«AD AUDIENDI NON VIDENDI COMMODITATEM». NOTE SULL'INTRODUZIONE DEL CONFESSIONALE SOPRATTUTTO IN ITALIA

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Title
«AD AUDIENDI NON VIDENDI COMMODITATEM». NOTE SULL'INTRODUZIONE DEL CONFESSIONALE SOPRATTUTTO IN ITALIA
Creator
Wietse de Boer
Date Issued
1991-08-01
Is Part Of
Quaderni Storici
volume
26
issue
77 (2)
page start
543
page end
572
Publisher
Società editrice Il Mulino S.p.A.
Language
ita
Format
pdf
Relation
La volontà di sapere, Italy, Feltrinelli, 1968
Rights
Quaderni storici © 1991 Società editrice Il Mulino S.p.A.
Source
https://web.archive.org/web/20230921063007/https://www.jstor.org/stable/43778609?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxOCwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjQyNX19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Acf7d9a57d7f94cf4134f54cfe1770d0d
Subject
confession
sexuality
extracted text
«AD AUDIENDI NON VIDENDI COMMODITATEM». NOTE SULL'INTRODUZIONE DEL CONFESSIONALE SOPRATTUTTO IN ITALIA
1. Con poche parole cariche di implicazioni, il confessionale è stato indicato da J. Bossy come un segno materiale del declino della prassi penitenziale tra medioevo e età moderna. La graduale e poco vistosa diffusione di quel mobile ecclesiastico destinato all’amministrazione della confessione sacramentale avrebbe infatti marcato un profondo mutamento in essa: il mutamento di un atto sociale imperniato sulla penitenza in un atto di disciplina interiore. Ma il confessionale avrebbe assunto questo significato indipendentemente dagli obiettivi concreti di chi l’aveva introdotto: si trattava così di una «innovazione inconsapevole» {a sleepwalking innovation) L
L’attribuzione, da parte di Bossy, di un valore «simbolico» all’introduzione del confessionale, che avrebbe segnato l’inizio della confessione moderna, nasce da una riflessione intorno al tradizionale svolgimento della procedura e all’impatto esercitato su esso dall’uso del nuovo mobile, con le sue specifiche caratteristiche formali. Ma il fatto che questa riflessione in Bossy rimanga largamente implicita costituisce, vista la grande portata dell’affermazione, un chiaro invito ad un approfondimento. In che consisteva precisamente, sul piano rituale, la novità del confessionale?
Anche la divergenza ipotizzata da Bossy tra gli intenti specifici di coloro che hanno introdotto il confessionale e le conseguenze effettive di questa iniziativa, merita una ulteriore riflessione. Prima di potersi pronunciare su significati o effetti involontari, è opportuno precisare quali fossero i motivi per cui il mobile fu concepito, e quali i fattori che ne condizionarono le caratteristiche.
Partendo da queste considerazioni e domande, scarsamente affrontate nella bibliografia sull’argomento, ci proponiamo di seguire alcune tappe della graduale «costruzione», introduzione e
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diffusione del confessionale. Ma vediamo prima il quadro offerto dalla storiografia erudita.
2. L’introduzione del confessionale viene comunemente collocata nel contesto del vasto processo di riforma della vita religiosa che prese le mosse dal concilio di Trento e che, pur con ritmi variabili e articolazioni locali particolari, si estese in tutti i territori rimasti fedeli alla Chiesa di Roma, compresi quelli di recente conversione 2.
Poiché gli stessi padri tridentini non si sono espressi in proposito nell’ambito del concilio 3, la maggior parte degli studiosi che si sono occupati del problema ha individuato in Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano e riformatore tridentino per eccellenza, l'autore del confessionale, e ha attribuito alla sua attività legislativa e pastorale la prima definizione e propagazione del mobile. A lui infatti si deve la prima dettagliata descrizione normativa del confessionale, inclusa nelle Instructiones fabricae et supellecti-lis ecclesiasticae (1577): è questo il modello più noto e che, per consenso unanime degli storici, ha in larga misura fissato la struttura del confessionale per tutta la sua storia futura 4.
Quali erano le motivazioni che avrebbero spinto il Borromeo all’uso sistematico di una tale sedes confessionalis? Alcuni studiosi hanno sottolineato il bisogno di definire meglio e fissare lo «spazio celebrativo» della confessione: in tal modo, si mirava a «mettere ordine e (a) superare [...] una situazione di arbitrio o di pressappochismo» 5; oppure, secondo altri, c'era l'intenzione di dare maggior peso alla dignità e all’importanza della confessione (con riferimento ai dubbi sull’efficacia del sacramento sollevati dalla critica protestante) 6. Altri ancora hanno visto nella nuova sede per la confessione una materializzazione della tendenza, marcata durante i dibattiti tridentini, ad accentuare il carattere giuridico del sacramento della penitenza: il confessionale sarebbe quasi un tribunale 7. Inoltre, la costruzione del mobile è stata interpretata come un tentativo di meglio garantire la segretezza, o privacy, durante il colloquio 8. Riguardo alla separazione tra il confessore e il penitente, sono stati addotti anche motivi di carattere sia pastorale che «prudenziale» 9; più esplicitamente, l'effettiva divisione avrebbe dovuto escludere qualsiasi «occasione di eccitazione sessuale o innuendo» 10.
Così, la semplice domanda «da dove viene il confessionale» ha suscitato, in sede storiografica, una molteplice problematica, che va dal valore e significato, discusso in questo periodo di ri-



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forma, del sacramento della confessione, allo svolgimento effettivo del rito.
3. Negli Instructionum fabricae et supellectilis ecclesiasticae libri II (edizione principe, Milano 1577) viene ripresa, articolata ed elaborata tutta la precedente normativa conciliare della provincia milanese in materia di architettura e di arredamento ecclesiastico. Un capitolo intero e dedicato a quello che già si chiama (in latino) confessionale, è che viene definito «un opus, attrezzato in modo dovuto e convenevole (recte decenterque) per ascoltare la confessione dei penitenti» n.
La descrizione che ne viene data si distingue per la sua grande accuratezza: il modello emerge nei minimi particolari e con tutte le misure desiderate. Sostanzialmente, il mobile, che poggia su una bassa predella, è costituito da una struttura di tavole di legno, chiusa di dietro, ai due lati e di sopra, ma interamente aperta di fronte, in cui è stata sistemata una sedia per il confessore, con un inginocchiatoio per il penitente posto ad uno dei lati esterni. Nel tramezzo che, da quella parte, separa la sedia e l'inginocchiatoio si trova un finestrino munito da due colonnine di legno, e che viene ricoperto da una lamina di ferro sparsa di fo-rellini dell'ampiezza di un cece (dalla parte del penitente) e una teletta sottile (dalla parte del sacerdote). Infine, il tramezzo verrà provvisto, di fronte, di una tavola trasversale, la parte più ampia della quale si estende verso il lato del confitente, l'altra invece verso quello del confessore 12.
Nella chiesa, il confessionale va collocato in un posto aperto e ben visibile fuori della cappella maggiore (eventualmente in una cappella laterale o un altro luogo purché sia ampio e aperto). Nella costruzione del confessionale si terrà conto del requisito che il confessore debba trovarsi sempre «in superiori parte eccle-siae» e che il penitente abbia il viso rivolto verso l'altare: il confessore si troverà a sinistra rispetto al confitente, se il confessionale sarà collocato dalla parte del Vangelo; a destra, se il confessionale verrà a trovarsi dalla parte dell’Epistola.
Le Instructiones che contengono questo modello, pubblicate (come si è detto) nel 1577, furono compilate dietro richiesta del terzo concilio milanese del 1573 13. Non sappiamo con certezza a chi sia stata affidata la compilazione delle Instructiones fabricae, anche se i nomi di due stretti collaboratori del Cardinal Borromeo, Ludovico Moneta e Pietro Galesino, sono stati avanzati a buona ragione. È assai probabile che il primo, prefetto delle Fab-



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briche Ecclesiastiche della diocesi, abbia avuto un ruolo preponderante nella prima stesura del testo, mentre il secondo avrebbe redatto la versione finale in latino 14. Così, dovremmo anche considerare il Moneta come l’ideatore del confessionale proposto dalle Instructiones 15.
Possiamo supporre che al momento della pubblicazione delle Instructiones un prototipo di quel confessionale fosse già disponibile. L'anno precedente aveva visto a Milano il grande spettacolo del giubileo, promulgato da Carlo Borromeo, concesso ai milanesi dal papa Gregorio XIII a seguito dell’Anno Santo romano. In quella solenne occasione di generale perdono e pentimento, tra processioni e manifestazioni di penitenza, molti si sarebbero affidati alla cura dei confessori assegnati appositamente alle quattro grandi basiliche della città. È significativo che in quella circostanza, proprio all'inizio del giubileo, il 12 febbraio 1576, erano stati sistemati nel Duomo nuovi confessionali, che furono tali da suscitare l’ammirazione di un attento osservatore delle vicende locali, il diarista Gian Battista Casale, e da poter servire come modello esemplare nei decreti emanati di lì a qualche mese dal visitatore apostolico, Gerolamo Ragazzoni, alla conclusione della sua ispezione alla città e alla diocesi 16. I nuovi confessionali con la loro inconfondibile fisionomia potevano certo essere considerati come un segno materiale del ripristinato sacramento della confessione, elemento del riaffermato culto ufficiale della chiesa post-tridentina milanese. Ma in che cosa consisteva esattamente la loro originalità?
4. Con il modello prescritto nelle istruzioni per l’architettura ecclesiastica e sperimentato verosimilmente durante il giubileo milanese, venne fissata per la prima volta in modo dettagliato la struttura materiale del confessionale. Non solo: vennero fissate anche le rispettive posizioni fisiche e i comportamenti rituali di quelli che dovevano usare quel mobile. Ciò non implica necessariamente che si stesse effettuando, o volesse effettuare, un profondo cambiamento nello svolgimento rituale del sacramento. Anzi, si potrebbe con maggior ragione dire che tutta una serie di prescrizioni tradizionali si trovasse qui confermata e rafforzata in una forma materiale vincolante.
Tra i liturgisti medievali si era venuto formando un globale consenso riguardo ai gesti (e il significato di essi) da osservare durante l’atto della confessione 17. Il confessore doveva mettersi seduto su una poltrona (che, in quel periodo, non sembra essere



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distinta da una sedia normale); e non era una regola casuale: la sua positura fisica accentuava il suo ruolo e la sua autorità di giudice delle anime. Il penitente dal canto suo doveva inginocchiarsi e tenere il capo abbassato, entrambe espressioni esteriori del suo atteggiamento mentale: l’umiltà di uno che si riconosce colpevole, che, dimostrandosi pentito al cospetto di Dio, ubbedi-sce alla sua volontà, e che di conseguenza, al di là di ogni distinzione di stato sociale, si sottomette al sacerdote detentore del potere delle chiavi 18. Per vari motivi (sui quali torneremo), molti manuali per la confessione concordano anche sulla necessità di evitare, tra penitente e confessore, ogni contatto visivo; alcuni prescrivono, qualora si tratti di penitenti femminili, di farle confessare accanto al confessore.
Sono tutti, come si vede, atteggiamenti fisici che venivano imposti automaticamente dalle caratteristiche formali del confessionale borromaico; o, viceversa, esse sembrano derivate direttamente dalla normativa tradizionale. A prima vista, si potrebbe quindi considerare la definizione di tal mobile come uno sviluppo "logico" e inevitabile che non faceva che rafforzare una prassi esistente; potremmo persino chiederci perché questo sviluppo si sia fatto attendere tanto a lungo, fino alla seconda metà del Cinquecento 19. Ciò non toglie, evidentemente, che proprio in quel frangente se ne sia sentito il bisogno e Fattualità, e rimane la domanda del perché.
Innanzitutto va sottolineato che, nel 1576/1577, non era la prima volta che un confessionale veniva usato o prescritto. A Milano, se n'era già parlato nel 1565, durante il primo concilio provinciale convocato dal Borromeo, e preparato dal suo vicario generale Nicolò Ormaneto. Il relativo decreto ci presenta il confessionale in una forma più "nuda" rispetto alla istruzione del 1577; allo stesso tempo, viene specificato meglio il contesto della misura: era quello di stabilire i luoghi e i tempi adeguati per la confessione:
Sacerdotes, nisi ex causa necessaria, mulieres ante solis ortum, vel post eius oc-casum, confitentes ne audiant. Neve in cellis, sed publice in ecclesia, in sedibus, in quibus tabella omnino inter confitentem et confessorem interiecta sit...20
Vediamo dunque che il provvedimento, benché non si riferisca esplicitamente al "confessionale" - ma in ambito milanese il termine comparirà presto, in una istruzione di pochi anni posteriore 21 -, ne proponga una definizione elementare: si tratta di una sedia per ascoltare le confessioni, attrezzata in modo tale da



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separare il confessore dal confitente 22. Di conseguenza, l’assito divisorio descrittoci nel modello complessivo delle Instructiones fabricae compare come il nucleo originario del confessionale. È altrettanto evidente che il provvedimento riguardava particolarmente (forse non esclusivamente) le confessioni delle donne. Infine, considerando il contesto in cui viene presentata, la prescrizione faceva parte di un tentativo di promuovere la confessione come una procedura da svolgere in pubblico - anziché in «cellule» o abitazioni private -, come un rito che andava visto, in chiesa, alla luce del giorno.
Se, nella successiva normativa milanese sul confessionale, verranno aggiunti nuovi particolari, fino ad arrivare al modello complessivo che abbiamo visto, tuttavia questi tre elementi rappresenteranno sempre una costante 23. D’altra parte, essi si erano presentati nello stesso contesto anche prima del 1565: numerose sono infatti le costituzioni vescovili e i decreti conciliari medievali che, condividendo la particolare preoccupazione nei confronti di penitenti di sesso femminile, insistevano sul carattere pubblico dell’amministrazione del sacramento24; e neanche il tramezzo divisorio tra confessore e penitente era una invenzione originale del periodo postridentino.
5. Nelle sue Constitutiones, pubblicate nel 1542, anche il vescovo Gian Matteo Giberti, trattando il sacramento della penitenza, sentì il bisogno di fornire ampie indicazioni quanto al «luogo, tempo e modo» della confessione. Ed è qui che propone un mezzo per separare il confessore dalla donna che si confessa:
Quoties autem feminam in confessione audire contigerit, volumus, quod inter sa-cerdotem confitentem, et mulierem sit tabula una cum sua fenestella, super qua sit una gradata, seu lamina perforata; quam tabulam confessorium denominavimus 25
Qui si impongono due osservazioni. In primo luogo, è probabile che per Giberti si tratti di una innovazione, una novità, indicata come è da un termine presumibilmente inventato da lui stesso: confessorium. In secondo luogo, non si parla esplicitamente di un mobile, di una sedia, ma della sola tabula divisoria tra il sacerdote e il confitente, di quello, insomma, che abbiamo appena definito il nucleo originario del confessionale. In breve, ci troviamo di fronte ad un importante precursore della sedia borro-maica, se non addirittura al momento creativo della sua invenzione. È chiaro che tra questo “confessorio” e una sedia fissa, munita di un tale tramezzo, e quindi un "confessionale”, il passo



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sia molto breve. Che peraltro questo passo fosse già stato compiuto nella stessa diocesi veronese, contemporaneamente con la stesura delle costituzioni del Giberti, lo suggeriscono alcuni ordini dati dal vescovo durante le sue visite pastorali degli anni 1541-42 26.
Quello del "confessorio" si potrebbe dunque considerare come un altro elemento della riforma gibertina, accanto a tanti altri, destinato a confluire ed essere sviluppato successivamente nella riforma ecclesiastica milanese: è ben nota questa influenza veronese, anche direttamente esercitata a Milano da personaggi come Nicolò Ormaneto e Alberto Lino 27. Ma bisogna tener presente che non si trattava di un rapporto esclusivo. Così, il "confessorio” non raggiungeva solo Milano: da un rapido (e incompleto) spoglio dei sinodi italiani celebrati negli anni Cinquanta e Sessanta del '500 risulta che un tale tramezzo sia stato adottato a Siracusa (1553) 28, Salerno (1554) 29, Brescia (1564) 30, Fiesole (1564) 31, Bologna (1566) 32, probabilmente anche a Napoli (1565) 33. Ora, se la prescrizione di un "confessorio” da parte del Giberti era una prima tappa verso l’introduzione del confessionale vero e proprio, possiamo concludere che venne imitata molto presto e con larga diffusione in varie parti d'Italia. Che l'iniziativa corrispondesse chiaramente ad un bisogno, lo conferma poi la rapida diffusione del confessionale stesso, anche prima dell’esistenza di un modello autorevole come quello borromaico del 1577. Dopo il primo concilio provinciale milanese seguirono i concili (o sinodi) di Ravenna (1568), Firenze (1573), Genova (ante 1574), Napoli (1576), Cosenza (1579), Venezia (1581), Sorrento (1584), Trani-Salpense (1589), Trento (1593), Alba (1594), Salerno (1596), S. Se-verina (1597), Siena (1599) (per limitarci al Cinquecento italiano) 34. Uno sviluppo definitivamente confermato dall'inclusione del confessionale nel Rituale Romanum del 1614 35.
6. I testi legislativi ecclesiastici dell'epoca dimostrano quindi che l'introduzione del confessionale decretata a Milano nel 1565 non sia stata un fatto isolato. Confermano anche un'altra osservazione fatta in base a quel decreto milanese: dappertutto, il quadro è quello, soprattutto, della confessione delle donne, e si avverte sempre una chiara preoccupazione diretta a salvaguardare la pubblicità di tale atto. Sono elementi che ovviamente non possono essere ignorati quando si tratta di spiegare il fenomeno. I testi che abbiamo consultato sono peraltro poco espliciti al riguardo, anche se non mancano degli accenni: vanno evitati



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«scandala, quae in confessionibus sacramentalibus solent hinc inde quandocumque contingere» (Giberti) 36, ossia «omnis irreve-rentia, et peccati periculum» (Concilio di Firenze) 37.
Era lo stesso tipo di «scandali» a venir segnalato durante la fase bolognese del concilio di Trento, nel 1547: «quia quandoque inveniuntur sacerdotes tam depravatae vitae et conscientiae, ut non erubescant in ipsa confessione tentare pudicitiam honesta-rum mulierum et tam solemni sacramento audeant abuti ad le-nocinium». La misura allora proposta si atteneva peraltro alla normativa consueta, prescrivendo di confessare le donne in chiesa «et in loco publico et aperto, ita ut nulla suspitio ibi cadere possit» 38.
La paura di eccessi durante rincontro confessionale, o il sospetto che ci fossero, invitava dunque a sottolinearne il carattere pubblico, e quindi la controllabilità. Dal seguente episodio vedremo non solo quanto fossero intense, in questo frangente, tali preoccupazioni (tanto da configurarsi come segno, forse, di una nuova sensibilità?), ma come questa paura e quel sospetto potessero tradursi nella richiesta di nuovi provvedimenti.
7. «Da diverse parti molte persone di buon zelo lacrimano meco la gran abominatione di molti homini impii, che violano il sacramento della penitentia, tentando nell'atto della confessione et fuori d'essa di satiar il suo sfrenato et bestiai appetito con figliole spirituali; et di questo abominevole peccato ho sentito gran querele, et qualche persona pratica delle cose spirituali et che conosce assai de gli andamenti di qui, teme che non sia più in fatti di quello che va attorno in parole...» 39.
Con questi toni allarmanti, anche il nunzio di Spagna Nicolò Ormaneto - che così incontriamo, dopo le sue esperienze veronesi e milanesi, per la terza volta - segnalava nel 1575, in una corrispondenza con la Segreteria di Stato vaticana, gravi offese arrecate da parte di confessori alla dignità del sacramento. In Spagna, questo delitto, poi definito «tentazione ad turpia», era in tempi recenti diventato materia di competenza dell’inquisitore generale, con una bolla del papa Pio IV (Cum sicut nuper, 16 aprile 1561) 40. Nella lettera dell’Ormaneto questa stessa bolla è l'oggetto della discussione: la gravità della situazione e la difficoltà di una applicazione efficace dell'ordine papale richiederebbero, secondo il nunzio, una estensione del contenuto della bolla41. A sostegno della sua richiesta Ormaneto include due sommari processuali con la sua lettera.



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L’elaborazione del concetto di sollecitazione e l’effettiva esecuzione della nuova normativa in sede inquisitoriale sono un fenomeno ancora poco studiato42. Ma, anche prescindendo da interrogativi sulle pratiche che venivano considerate atti di sollecitazione e sui modi di procedere nei confronti di esse, l’inclusione di trasgressioni di questo tipo tra i delitti processabili dall’Inquisizione è una conferma eloquente dell’angosciosa attenzione rivolta al sacramento della penitenza nel quadro del problema, vivamente sentito dalla Chiesa tridentina, dell’«integrità morale» del clero nei suoi rapporti con l’altro sesso. E il fenomeno non si limitava certo alla Spagna. Ancor prima dell’allargamento del territorio di applicazione della bolla sulla sollecitazione, in un primo momento al Portogallo (1608, 1612) poi a tutte le altre zone del mondo cattolico (const. Universi, 30 agosto 1622) 43, non pochi sono i casi di sollecitazione processati in Italia da tribunali dell’Inquisizione. Dappertutto, i numeri aumentano rapidamente dopo il 1622 44.
Quel che importa qui è il fatto che l’introduzione del confessionale non è solo coincidente, ma direttamente collegabile con l’emergere del problema della sollecitazione. È lo stesso Ormane-to a esplicitare questo nesso, suggerendo, nella lettera appena citata, che la causa verrà servita anche
con levar l’occasione quanto maggiormente si può: et laudarei che si levasse l’uso di confessar nelle camerette, et s’introducesse qui l’uso di confessionarii posti in luoco patente della Chiesa con quel tramezzo trai confessor et la donna penitente, come già ordinò la santa memoria di Pio Quinto, ma qui non fu essequito45
«Con levar l’occasione»: così, all’iniziativa in campo giudiziario, richiamando l’intervento dell’Inquisizione, corrispondeva l’introduzione del confessionale quale provvedimento di carattere preventivo, per diminuire i rischi inerenti o associati all’atto della confessione.
8. Esisteva infatti un’acuta consapevolezza della potenziale pericolosità dell’incontro tra confessore e penitente. Esso non solo costituiva una delle poche occasioni lecite di colloquio privato fra sacerdote e fedele, specie se di sesso femminile, ma la natura stessa dell’atto confessionale comportava dei rischi del tutto particolari. Era, in un certo senso, come scherzare col fuoco.
Carlo Borromeo, ad esempio, segnalava il rischio, per il confessore, «di restare in qualche modo con l’anima sua macchiata, sentendo molte immonditie d’altri», cosa che necessitava una



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preparazione spirituale da parte sua prima di poter ascoltare la confessione di altri 46. A sviluppare l’idea è un autore come il gesuita Valére Regnauld, che estende, a questo proposito, la tradizionale metafora medica per illustrare le caratteristiche della confessione: il confessore «oret pari ter et prò seipso, si ex tali au-ditione tentationem aliquam in se sentiat, medicos corporum imitatus, qui visitantes infectum morbo contagioso, solent habe-re aliquid odoriferum per quod a contagione se protegi defendi-que posse sperant. De quo antidoto nihil ad sui conservationem solicitis contingit frequenter, ut quam in aliis pestilentiam spiri-talem curare volunt, ipsis adhaerescat...» 47. Se il medico rischia di essere contaminato dal male che sta combattendo, bisogna proteggerlo.
Tra i rischi di contaminazione cera soprattutto il pericolo che le interrogazioni, che spesso si possono immaginare assai circostanziate, su argomenti di carattere sessuale avrebbero realizzato quello che cercavano di combattere, cioè che l’esplicitare sentimenti e comportamenti associati al peccato della lussuria sarebbe finito con l’eccitare desideri ed impulsi dello stesso genere, sia nel confitente, sia nel confessore. Per prevenire quelle situazioni si ammonivano solitamente i confessori, qualora si trattava di tale materia potenzialmente pruriginosa, a limitare l’interrogazione e il dialogo all’essenziale e a servirsi di un vocabolario "neutrale", evitando (come si usava dire) «parole disoneste», cariche di una potenza suggestiva: «satis enim est intelligi id quod dicitur» 48.
Tutto sta ad indicare che, agli occhi sensibili dei moralisti, il carattere delicato del colloquio confessionale veniva reso ancor più problematico dalla prossimità o da (eventuali) contatti fisici tra gli interlocutori. Di qui probabilmente il precetto per le donne confitenti di inginocchiarsi non davanti ma accanto al confessore - una posizione poi resa inevitabile dalla forma costringente del confessionale. Di qui anche i divieti riguardo alla imposizione della mano nell’atto dell’assoluzione di una donna 49 - un gesto rituale destinato a scomparire a causa della spartizione realizzata dal confessionale 50.
Secondo la stessa logica diventa anche spiegabile l’uso di una tavola divisoria - il nucleo originario del confessionale, come abbiamo visto - come mezzo per ostacolare ogni possibilità di contatto fisico. La funzionalità del confessionale a tal fine appare ben stabilita e accettata in una testimonianza sul comportamento di un confessore di grande fama. Di Filippo Neri infatti dice il



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canonico Germanico Fedeli, esaminato nel 1610 nel corso del processo di canonizzazione del fondatore dell'Oratorio romano:
Io so, et l’ho veduto con proprii occhi, che confessava pochissime donne, non si curando d’haverne molte, et quelle, l’ascoltava sempre dalla banda dove sta la gratella di ferro, né mai dalla parte davanti del confessionale, se non nelli ultimi anni della sua vita [...]; alcuni anni prima che morisse, havendo intermesso questo rigore con le donne, sue figliole spirituali, et trattando più domesticamente con esse, mi disse alcune volte che tanto era a lui toccare le mani delle donne et huomini giovani come delle vecchie, et alle volte diceva: come se toccasse un legno arido; dal che conobbi il gran stato della castità et purità alla quale era arrivato [...]. Soleva dire alli confessori che nel trattare con le donne fussero cauti et che non pigliassero esempio da lui, che Dio compartisce le sue gratie diversamente, come gli pare... 51
Attraverso la rigida separazione dei protagonisti del rito si cercava il modo per proteggerli da ogni tentazione o impulso tattile. Tuttavia, per quanto importante, non è detto che questo sia stato l'unico o eventualmente il principale obiettivo di chi ha introdotto il "confessorio" e di chi l'ha adottato, magari come elemento integrante di un confessionale vero e proprio. C’era una preoccupazione più specifica.
9. In una prima stesura le Constitutiones del Giberti contenevano un breve passo, successivo alla prescrizione sul confessorio, soppresso poi nell’edizione stampata. Nel testo manoscritto si ingiunge l'uso delle tabulae per le confessioni delle donne, «quia facies mulieris est sicut ventus urens».
È qui che in poche parole, servendosi di una espressione del profeta Habacuc 52, l'autore si è lasciato sfuggire un'immagine indicativa delle preoccupazioni che giustificavano il ricorso ad una innovazione liturgica. Essa era motivata, infatti, dal pericolo che stava nel diretto contatto visivo con una donna. La paura del Giberti verrà echeggiata dai testi conciliari 53.
Di nuovo, non si trattava di una apprensione emersa d'improvviso. Nella normativa medievale si era insistito frequentemente sull’opportunità di non guardarsi a faccia a faccia durante la confessione 54. In generale si temeva, visto il carattere delicato del colloquio confessionale, che tale contatto visivo potesse accrescere il senso di vergogna, in modo da impedire una confessione onesta e integrale; c’era anche chi avvertiva in questa circostanza il rischio di un atteggiamento troppo audace da parte del penitente, un atteggiamento dunque che contrastava col necessario senso di umiltà 55. Fin qui, l'esortazione sembra applicarsi parimente a persone di ambedue i sessi. Ma che il proble-



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ma si presentasse in una veste particolare nel caso di penitenti femminili, lo provano i divieti specifici nei loro confronti: quest ultima è chiaramente la problematica a cui il Giberti ha tentato di porre rimedio introducendo il "confessorio”. A confermarlo ulteriormente è il fatto che la sua metafora della «facies mulie-ris» appare nello stesso contesto in alcuni manuali del Quattrocento (ma di grande diffusione anche nel secolo successivo), come la Summula confessionalis di Antonino da Firenze e il Mani-pulus curatorum 56.
Considerazioni dello stesso tipo si ritrovano anche in un manuale "moderno” per i confessori di un ordine religioso che, fin dai suoi inizi, ha considerato la confessione come uno dei suoi massimi compiti: la Compagnia di Gesù. Nel Breve directorium ad confessarti et poenitentis munus rite obeundum (1554), compilato dietro richiesta dello stesso Ignazio dal suo segretario Juan Alonso Polanco, uno dei capitoli introduttivi è dedicato alla «prudentia confessarii». In primo luogo, ci vuole prudenza nei modi dell'interrogazione, che (come abbiamo visto) può indurre gli incauti in tentazione. Poi, «quod attinet ad aspectum», la prudenza richiede che sia il confessore sia il (la) penitente evitino, durante il loro incontro, ogni contatto visivo. Se non c’è un intermedium ad impedirlo, il confessore deve perlomeno prevenirlo, ponendosi la mano sulla mascella 57.
La paura dei manualisti tardo-medievali e del Giberti trova qui una piena conferma, anche se il Polanco dopo un vago accenno al confessorio gibertino (o comunque un simile tramezzo) suggerisce un'alternativa più semplice e meno drastica rispetto allo svolgimento tradizionale del rito della confessione. Ma il problema viene indicato in termini generali: si tratta di osservare «prudentia» di fronte ai pericoli derivanti dall’«aspectus».
10. Descrivendo, nella sua storia della congregazione dei padri Barnabiti, la vita di Don Battista Crivelli (c. 1586-1651) insigne membro, e più volte generale della congregazione, Francesco Barelli ricorda con particolare insistenza l'austerità e l’impeccabilità di condotta del Crivelli. Tale caratteristica viene illustrata da un episodio raccontato dal biografo:
Era il V. Servo di Dio stato da lungo tempo Confessore ordinario della Principessa D. Maria Aldobrandina nipote del Sommo Pontefice Clemente Vili, sposa di D. Gio. Paolo Sforza Visconti Marchese di Caravaggio. Ritrovandosi la Principessa fuor di Milano a certa sua villa, mandò chiamando il Crivelli, a cui volea confessarsi per cagione di non so qual festa di sua divozione. Giunto il Crivelli a quel luogo di



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delizie andò nell'oratorio, e veduto non esservi alcun confessionale per udire la sacramentai confessione della penitente, giudicando non esser dicevole il sentirla a faccia a faccia, senza alcun riparo, che tramezzasse tra essa e lui stesso, spiccò certa pittura dalla muraglia, e collocolla in modo, ch’averebbe potuto ministrare il sacramento, senza ch'egli vedesse la penitente, ne la penitente lui 58
E anche se la principessa protestò vivamente e, in un primo momento, rifiutò persino di confessarsi così, «parendole cotal cautela un soverchio scrupolo con una sua penitente antica, e con una Dama delle sue qualità», il confessore si dimostrò inflessibile su questo punto.
Se ci è consentito credere alla storicità deH'avvenimento (che in tal caso sarebbe da datare verso la metà del Seicento), troviamo qui confermata, un secolo dopo la prima "invenzione” del confessionale, l'importanza attribuita alla tabula divisoria come elemento essenziale del confessionale, in quanto destinata a garantire una rigorosa separazione visiva tra il confessore e le sue penitenti. Dall’altro canto, le proteste veementi (ma ovviamente inutili) della penitente rivelano un aspetto problematico di tale separazione: il ricorso dello scrupoloso barnabita a un mezzo tanto efficace quanto leggermente eccessivo nei confronti della «Dama» urta contro la sua dignità di signora altolocata e infrange il rapporto di fiducia che, dopo tanto tempo, si è stabilito tra essa e il suo confessore.
Ma qui, è soprattutto il primo atteggiamento che ci interessa: il confessore si impegna a trovare un mezzo che possa impedire il contatto visivo con la sua penitente. Infatti, è questo lo scrupolo morale che l’episodio cerca di esemplificare. Dice il Barelli, introducendo l’aneddoto :
ma sopra ogni cosa [il padre Crivelli] era vigilantissimo nel custodire i sentimenti esterni, e singolarmente gli occhi, che pur troppo sono le porte, per le quali dal nemico tentatore, suole darsi l'assalto alla fortezza del cuore.
Il passo è importante, perché rimanda ad una tematica precisa all'interno della letteratura pastorale e moralistica: quella, per l’appunto, dei «sentimenti esterni», dei sensi. Così, nell’Znter-rogatorio della dottrina christiana, compilato in esecuzione di un decreto del sesto concilio provinciale milanese (1582), una sezione dedicata alla confessione contiene un brano riguardante i «sentimenti del corpo», «alla custodia de quali si deve metter molta diligenza, percioche sono le finestre, per le quali spesso entra il peccato nell’anima, et conseguentemente la morte» 59. È



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la stessa immagine usata anche dal Barelli per definire la funzione dei sensi nella vita morale. Essi fanno da intermedio tra il mondo esterno e quello interno; sono le vie per le quali possono introdursi influenze sia buone sia cattive, e che, di conseguenza, devono essere ben custodite.
Tra i cinque sensi presi in considerazione dai manuali per confessori e nei trattati moralistici, è la vista che abbisogna la maggior cautela 60. «Licet omnes sensus debeamus retinere freno modestie - ammonisce già Antonino da Firenze nella sua classica Summa -, quia ut dici tur Hiere. IX: Mors ascendi t per fenestras nostras, scilicet sensuum, ingressa est domos nostras [...]. Precipue tamen hoc fieri oportet circa oculos nam quanto nobilius est membrum et vivacior sensus: quia plures rerum differentias ap-prehendit, tanto magis nocivum si non reguletur ratione...» 61. Il senso della vista - riecheggia il domenicano Pedro de Soto nel suo Methodus confessionis (1550) - in quanto «prevalente» (prae-stantior) rispetto agli altri sensi, è più pericoloso di essi e, a meno che «non rationis dominio refraenatus fuerit, ad multa peccata hominem illectat». Così, in un lungo elenco di persone che peccano a causa della vista, incontriamo quelli «qui impudicos oculos ad mulierem concupiscendam adplicant», e quelli «qui vanas voluptates, res turpes, rerum novitates videre malunt quam ea quae sunt cultus divini, et ad animae salutem spec-tant» 62.
È inevitabile che l'elaborazione e la diffusione di questa psicologia "dei sensi” attraverso la letteratura e la prassi pastorale, soprattutto in un periodo di nuovo rigore nella formazione professionale del clero, abbia fatto sentire il suo peso; le modalità e le sequenze cronologiche di tali processi sono ancora interamente da stabilire. Comunque non intendiamo qui inoltrarci in quel terreno poco esplorato. Ma Vexemplum del Barelli ci fa intuire come una categoria generale derivata dalla casistica confessionale potesse essere applicata anche nel caso specifico del confessore stesso, e potesse così diventare uno strumento di autoanalisi per il clero. Il comportamento del Crivelli suggerisce inoltre che una misura preventiva - l’introduzione del confessorio gibertino -nata da una determinata cautela, abbia ottenuto una sua dinamica propria in modo tale da farsi indispensabile, e che abbia contribuito così a rendere il contatto visivo, tra i chierici e le fedeli, indecente e peccaminoso in sé. Qui il caso si limita ad una occasione di particolare e riconosciuta pericolosità - la confessione sacramentale - ma non è da escludere che rappresenti orien-



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tamenti più generali destinati a influire incisivamente sui rapporti tra gli uomini di chiesa (e non solo quelli) e le donne.
Basti qui, a questo proposito, il solo accenno a tre fenomeni di simile tendenza, che si fecero vivi nello stesso periodo e nello stesso ambiente in cui abbiamo visto comparire il confessionale: l'obbligo per le donne di portare il velo (soprattutto in chiesa), la chiusura non solo fisica ma anche visiva dei monasteri femminili, e la divisione materiale delle chiese per separare donne e uomini.
11. Nella normativa sul confessionale, il tentativo di rendere materialmente impossibili, durante latto della confessione, contatti ritenuti pericolosi veniva unito ad altri precetti in merito alla costruzione e alla collocazione del mobile per garantire la piena visibilità e centralità deiravvenimento in mezzo alla chiesa. Non limitandosi a regolare rincontro tra confessore e penitente, la normativa lo integrava nel culto pubblico e ufficiale della chiesa postridentina. Con ciò, come abbiamo visto, si trovava in pieno accordo con la precettistica tradizionale sul locus con-fessionis.
Sul versante normativo, poco era cambiato insomma, e ci si può solo meravigliare di tanta insistenza su prescrizioni così elementari. Ma è facile lasciarsi illudere dall’apparente ripetitività meccanica di questi testi, che possono dare l’impressione di descrivere dei dati di fatto reali. Ad una lettura più attenta, invece, emergono particolari che fanno sospettare una prassi del tutto divergente dalla regola. Laddove l’amministrazione del sacramento in case private viene limitata a occasioni eccezionali come malattia e infermità, si intuisce il tentativo di combattere un fenomeno corrente, che rischia di macchiare la dignità del sacramento e del confessore. Eloquente, a questo proposito, la precisazione che, se un confessore confessa una donna malata a casa sua, la porta della stanza deve essere aperta, per consentire ai familiari di sorvegliarli 63. Altrettanto enfatico è il divieto di confessare in sacristie o in «cellule»; e qui dobbiamo pensare, probabilmente, a spazi chiusi o semi-chiusi annessi ad una chiesa 64. Durante una visita pastorale del vescovo bresciano Domenico Bollani a Chiari (7 settembre 1565), sono gli uomini della località a chiedere la chiusura di siffatte «cellule» nella chiesa conventuale dei frati minori di S. Bernardino, «stante quod in eis fiunt diversa inconvenientia, et propter aliquas murmurationes non vi-deant libenter eorum mulieres confiteri in dictis cellulis». Una



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preziosa informazione, questa, non solo perché dà un’idea dei sospetti che potevano circondare il sacramento della confessione, ma soprattutto perché indica da dove potessero venire le pressioni per una riforma in questo campo. Significativamente, gli uomini del comune e il loro vescovo vengono a trovarsi in pieno accordo 65.
È impossibile dire quanto fossero diffuse le pratiche a cui questi testi alludono, ma i riferimenti sono sufficienti per affermare che, con la promozione di un rito pubblico e visibile e con l’installazione di confessionali aperti e fissi nelle chiese, qualcosa cambiava realmente nella pratica della confessione: lo spazio di riserbo e di privatezza intorno al locus confessionis si restrinse. D’altra parte, con la riaffermata pubblicità, ai fini di una maggiore controllabilità visiva, veniva introdotto un elemento contraddittorio e problematico, che non poteva non urtare contro un’altra esigenza fondamentale: quella di garantire la segretezza della confessione.
12. Fin dalla prima formulazione canonistica dell’obbligo della confessione annuale, durante il Concilio Lateranense IV (1215) 66, il carattere segreto della confessione sacramentale era stato un punto fermo nella normativa sull’argomento: al confessore era strettamente vietato di far trasparire ad altre persone, in qualunque modo fosse («verbo vel signo vel alio quovis modo»), il contenuto del colloquio con il penitente. «Segreto» era l’aggettivo che non mancava mai nelle tabelle che elencavano, in molti manuali e summae medievali, le condizioni essenziali della confessione. Dal penitente non si poteva pretendere una confessione completa di tutti i gravi peccati da lui commessi (un’altra condizione, questa, perché una confessione risultasse valida) senza la garanzia del totale riserbo da parte del confessore. Una casistica particolareggiata illustrava i vari, e numerosi, modi in cui quello che era stato discusso durante la confessione rischiava di diventare di dominio pubblico. Uno di questi rischi era costituito dal comportamento del confessore durante l’atto della confessione. Perciò, quest’ultimo veniva avvisato nelle Avvertenze borro-maiche (come in altri manuali precedenti) «di non far atto, ne gesto alcuno, per lo quale qualche circonstante si potesse accorgere di gravezza di peccato nella persona, che ha innanzi...» 67.
È chiaro che una ambivalenza doveva nascere nel momento in cui (per motivi del tutto diversi) si tendeva a insistere anche, e in particolar modo, sulla maggior possibile visibilità e pubblicità



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del rito. Con ciò, non è detto che si volesse trascurare il segreto confessionale o semplicemente la quiete necessaria - anzi, è lo stesso Borromeo a sottolinearne l’importanza. Ma nelle sue parole si avverte lo sforzo di riconciliare due cose divergenti tra loro:
Siano posti detti confessionali in luogo della Chiesa talmente aperto, che da ogni parte si veggano: et se con questo si può insieme fare che siano in luoco dove habbia-no qualche riparo, che mentre alcuno si confessi, impedisca gli altri d'accostarsi troppo vicino al confessionale, si faccia; altramente dove è questo abuso, sarà officio del confessore levarlo, con fare scostare le genti troppo vicine, prima che si metta a sedere nel confessionale, et anche mentre ascoltarà le confessioni, se l'occasione lo ricercarà 68 •
Ma nelle prescrizioni per il disegno del confessionale e la sua collocazione in mezzo alla chiesa, ogni proposito di salvaguardare la privatezza o la segretezza del colloquio confessionale sembra assente. O quasi: un solo elemento si presta, ci pare, ad una interpretazione in questo senso, confermando (se l’interpretazione risulta esatta) l’ambiguità che abbiamo segnalato. Nella descrizione borromaica del confessionale, infatti, figura una tavola attaccata trasversalmente al lato anteriore del tramezzo divisorio tra il confessore e il penitente, in modo tale che la tavola si estende maggiormente dalla parte del penitente. Questo mezzo fa sì che sia il volto del penitente sia quello del confessore rimangano parzialmente riparati (il primo più del secondo) senza nascondersi però interamente o anche prevalentemente dietro la tavola. È una invenzione, un po’ sorprendente, che pare il frutto di un fragile compromesso tra apertura e riserbo, tra visibilità e protezione visiva.
Altre soluzioni vennero cercate piuttosto nel senso di una protezione uditiva, senza d’altronde cambiare il modello del confessionale. Questo avveniva ad esempio in ambito gesuitico. Quando a Roma giunse, nel 1584, il lamento della provincia dell’Ara-gona, che molte «nobiles matronas a nostris templis recessisse» perché «confessionaria nostra absque ianuis omnibus sint paten-tia atque prò comperto habeatur multoties confessiones a cir-cumstantibus mulieribus audiri», la risposta fu semplice e prammatica: «Fiant lignei cancelli, qui prospectum non impediant, et tamen non pateat reliquis accessus» 69.
Testi di questo genere confermano l’interesse per l’aspetto «privato», sia da parte dei confitenti sia da parte delle autorità ecclesiastiche. Ma esso si rifletterà nel disegno del confessionale solo nel momento in cui lo spazio riservato al confessore e soprattutto quello destinato al confitente verranno protetti o chiu-

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si, parzialmente o completamente (come si vede in molti confessionali di fabbricazione recente). Un accenno si riscontra nei lontani Paesi Bassi, dove nell’anno 1600, in occasione di una visita pastorale nella città di Bruxelles, viene ordinata la costruzione di confessionali provvisti di assiti non solo tra il confessore e il penitente ma anche tra l’ultimo e gli altri che stanno aspettando; la piccola aggiunta risulta tanto più significativa in quanto il precetto si rifa esplicitamente (anche se in modo indiretto) all’istruzione borromaica 70.
Ma anche qui bisogna guardarsi da conclusioni troppo frettolose: ci si può chiedere infatti se un concetto moderno come privacy possa essere applicato ad una situazione in cui la segretezza e la tranquillità necessarie per una confessione completa e sincera erano (nell’ottica ecclesiastica) nell’interesse di tutti: la confessione era, sì, un appuntamento finalizzato alla cura delle anime, alla consultazione, istruzione e consolazione spirituale, ma anche un importante momento di controllo delle coscienze.
13. Un fenomeno o un oggetto può rappresentare molte cose allo stesso momento e, a maggior ragione, col procedere del tempo. La confessione era una procedura di tale complessità che, quando si trattò di inserire un nuovo espediente quale il "confes-sorio" in una struttura architettonica più complessa, sorsero altre preoccupazioni, prima fra tutte (come abbiamo visto) quella di garantire una globale continuità nello svolgimento tradizionale del rito. Se dunque proveremo a valutare le ipotesi citate all’inizio di questo contributo, faremo bene a partire dal presupposto che la struttura di quel confessionale di cui abbiamo esaminato un primo modello dovesse rispondere a varie esigenze; col tempo, è probabile che assumesse una dinamica autonoma e che si adeguasse a nuovi bisogni.
Non ci vuole molto per capire che, assieme all’effettiva separazione visiva e fisica tra confessore e penitente, la definizione di uno spazio fisso, esclusivamente riservato alla confessione, inserito nell’architettura complessiva della chiesa, e l’elaborazione di forme monumentali di confessionale, a volte arricchite artisticamente con i simboli della pratica penitenziale, abbiano concorso a inculcare nella mente dei partecipanti la gravità dell’occasione e della procedura e a fare del dialogo tra loro un incontro più professionale che personale. Non è poi molto sorprendente che questa sedes confessionalis, in un periodo in cui il carattere giurisdizionale della confessione era stato confermato e rafforzato, ab-



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bia assunto la connotazione di sede giudiziaria, sedes tribuna-lis 7i. Né c’è da stupirsi se il confessionale diventava la sede normale per la confessione di tutti, uomini e donne 72 (anche se le prescrizioni hanno continuato, fino a tempi recenti, ad enfatizzare la particolare cautela riguardo a penitenti femminili). Infine, è probabile che preoccupazioni tese a garantire meglio la privatezza del colloquio abbiano ispirato modifiche nella struttura del confessionale, tali da creare spazi sempre separati ma chiusi verso l'esterno con porte o tende.
Tuttavia, da questa ricerca sono emersi soprattutto due elementi che possano indicare quanto l’introduzione del confessionale abbia cambiato realmente, in prima istanza, il rito della confessione; sono anche i criteri decisivi per valutare le affermazioni di John Bossy con cui abbiamo aperto questa indagine. Se dunque è vero, in primo luogo, che l’introduzione del confessionale veniva incontro al bisogno di una maggiore controllabilità del rito, riaffermando e regolando il carattere pubblico di esso, e sopprimendo o limitando pratiche «private», è chiaro che un collegamento tra essa e un processo di interiorizzazione della prassi penitenziale diventa assai problematico. Ne consegue inevitabilmente che, se la trasformazione ipotizzata da Bossy c'è stata, questo processo si è svolto accanto a o malgrado quell'altro cambiamento, introdotto con il confessionale. È ancora difficile vedere le implicazioni di questa situazione contraddittoria, ma non è sicuramente una questione di scarsa importanza.
Se, in secondo luogo, la costruzione di confessionali mirava soprattutto a realizzare una separazione fisica e visiva tra il confessore e il penitente - il tratto distintivo dei primi confessionali - anche questo elemento va visto come una misura di carattere disciplinare, tesa soprattutto a controllare i rapporti tra il clero e le donne. Ma a parte quello, tenendo presente la distinzione fatta giustamente dal Bossy, non si possono escludere effetti che andavano al di là delle intenzioni primarie. Non oserei dire se essi andassero nel senso di una confessione più «interiore», meno «sociale». È fuor di dubbio, invece, che il tramezzo divisorio tra il confessore e il (la) penitente abbia modificato sostanzialmente il rapporto tra essi, limitandolo al contatto uditivo, escludendo quello visivo e fisico-tattile.
Se si vuol dunque attribuire un significato («simbolico» o meno) al confessionale, occorre pensarlo soprattutto come una forma rivelatrice di un tentativo di disciplinare i sensi - e anche qui si intravede una problematica tutta da indagare. Si tratta co-



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munque di un obiettivo che non si è mai perso nella storia del confessionale, così che ancora nel 1974, dopo il terremoto del secondo concilio vaticano, il papa Paolo VI poteva ribadire la necessità del mobile, invocando il bisogno, durante Tatto della confessione, di un «diaframma protettivo» tra i partecipanti 73. Ma era un momento in cui, in Italia e nel mondo occidentale, il processo d'abbandono (o in alcuni casi un uso alternativo) del confessionale era pienamente in atto, e in cui sembrava che questa struttura, nonostante importanti modifiche intervenute nel corso dei secoli, avesse esaurito le sue possibilità funzionali.
Wietse de Boer
Erasmus Universiteit, Rotterdam
NOTE AL TESTO
* Desidero esprimere la mia gratitudine ai professori A. Prosperi e C. Ginzburg, che hanno letto una prima versione di questo contributo, per i loro commenti e stimoli. Più volte nel corso della ricerca l’Istituto Olandese di Roma mi ha offerto la sua ospitalità. Un vivo ringraziamento va infine alla dott.ssa C. Ancisi per aver corretto il mio italiano.
1 J. Bossy, Christianity in thè West, 1400-1700, Oxford-New York 1985, p. 134; cfr. adesso la traduzione italiana, Torino 1990, pp. 158-159. Di recente, questa interpretazione è stata accolta favorevolmente da Robin Briggs in un saggio sulla confessione, The sins of thè people. Auricular confession and thè imposition of social norms, pubblicato nel suo volume Communities of Belief. Cultural and Social Ten-sions in Early Modem France, Oxford 1989, pp. 277-338 (ivi, pp. 280-281).
2 Rimane pur sempre una ipotesi da verificare: non sembra inopportuno rilevare che il confessionale, o almeno un certo tipo di confessionale, non è stato assente dai paesi luterani (cfr. E.W. Braun-Troppau e O. Schmitt, voce Beichtstuhl (confessionale), in «Reallexicon zur deutschen Kunstgeschichte», t. II (1948), cc. 183-194; per indicazioni bibliografiche, v. la voce Beichte, in «Theologische Realenzyklope-die», t. V (1980), pp. 425, 428). Pur riconoscendo l’importanza di questo fatto in una prospettiva più larga, in questa sede preferiamo tralasciarlo per limitarci al mondo cattolico.
3 Ma vedremo più avanti come la problematica sottesa fosse oggetto delle discussioni bolognesi sulla confessione.
4 Finora studi specifici sull’argomento sono nati prevalentemente da un interesse storico-artistico per i confessionali nella loro forma evoluta e compiuta, realizzata dagli artigiani del Barocco; a parte il riferimento d’obbligo alle prescrizioni di Carlo Borromeo il problema delle origini, soprattutto in Italia, è stato largamente trascurato (se si eccettuano le digressioni assai generiche dello Schlombs sulla prassi penitenziale nel mondo monastico del medioevo e qualche utile indicazione del Lea). Cfr. Abbé Barraud, Notice sur les confessionaux, in «Bulletin Monumentai», XXXIV (1868), pp. 697-755 e 825-847 (cfr. la reazione dell’Abbé Cochet, ibid., XXXVII (1871), 91-56); P. Fierens, Chaires et confessionaux baroques, Bruxelles 1943; E.W. Braun-Troppau e O. Schmitt, Beichtstuhl (confessionale) cit.; Ad. Jansen, Ontstaan en evolutie van de Biechtstoelen, in «Tijdschrift voor Geschiedenis en Folklore» 14 (1951), pp. 3-31; E. Jombart, voce Confessional, in « Dictionnaire de Droit Canonique» XTV (Paris 1949), pp. 64-66, anche in «Catholicisme» II (Paris 1949), cc.



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1508-1510; H.C. Lea, A History of Auricular Confession and Indulgences in thè Latin Church, Philadelphia 1896, voi. I, pp. 394-395; M. Navoni, voce Confessionale, in «Dizionario della Chiesa ambrosiana», II (1988), 888-892; J. O’Connell, Church Building and Furnishing: The Church's Way. A Study in Liturgical Law, London 1955, pp. 72-73; W. Schlombs, Die Entwicklung des Beichtstuhles in der katholischen Kir-che. Grundlagen und Besonderheiten im alten Erzbistum Kòln (Studien zur Kòlner Kirchengeschichte Bd. 8), Dusseldorf 1965; M. Tauch, Der Beichtstuhl in den katholischen Kirchen des deutschen Barock, Bonn 1969; E.C. Voelker, Charles Borromeo’s Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae, 1577. A translation with commen-tary and analysis (tesi di dottorato, Syracuse University, 1977), Ann Arbor (Michigan) 1979, pp. 297-317; S. Zajadacz-Hastenrath, Das Beichtgestùhl der Antwerpener St.-Pauluskirche und der Barockbeichtstuhl in den sudlichen Niederlanden, Brussel 1970.
5 M. Navoni, Confessionale cit.
6 Jansen, Ontstaan en evolutie cit., p. 3. E. Jombart, Confessional cit.
7 J. Bossy, The Social History of Confession in thè Age of thè Reformation, in «Transactions of thè Royal Historical Society», 5th series, XXV (1975), p. 30. F. Mo-linari, San Carlo e la Controriforma, Milano 1988, pp. 231-232.
8 J. Bossy, The Social History cit., p. 30; R. Briggs, Communities of Belief cit., p. 280; P. Barocchi, Trattati d'arte del Cinquecento fra manierismo e Controriforma, III, Bari 1962, p. 447, n. 2.
9 Schlombs, Die Entwicklung cit., p. 37; Jombart, Confessional cit.; V. Golzio, voce Confessionale, in «Enciclopedia Cattolica», IV (1950), cc. 225-226.
10 Bossy, The Social History cit., p. 30. Cfr. di nuovo R. Briggs, Communities of Belief cit., p. 280.
11 Instructionum Fabricae, et supellectilis ecclesiasticae libri II Caroli S.R.E. Car-dinalis tituli s. Praxedis, Archiepiscopi iussu, ex provinciali Decreto editi ad provinciae Mediolanensis usum, Mediolani, apud Pacificum Pentium, 1577, cap. XXIII. Edizioni moderne in Acta Ecclesiae Mediolanensis, a cura di A. Ratti, Milano 1890-1896 (d’ora in poi AEM), II, cc. 1461-1465; Barocchi, Trattati d'arte cit., pp. 63-68. Traduzioni del testo si trovano in Schlombs, Die Entwicklung cit., pp. 134-137; C. Castiglioni e C. Marcora, Arte sacra (De fabrica ecclesiae), Milano 1952, pp. 74-79; Voelker, Charles Borromeo’s Instructiones cit., pp. 297-304 (un disegno moderno basato sull’istruzione stessa a p. 317).
Un modello non dissimile da quello borromaico viene proposto pochi anni dopo in ambito tedesco da Jakob MOller (Mullerus), Omatus ecclesiasticus.../ Kirchen-geschmuck..., Mùnchen (Adam Berg) 1591, p. 135 (testo latino), 159 (testo tedesco); a p. 162 un disegno del confessionale. Cfr. Schlombs, Die Entwicklung cit., pp. 137-138 per una edizione del testo tedesco; S. Mayer-Himmelheber, Bischòfliche Kunstpoli-tik nach dem Tridentinum. Der Secunda-Roma-Anspruch Carlo Borromeos und die mailandischen Verordnungen zu Bau und Ausstattung von Kirchen, Mùnchen 1984, fig. 45 per il disegno.
12 Inoltre, nel confessionale verranno affissati, dalla parte del confessore, l’elenco dei casi riservati, il testo della annuale bolla In Coena Domini, i canoni penitenziali, il testo stampato di una preghiera preparatoria per i confessori e quello della formula dell’assoluzione, una raffigurazione del Cristo o della Madonna; dalla parte del penitente, una raffigurazione del Crocefisso.
13 «De iis, quae pertinent ad ornatum et cultum ecclesiarum», AEM, II, cc. 265266.
14 Barocchi, Trattati d'arte cit., p. 403. Cfr. anche Mayer-Himmelheber, Bischòfliche Kunstpolitik cit., pp. 84-90 e note relative, pp. 287-302; bisogna notare, però, che il tentativo della Mayer di spostare la data della edizione principe (magari in



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italiano) delle Istruzioni al 1576 è privo di ogni sostegno documentario; d'altra parte ci è conservata l’edizione del 1577, mentre il processo di redazione e di preparazione del libro per la stampa ha lasciato delle tracce nel mese di luglio 1577 (brani di lettere citati dalla stessa Mayer, ibid., p. 289). È vero che nei decreti del quarto concilio, del 1576, si fa allusione al nostro testo come se fosse già stato pubblicato (AEM, II, c. 356; cfr. anche c. 318), ma questo va spiegato probabilmente come un aggiornamento editoriale del testo conciliare in vista della pubblicazione, avvenuta dopo quella delle Instructiones fabricae (la prima edizione che ho visto è stata stampata per i tipi del Seminario a Milano nel 1580).
Per valutare l’intervento del Moneta nella redazione delle Instructiones è decisivo un passo in una vita anonima (pubblicata a cura di C. Marcora, in «Memorie storiche della diocesi di Milano» X, 1963): «... et fu egli [Moneta] stesso, che quanto alla sostanza compilò li due libri della fabrica, et l’altro della supellettile Ecclesiastica...» (p. 451, con n. 4).
15 Tuttavia, per quanto riguarda il confessionale, rimane qualche motivo, di perplessità. Così, i tre testi manoscritti sopravvissuti che contengono (con variazioni tra di loro) una prima stesura del testo delle Instructiones, presentano uno spazio riservato, ma mai usato, per il capitolo «de confessionalibus et eorum numero» (Milano, Archivio Storico Diocesano, sez. XIV, voi. 84; sez. VI, voi. 43; sez. VII, voi. 7). Del resto, alcune note in margine al ms. 7 della sez. VII confermano l’intervento del Moneta (cfr. ff. 21, 38).
16 Annali della Fabbrica del Duomo di Milano, FV, Milano 1881, p. 139. Il diario di Giambattista Casale (1554-1598), edizione a cura di C. Marcora, in «Memorie storiche della diocesi di Milano» XII (1965), pp. 209-437 (notizie dell'anno 1576, p. 281: «...et quando si fece la ditta cesata si fece ancora quei belli confessionari in domo»). Per i Decreta generalia del Ragazzoni, v. AEM, II, cc. 1187-1188 («Confessio-nalis ipsius perfecta forma in Cathedrali ecclesia poterit cognosci; ad quam unus-quisque suum redigat...»). Per i documenti ufficiali relativi al giubileo (durato dal 12 febbraio fino al 28 giugno), v. AEM, III, cc. 513-542. La Mayer-Himmelheber ha insistito sull’importanza del giubileo nel contesto della «ritualizzazzione» della vita religiosa milanese (Bischòfliche Kunstpolitik cit., pp. 35-58).
17 Cfr. T.N. Tentler, Sin and Confession on thè Ève of thè Reformation, Princeton (N.J.) 1977, pp. 82 ss. Ann Eljenholm Nichols ha elaborato le sue conclusioni in base a testimonianze iconografiche, e cioè una serie di fonti battesimali con rappresentazioni dei sette sacramenti: The Etiquette of Pre-Reformation Confession in East Anglia, in «The Sixteenth Century Journal», 17 (1986), pp. 145-163. Per le grandi linee degli sviluppi liturgici tra penitenza antica e confessione moderna, v. ancora P.-G. Gy, Histoire liturgique du Sacrement de Pénitence, in «La Maison-Dieu», 56 (1958), pp. 5-21.
18 II Cardinal Caetano, ad es., considerava l’umiltà come una delle «conditiones confessionis»: «quantum ad intellectum, recognoscendo se miserum peccatorem et indignum venia; quantum ad affectum, affectando per subiectionem (qua confiten-do se subiicit confessori) subiicere seipsum intus divino iudicio [...]; quantum ad linguam in modo etiam loquendi, ut exponat sua peccata ut reus cum reverentia et tremore quasi coram Christo; quantum ad actus exteriores, ut genu flexus omnis utriusque sexus, et capite (si sanitas patitur) discoperto vir confiteatur ob reveren-tiam Christi et sacramenti» (Summula peccatorum R.R.D. Thome de Vio..., s.l. MDXXVI (=1525), p. 59 s.) Più sintetico un altro classico manuale per confessori qual è il Manipulus curatorum... di Guido de Monte Rocherii: «Debet ergo confessor peccatorem docere et monere ut ad pedes eius humiliter sedeat, nec patiatur eum sedere de pari» (cito dall'edizione Venetiis, in aedibus Francisci Bindoni et Maphei Pasini, 1538, p. 100). Interessante la precisazione (postridentina) del Catechismo



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Romano, secondo il quale tali portamenti rituali «etsi ad sacramenti rationem non spectant, eius tamen dignitatem magis ante oculos ponunt, et confitentium animos, pietate accensos, ad Dei gratiam facilius consequendam praeparant [...], ex his [i segni della cristiana umiltà] perspicere intellegimus, tum in sacramento caelestem vim agnoscendam, tum a nobis divinam misericordiam summo studio requirendam atque efflagitandam esse» (Catechismus ex decreto concila Tridentini ad parochos Pii V Pont. Max. iussu editus, Lovanii, apud Ioannem Bogardum, 1567, pp. 276-277). Per una analisi molto fine del concetto di consonanza tra comportamento esteriore e interiore come ideale di perfezione cristiana, vedi G. Pozzi, Occhi bassi, in «Thema-tologie des Kleinen. Petits thèmes littéraires», a cura di E. Marsch e G. Pozzi, Fri-bourg 1986, pp. 161-211.
19 Così, ad esempio, Lea, A History of Auricular Confession cit., I, pp. 394-395.
20 AEM, II, c. 52.
21 Cfr. la Instruzione generale, databile tra il 1566 e il 1569, probabilmente del 1567: «Si faccia un confessionale di legno, c’habbia la sedia del Confessore, et la bredella da inginocchiarsi il confitente: ma fra luna et l’altro sia un tavolato d'asse, con una fenestrella nel mezzo serrata con lama di ferro, o tola busata con piccioli buchi, accioche '1 Confessore possa meglio intendere il confitente, ed esser inteso da lui» (AEM, II, c. 1967).
22 Vale la pena di rilevare che, se il modello proposto nelle Instructiones fabri-cae è riuscito a fissare l'immagine del confessionale, anche la definizione implicita nel decreto del 1565 è rimasta sostanzialmente immutata: cfr. una definizione moderna come quella di E. Jombart (Confession cit.): «le meublé destinò aux confes-sions et disposò de fa?on à séparer le confesseur du pénitent, tout en leur permet-tant de s’entrevoir et de s’entendre».
23 Indubbiamente, questo sarà valso anche per i confessionali portatili, presto introdotti nella diocesi milanese per occasioni di grande affluenza alla co fess òne; cfr. i decreti relativi del Sinodo diocesano XI del 1584 (AEM, II, c. 1052) e del Sinodo diocesano XVII del 1593 (AEM, IV, c. 218). Questo tipo di confessionale, poi diventato così importante nella storia delle missioni, dimostra chiaramente il concetto originario.
24 A parte le indicazioni date da Lea, A History of Auricular Confession cit., I, p. 394, e Tentler, Sin and Confession cit., p. 82, vedi soprattutto Francis J. Fazzalaro, The Place for thè Hearing of Confessions. A Historical Synopsis and a Commentary (Catholic University of America Press, Canon Law Studies, thesis no. 301), Washington 1950, pp. 1-9. Fazzalaro rimanda soprattutto a concili inglesi e francesi risalenti alla prima metà del '200 (per i quali v. anche R. Rusconi, De la prédication à la confession: transmission et contróle de modèles de comportement au XHIe siècle, in «Faire croire. Modalités de la diffusion et de la réception des messages religieux du Xlle au XVe siècle» (Table ronde, Ecole Fran^aise, Rome 22-23 juin 1979), Rome 1981, pp. 67-85).
25 Constitutiones editae per reverendiss. in Christo patrem D. Io. Matthaeum Gi-bertum... ex sanctorum patrum dictis et canonicis institutis ac variis negociis quotidie occurrentibus et longo rerum usu collectae et in unum redactae, Veronae, apud Anto-nium Putelletum, 1542, tit. VI, cap. XXII. La stesura del testo è da collocare tra il 1536/37 e il 1540, e probabilmente all'inizio del 1540, cfr. A. Prosperi, Tra Evangelismo e Controriforma. G.M. Giberti (1495-1543), Roma 1969, pp. 255-61. Il passo citato viene segnalato dallo stesso A. Prosperi in Le visite pastorali del Giberti tra documento e monumento, saggio introduttivo a Riforma pretridentina della diocesi di Verona. Visite pastorali del vescovo G.M. Giberti 1525-1542, a cura di A. Fasani, Vicenza 1989, voi. I, pp. LVII-LVIII. E non era sfuggito a André Duval, Le Concile de Trente



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et la confession, in «La Maison-Dieu», 118 (1974), pp. 131-180, ivi, p. 143, n. 41 (l’articolo è stato ristampato in Idem, Des sacrements au Concile de Trente, Paris 1985).
26 Riforma pretridentina della diocesi di Verona cit., Ili, p. 1455 («gradus prò confitentibus ad confessorium...»), p. 1495 («scabellum ad confessorium prò peni-tentium genuflexione»), p. 1685 («confessorium amovibile»), p. 1692 («ponatur ad confessorium crates seu banda perforata», così anche a p. 1703), p. 1706 («aptetur bredela confessorii»), p. 1730 («ponatur ferrata ad confessorium et aptetur bredela ipsius confessorii»). Si noti, per inciso, qualche passo dove l’ordine «fiat locus prò audiendis confessionibus» sembra riflettere il tentativo di fissare spazialmente l’atto della confessione (ibid., Ili, pp. 1652, 1663, 1665); altrove s'insiste sulla visibilità («fiat confessorium in loco apertiori», p. 1735).
27 Cfr. E. Cattaneo, Influenze veronesi nella legislazione di san Carlo Borromeo, in «Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento», Padova 1960, pp. 123-166. Sul periodo milanese dell’Ormaneto, v. C. Marcora, Nicolò Ormaneto, vicario di S. Carlo (giugno 1564 - giugno 1566), in «Memorie storiche della diocesi di Milano» Vili (1961), pp. 209-590.
28 Synodales constitutiones Syracusanen. ecclesiae... piena synodo promulgatae, die octavo mensis Septembris 1553, Panhormi 1555, ff. 32v-33r: «Quotiens autem fae-minam in confessione audire contingerit, hortamur tanquam consonum et hone-stum quod inter sacerdotem confitentem et mulierem sit tabula una cum sua fene-strella, super qua sit una gradata, seu lamina perforata, quae tabula confessorium denominari solet...». Si tratta di una citazione del testo di Giberti appena menzionato.
29 Constitutioni sinodali della chiesa Salernitana fatte nell’anno 1554, Napoli (per Matthio Cancer) 1557, cap. Le monache, c. XIIII: «Ordiniamo et commandiamo come di sopra che debbiano tener alli confessorii una graticola di ferro, sopra la quali vi sia anco una teletta inchiodata».
30 Constitutiones Reverendissimi Domini Dominici Bollani Brixiae Episcopi, Bri-xiae (apud Ludovicum Sabiensem) 1564, p. [11]: «...interposita etiam tabella, fene-stellam inter ipsas [...] et sacerdotem habente».
31 Memoriale et precetto in genere di quanto si debba osservare per tutta la Diocesi Fesulana, in esecutione della Synodo Diocesana... [12 Settembre 1564], s.l.n.d.: «... col tener’ancho del continuo tra la faccie loro [cioè, dei confessori] et di esse donne, qualche graticola di legno, o ferro, o vero cortina di tela».
32 Ordinationi publicate nella sinodo diocesana di Bologna sotto il di 16 d’Ottobre MDLXVI..., Bologna (per Giovanni Rossi) 1567, f. 20r: «Tra il confessore, et confitente vi sia una tavoletta con una fenestrella ferrata...».
33 Acta et decreta Synodi Neapolitanae, Neapoli (apud Ant. Baccolum) 1568, p. 187: «... dum matronum, ac mulierum quarumvis peccatorum confessiones audiunt, in loco patenti et omnibus manifesto confessoria aptent et teneant, ac ibidem poeni-tentium peccata audiant et officium suum praestent in Domino salutare». Non è escluso che confessorium indichi qui la sedia stessa, non tanto l’assito divisorio, usata per le confessioni delle donne.
34 Concilio di Ravenna: G.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Parisiis 1901-1927 (d’ora in poi Mansi), XXXV, cc. 619-620. Concilio di Firenze: Mansi, XXXV, c. 762. Concilio di Genova, ante 1574, possibilmente 1567: Mansi, XXXVI bis, c. 574 (dove si condanna anche «pravam [...] consuetudinem, quae nonnullis in locis inveteravit, ut confessarii vagentur tam in civitatibus quam in oppidis et pagis, confessas - sic enim illas appellant - suas ad confessionem ostiatim evocantes»). Concilio di Napoli: Mansi, XXXV, cc. 820-821. Concilio di Cosenza (1579): Mansi, XXXV, c. 923. Concilio di Sorrento (1584): Mansi, XXXVI bis, c. 292. Concilio di Salerno (1596) : Mansi, XXXV, c. 987. Concilio di S. Severina



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(159 7) : Mansi, XXXV, cc. 1046-1047. Concilio di Trani-Salpense (1589): Mansi, XXXVI bis, c. 875 («confessoriola»). Sinodo di Alba (1594): Decreta edita et promulgata in Synodo Dioecesana Albensi, Astae (apud Virgilium de Zangrandis) 1594, p. 12; Concilio di Siena I (1599): Mansi, XXXVI bis, c. 532. Concilio di Benevento (1599): Mansi, XXXVI bis, c. 440.
35 Rituale Romanum Pauli V Pont. Max. iussu editum, Romae (ex typographia Reverendae Camerae Apostolicae) 1614, p. 41: «Habeat in ecclesia sedem confessio-nalem, in qua sacras confessiones excipiat. Quae sedes patenti, conspicuo et apto ecclesiae loco posita, crate perforata inter poenitentem et sacerdotem sit instructa». Già l’importante precursore del Rituale Romanum, il Rituale sacramentorum romanum del card. Giulio Antonio Santoro (Romae 1584) conteneva una simile prescrizione (p. 261; cfr. B. LOwenberg, Dos Rituale des Kardinals Julius Antonius Sancto-rius. Ein Beitrag zur Entstehungsgeschichte des Rituale Romanum, Mùnchen 1937).
36 Giberti, Constitutiones cit., tit. VI, cap. XXII; le parole del Giberti vengono echeggiate quasi letteralmente dal Concilio di Cosenza (1579): Mansi, XXXV, c. 923.
37 Mansi, XXXV, c. 762.
38 Concilium Tridentinum..., edidit Societas Goerresiana, t. VI, Acta III, 1 (a cura di S. Merkle, Friburgi Brisgoviae 1950), pp. 403-407. Cfr. anche un testo diocesano molto esplicito come questo decreto sinodale di Forlì (1565) : «Curati sopra tutto habbiano riguardo aH’honore delle donne, et spetialmente di quelle della lor parrocchia, guardandosi di non dar scandalo per occasioni di quelle, ne in parole o gesti, o fatti, massime sendo lor figliuole spirituali doppiamente, et per la cura et per la confessione sotto le pene de Sacri Canoni, et altre secondo meriterà l’enormità del caso, et colpa del delinquente sino alla depositione, et privatione. Le quali pene vogliamo habbiano ancho luogo ne sacerdoti semplici prò modo culpae, et servata proportione, rispetto quelle, che havesser confessate, o tentato la lor pudicitia nell’atto della confessione, anchor che senza effetto alcuno» (Constitutioni sinodali per la Città, et Diocesi di Forlì, con una breve instruttione in fine per i Curati semplici, Bologna, per Alessandro Benaccio, 1565, p. 29).
39 Archivio Segreto Vaticano, Nunziatura di Spagna, voi. 8, ff. 548r-553r, spec. f. 548rv.
40 Bullarium Romanum, t. 4, II, p. 77; P. Gasparri e I. Se rèdi, Codicis luris Canonici Fontes, Roma 1923-1939, voi. I, n. 102, p. 181. Cfr. Lea, A History of Auricular Confession cit., voi. I, p. 385.
41 Un problema, secondo Ormaneto, consiste nel fatto che «molti di questi ribaldi», consapevoli della provvisione papale, «essercitano li tentativi et li suoi trattati» poco prima della confessione o subito dopo l’assoluzione. Perciò, il nunzio suggerisce una estensione della definizione giuridica del delitto (e, di conseguenza, della competenza dell'Inquisitore) : dovrebbe riguardare ogni atto di «sollecitazione» in occasione della confessione in senso lato (dunque anche prima della confessione stessa e «finche la donna non fosse partita della Chiesa al tempo della confessione»). Un’altra difficoltà, quella di provare in tribunale tali atti illeciti, spinge l’Or-maneto a chiedere un ulteriore ampliamento delle competenze inquisitoriali, sino a includere «tutti quelli che depraehensi fuerint filias spirituales cognovisse». Riluttante, però, la reazione del papa, considerando che «li errori che direttamente non contradicono a la fede Cattolica non debbano esser conosciuti dal Santo Officio», e un nuovo breve non viene emesso (minuta di lettera del 20 febbraio 1576, Archivio Segreto Vaticano, Nunziatura di Spagna, voi. 9, f. 73v). Ormaneto non condivide l'argomentazione del papa (lettera del 5 aprile 1576, ibidem, voi. 10, f. 91r), ma, a quanto pare, le sue richieste sono rimaste senza esito (cfr. ibidem, voi. 9, ff. 95v-96r).
42 Cfr., però, Lea, A History of Auricular Confession cit., voi. I, pp. 382-393 e,



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dello stesso autore, History of Sacerdotal Celibacy in thè Christian Church, third ed., London 1907, voi. II, pp. 251-296.
43 Gregorio XV, const. Universi, 30 agosto 1622, pubblicata in Gasparri e Seré-di, Codicis luris Canonici Fontes cit., voi. I, n. 201, pp. 384-385.
44 Nei fondi inquisitoriali dell’Archivio di Stato veneziano si trovano 3 casi tra il 1547 e il 1585, 22 tra il 1586 e il 1630; tra i processi udinesi un caso del 1580, un altro del 1601; fra il 1611 e il 1670, 47 casi. In Sicilia (dipendente dall’Inquisizione spagnola), riscontriamo 53 processi tra il 1560 e il 1614. Per questi, e altri, dati statistici (anche quelli spagnoli), cfr. The Inquisition in Early Modem Europe. Stu-dies on Sources and Methods, a cura di G. Henningsen e J. Tedeschi, Illinois 1986, soprattutto pp. 110-119, 144-147.
45 Cercando tra i brevi conservati nell’Archivio Segreto Vaticano risalenti al periodo di Pio V, non ho trovato traccia dell’ordine papale al quale TOrmaneto allude (ringrazio il prof. G. Gualdo e il dott. J.P. de Valk per il gentile aiuto prestatomi).
Intanto, nella sua corrispondenza con il Vaticano, il nunzio spagnolo tornerà più volte e con insistenza sull’argomento. Riferendosi alle iniziative dei gesuiti spagnoli, a seguito di un avviso papale, per introdurre dei confessionali, anche lui chiede un ordine espresso in tal senso da parte del papa (lettera del 31 gennaio 1576, ASV, Nunziatura di Spagna, voi. 10, ff. 39r-41v, spec. f. 41v). In una lettera successiva da Roma (6 aprile 1576, ibidem, voi. 9, ff. 95v-96r) viene confermato «Tessersi dato l’ordine a mesi passati a li superiori de le religioni che facessero introdurre l’uso de’ Confessionarij in lochi patenti dele Chiese, come V.S. ricordava...». Quanto alla richiesta dell'Ormaneto, dopo una prima reazione positiva (lettera del 20 febbraio 1576, ibidem, voi. 9, ff. 73r-74v), gli viene spedito un breve in proposito (cfr. la lettera del 6 aprile 1576, ibidem, voi. 9, ff. 95v-96r). Così, le informazioni fornite dall'ex collaboratore di Gian Matteo Giberti e di Carlo Borromeo, confermando l’ipotesi di una provenienza italiana del confessionale, mettono anche in rilievo alcuni canali importanti della sua diffusione.
D’altra parte, è interessante notare che già nel 1565, nel corso del concilio provinciale di Valencia (seconda sessione, 9 dicembre), venne formulato l’obbligo per i capitoli e i parroci della provincia di far collocare nei loro templi «confessionalia, in quibus apto et patenti loco confessiones, potissimum feminarum, audiri possint» (Saenz de Aguirre, Collectio maxima omnium conciliorum Hispaniae et novae Orbis, voi. IV (1693), p. 417).
46 Avvertenze di mons. Illustrissimo cardinale di S. Prassede arcivescovo di Milano ai Confessori nella Città, et Diocese sua, in AEM, II, c. 1874.
47 Valére Regnauld (Valerius Reginaldus), Praxis fori poenitentialis ad directio-nem confessarii..., Mediolani (apud Io. Bapt. Bidellium) 1619, voi. I, p. 57.
48 Juan Alonso Polanco, Breve directorium ad confessarii ac confitentis munus rite obeundum, Coloniae (apud Maternum Cholinum) 1560, f. 8V; cfr. anche Antonino da Firenze, Summula confessionalis, Venetiis (per P. Io. de Quarengis) 1499, f. 25r; Tommaso De Vio, Summula peccatorum cit., pp. 82-84; Giberti, Constitutiones cit., tit. VI, c. XXII. In Michel Foucault, gli effetti e le modalità dell’uso di parole lecite o vietate durante la confessione hanno fortemente ispirato l’analisi, stimolante quanto discutibile, della storia della sessualità. Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere (1976), trad. ital. Milano 1978.
49 Così si prescrive negli "Ordini dati in diversi collegii della provincia de Sicilia...”: «Non si tocchi il capo delle donne al tempo dell'absolutione» (Memoria Sicu-lae Visitationis [1575-1576], in Polanci Complementa, voi. II, Madrid 1917, p. 558). V. anche Tentler, Sin and Confession cit., pp. 86-87.
50 Tuttavia un relitto di quel gesto si poteva conservare, così nel rito ambrosiano: «Deinde caput operit: manu dextra supra caput poenitentis elevata, et extenta



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absolvit hac formula...» (AEM, II, c. 1323); nel Rituale Romano: «Deinde, dextera versus poenitentem levat, dicit...» (cfr. M. Righetti, Manuale di storia liturgica, t. I, Milano 19502. pp. 391-392). Su questo inevitabile cambiamento si esprime anche, in area tedesca, Jacob Mùller, a proposito della sua descrizione del confessionale (Kir-chengeschmuck cit., p. 135); si giustifica dicendo che l’imposizione della mano non è un elemento essenziale dell’assoluzione. Cfr. la tesi alquanto speculativa di Bossy, secondo il quale l’abbandono di quest’uso sarebbe emblematico per una modificata interpretazione della penitenza che, cessando di considerare il peccato come una questione sociale, avrebbe tolto all’assoluzione la sua funzione di riconciliazione con la comunità (Bossy, The Social History of Confession cit., p. 29).
Per l’uso, forse connesso, secondo il quale il penitenziere maggiore (fra l’altro nelle basiliche romane Lateranense, Vaticana e Liberiana) tocca il capo dei penitenti che si presentano davanti a lui dandole un colpo con una lunga bacchetta, v. G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, t. XVI, p. 83; t. LII, p. 61, 68.
51 II primo processo per San Filippo Neri..., a cura di G. Incisa della Rocchetta e N. Vian, voi. Ili (Studi e Testi 205), Città del Vaticano 1960, p. 282.
52 Cfr. Habacuc, 1.9: «Omnes ad praedam venient, facies eorum ventus urens; et congregabit quasi arenam, captivitatem». Il passo si riferirebbe all’aggressione esercitata, probabilmente, dai Caldei contro i Giudei. Nel contesto biblico, l’espressione ventus urens, che appare anche in altri passi dell’Antico Testamento, soprattutto profetici (ad es. Giob. 27.21, Ger. 4.11, 18.17, Ezech. 17.10, 19. 12) indicherebbe un forte vento di levante, proveniente dal deserto, spesso simboleggiante atti di violenza o una invasione dall’oriente (cfr. The Jerome Biblical Commentary, ed. R.E. Brown, J.A. Fitzmyer, R.E. Murphy, London 1969, voi. I, p. 297). Il paragone con il viso di una donna non si ritrova negli scritti biblici.
53 Cfr. il concilio di Sorrento (1584): «Confessionalia ipsa tabulam inter confes-sarium et confitentem habeant interiacentem, cum lamina ferrea exiguis foramini-bus, ad audiendi non videndi commoditatem, perforata, maxime prò audiendis mu-lierum confessionibus» (Mansi, XXXVI bis, c. 292); il concilio di Siena (1599): «... ne in ipsis quidem ecclesiis huiusmodi confessiones audiri volumus, nisi ex confessionali ad hunc usum apte confecto, cuius intermedia fenestrella, crate et tela ita munita sit, ut audiri, non videri mulier possit» (Mansi, XXXVI bis, c. 532).
54 Cfr. Tentler, Sin and Confession cit., pp. 82-83.
55 Manipulus curatorum cit., p. 100 («nec etiam respiciat quemcumque confitentem in facie: quia exinde audacius confitebitur»). Cfr. le istruzioni borromaiche De sacramento poenitentiae, AEM, II, c. 1313: «Faciem sacerdotis non spectabit, ut meminerit, se non coram homine peccatore, sed coram Deo altissimo esse [...] ut humiliter veniam petat»; così anche Polanco, Breve directorium cit., f. llr.
56 S. Antonino, Summula confessionalis cit., f. 8V: «Et si mulier est facias eam ex transverso stare; nec in faciem eius aspicias: quia facies earum ventus est urens ait propheta». Manipulus curatorum cit., p. 100: «...ne respiciat faciem mulieris: quia ut dicitur in Abacuch: Facies mulieris, facies leonis, et ventus urens». Quest’ultimo testo, in realtà, si riferisce solo parzialmente a Habacuc: il particolare facies leonis risulta aggiunto. Ma l’immagine non è inconsueta in questo contesto; così, il concilio di Salerno (1596) spiegando la necessità del sacramento della penitenza, parla di «assiduas rugientis leonis insidias» (Mansi, XXXV, c. 986). (Cfr. voce Lòwé, in «Lexicon der christlichen Ikonographie», voi. 3 (Roma ecc. 1971), cc. 112-119).
57 Polanco, Breve directorium cit., f. 8V. Gesti come questo compaiono già in raffigurazioni medievali: ad esempio, una illustrazione nel Devotus libellus de modo confitendi et poenitendi (Delft 1494) mostra un confessore che si copre gli occhi con la mano destra (v. Righetti, Manuale cit., I, pp. 391-392). Altrove, intendiamo pro-



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seguire la ricerca iconografica, già iniziata da Ann Eljenholm Nichols (The Etiquette of Pre-Reformation Confession cit.), sulla gestualità della confessione.
58 Francesco Luigi Barelli da Nizza, Memorie dell’origine, fondazione, avanzamenti, successi, ed uomini illustri in lettere e in santità della congregazione de Cherici Regolari di S. Paolo chiamati volgarmente Barnabiti, 2 voli., Bologna, per Costantino Pisani, 1703 e 1707, ivi, II, pp. 681-682.
59 Interrogatorio della dottrina christiana..., Cremona (per Barucino Zanni) 1593, p. 32.
60 Cfr. C. Ginzburg, Tiziano, Ovidio e i codici della figurazione erotica nel Cinquecento, in Tiziano e Venezia, Venezia 1980 (e ripubblicato in Id., Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Torino 1986), p. 134 (risp. p. 152), dove l’autore ipotizza una «erotizzazione della vista rispetto all'udito» nel corso del Cinquecento.
61 Antonino da Firenze, Summa maior et aurea, pars IV, tit. IV, cap. X, § II «De modestia sensuum» (ho citato l'edizione Lugduni, per Johannem Cleyn, [1516]). Il riferimento è, effettivamente, a Geremia 9: «...Audite ergo, mulieres, verbum Domini, et assumant aures vestrae sermonem oris ejus, et docete filias vestras lamentum, et unaquaeque proximam suam planctum, quia ascendit mors per fenestras nostras, ingressa est domos nostras, disperdere parvulos deforis, juvenes de plateis».
62 [Pedro de Soto], Methodus confessionis, hoc est: Ars, sive ratio, et brevis quae-dam via confitendi..., Venetiis, s.a. [sec. XVI], f. 124r.
63 Cfr., ad es., di Carlo Borromeo le Avvertenze... ai Confessori cit., AEM, II, cc. 1873-1874.
64 II fenomeno, pare, si vedeva soprattutto nell'ambito dei monasteri i cui membri usavano confessare degli estranei. Cfr. gli esempi dati dallo Schlombs (Die Entwicklung des Beichtstuhles cit., pp. 30-34); non condivido peraltro la sua tesi di una continuità tra cellule conventuali medievali per la confessione e i confessionali postridentini; inoltre, la sua interpretazione dei confessionali «murali» di S. Fermo in Verona è chiaramente erronea: si tratta di confessionali moderni installati nei vani murali che, in un primo tempo, davano accesso alle scale (poi sbarrate) che portavano alla chiesa superiore. Ma che ci fossero a Verona, nel nostro periodo, delle cellule per la confessione, risulta da un passo delle Vite vasariane (seconda edizione, ripubblicata da Le Monnier, voi. IX, Firenze 1853, p. 199) sulla chiesa di S. Bernardino, dove la parola «confessionario» indica uno spazio chiuso con un uscio verso il coro della chiesa.
Quanto al divieto di tali «cellule», il card. Maffeo osserva, in una lettera al card. Borromeo del 27 agosto 1575, che il «nostro Sig.re [il papa] ha ordinato alli generali delli ordini mendicanti che levino l'abuso di sentire le confessioni dalle celle di dentro del monastero che hanno le grati nel muro delle Chiese per le quali sentono li penitenti giudicandosi convenire per molti rispetti che il sacerdote et confitente siano in vista del popolo»; segue il consueto ordine per introdurre dei confessionali (Milano, Archivio Storico Diocesano, Sez. IX, cart. Ili, voi. 7, f. 55r; ringrazio la dott.ssa P.R. Baernstein per avermi indicato questo testo).
65 Atti della visita pastorale del vescovo Domenico Bollani alla diocesi di Brescia (1565-1567), a cura di Paolo Guerrini, voi. I, Brescia 1915, p. 70 (Querela Comunis contra fratres S. Bernardini). Il vescovo effettivamente darà seguito alla richiesta: «Quibus attentis Dominatio sua Rev.ma per suum nuntium intimari fecit predictis fratribus quod de coetero audiant confessiones pubblice in ecclesia...».
66 «Caveat (il confessore) autem omnino, ne verbo vel signo vel alio quovis modo prodat aliquatenus peccatorem, sed si prudentiori consilio indiguerit, illud abs-que ulla expressione personae caute requirat, quoniam qui peccatum in poeniten-tiali iudicio sibi detectum praesumpserit revelare, non solum a sacerdotali officio deponendum decernimus, verum etiam ad agendam perpetuam poenitentiam in



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arctum monasterium detrudendum» (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, ed. cu-rantibus J. Alberigo, P.P. Joannou, C. Leonardi, P. Prodi, Basilea ecc. 1962, p. 221). Cfr., sul problema del sigillo confessionale, Lea, A History of Auricular Confession cit., voi. I, pp. 412-456.
67 Avvertenze... ai Confessori, in AEM, II, c. 1881.
68 Avvertenze... ai Confessori cit., AEM, II, c. 1874 (il corsivo è mio).
69 Monaco di Baviera, Hauptstaatsarchiv, fondo «Jesuiten» 9, Responsiones (Re-sponsiones diversis provinciis...), f. 20; questo documento mi è stato gentilmente segnalato dal prof. A. Prosperi.
70 Con una lettera del 31 gennaio 1600, l’arcivescovo di Malines approvò il decano e alcuni canonici della chiesa di S. Gudela in veste di visitatori delegati; «et insuper iisdem mandatur, ut visitantes dictas ecclesias curent ubique fieri confes-sionalia, juxta praescriptum reverendissimi domini episcopi Vercellensis editum in visitatone episcopatus Comensis, id est, interstitia tam inter confessorem et poeni-tentem, quam inter poenitentem et illum proxime sequentes» (J. de Bruyn, Docu-ments concernant la visite des églises et chapelles de Bruxelles, faite par les délégués de l’archevéque de Malines et du chapitre de Ste Gudule à Bruxelles en 1600, in «Analec-tes pour servir à l’histoire ecclésiastique de la Belgique» 5 (1868), pp. 65-66. La prescrizione torna più avanti, nel questionario della visita (ibidem, p. 69; cfr. p. 175, n. 65).
Il riferimento è ai decreti emanati in occasione della visita eseguita su richiesta di Carlo Borromeo dal vescovo di Vercelli, Giovanni Francesco Bonomi, nella diocesi di Como. Questa visita e i decreti proclamati dal Bonomi riscontrarono un successo tale da giustificare la pubblicazione dei decreti (Decreta generalia in visitatione comensi, Vercellis, apud Gulielmum Molinum, 1579). Sei anni più tardi, quando Bonomi si trovava ormai in terra germanica come nunzio apostolico, fu il teologo tedesco Melchior Hittorp a curare una nuova edizione dei decreti di Como «ad collap-sam hoc tempore cleri disciplinam restituendam» (Reformationis ecclesiasticae decreta generalia, omnium ecclesiarum usibus accommodata, a Io. Francisco Bonhomio [...] nuper in Comensis civitatis & dioecesis visitatione aedita, nunc autem, ad collap-sam hoc tempore cleri disciplinam restituendam, Melchioris Hittorpi, S. Cuniberti Decani, cura ac diligentia revisa & recusa, Coloniae (excudebat Godefridus Kempensis, sumptibus Cervini Calenii et haeredum Quenteliorum, 1585). I decreti del Bonomi contengono una puntuale sintesi delle Istruzioni per la Fabbrica del Borromeo, inclusa la sua descrizione del confessionale.
Questo è solo uno dei tanti canali attraverso i quali il confessionale (insieme con altri elementi della riforma tridentina) si è diffuso in tutto il mondo occidentale; in altra sede intendo tornare sui tempi e modi di questo processo.
71 Cfr., per questo processo di «giuridicizzazione» della confessione, M. Turri-ni, «Culpa theologica» e «culpa iuridica»: il foro interno all’inizio dell’età moderna, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», XII (1986), pp. 147-168. Per la figura di Carlo Borromeo, G. Sofia, La dottrina di S. Carlo Borromeo sui doveri del confessore in quanto giudice, in «La Scuola Cattolica», 65 (1937), pp. 16-35.
72 Cfr., a questo proposito, le Avvertenze... ai Confessori cit., AEM, II, c. 1874.
73 Parlando di «certe notizie inesatte» riguardo al nuovo rito della confessione, «come quella dell’abolizione dei confessionali», Paolo VI afferma: «il confessionale, in quanto diaframma protettivo fra il ministro ed il penitente, per garantire l’assoluto riserbo della conversazione loro imposta e loro riservata, è chiaro, deve rimanere». Il pontefice illustra il suo punto di vista ricordando il caso del lazzarista francese Guillaume Pouget, molto amato come confessore «perché era cieco» (Insegnamenti di Paolo VI, XII, 1974, p. 311 e n. 1). Con questo, non si vuole suggerire



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Wietse de Boer
che l'interpretazione del papa sia identica a quella, appena indagata, del '500; ma la continuità trapela dall’insistenza sull'importanza della protezione visiva.