«CHRISTIANITY IN THE WEST» DI JOHN BOSSY

Item

Title
«CHRISTIANITY IN THE WEST» DI JOHN BOSSY
Creator
Adriano Prosperi
Angelo Torre
Date Issued
1987-12-01
Is Part Of
Quaderni Storici
volume
22
issue
66 (3)
page start
961
page end
986
Publisher
Società editrice Il Mulino S.p.A.
Language
ita
Format
pdf
Rights
Quaderni storici © 1987 Società editrice Il Mulino S.p.A.
Source
https://web.archive.org/web/20230921063949/https://www.jstor.org/stable/43778052?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxOCwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjQyNX19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Acf7d9a57d7f94cf4134f54cfe1770d0d
Subject
history and historiography
structuralism
history of the present
discontinuity
extracted text
«CHRISTIANITY IN THE WEST» DI JOHN BOSSY
I
1. Perché la forchetta si è diffusa su tutte le tavole, nell'Europa moderna, fuorché sulla tavola dell'altare? e come può essere interpretato il tentativo di Paolo Veronese di introdurla nella sua rappresentazione deWUltima Cena? È noto che l'Inquisizione reagì prontamente e che il pittore fu costretto, in seguito al processo del 1573, a cambiare il titolo: la forchetta rimase, insieme a quasi tutti gli altri elementi che avevano scandalizzato l'inqui-sitore di Venezia, ma il soggetto ufficiale del quadro divenne quello di una «cena in casa de Levi». È un episodio celebre, discusso e studiato quanto pochi altri nella storia dell'arte e dei suoi rapporti col potere; anche la storia della forchetta e delle buone maniere a tavola non è più, dopo gli studi di Elias, un sentiero insolito per studiosi e ricercatori di questioni storiche. Eppure, John Bossy ha il potere di suscitare effetti imprevisti e suggestivi quando sottopone questi e altri momenti apparentemente noti della storia europea tra '400 e '700 alla luce radente delle sue domande. Se la comunione non si potè fare con la forchetta è pur vero che nemmeno la chiesa cattolica sfuggì'al processo di civilizzazione: le Règles de la bienséance et de la civilité chrétienne di Jean Baptiste de la Salle si fondarono, nota Bossy, su quella trinità di catechismo, buone maniere e sapere libresco che dominò allora su tutto l'Occidente europeo. E del resto, a chi se non a un prelato cattolico si dovette il capostipite di quella
* John Bossy, Christianity in thè West 1400-1700, Oxford-New York, Cambridge University Press, 1985.
QUADERNI STORICI 66 / a. XXII, n. 3, dicembre 1987



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letteratura, il Galateo (che qui, a p. 121, diventa una Galatea, forse per attrazione della Filotea di s. Francesco di Sales o forse perché l'Italia evoca sempre un impasto di prelati mondani e di affascinanti miti classici)? Dunque, nemmeno nei paesi cattolici sopravvisse il significato originario di «comunione»: i riti della «commensalità domestica» e quelli cristiani, un tempo indistinguibili, presero dovunque strade diverse. Se fin verso il 1400 «comunione» aveva indicato la comunità dei fedeli riunita in quel «miracolo sociale» che era l’eucarestia, intorno al 1700 era un termine che indicava divisione nella chiesa (le «comunioni» o «confessioni» essendo diventate tante quante le diverse chiese cristiane) oppure separazione dell’individuo dal gruppo sociale per ricercare un rapporto esclusivo con Dio («comunione» mistica) o con la natura.
Questo è solo un esempio della complessiva «traduzione» del cristianesimo che avvenne a partire dal XVI secolo, sempre secondo Bossy: ma da qualsiasi parte si affronti questo acutissimo libretto, che unisce l’aggressiva unilateralità del saggio alle esigenze architettoniche dell’opera d’insieme, si è ricondotti sempre alla considerazione di un’unica frattura dalle molteplici diramazioni. È una frattura che divarica e allontana l’epoca moderna da quella del «cristianesimo tradizionale» (vedremo più avanti che cosa significhi questo termine); e non si tratta di una divisione avvertibile solo nella storia della cristianità, ma anche in quella più generale della società umana. È qualcosa di cui forse, si legge qui (p. 97), non abbiamo misurato appieno le conseguenze. Ma di che cosa si tratta? qualcuno potrebbe rispondere: la Riforma.
2. Questo termine chiave delle grandi costruzioni storiografiche del passato è da tempo in crisi. Se una volta era facile e comodo farvi ricorso, oggi lo si può usare solo al prezzo di molti distinguo e comunque non senza aggiungere almeno una specificazione di massima, che mostra come sia tramontata del tutto quella univocità che lo rendeva così attraente: si deve dire, insomma, se ci si riferisce alla Riforma cattolica o a quella protestante, per poi imbarcarsi tra gli scogli minori ma più insidiosi di termini come «evangelismo» e «controriforma», e di tutte le complicate ramificazioni teologiche ed ecclesiastiche del grande fiume religioso del ’500. La questione assume un aspetto particolarmente complicato nelle storiografie europee che hanno affrontato le varianti nazionali della Riforma (protestante, s’intetide):



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quella francese, quella italiana e quella spagnola hanno dovuto fare i conti in vario modo con l’assunto fondamentale della storiografia democratica e liberale dell’800, che il gittar la tonaca di Martin Lutero fosse premessa e causa della civiltà liberale, libero commercio e libero pensiero. La Riforma era dunque un solenne cartello stradale lungo l’autostrada del progresso, semplificava le scelte e poteva offrire agli studiosi di storia l’emozione di protestare contro il presente ben riparati «sotto la scorza dell’erudizione» Non è un caso se proprio dalla più vigorosa fra tutte le storiografie sulle varianti nazionali della Riforma giunse il segno di una svolta netta: tale fu il saggio di Lucien Febvre su Les origines de la Reforme del 1929. Al di là delle singole osservazioni di Febvre, la sua polemica contro l’anacronismo, il suo richiamo alla necessità di comprendere un uomo del ’500 non in rapporto a noi ma in rapporto ai suoi contemporanei segnavano una svolta rispetto alle preoccupazioni dominanti fino ad allora nell’uso storiografico del concetto di Riforma. Il progetto di «reincorporare la teologia nella storia» si tradusse, per il momento, in un tentativo di leggere nelle formule teologiche sentimenti socialmente diffusi - tentativo suggestivo quanto incerto. Ma intanto si era aperta la strada per fare della storia della Riforma un campo d’indagine della storia sociale, abbandonando il terreno dell’antica controversia teologica tra chiese contrapposte. L’appannarsi delle antiche sicurezze sulla genealogia della «civiltà moderna» negli anni intorno alla II guerra mondiale è visibile anche nella nuova fioritura degli studi e delle discussioni sul cattolicesimo tridentino e sui movimenti di riforma non confluiti nel grande alveo luterano. Lo studio di H. Jedin sui concetti di Riforma cattolica e Controriforma offrì una sistemazione provvisoria per quella che si annunciava cbme una ripresa in condizioni di forza rovesciate dell’antica controversia tra chiese cristiane occidentali o meglio tra le loro storiografie. Ciò che domandava un pacifico e comune consenso, in quelle pagine che, col loro gusto tutto tedesco per terminologie e «Perio-disierung», gettavano dal versante cattolico un ponte verso una storiografia ormai non solo scientificamente sconfitta, era il fatto che anche prima e indipendentemente da Lutero c’era stato un movimento di riforma e che la storia della Chiesa tridentina non era solo la storia di una «contro«-riforma. A questa tradizionale controversia tra nord e sud, tra paesi germanici e paesi latini, non aveva partecipato in genere la storiografia inglese: un cordone ombelicale mai del tutto reciso la legava, se non a Roma,



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certo al fascino dei riti cattolici; inoltre, la tradizione del cattolicesimo inglese essendo quella di una minoranza, anzi di una vera e propria élite coi suoi capi spirituali e coi suoi martiri (in genere, predicatori carismatici dalla stoffa di cospiratori e di ribelli, come il celebre John Gerard, non vescovi, non gerarchie stabili, potenti e politicizzate) era inevitabile che l'interesse si orientasse non verso le grandi macchine politiche ed ecclesiastiche del concilio e degli apparati statali e curiali ruotanti intorno ad esso, ma piuttosto verso quella che H.O. Evennett definì «la spiritualità della Controriforma». Fu proprio John Bossy, pubblicando una raccolta postuma di saggi di Evennett nel 1968, a proporre un titolo sottilmente polemico nei confronti della tradizione di studi rappresentata da H. Jedin: The Spirit of thè Counter-reformation. Le ricerche di Evennett, dedicate al mondo colto e devoto di abati benedettini come Isidoro Chiari e Luciano degli Ottoni, avevano già rivelato aspetti insoliti nel mondo cattolico tridentino ai suoi livelli più elevati, con gruppi e correnti non facilmente inquadrabili negli schemi correnti di storia ecclesiastica; ora, pubblicando quelle «Birkbeck Lectures» dedicate alla spiritualità della Controriforma e in particolare a s. Ignazio di Loyola, Bossy le accompagnava con un suo scritto assai penetrante, che varrebbe la pena di rileggere oggi alla luce di questo volume. Quel saggio (dedicato da Bossy a suo fratello Michael, gesuita) affrontava tra l'altro la questione della Controriforma come «process of modernisation» - qualcosa, cioè, a cui la storiografia tedesca e quella italiana dovevano arrivare solo diversi anni dopo, col saggio di W. Reinhard del 1977 - con chiara consapevolezza delle implicazioni ideologiche di quella proposta e con una fine percezione dei rapporti tra storia sociale e storia della Chiesa. Ma fu nel 1970, con la comparsa del saggio di John Bossy dedicato alla penetrazione ai livelli popolari delle nuove dimensioni tridentine del cattolicesimo, che fu possibile vedere quanto la questione antica della Riforma risultasse accantonata a favore di un nuovo modo di affrontare le questioni del rapporto tra religione e società nella storia europea. Adesso, in questo volume di carattere generale e introduttivo, la novità assume l'aspetto della vera e propria provocazione: non solo si propone fin dal titolo una considerazione unitaria di un oggetto da sempre studiato solo nelle sue divisioni e nei suoi contrasti - la «Cristianità occidentale» tra '400 e '700 - ma si impone al lettore l'esercizio del tutto inconsueto e apparentemente impossibile di evitare lo stesso termine «Riforma». Il che, trattandosi dell'Europa e



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delle sue vicende religiose dal '400 al '700, non sembra cosa da poco. Altri, in questi anni, avevano sottolineato le analogie tra mondo cattolico e mondo protestante nei confronti delle credenze magiche popolari e di tutto ciò che era stato classificato come «superstizione»: studi come quelli di Delumeau, qui segnalati ripetutamente al lettore, o come quelli di Keith Thomas, responsabile della collana in cui quest'opera viene pubblicata, ci hanno abituati a vedere un'identica curvatura nel rapporto tra forma ufficiale della religione cattolica e di quella protestante da un lato e quel confuso oggetto che è la «religione popolare» dall'altro. Ma ora John Bossy si propone di andare più a fondo su questo punto. Per Delumeau, il concetto di «Riforma» svolgeva ancora una funzione fondamentale: non una ma due Riforme avevano affrontato, secondo lui, il difficile compito di cristianizzare il mondo popolare, sradicando riti pagani e mentalità magiche per seminare al loro posto il buon seme di un cristianesimo depurato. Dunque, in sostanza, dietro la facciata dei contrasti teologici violentissimi della prima età moderna, si era svolta una storia ben diversa: i contendenti, mentre sembravano impegnati in una lotta mortale tra di loro, conducevano contemporaneamente una guerra vittoriosa contro un nemico comune. Questo punto di vista assumeva la stessa prospettiva dell'apologià della civiltà liberale come figlia della Riforma protestante - solo, ne rovesciava l'interpretazione e l'esito apologetico, sostenendo che le battaglie di riformatori tridentini e luterani contro le devozioni popolari avrebbero portato alla «purificazione» e al progresso del cristianesimo nella «storia vissuta del popolo cristiano» 2. Il punto di vista di John Bossy, invece, sembra totalmente alieno da ogni forma di apologetica religiosa per questa o quella chiesa: la religione alla quale vanno le sue simpatie è piuttosto quella, aggredita e sconfitta, che faceva tutt'uno con la vita sociale del Medioevo europeo. Non si parla, però, di religione «popolare» né si entra in quel labirintico gioco di rappresentazioni che è stato elaborato intorno a questo aggettivo: la categoria concettuale di avvio è di tipo globale e definisce il corpo sociale dell'Europa cristiana nella sua interezza. Si parla infatti di «tradi-tional Christianity» per indicare società, modi di vita e credenze religiose esistenti nell'Europa occidentale prima della Riforma (e, per molta gente, anche dopo, insinua Bossy). L'opposizione tra cultura d'élite e cultura popolare è denunziata esplicitamente come un anacronismo, anzi peggio: un uso del passato come naso di cera da rimodellare di volta in volta secondo i bisogni.



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Ed ecco la ragione del rifiuto programmatico del termine «Riforma»: esso implica e trae con sé inevitabilmente Videa che il cristianesimo medievale fosse «corrotto» e bisognoso di essere riformato. Parlare di Riforma significherebbe in generale adottare argomentazioni causali e procedure esplicative, da storiografia ottocentesca, laddove qui si fa professione di descrittività e ci si richiama all'antropologia e a Clifford Geertz (p. Vili). Ma com'è possibile raccontare e descrivere i mutamenti dell'età della Riforma senza usare questo termine? e che cosa cambia rispetto a una narrazione tradizionale? La risposta con cui Bossy apre il suo libro non è, come ci si potrebbe aspettare, un invito a ignorare chiese e teologie per indagare mentalità e comportamenti, ma piuttosto un aito di fede nel carattere «storicamente creativo» delle distinzioni teologiche ed ecclesiastiche. Vediamo in che senso.
3. I teologi che presiedono alle due epoche qui poste a confronto - quella del «cristianesimo della tradizione» e quella del «cristianesimo della traduzione», come intitola Fautore, che è un cultore dei calembours - sono da un lato s. Anseimo e dall'altro Lutero. La teologia di s. Anseimo (quella del Cur Deus Homo) è posta in relazione con una società dominata dal problema della regolamentazione dei conflitti e della violenza: i due princìpi vigenti a tale proposito, cioè l'obbligo del risarcimento delle offese da un lato e, dallaltro, la trasmissione di tale obbligo per via di parentela e di colleganza, avrebbero trovato una sanzione autorevole nella dottrina della redenzione proposta da s. Anseimo. L umanità di Cristo qui non è un principio generale astratto ma significa l'inserimento di Cristo in una vasta parentela umana, matrilineare ed estesa ben oltre i vincoli di sangue da un'ampia clientela, quella dei santi. Nella società medievale, l'obbligo del risarcimento ricade su parenti ed eredi e l'atto del risarcimento garantisce l'estinzione del ciclo della violenza con la fine dell'ob-bligo di vendetta per la parte offesa; nella teologia anselmiana, il sacrificio di Cristo salda il conto aperto dall'offesa originaria di Adamo e rimasto a carico di tutti i suoi discendenti. Con Lutero le cose cambiano: al posto di una violenza regolata da un meccanismo collettivo di risarcimenti all'interno di una larghissima famiglia cristiana, troviamo il rapporto esclusivo dell'individuo colpevole col suo giudice; al posto della piena soddisfazione che il peccatore pentito poteva offrire in compenso per le sue colpe, ristabilendo così la bilancia dell'equità da lui turbata, tro-



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viamo un suddito impotente alla mercé di un potere supremo. Ci sono analogie col sistema penale e con le forme del potere statale, naturalmente: se prima il sistema delle offese è regolato dal principio di reciprocità, dopo è il potere del principe ad assumere il monopolio della vendetta; e di analogie, echi e rispondenza la finissima lettura di Bossy ne trova diffusamente, passando di volta in volta dall’analisi del Carnevale come fase rituale di liberazione della violenza alla storia dell’esplosione dell’iconoclastia cinquecentesca come trascrizione nel corpo sociale del principio teologico di un rapporto esclusivo tra l'individuo e Dio. Eminente fra tutte è l'analogia tra la famiglia di Cristo così come la ricostruivano i teologi e la veneravano le forme di pietà più diffuse e le famiglie nelle loro concrete forme e modificazioni storiche: si passerebbe così dal vasto sistema parentale articolato intorno a sant’Anna e alla Madonna - dietro il quale s'indovina la famiglia larga e le alleanze costruite intorno al vincolo di sangue nella società medievale - a quella famiglia coniugale stretta intorno alla figura paterna di s. Giuseppe, proprio mentre la società europea subiva un'analoga trasformazione nelle sue strutture familiari. Per spiegarsi con le immagini: è come se dietro il «tondo Doni» di Michelangelo vedessimo dileguarsi lentamente l'affollatissima scena matriarcale di quel bassorilievo slesiano dedicato alla «famiglia di S. Anna» (oggi alla Galleria di Dahlem).
Sono analogie che Bossy si guarda bene dall’irrigidire in relazioni di causa ed effetto: la teologia appare «creativa» nel senso di stimolare e accelerare processi già in corso e di aiutare a comprenderne il senso, non è dunque riducibile ad un riflesso ideologico di qualcosa che avviene altrove. La religione è una «estensione delle relazioni sociali oltre le frontiere della società puramente umana» (p. 13): ma proprio per questo permette di decifrare il significato di quelle relazioni. Inoltre, le alterazioni nel discorso dei teologi hanno anche preceduto ed accelerato trasformazioni sociali, a quanto risulta da questa analisi. Tuttavia, Bossy è attento nello sfumare i contorni e nel riconoscere, ad esempio, che non tutti i conti tornano quando si vuol leggere la fase delle guerre di religione come uno scontro tra principio paterno e principio di «fraterni-tas» familiare (p. 125). Ancor più cauto si mostra davanti all’ingenua fiducia di quegli storici che, con Pierre Chaunu, credono di poter arrivare a scoprire le vere molle sociali delle modificazioni teologiche: spiegare le trasformazioni del cristianesimo tra ’400 e ’700 come un tentativo di rispondere alla tendenza generale europea a ritardare l’età del matrimonio è per Bossy mettere il carro



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davanti ai buoi (p. 122). Questo tema della famiglia è un filo indubbiamente ricco e suggestivo per seguire i rapporti tra battaglie teologiche e trasformazioni sociali, tra «cristianità tradizionale» e «cristianesimo tradotto»; si pensi, ad esempio, a quella devozione alla Santa Casa di Loreto, in cui Bossy individua un momento sicuramente importante per la teoria dell'interpretazione di Cristo ma anche, «probably», per la storia della famiglia europea (p. 10). La data intorno a cui Bossy fa ruotare la diffusione della pia leggenda del trasporto aereo da Nazareth a Loreto della casa della Madonna è il 1470: il che è corretto, a quanto risulta dalle indagini esaurienti del dotto francescano Floriano Grimaldi, attuale archivista della Santa Casa di Loreto 3. Ma è tutta la storia, precedente e soprattutto successiva a questa data, della devozione, a tutti i livelli (qui si cita il caso di Erasmo) che sembra effettivamente un caso esemplare per lo studio degli intrecci tra idee religiose e sentimenti, nostalgie, ideali di famiglia, veri e propri idoleggia-menti di caldi e raccolti interni domestici. Quello della devozione di Loreto, comunque, è solo uno dei tanti casi sui quali le pagine di Bossy invitano ad approfondimenti e verifiche. Sul piano più generale dei rapporti storici tra Chiesa e famiglia, intanto, le sue suggestioni hanno stimolato non pochi studiosi; sono riconoscibili, ad esempio, anche se irrigidite e generalizzate, in studi come quello di Jack Goody, The Development of thè Family and Marriage in Europe (Cambridge 1983).
Sul tema dei rapporti tra padri e figli, l'opera a cui si rinvia il lettore è quella di Ariès: ma Bossy evita i rischi di quella lettura diretta e ingenua delle fonti iconografiche e letterarie che aveva portato lo storico francese a descrivere origini e percorsi degli ideali di domesticità e dei sentimenti dell'infanzia. Certo, anche qui si fa riferimento all'affermarsi di un nuovo sentimento della famiglia appoggiandosi alla suggestione degli interni borghesi di Vermeer; ma si avverte anche, giustamente, che l'enfasi posta nel '500 su di una lettura «maschilista» del IV comandamento va interpretata tenendo conto dell'emergere della figura del principe dietro quella del padre e che lo stesso insegnamento del catechismo, al di là delle dichiarazioni di principio di Lutero e di altri, fu concordemente sottratto alle famiglie a tutto benefìcio delle chiese. Sondaggi successivi sui ritratti di famiglia in Italia tra '500 e '700 hanno confermato le intuizioni di Bossy e la sua cautela nel passare dalle immagini alla realtà 4.
Lo stesso uso non rigido delle idee religiose come spie dei bisogni e dei problemi di una società è evidente nella questione,



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capitale in questo libro, della violenza e dei conflitti: la triade ira, superbia e invidia apre non a caso la serie dei peccati, dato che individua un peccato sociale ben più presente e temuto nella cristianità medievale di quelli, poi destinati a prevalere nelle preoccupazioni dei moralisti, della concupiscenza. Ecco che le idee di « fraterni tas» diffusesi allora e le forme molteplici di organizzazione e di intervento religioso possono essere ricondotte alla convinzione di una sorta di primato naturale dell'avversione tra le passioni umane (p. 69). Il modo in cui si inventò allora un tracciato teologico e istituzionale per regolare i conflitti è proposto da Bossy come un modello della fruizione «creativa» delle distinzioni teologiche: questa religione come additivo disciolto nelle pratiche sociali gli appare un efficace rimedio agli inconvenienti della convivenza e, al di là dell'efficacia, senz’altro «more attractive» di qualsiasi altro metodo di pacificazione. Quando la religione viene ridotta allo stato di essenza concentrata e riposta in contenitori libreschi, la società ne risulta - agli occhi nostalgici di Bossy -impoverita di attrattive e forse anche di efficienza. L'epigrafe di William Blake posta sulla soglia del libro («The Tigers of Wrath are wiser than thè Horses of Instruction») suona come una cifra -allusiva, elusiva quanto può esserlo Blake, ma chiara - che vale messa in guardia dalle illusioni di progresso legate all'alfabetizzazione. Questo cristianesimo tradotto e filtrato dalla filologia umanistica di Valla ed Erasmo, fissato nella pagina a stampa per esservi fatto oggetto di lettura individuale, silenziosa, non corale, fa diventare tutti i figli oggetti e destinatari di «sermones» pedagogici - così come il Verbo, da centro umano di una vasta famiglia, era diventato nella versione erasmiana un «Sermo » - e impone loro una dipendenza esclusiva daH'autorità paterna e/o principesca, mentre scioglie coi vincoli del padrinaggio tutti gli intrecci di una solidarietà fraterna nella società cristiana. L'individuo resta solo con la preoccupazione per la salute della sua anima e si prepara a quella ossessione individuale moderna che è la salute del corpo. Si capisce, davanti a questa diagnosi, perché Bossy si rifiuti di accettare, col termine «Riforma», l’idea che il cristianesimo medievale fosse qualcosa di intollerabile, da riformare. Ma allora -si dirà - l'eroe positivo di questa storia a non lieto fine non può che essere la Chiesa cattolica.
4. Nel 1520 c'era a Vicenza un agostiniano che stava scrivendo un trattato sulle indulgenze, contro Lutero: si chiamava Anseimo Botturnio. A differenza del suo confratello Lutero, aveva



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predicato durante l'Avvento a favore delle indulgenze bandite in città da un commissario papale per conto dell'ospedale romano di santo Spirito. A lui si rivolse per consiglio un anziano abitante della città, tale Girolamo Franchi, il quale dopo avere lucrato le indulgenze per sé e per la moglie aveva cominciato a sentire strani rumori e lamenti in casa. Mentre già i familiari atterriti spingevano Girolamo a traslocare, qualcuno ebbe l'idea giusta: si trattava certamente di anime di parenti morti che chiedevano che si provvedesse anche a loro. Difatti, una volta prese le indulgenze anche per le anime della suocera di Girolamo e di una sua figlia, i rumori cessarono 5. L'episodio fu inserito dal Botturnio tra gli argomenti teologici del suo trattato, a dimostrazione di due assunti: a) che spettava ai parenti mantenere attivi i rapporti di solidarietà tra vivi e morti; b) che la concessione delle indulgenze era una prova della bontà del papa e non, come Lutero sosteneva, della sua durezza di cuore. Lutero argomentava: se il papa ha potere anche sulle anime del purgatorio, perché non lo usa per vuotare di colpo il purgatorio stesso? e il Botturnio rispondeva che il papa, come la provvidenza divina, si limitava a offrire delle opportunità; i vivi ne avrebbero fatto uso in base alla memoria più o meno buona lasciata in famiglia dai parenti defunti - e in questa buona memoria parentale stava per lui il metro dei meriti cristiani. Semmai, il pontefice era eccessivamente generoso nel distribuire le indulgenze, ma questo rientrava nella tradizione di liberalità che distingueva la casata medicea: non era stato Lorenzo il Magnifico che per primo aveva fatto risorgere «e tenebris» il sapere antico?
Sono annotazioni che vanno perfettamente d'accordo con quelle di John Bossy, il quale prende la controversia sulle indulgenze come un episodio ben più significativo di quanto in genere oggi non si conceda. A quella generosità papale, motivata ovviamente dalle necessità finanziarie, ma anche dal venir meno in quegli uomini educati a valori umanistici della tradizione cristiana medievale di un equilibrio tra colpa e pena, si dovette l'allargarsi a dismisura della concessione di indulgenze, con effetti distruttivi. Ma l'umanesimo, segnando il predominio della parola sul rito, della fede sulla carità, contribuì ben più radicalmente al fallimento conclusivo di quel regolato sistema di colpe e pene governato dalla Chiesa; l'emergere di un nuovo potere sacro, identificato nello Stato, fu il vero motore di quella trasformazione alla quale la Chiesa potè opporre scarsa resistenza.
Dunque, solo in maniera molto mediata e indiretta la Chiesa



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cattolica beneficia qui di una considerazione benevola: per quello che sopravvive in lei della cristianità tradizionale, nonostante i processi di accelerata «migrazione del sacro» che anche al suo interno si produssero (e a questo proposito vanno segnalate le pagine relative alla musica, che suggeriscono paralleli e confronti col mondo delle arti figurative, qui stranamente trascurate). Il giudizio positivo o meglio il sentimento di nostalgia e rimpianto riguarda invece il mondo perduto della cristianità tradizionale, più «saggio» nella sua violenza di quello alfabetizzato e civilizzato - nel senso della «civiltà delle buone maniere» - dell'età moderna. E si capisce meglio, a questo punto, che cosa abbia fatto cadere in discredito il concetto di «Riforma»: è tutta la catena ascensionale e progressiva che porta dal Medioevo all’età moderna ad avere perso di significato. Rispetto alla «tradizione», la «traduzione» è un tradimento. Per questo, anche il rifiuto della «spiegazione» sostituita con la «descrizione» deriva dal rifiuto dei nessi causali istituiti dalla storiografia ottocentesca tra le grandi epoche concettua-lizzate della storia. E a questo proposito viene in mente un autore qui non citato (se non implicitamente, forse, a p. 97) che meriterebbe di essere ricordato almeno per certe sue pagine sulla giustizia antica come equilibrio sociale del danno e del risarcimento, rapporto contrattuale tra creditore e debitore, esente dai tormenti del moderno «senso di colpa»: «Lo chiamiamo “spiegazione” - scrive F. Nietzsche ne La gaia scienza -; ma è “descrizione” quel che ci contraddistingue dai gradi più antichi della conoscenza e della scienza. Noi descriviamo meglio; ma spieghiamo tanto poco quanto tutti i nostri predecessori [...] Come potrebbe anche soltanto essere possibile una spiegazione, se di tutto noi facciamo per prima cosa una immagine, la nostra immagine»!
Adriano Prosperi
Università di Pisa
NOTE AL TESTO
1 G. Spini, Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano, Firenze 1963, p. X.
2 Si veda la raccolta di saggi con questo titolo, curata da Jean Delumeau e per l'edizione italiana, da F. Bolgiani, Torino 1985.
3 F. Grimaldi, La Chiesa di Santa Maria di Loreto nei documenti dei secoli XII-XV, Ancona 1984.
4 Cfr. D. Owen Hughes, Representing thè Family: Portraits and Purposes in Early Modem Italy, in «The Journal of Interdisciplinary History», XVII (1986), pp. 7-38.
5 [A. Botturnio] Christiana de indulcentiis assertio, Venetiis in aedibus Bernardini de Vitalis veneti, 1521, cc. M i v-M ii r.



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1. Se, come sostiene Nietzsche nella Genealogia della morale, il comportamento ascetico è in sostanza aggressivo, e le teorie della sofferenza meritevole rinviano all’istinto della vendetta legittima, il candore può tavolta celare la malizia. Viene da interpretare in questo modo la forma pacata, quasi soave che John Bossy ha scelto di dare a un libro provocatorio come Christianity in thè West ^ La prima provocazione sta già, in fondo, nella scelta di contenere dieci anni di ricerche in un volume divulgativo, quasi privo di apparato critico, appena sostenuto da una bibliografia scarna, seppure seducente.
Provocazioni ben più corpose riservano i contenuti del libro, e in particolare l’intento di ridurre la Riforma a un’opera quasi inconsapevole di ri-scrittura, di traduzione di alcuni degli assiomi più radicati della dottrina cristiana tardomedievale. In questo senso, Riforma e Controriforma si equivalgono, anche se non sono riconducibili a quell'omologazione confessionale che oggi si vuole costituisse il prerequisito del «disciplinamento sociale» nell’età moderna 2. Piuttosto, abbandonati i presupposti polemici e controversistici delle letture confessionali, i fermenti della religiosità cinquecentesca vengono stemperati in una prospettiva di lungo periodo: accomunati in tendenze di fondo che li precedettero e li seguirono, essi divengono episodi di un processo di trasformazione che li travalica. La stessa dottrina della giustificazione per fede che anima la polemica luterana è dunque uno solo degli elementi, non decisivo e neppure tra i più importanti, di un mutamento religioso di più ampia portata.
Con questi presupposti, Bossy può raccontare in modo del tutto originale il percorso della cristianità occidentale. Qui sta la provocazione più profonda e salutare, che cercheremo di seguire nelle sue grandi linee. Secondo Bossy, la cristianità tardomedievale si è identificata in un complesso tradizionale di istituzioni, i sacramenti, e in una sistemazione dottrinale, la teoria della salvezza di Sant'Anselmo. Largamente condivise e praticate, istituzioni e dottrina hanno in comune una concezione transazionale (p. 93) della vita cristiana. La teoria della salvezza, infatti, nel concepire la redenzione come un atto di compensazione retributiva (p. 4) resa possibile dal sacrifìcio di Cristo, risolve il problema dei rapporti tra Uomo e Dio in termini di restituzione. D’altro canto, i sacramenti consentono di attribuire un significato cristiano alle pratiche sociali della parentela e dell’amicizia.

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L'idioma transazionale informa anche la concezione del peccato. Con la dottrina dei peccati capitali, ancora dominante nel secolo XV, i laici aderiscono a una concezione sociale, anziché metafisica, delle offese: in essa si esprime il sistema etico della comunità. Il primato dei peccati di avversione - orgoglio, ira e invidia - su quelli dettati dalla concupiscenza - lussuria, gola e ignavia ({'avarizia oscilla tra i due gruppi a seconda degli autori) - attribuisce maggior pericolosità ai sentimenti di inimicizia rispetto agli eccessi del desiderio. L'avversione distrugge la comunità mentre, in fondo, la concupiscenza la rende possibile.
Conseguentemente la penitenza, così come gli ideali di fraternità, di comunità e di «liberazione», poggiano sul convincimento che sia comunque possibile riparare alle offese, e presuppongono che l'atto del restituire, inteso anche in senso letterale, consenta l'effettiva riconciliazione.
È in ogni caso la dimensione rituale a costituire il principale veicolo espressivo dei sentimenti cristiani: la penitenza, ad esempio, si pratica con le procedure pubbliche della Quaresima. Attraverso il Carnevale si impone la separazione cerimoniale dalla dimensione carnale, ma, soprattutto, dall'inimicizia: esso non può quindi essere inteso come un rito più o meno liberatorio di inversione. La fraternità - ovvero la comunione «parziale, segmentarla e occasionale» ottenuta con l'adesione alle confraternite (p. 57) -rappresenta la strada maestra per il raggiungimento dello stato, ideale, della carità: essa dà vita a momenti circoscritti di pacificazione e di assistenza corporativa, poiché il punto critico delle associazioni sono i rapporti con l'esterno (la fratellanza implica il riconoscimento dell'estraneità). La solidarietà comunitaria è invece rafforzata in modo pubblico dai rituali parrocchiali: ne sono strumenti privilegiati la riconciliazione sacrificale tra le parti che si incarna nel bacio collettivo della Pace, oppure la ricomposizione processionale e teatrale delle parti con il tutto attraverso il culto del Corpus Domini. Non diversamente, infine, la salvezza è concepita e ricercata come quello stato di salute, fisica e morale, che si ottiene con il ripristino dell'amicizia. Esso si raggiunge con i rituali legati ai santi (taumaturgici, di protezione collettiva, di petizione ecc.), all'Eucarestia e al battesimo (l'esorcismo).
Riti di parentela, di riconciliazione e di unità attribuiscono dunque un significato etico alle relazioni sociali. Le istituzioni cristiane hanno così il compito di assicurare l’espressione rituale delle aspirazioni sociali, e principalmente la conservazione della pace.

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Su questo piano è possibile, secondo Bossy, verificare le trasformazioni cruciali del sistema culturale, e cioè la disgregazione della dottrina dei peccati capitali e l'affermazione - indipendente dalla Riforma e dalla Controriforma - di una nuova classificazione morale imperniata sui dieci comandamenti. È una trasformazione che si incentra sulla priorità accordata all'obbedienza del singolo cristiano alla volontà divina (e non sullo scambio egualitario tra uomo e Dio) e rovescia la gerarchia di pericolosità, attribuendo ai peccati di concupiscenza il primato su quelli di avversione. Ciò implica a sua volta l'abbandono della concezione transazionale dei rapporti tra uomo e Dio.
Parallelamente - e forse conseguentemente - la sessualità emerge come centro dell'etica, in un processo di mutamento globale, non ascrivibile a dinamiche esclusivamente religiose.
«Così come la vendetta e la soluzione delle dispute vennero trasferite in tutta Europa dal campo degli accordi privati a quello dei compiti dell'autorità secolare e, infine, dello stato quale entità astratta, allo stesso modo le istituzioni della Cristianità assunsero una posizione marginale rispetto al compito di conservare la pace tra i cristiani. Quando la pace della riconciliazione ebbe ceduto il passo alla pace della sicurezza, la Chiesa si vide costretta a riconoscere che la tradizionale gerarchia di valori aveva perso la propria presa sulla realtà, e a cercarne una nuova. Il processo ebbe tempi lunghi: non vi è ragione di concordare con chi pretende che a partire dal 1600 la sessualità abbia assunto una posizione centrale nell'etica cattolica. Ma, in prospettiva, è probabilmente vero che la Chiesa si rifece sulla piazza della concupiscenza di ciò che aveva perduto su quella dell'avversione» (pp. 41-42).
In questo senso gli innovatori cinque-seicenteschi possono essere intesi come dei traduttori - piuttosto che come dei riformatori, termine che rinvia al lessico della disciplina ecclesiastica -accomunati dal tentativo di adattare le istituzioni cristiane a una cornice mutata. Essi subiscono le conseguenze del lento slittamento dei significati degli assiomi-chiave della cristianità, più di quanto non lo abbiano provocato. Così, in particolare, con il mutamento di significato della penitenza i rituali di riconciliazione perdono il valore di atti di fede per assumere una funzione limitata alla sfera dell'etica, irrilevante per la redenzione. Di più, la riconciliazione non assicura più l'identificazione tra Dio e uomo, ma diviene una decisione divina impenetrabile. Infatti, nella riparazione non si percepisce più l’offerta di una compensazione adeguata ad evitare la vendetta divina e a ripristinare relazioni amichevoli con il Padre: è invece necessaria la sottomissione umana alla punizione richiesta da un'offesa che ha assunto il carattere di un reato criminale di natura pubblica. Si



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elabora lentamente (fino alla sua esplicitazione con Grozio) una teoria «forense» della giustificazione, una concezione della riparazione che da transazionale diviene giuridica (p. 93). Ci si rifiuta di vedere nell'espiazione un «campo di relazioni sociali» (p. 94), la si priva del carattere di scambio equo e oggettivo.
Le conseguenze di una simile trasformazione semantica sono paragonabili, per Bossy, forse soltanto alle implicazioni della dottrina della salvezza di Sant'Anseimo. Come quelle, sono percepibili sul piano peculiare del rituale, con il quale si interpretano le relazioni sociali. In primo luogo, la nuova concezione della salvezza - che, è bene ribadirlo, si sviluppa tanto in campo protestante quanto in campo cattolico - implica una svalutazione dell'immagine e del simbolo in favore della parola, udibile o scritta; dei sacramenti in quanto luoghi dell'esistenza collettiva in favore dell'interpretazione delle scritture. Si tratta di una responsabilità che Bossy attribuisce in egual misura alla diffusione della stampa e allo spiritualismo antiritualistico di Erasmo, ma essa ha in ogni caso l'effetto di accelerare l’abbandono di tutte le incarnazioni del sacro, fisiche e sociali. Ad esse si sostituiscono l'insegnamento eloquente e la persuasione morale. Dalla ritualità si passa alla pedagogia, dalla riconciliazione alle buone maniere, dalla fraternità all'alfabetizzazione.
In altri termini, tutto quello spazio sociale che si estende tra i riti della parentela (battesimo ecc.) e i riti dell’unità (Eucarestia comunque intesa) viene abbandonato all'azione di strumenti diversi da quelli sacramentali e rituali. La Riforma, dove questi processi sono più accentuati (ma analoghi sono gli sviluppi controriformistici) appare perciò come un processo di deprivazione (dei rituali e degli scambi che essi rendono possibili) più che di decantazione (la separazione dell’etica dalla religione). Lo si percepisce nelle ultime parti del libro, nelle quali si descrivono i due principali sviluppi che ne derivarono: l'identificazione, nei riformati come nei cattolici, del quarto comandamento quale assioma centrale della cristianità e l'attribuzione di carattere sacrale a dimensioni prima estranee. Così, mentre da un lato la rivalutazione della funzione paterna a scapito di altre figure sociali ha, secondo Bossy, l'effetto di stimolare lo sviluppo parallelo della domesticità cristiana e dell'autorità politica (cui sono affidati i compiti di controllo dei comportamenti in precedenza demandati alle istituzioni della fraternità e della carità), la dimensione del sacro perde la connotazione di aspirazione all'unità sociale (lo stesso spazio dei luoghi di culto viene privatizzato),



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e fazione cristiana si specializza e si settorializza nei rivoli della carità impersonale, pratica di controllo più che attività santificante. Dall'altro lato, la dimensione del sacro - e i rituali che le sono connessi - non scompaiono, ma «migrano» nel culto per l’autorità regia e per lo stato come entità astratta, per la musica in quanto espressione non verbale del divino, per la Società ormai separata dalla Religione.
2. Il piacere più intenso che la lettura del libro di Bossy procura - e che non sono riuscito a restituire per la densità dei contenuti - è rappresentato certamente dalla freschezza dello sguardo. E, in effetti, il libro costituisce, prima ancora che una reinterpretazione della storia religiosa europea, uno sguardo originale sulla cultura cristiana in una fase di radicale svolta 3. Il rapporto tra religione e società ha come punto di osservazione il rituale, sacramentale e sacrificale, nel quale si rendono espliciti gli incontri e gli scambi tra credenze e relazioni sociali. In Chri-stianity in thè West tutto è letto a partire dalle manifestazioni rituali, dal folklore irlandese o còrso alla riflessione «colta» dei traduttori cinquecenteschi. Sono la funzione e il destino dei riti, oltre che le loro trasformazioni e riallocazioni nello spazio sociale, a definire una cultura religiosa e le sue dinamiche interne. Nel caso della cristianità tardomedievale e moderna, il mutamento saliente riguarda proprio il disgregarsi della coerenza tripartita con cui i riti della parentela, della riconciliazione e dell’unità coprono tutti i momenti dell’esperienza sociale. La traduzione cinquecentesca, riformata come cattolica, abdica alla funzione riconciliatrice della ritualità cristiana. Questa viene assunta, entro nuovi canoni espressivi, dall’autorità dello stato e dalle pratiche di controllo sociale (la carità impersonale), nonché da nuove forme di espressione della sacralità (come la musica, che tuttavia implica nuove asimmetrie, fa osservare Bossy, trasformando l’assemblea dei credenti in un pubblico più o meno passivo e incompetente).
L’importanza attribuita alla funzione della riconciliazione rinvia all’aspetto più originale della sua lettura del rituale: se esso costituisce la mediazione, il punto d’incontro tra credenze e rapporti sociali, esso tuttavia non permette di identificare il sacro con il collettivo, la religione con la rappresentazione. Osservata attraverso il piano del rituale, la religione perde la sua natura durkheimiana di modo di pensare caratteristico dell’esistenza collettiva della società4. Nelle parole di Bossy, essa diventa

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«1 estensione delle relazioni sociali al di là delle frontiere della società puramente umana» (p. 13). Nelle «relazioni sociali» sono compresi infatti due elementi che sfuggono alla formulazione durkheimiana. Da un lato nel sacro non si identifica soltanto il «collettivo», ma anche «l’interesse umano del [...] particolare» (p. 67). Dall'altro, le relazioni sociali vengono intese da Bossy essenzialmente in termini di parentela, e, al di fuori di questa sfera, in termini di amicizia e di inimicizia: sono cioè potenzialmente conflittuali, suscettibili di mediazione e di soluzione attraverso il momento pubblico del rituale. Per questo motivo nel libro di Bossy la storia dei sacramenti, della Quaresima e della messa costituisce il tentativo di definire i diversi modi con cui, nel tempo, gli uomini hanno affidato alla liturgia il compito di interpretare e risolvere - piuttosto che riflettere - le loro tensioni interpersonali.
In tal modo la liturgia può divenire un momento insopprimibile della storia sociale. È esemplare in questo senso l'analisi dei rituali legati alla morte nella cristianità tradizionale (pp. 26-34). Bossy distingue tra riti individuali, antisociali, che trattano l'anima del morente come separata da tutte le altre (confessione, estrema unzione, testamento) e riti collettivi, promossi in sede familiare dai parenti superstiti. Si tratta, nel caso dei secondi, di una dimensione che la Chiesa cerca costantemente di strappare all'ambito «privato» della parentela, e la liturgia registra i continui compromessi con le differenti pietà che legano i vivi ai morti. Al cimitero familiare fa da contrappunto l'obbligo ecclesiastico di trasporto immediato del cadavere in chiesa; alla veglia, l'istituzione del funerale; al contrario, la creazione della messa per i defunti offre spazio alla priorità della famiglia come ambito rituale. La tensione tra Chiesa e famiglia intorno all'espressione della pietà per i morti trova infine nel Purgatorio un ambito di mediazione fruttuoso, grazie al quale vengono ridefinite le funzioni dei luoghi di culto e della morte. Mentre gli edifici sacri divengono luogo dei morti, collettivo, pacificato ed egualitario -il limite contestato della pietà familiare -, la morte assume i contorni di passaggio a una vita collettiva che serve da modello a quella dei vivi (il transito delle anime, e quindi l'invenzione delle indulgenze). In quanto «luogo» sociale, la morte è dunque un fuoco di tensioni tra individuo, famiglia e istituzioni ecclesiastiche, ma il successo dei compromessi - rituali come dottrinali - esprime la costante fiducia della cristianità tradizionale nella compatibilità delle pratiche sociali con la pietà cristiana.



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Bossy ha ben ragione, una volta constatata l'assenza di studi sensibili al problema, di invocare una storia del rituale nelle chiese riformate, così come una storia, ancor più sconosciuta, dell'arredo dei luoghi di culto cattolici nella Controriforma: solo così potremo sperare di conoscere la rilevanza attribuita, di volta in volta, ai differenti momenti della liturgia, o come essa venne sostituita da pratiche profane.
3. La lettura dei sacramenti e dei rituali nel contesto delle relazioni tra individuo, parentela e società accomuna Christia-nity in thè West alle interpretazioni funzionalistiche dei fenomeni religiosi: con esse condivide la tendenza ad analizzare le istituzioni religiose nei termini delle loro funzioni sociali - in questo caso, conservare la pace -, e ad essa possono essere rivolte le critiche mosse alla storiografia funzionalistica, in particolare a Peter Brown 5.
In molti passaggi dèi suo libro, Bossy non sfugge al rischio di interpretazioni rigide: ad esempio, la sua lettura del Carnevale (pp. 42-45) quale rito di separazione dalle pratiche mondane - e quindi come parte imprescindibile della penitenza quaresimale -è certamente suggestiva, ma non meno parziale della visione strutturalistica, per la quale esso rappresenta esclusivamente un rito di inversione. Il problema di capire quale rapporto esiste tra i due aspetti, e al limite perché la critica sociale spesso si affacci e divenga esplicita proprio nel periodo carnevalesco, resta aperto.
Più in generale, la sopravvalutazione della coerenza del sistema culturale conduce a ignorare la compresenza di sistemi normativi contraddittori. Il primo e macroscopico esempio è costituito, in fondo, dalla stessa rigida omologazione di Riforma e Controriforma, tale per cui l'asserita equivalenza delle rispettive aspirazioni consente di cogliere le loro differenze reciproche in termini di sfumature: valga per tutti l'accenno di p. 147, in cui, nel pur coincidente atteggiamento di cattolici e protestanti verso i poveri, vengono riscontrate differenze «accessorie» per quanto riguarda il più spiccato interesse dei primi per l'efficienza esecutiva delle opere, mentre nei secondi prevale l'accento sulla genuinità dell'ispirazione caritatevole. Così, anche se nella prefazione egli afferma di essere convinto che le dottrine della cristianità tradizionale siano state condivise dalla maggior parte della popolazione europea anche nel Cinque e nel Seicento (p. VII), egli parla della nuova cristianità come se rappresentasse il com-



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plesso di dottrine prevalente e generalmente adottato nelle città e nelle campagne europee. Ciò di cui è lecito dubitare, ovviamente; ma anche se questa fosse l’ennesima provocazione di un opera provocatoria, andrebbe in ogni caso spiegato come tali popolazioni nella loro totalità abbiano potuto passare da un Sistema di riferimento, di classificazione e di comportamento a un altro.
Quel che poi non si dice affatto, è come proprio la caratteristica della religiosità europea, almeno tra Cinque e Settecento, sia stata la convivenza di dottrine e di pratiche tra loro contraddittorie - certamente, quelle di cui Bossy ci dà una lettura così penetrante, ma forse anche altre, che egli non ha esplorato (ad esempio, nel libro manca qualsiasi accenno alla religiosità degli ordini regolari, considerata autonomamente e nei suoi rapporti contraddittori con chierici e laici). In ogni caso, il problema della stratificazione culturale 6 non viene neppure enunciato, se non di sfuggita a proposito della funzione sociale della lettura e della sua influenza nella de-sacramentalizzazione cinquecentesca (pp. 100-104).
È una questione che non mi pare trovi giustificazione neppure nella veste divulgativa in cui il libro compare, giacché la si poteva evincere già nella postfazione a Disputes and Settlements, sopra ricordata 7, in cui, dopo aver distinto con la consueta pertinenza i modelli di soluzione dei conflitti prevalenti tra medioevo ed età moderna (faida, carità e legge dello stato), Bossy non mostrava alcun interesse ad analizzare i modi peculiari in cui tali procedure coesistettero nella società europea, dando vita a sistemi normativi ibridi e a pratiche sociali specifiche, operative e suscettibili di analisi storica. Allo stesso modo, e tornando alle tematiche del libro, sarebbe fruttuoso, credo, esaminare da vicino come abbiano giocato concretamente le diverse concezioni della cristianità che Bossy individua. Se, ad esempio, le confraternite in età moderna abbiano davvero abbandonato, e fino a che punto, i rituali della religiosità penitenziale in favore della carità impersonale predicata dairautorità ecclesiastica; o se non abbiano invece cercato margini di compromesso, dando vita a processi di negoziazione, a quel sincretismo che Bossy vuole invece sconfitto dalla pubblicazione delle prescrizioni liturgiche all’inizio del Seicento (p. 103).
Analogo alla sottovalutazione delle compresenze di sistemi normativi contraddittori è lo scarso peso accordato alle persistenze culturali. Il problema delle resistenze alla Controriforma



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viene affrontato di sfuggita (pp. 132-33), certamente per lo scarso interesse di un tema in parte abusato, in parte distorto dalla storiografia degli anni settanta. Resta tuttavia aperto il problema di capire quale significato potessero assumere rituali desueti, scoraggiati dalla gerarchia ecclesiastica, o in via di abbandono. E non va in ogni caso dimenticato come spesso la tradizione sia reinventata nel tentativo di legittimare una presenza politica 8. Ad esempio, per affrontare il solo caso della pratica sacramentale, la stessa documentazione burocratica della chiesa controriformistica, i registri parrocchiali, presenta non di rado cerimonie palesemente arcaizzanti (battesimi o matrimoni), nelle quali una folla di padrini o di testimoni rinvia a una ricerca di legittimità o a una produzione di consenso che si traducono nella manipolazione del passato. Resta cioè da spiegare perché la ricerca di prestigio possa avvalersi sia della persistenza del costume, sia dell'adozione di nuove modalità culturali. D altro canto, i caratteri stessi della religiosità controriformistica, come l'enfasi sul cerimoniale, suggeriscono di guardare alla ritualità come a una dimensione più ambigua di quanto Bossy non dica: è chiaro, almeno nell'area mediterranea, il rapporto che sembra oggi possibile stabilire tra cerimoniale barocco e secolarizzazione.
Si tratta, ne sono conscio, di considerazioni che invitano a ripensare quella dimensione «popolare» - sia pure complicata dalla lettura intensiva dei casi specifici - che lo stesso Bossy respinge nella seconda pagina del libro (p. Vili) quando sostiene di non credere a una cultura popolare radicalmente distinta da una cultura di élite, e soprattutto contraddistinta da una scarsa adesione agli «assiomi» della religione cristiana. È evidente che una simile dicotomia non regge a qualsiasi verifica empirica, e non si possono che sottoscrivere simili dichiarazioni di intenti. Resta tuttavia il fatto che i dislivelli culturali esistettero e operarono sotto gli occhi di tutti 9. Certo, il mercato delle categorie storiografiche pare avaro di alternative convincenti. Bossy compie alcuni tentativi in questa direzione, ma mi paiono gli aspetti più elusivi del suo lavoro: ne risulta una religiosità «istintiva» (pp. 26, 30 e 53: l'ultima citazione si riferisce, in modo un po' paradossale, alle idee di Domenico Scandella, Menocchio), oppure «naturale» (pp. 27 e 29), oppure ancora «spontanea» (p. 45), quando non «common sense» (p. 30).
4. In Christianity in thè West l'enfasi sulla coesione culturale non conduce soltanto a sacrificare compresenze e continuità nel-



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lo scenario storico. È più in generale il trattamento dei dati empirici a segnalare soluzioni e manipolazioni vistose del materiale. Non mi riferiscono tanto all’uso generalizzante degli esempi, punto debole di qualsiasi opera di sintesi. Ben più preoccupante appare l’uso distorto di alcuni esempi, come quello spesso contestato di Montaillou di Le Roy Ladurie: nel libro di Bossy i comportamenti di una popolazione eretica vengono trattati come se fossero rappresentativi dei comportamenti cristiani del continente europeo (trovo in ogni caso deplorevole definire cattolici gli abitanti catari di Montaillou, come a p. 51). Non sorprende perciò che questa generalizzazione incontrollata possa condurrà l’autore a parlare di «Nord», «Sud» e di altri punti cardinali come se fossero regioni europee significative. Occorre anche ammettere, per onestà nei confronti di Bossy, che talvolta questo sguardo pur un po’ distante lancia indicazioni di ricerca più che suggestive, come quando (p. 45) propone di cercare la ragione della diffusione geografica del Carnevale nelle procedure della penitenza pubblica conosciute tra le istituzioni dell’impero carolingio, e, prima ancora, dell’impero romano.
In altre occasioni, tuttavia, il trattamento dei dati appare inficiato da gravi contraddizioni, che inducono a riflettere sui presupposti metodologici dell’opera. Nell’esporre la concezione del peccato caratteristica della cristianità tradizionale, Bossy fa appello a una correlazione negativa tra norme e comportamenti: i precetti morali che risultano centrali nella letteratura normativa sono quelli più frequentemente disattesi dai comportamenti reali (p. 38). Così, il primato dei peccati di avversione su quelli di concupiscenza è indotto dal fatto che la predicazione quattrocentesca insiste sulla venialità del desiderio, e sulla maggior importanza della carità. Questa correlazione si rivela efficace, ad esempio, per spiegare la crisi morale della civiltà italiana del Quattrocento: la peculiare preoccupazione delle élites cittadine della penisola per la pericolosità dei peccati di concupiscenza si accompagna all’indifferenza per lo spirito di parte, la fragilità della pace e la carità (p. 39).
Altrove, tuttavia, Bossy smentisce questo procedimento che usa la devianza come rivelatrice della centralità della norma, e sorprendentemente inverte il ragionamento, stabilendo una correlazione positiva tra norme e comportamenti. La precettistica diviene così la conferma e la spiegazione delle pratiche sociali. Così, ad esempio, egli ritiene che l’innalzamento dell’età al matrimonio e il ritardo dei rapporti sessuali nei giovani, durante il



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Seicento, siano la conseguenza della nuova centralità assunta dal quarto comandamento nella dottrina cristiana postriformata (e controriformistica), che avrebbe indotto i genitori a un più stretto controllo sulle scelte sessuali dei figli (pp. 122-23). Perciò la precettistica sulla castità giovanile non può essere considerata una «risposta» al ritardo dell’età al matrimonio, verificato dalla demografia storica. Non è questo l’unico caso in cui i comportamenti vengono fatti aderire e derivare direttamente dalle norme: anche nel diffondersi degli istituti caritativi e della segregazione dei poveri, egli vede la conseguenza del successo della dottrina della carità impersonale, piuttosto che la «risposta» alle pressioni della congiuntura demografica ed economica del secondo Seicento (p. 149).
È evidente come questa confusione nel definire il rapporto tra norme e comportamenti derivi dal fatto che, in parte per un dichiarato pregiudizio antidemografico (pp. 123 e 149), non si attribuisce alcuna importanza euristica alla misurazione dei comportamenti stessi, e che quindi non si cercano mai verifiche empiriche. In tal modo Bossy non si cura delle conclusioni un po’ paradossali della propria argomentazione, secondo cui, per esempio, la cristianità tradizionale si sia potuta avvalere dei propri insuccessi per precisare il messaggio dottrinale, mentre la cristianità «tradotta» dei secoli successivi influenzò senza contrasti le pratiche sociali.
L’indifferenza alla correlazione reale tra credenze e comportamenti, e quindi alla frequenza con cui si distribuiscono le diverse pratiche, è in effetti il principio-guida della sintesi tentata da Bossy, poiché presuppone che le credenze stesse presiedano alle trasformazioni sociali, le determinino. Ciò che colpisce è come questa convinzione sia largamente condivisa nella storiografia inglese contemporanea, e in particolare in quella «progressista», pronta «to admit thè power and autonomy of thè imagi-nary, to consider belief systems as a primum mobile which structure and constitute action rather than passively reflecting it» 10. Il carattere esplicito di questa osservazione, che credo Bossy potrebbe sottoscrivere, ci aiuta a ricondurre le sue scelte metodologiche alla svolta conosciuta dalla storiografia sociale inglese negli anni settanta e ottanta. La vivacità e l’eterogeneità delle posizioni che ne sono derivate, che vanno dai tentativi di una storia strutturalistica a quelli di una fenomenologica n, non riescono a nascondere una vistosa tendenza riduzionistica e sem-plificatoria del rapporto tra norme e comportamenti. Infatti, di-

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versamente da quanto è accaduto in campi vicini alla storiografia, quale ad esempio l’antropologia, dove l’adozione repentina e convergente del pensiero foucaultiano e della fenomenologia della religione 12 partiva da motivazioni polemiche nei confronti del riduzionismo funzionalistico, in campo storiografico mi pare che si sia finito per ignorare questa rottura epistemologica: piuttosto, si è cercato di inscrivere l’analisi del belief entro la tradizione funzionalistica, trasponendo tout court l’enfasi sull’equilibrio sociale nello studio dei sistemi culturali. In tal modo proprio il rapporto tra le azioni e gli atteggiamenti degli attori, che stava al centro delle preoccupazioni teoriche della fine degli anni sessanta è stato progressivamente ignorato in favore dell’attenzione preconcetta al potere dei miti di organizzare il mondo, dandogli una struttura 13. È come se, una volta constatata l’indifferenza del funzionalismo allo scarto tra norme e comportamenti, e di fronte ai problemi di metodo posti dall’osservazione delle pratiche, si fosse deciso di incorporare silenziosamente azioni e attori nell’universo dei loro miti, presupponendo l’efficacia operativa di questi ultimi.
5. È difficile invece pensare che una storia sociale della religione possa accantonare con disinvoltura il problema del rapporto tra norme e comportamenti. Ed è evidente come l’accoglimento di un simile nodo teorico costringa ad affrontare con ben diversa enfasi un aspetto della tematica storico-religiosa oggi tradizionalmente confinato in una sotto-disciplina, la sociologia religiosa: gli usi del sacro. Intesi non come «deformazioni» del messaggio religioso, ma come parte integrante della sua forza mitica e della sua efficacia operativa, essi possono costituire le basi per una storia religiosa comparata del continente europeo, che altrimenti viene sacrificata dalla ricerca di evoluzioni univoche.
Alcuni settori di indagine vistosamente assenti nella cristianità di Bossy potrebbero trovare, in questa prospettiva, un posto di rilievo: la committenza artistica, ad esempio, può illustrare in modo dettagliato la negoziazione del significato dei miti. Recenti ricerche sul culto mariano a Venezia mostrano come singoli episodi di committenza consentano di studiare in modo analitico non soltanto le dinamiche sociali e politiche della città tardo-rinascimentale, ma anche gli sviluppi nell’elaborazione del culto della Vergine. Nel caso di Santa Maria dei Frari, studiato da Ro-na Goffen 14, il culto dell’Immacolata Concezione pare essersi

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precisato e definito in termini dottrinali proprio attraverso gli stretti rapporti tra ordine francescano, il lignaggio dei Pesaro, Bellini e Tiziano: le rivalità tra Conventuali e Osservanti, tra i diversi rami della famiglia patrizia, il distacco di Tiziano dallo stile del maestro convergono nel proporre ITmmacolata come illustrazione appropriata delle glorie della Serenissima. Questi e analoghi intrecci paiono oggi promettere approssimazioni estremamente concrete al rapporto tra dinamiche sociali, scelte figurative e orientamenti ideologici e dottrinali. Nella Vercelli del 500, ad esempio, l'analisi delle scelte stilistiche della corporazione dei pittori locali ha permesso di vedere la coesione dell’élite intorno alla difesa dell’autonomia cittadina, le resistenze alla Controriforma e il rifiuto del manierismo come aspetti di un unico processo 15.
Ma, più in generale, è la stessa funzione sociale e culturale del rituale e delle devozioni a richiedere precise verifiche etnografiche. Da questo punto di vista, l’osservazione della vita concreta delle confraternite è in grado di arricchire il quadro ideale che ne dà Bossy (pp. 57-63). È davvero possibile distinguere l’ideale di fraternità, sia pure «corporata», che egli colloca tra i «miracoli sociali» della cristianità tradizionale, dall’uso che di tale ideale venne, di volta in volta, fatto? La nota ricerca di Robert Weissman mostra come una confraternita fiorentina, nel corso del Quattrocento, abbia svolto la funzione di palestra dell’arte di governo per i giovani patrizi locali16. I rituali di fraternità, di eguaglianza e di assistenza dei membri della Compagnia di San Paolo consentirono a un mondo fortemente localizzato e diviso in famiglie e professioni, quale quello dei ceti dirigenti fiorentini, di convivere con le aspirazioni al governo pubblico della città. La dimensione del rituale corporativo della confraternita avrebbe qui la funzione di smentire l’universo segmentato delle pratiche sociali e di ribaltarlo nella sfera sovralocale della religiosità. Ma quanti casi confermerebbero le conclusioni dello studioso americano, e quanti altri invece mostrerebbero un uso difforme, se non inverso della dimensione cerimoniale? Analogo è l’invito alla comparazione che proviene dagli studi sulla religiosità nelle comunità contadine di ancien régime. Il materiale etnografico piemontese, ad esempio, sembra oggi proporre una dicotomia tra aree in cui le manifestazioni preferenziali della religiosità hanno come protagonisti la presenza pubblica dei lignaggi (ad esempio attraverso l’istituzione dei benefici semplici e delle cappellanie, l’enfasi sulla celebrazione di messe private e



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sul santo di famiglia) ed aree in cui prevale la religiosità corporativa, ma non parentale, delle confraternite (con una enfasi sui rituali pubblici delle processioni, sul culto mariano e su quello del Corpus Domini)17. Se osservata sistematicamente, una simile polarità potrebbe consentire di esplorare in una nuova luce la varietà territoriale dei culti e delle pratiche liturgiche che è possibile constatare nonostante le pressioni in favore dellomogenei-tà culturale della Chiesa controriformistica.
Al di là della causalità di questi esempi, mi pare che la posta in gioco sia elevata. Dobbiamo decidere, in altri termini, se continuare a concepire il mutamento religioso come un processo unitario, che si svolge entro la matrice culturale del belief, oppure se concedere tutto lo spazio che meritano alle scelte devozionali e rituali che diversificano - e quindi rendono comparabili -le popolazioni cristiane dell'Europa tardomedievale e moderna. Bossy sembra operare in questo senso una scelta di campo molto netta, ma forse non del tutto condivisibile.
Angelo Torre
Università di Torino
NOTE AL TESTO
1 J. Bossy, Christianity in thè West. 1400-1700, Oxford 1985. Ivi, p. 5, il richiamo a Nietzsche.
2 Cfr. W. Reinhard, Confessionalizzazione forzata? Prolegomeni a una teoria dell'età confessionale, in «Annali dell'Istituto storico italo-germanico in Trento», Vili (1982), pp. 13-37; le conclusioni di Reinhard sono state riprese da P. Prodi, Riforma interiore e disciplinamento sociale in san Carlo Borromeo, in «Intersezioni», V (1985), pp. 273-85 e da G. Chittouni, Stati regionali e istituzioni ecclesiastiche nell'Italia centrosettentrionale del Quattrocento, in La Chiesa e il potere politico dal Medioevo alTetà contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Annali della Storia d'Italia, 9, Torino 1986, pp. 180-93 in particolare.
3 J. Bossy, Blood and Baptism: Kinship, Community and Christianity in Western Europe, Fourteenth to Seventeenth Centuries, in Studies in Church History, X, Oxford 1973; The Social History of Confession in thè Age of thè Reformation, in «Transac-tions of thè Royal Historical Society», s. V, XXV (1975); The Mass as a Social Insti-tution, 1200-1700, in «Past and Present», n. 100 (1983). Alcuni spunti sono contenuti anche in PostScript a Disputes and Settlements. Law and Human Relations in thè West, ed. by J. Bossy, Cambridge 1983.
4 Cfr. J. Bossy, Some Elementary Forms of Durkheim, in «Past and Present», n. 95 (1982).
5 Cfr. ad esempio C. M. Radding, Superstition to Science: Nature, Fortune, and thè Passing of thè Medieval Ordeal, in «American Historical Review», 84 (1979), pp. 945-69 (in particolare pp. 947-51).
6 Mi riferisco ad esempio alle opere di R. Chartier, Figure della furfanteria. Marginalità e cultura popolare in Francia tra Cinque e Seicento, Roma 1984. Cfr. Les usages de l'imprimé, sous la direction de R. Chartier, Paris 1987.



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Angelo Torre
7 J. Bossy, PostScript cit. a n. 2 in questo testo.
8 II riferimento ovvio è a L'invenzione della tradizione, a cura di E. J. Hob-sbawm e T. Ranger, Torino 1987.
9 Cfr. le riflessioni di R. Chartier, Intellectual History or Sociocultural History? The French Trajectories, in Modem European Intellectual History. Reappraisals and New Perspectives, a cura di D. La Capra e S. L. Kaplan, Ithaca (N.Y.) 1982, pp. 1346 e J. Revel, La culture populaire: sur les usages et les abus d’un outil historiogra-phique, in Culturas Populares, Madrid 1986, pp. 223-39.
10 J. Obelkevich, L. Roper, R. Samuel, Introduction a Disciplines of Faith. Stu-dies in Religion, Politics and Patriarchy, London 1987, p. 7.
11 Cfr. la bibliografìa segnalata in S. Clark, French Historians and Early Modem Popular Culture, in «Past and Present», n. 100 (1983), e in M. Ingram, Ridings, Rough Music and thè «Reform of Popular Culture» in Early Modem England, ivi, n. 105 (1984).
12 II sintomo più evidente e la datazione più precisa sono offerti forse dalla fondazione del «Journal of thè Anthropological Society of Oxford» nel 1970, dove, in polemica con quello che viene definito l’approccio «analitico» alla società - radicalmente stigmatizzato e contrapposto a quello fenomenologico - si introduce il pensiero di M. Foucault al pubblico inglese e si discutono con accanimento le critiche di P. Bourdieu alla scuola funzionalistica inglese. Riflessi storiografici di questa svolta sono rintracciabili facilmente in periodici quali «History Workshop», ed esemplari in questo senso appaiono le considerazioni di T. Judt, A Clown in Regai Purple: Social History and thè Historians, in «History Workshop», 8, 1979, e di J. Weeks, Foucault for Historians, ivi, 14, 1982. Nel libro di Bossy, Foucault viene contrapposto esplicitamente a M. Weber (pp. 148-149).
13 M. Augé, Anthropology and thè problem of ideology, in «Journal of thè Anthropological Society of Oxford», VII (1976).
14 R. Goffen, Piety and Patronage in Renaissance Venice. Bellini, Titian, and thè Franciscans, New Haven 1986.
15 Bernardino Lanino e il Cinquecento a Vercelli, a cura di G. Romano, Torino 1986.
16 R. Weissman, Ritual Brotherhood in Renaissance Florence, New York-London 1982.
17 Cfr. A. Torre, Le visite pastorali: famiglie, altari, devozioni, in Valli monrega-lesi: arte, società, devozioni (secoli XVI-XVIII), a cura di G. Galante Garrone, S. Lombardini e A. Torre, Vicoforte (CN) 1985, pp. 148-87; Id., Il consumo di devozioni: rituali e potere nelle campagne piemontesi della prima metà del Settecento, in «Quaderni storici», n. 58 (1985), pp. 181-225.