oltre al libro di Klein cit. nella nota precedente, due studi di M.-D. Chenu: Imaginatio. Note de Lexicographie philosophi-que médiévale, in Miscellanea Giovanni Mercati, 4 voli., Città del Vaticano 1946, II, e Spiritus. Le vocabulaire de l’àme au Xlle siècle, in «Revue des Sciences philosophi-ques et théologique», XLI (1957), pp. 209-232. Ma da ora si dovrà necessariamente rimandare a: AA.W., Phantasia-imaginatio. V Colloquio Internazionale. Roma, 9-11 gennaio 1986, a cura di M. Fattori e M. Bianchi, Roma 1988.
19 Nel voi. Phantasia-imaginatio cit. nella nota precedente cfr. spec.: G. Spinosa, «Phantasia» e «imaginatio» nell'Aristotele latino, pp. 117-133; R. Busa S.J., De phan-tasia et imaginatione iuxta S. Thomam, pp. 135-152; J. Hamesse, «Imaginatio» et «Phantasia» chez les auteurs philosophiques du 1^ et du 13e siècle, pp. 153-184.
20 T. d’Aquino, Summa Theologica, 3 voli., Roma 1894, I, p. 654 (e cfr. a p. 663 Vart. 5, 2 della stessa quaestio: Ad secundum dicendum, quod intellectus et abstrahit a phantasmatibus; et tamen non intelligit actu, nisi convertendo se ad phantasmata, si-cut supra dictum est).
21 Per ragioni di spazio mi limito qui a rimandare ai lavori ricordati nelle note 17-18 ed al mio saggio: L’«invenzione» dell’interiorità (spazio della parola, spazio del silenzio: monacheSimo, cavalleria, poesia cortese), in Luoghi sacri e spazi della santità, a cura di S. Boesch Gajano e L. Scaraffia, Torino 1990, pp. 243-266.
22 J.E. Ruiz Doménec, Les fades o el meravellós de la dona, in El món imaginari i el món meravellós a l’edat mitjana, Barcelona 1986, pp. 85-100 (la frase virgolettata che segue è a p. 85).
23 Ibid., risp. pp. 92, 95, 99.
24 Cfr. anche C. Lecouteux, Mélusine et le Chevalier au Cygne, Paris 1982, spec. cap. II, pp. 59-90 (tr. it. Lohengrin e Melusina. Una leggenda medievale contro la paura della morte, Milano 1989, pp. 57-85).



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Corrado Bologna
25 «Alla visualizzazione di un ‘non-senso’ è dedicato [...] il vers de dreit nien» così N. Pasero, nell'introduzione alla lirica, da lui edita fra le Poesie di Guglielmo IX, Modena 1973, p. 87. L'anti-curialità del pezzo, e la polemica verso la scuola mediolatina della Loira ed i trattati filosofici de nihilo, sono state dimostrate da L. Lawner, Notes towards an Interpretation of thè «vers de dreyt nien», in «Cultura neolatina», XXVIII (1968), pp. 147-164.
26 Anche il tema dell'oblio, indotto o non da sonno, da cui scaturisce ispirazione poetica, merita un'indagine complessiva, mirante a precisare i confini del campo semantico dell'interiorità nella fase aurorale della civiltà cortese; per ora mi limito a rinviare agli appunti che ho provvisoriamente fermato del saggio ricordato nella nota 21.
27 N. Pasero, op. cit., p. 99 (nota al v. 11).
28 La traduzione è dello stesso Pasero, ibid., p. 95.
29 Ibid., p. 87.
30 La traduzione è di G. Chiarini, Il canzoniere di Jaufre Rudel. Edizione critica con introduzione, note e glossario, L'Aquila 1985, p. 93 (da qui, pp. 91-92, anche il testo: si tratta dei vv. 43-52 del celebre Lanquan li jorn son Ione en mai).
31 Cfr. R. Lejeune, La chanson de l’amour de loin de Jaufré Rudel in Studi [...] Angelo Monteverdi, Modena 1959,1, pp. 403-442. E cfr. altresì G. Chiarini, op. cit., p. 99, nota al v. 48.
32 Si v. ad es., nella classica ed. del corpus bernardiano curata da C. Appel, Halle a.S. 1915, p. 52 (A! tantas bonas chansos, v. 21), p. 68 (Be m'an perdut lai enves Ventadorn, v. 41), p. 221 (Can l'erba fresch' e.lh folha par, vv. 33 ss.).
33 Si v., nell’ed. del corpus marcabruniano a cura di J.-M.-L. Dejeanne, Toulou-se 1909, p. 121 (Estornerl, cucili ta volada, vv. 12 ss.) e p. 139 (L'autrier jost' una sebissa, vv. 43 ss.).
34 Jaufre Rudel, com’è noto, è esplicitamente ricordato da Marcabru come «compagno di strada» a cui inviare una lirica dal forte impianto ideologico in Cor-tesamen vuoili comensar, vv. 37 ss., ed. Dejeanne cit., p. 63. Rimangono forse da approfondire numerosi nessi intertestuali che legano i due poeti, pur nell’autonomia delle singole e differenziate posizioni, in un’aperta polemica contro la poetica di Guglielmo IX.