LE RADICI FOLKLORICHE DELL'ANATOMIA. SCIENZA E RITUALE ALL'INIZIO DELL'ETÀ MODERNA

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Title
LE RADICI FOLKLORICHE DELL'ANATOMIA. SCIENZA E RITUALE ALL'INIZIO DELL'ETÀ MODERNA
Creator
Luigi Lazzerini
Date Issued
1994-04-01
Is Part Of
Quaderni Storici
volume
29
issue
85 (1)
page start
193
page end
233
Publisher
Società editrice Il Mulino S.p.A.
Language
ita
Format
pdf
Relation
Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
Rights
Quaderni storici © 1994 Società editrice Il Mulino S.p.A.
Source
https://web.archive.org/web/20230921064835/https://www.jstor.org/stable/43778700?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxOSwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjQ1MH19&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Ae7acfa35b7935c33e3f72676f52ea9a1
Subject
discipline
surveillance
panopticon
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LE RADICI FOLKLORICHE DELL'ANATOMIA. SCIENZA E RITUALE ALL'INIZIO DELL’ETÀ MODERNA
1. La circostanza è nota: durante il carnevale, nel corso dell'età moderna, si svolsero dissezioni anatomiche in pubblico, su cadaveri di condannati a morte. Ogni sede universitaria importante organizzava un evento di questo genere. Le dissezioni pubbliche, che le fonti indicano con il termine di notomie di teatro, sono documentate a Bologna, a Padova, a Pisa, a Roma. All'inizio si svolsero in teatri di legno, di fortuna, approntati per l'occasione; più tardi in eleganti edifici in muratura, costituiti appositamente. Le notomie di teatro si prolungavano per parecchi giorni e consistevano nell'accanita dissezione di uno o più cadaveri, secondo una procedura stabilita. L'anatomia era seguita anche da spettatori popolari, che non erano né studenti né medici. Nel XVIII secolo, una ordinanza cittadina cercò di riportare ordine nella confusa atmosfera festosa che accompagnava le dissezioni bolognesi, proibendo alle persone mascherate di entrare nel teatro L
Perché questa collocazione carnevalesca? Per quale motivo l’anatomia assunse una forma teatrale e divenne uno spettacolo? Non si è ancora risposto in maniera soddisfacente a queste domande.
2. Chi sarebbe disposto, oggi, a farsi spettatore, in tempo di carnevale, di una autopsia? L'anatomia di teatro è uno di quegli eventi inusuali che rivelano l'esistenza di uno scarto tra il modo di sentire attuale e quello dei nostri progenitori. Proprio per que-
* I lettori non troveranno, in questo saggio, una ricostruzione completa delle vicende della scuola anatomica pisana, per la quale è necessario ancora molto lavoro; i documenti utilizzati sono quelli che mi sembravano più utili alla dimostrazione di una certa tesi. Desidero esprimere il mio ringraziamento ad Adriano Prosperi, che ha seguito questo lavoro dall'inizio; ringrazio anche Carlo Ginzburg, che ha letto una prima versione dell'articolo dandomi molti utili suggerimenti.
QUADERNI STORICI 85 / a. XXIX, n. 1, aprile 1994



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sto motivo il soggetto è degno di attenzione. La storia culturale, infatti, può trovare un terreno più favorevole se il campo di indagine è segnato dalla presenza di particolari inspiegabili (lo stesso criterio viene applicato, nella psicoanalisi, allo studio dei sogni). Come ha scritto Robert Darnton:
Quando non riusciamo a cogliere il senso di un proverbio o di una battuta, di un rito o di una poesia, sappiamo di essere sulla buona strada. Sollecitando il documento dove è più oscuro possiamo forse dipanare un sistema di significati a noi estraneo. Il filo potrebbe perfino portarci ad una visione del mondo inconsueta e meravigliosa2.
È difficile immaginare che la sanguinosa scena di una dissezione anatomica di teatro possa schiudere una visione del mondo meravigliosa. Di certo essa contiene tuttavia qualcosa di inconsueto. È la sua crudeltà, innanzitutto, a stupirci: ancor più traumatizzante, anche se non ce ne spieghiamo la ragione, di quella degli antichi supplizi; poi la collocazione festiva; e, in ultimo, la contiguità di quella che potrebbe essere definita una cerimonia, o un rituale, con un evento destinato alla produzione di verità scientifiche.
3. Le autopsie dovevano aver luogo d’inverno, perché solo la stagione fredda consente una buona conservazione dei cadaveri. Ma questa considerazione spiega la collocazione invernale, non quella festiva. È stato anche sostenuto che l’anatomia di teatro avesse la funzione moralistica di richiamare alla mente degli allegri partecipanti alla festa l'idea della morte incombente. Si è osservato, a questo proposito, che in alcune sedi universitarie, Padova ad esempio, l’anatomia si svolgeva durante la quaresima e non durante il carnevale. Ma le fonti pisane, così come quelle bolognesi, non si prestano, da questo punto di vista, ad equivoci: a Pisa e a Bologna l’anatomia di teatro era un evento tipicamente carnevalesco3.
Morti nella città per carnevale, cadaveri da sezionare in un teatro: ciò che le interpretazioni precedenti rifiutano di accettare è la presenza dei morti e della violenza nel cuore della festa. La concomitanza dell’anatomia con il carnevale è invece sottolineata da Giovanna Ferrari, autrice di un importante saggio sull’anatomia di teatro bolognese. Secondo Giovanna Ferrari l’anatomia sarebbe stata in grado di attirare spettatori popolari perché il corpo anatomizzato, in quanto corpo grottesco (corpo aperto e smembrato, contrapposto al corpo classico), è un tipico elemen-



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to della imagerie carnevalesca, così come essa è stata descritta da Michail Bachtin nel suo famoso saggio su Rabelais. Questa spiegazione, pur non essendo sbagliata, è, a mio modo di vedere, insufficiente. Bachtin non può essere, come Giovanna Ferrari afferma, Punica possibile guida per la comprensione dell'anatomia di teatro come esperienza carnevalesca. Il limite del saggio di Giovanna Ferrari mi sembra consistere, in particolare, nel fatto di non aver analizzato l'evento cerimoniale dell'anatomia per intero 4.
4. L'anatomia di teatro ci obbliga, insomma, da un lato, a rivedere la nostra immagine del carnevale, che studi come quello di Bachtin hanno ancorato ad un affascinante stereotipo; dall'altro a ripensare al rapporto che di solito viene istituito tra la scienza e il rituale. Ma per poter procedere in questa direzione bisogna conoscere lo svolgimento dell'anatomia di teatro come rituale. Prenderò come caso tipico quello pisano. Qui l'anatomia si praticava fin dal XV secolo, ma, come a Bologna, le prime vere dissezioni di teatro si verificarono a metà Cinquecento, in coincidenza con l’arrivo nella città di Andrea Vesalio.
Vesalio giunse a Pisa, secondo l’opinione di Charles D. O'Malley, il suo più importante biografo, tra il 20 e il 22 gennaio 1544. Proveniva da Bologna dove, nel corso di una seduta di anatomia, si era svolta, in sua presenza, una accesa discussione riguardo alle opinioni di Galeno e Aristotele circa il sito del cuore. Da questa disputa l’anatomista si era ad un certo punto estraniato, come se non lo riguardasse, e, prima ancora che il dibattito si fosse concluso, aveva deciso di raggiungere Pisa. Cosimo gli aveva formulato un invito esplicito. Lo Studio, infatti, era stato appena riaperto, per iniziativa del duca. Un inviato ducale, Filippo del Migliore, aveva preso contatti, sin dall'anno precedente, con numerosi professori nel nord Italia. Tra questi vi era anche Vesalio, il quale si trovava temporaneamente a Padova, in attesa di andare a ricoprire l’incarico di archiatra imperiale presso la corte di Carlo V, in Olanda. Quando questi eventi si verificarono, molte delle vicende della carriera accademica di Vesalio si erano già compiute. Nato a Bruxelles da un famiglia di medici e giuristi, Vesalio aveva studiato a Parigi, a Lovanio, a Padova. Qui, poco dopo essersi addottorato, aveva intrapreso l’insegnamento accademico; è a Padova, nel 1543, che Vesalio cura la pubblicazione dei sette libri del De humani corporis fabrica, la sua opera maggiore, destinata a sostituire i manuali correnti, e a divenire,



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grazie anche al suo straordinario corredo iconografico, il punto di riferimento di tutti i successivi trattati anatomici5.
Si era davvero di fronte, con la Fabrica, all'opera che, secondo i luoghi comuni della letteratura sul Rinascimento, avrebbe segnato il sorgere di un’epoca affatto nuova nella storia della ricerca anatomica? Ci si potrebbe interrogare sul valore effettivo, e sui limiti, di questa presunta innovazione. Se infatti l’innovazione scientifica è collegata alla nascita di un nuovo paradigma, questo non è il caso di Vesalio. Non era forse questa la novità reale. I fatti nuovi erano altri: l'alleanza stretta da Vesalio con il principe, la creazione del teatro come luogo privilegiato di questa alleanza; il parallelo sorgere e radicarsi dell'anatomia come evento rituale. Tutto ciò, almeno a Pisa, comincia con questa straordinaria venuta, salvo più precoci ma meno organici fenomeni.
L’arrivo nella città di Vesalio coincise coll'inizio di una vera e propria caccia ai cadaveri da anatomizzare. Come Galeno, Vesalio era abituato a «nutrirsi dei morti» (l'espressione si deve a Paracelso6) e a Pisa non si comportò in modo diverso che a Parigi o a Padova. Una panoplia di ferri e di strumenti da dissezione gli venne inviata, attraverso l'Arno, assieme ad alcuni corpi reperiti nell'ospedale fiorentino di S. Maria Nuova. Ma Vesalio non diede mostra di accontentarsi, ed invitò i suoi studenti a visitare il cimitero presso il duomo; diverse tombe furono profanate. Nei giorni successivi procedette ad altre dissezioni, sia pubbliche che private.
Il segretario di Cosimo, Campana, aveva dato ordini rigorosi: l'anatomista necessitava di cadaveri, e questi dovevano essere reperiti con ogni mezzo. Dapprima il problema venne risolto mediante l’utilizzazione di morti provenienti dall’ospedale fiorentino di S. Maria Nuova. I corpi, secondo quanto voluto da Campana, dovevano appartenere a persone che non fossero né troppo giovani né troppo vecchie: uno di questi corpi doveva essere femminile. I cadaveri, chiusi nelle casse, vennero inviati a Pisa tramite l'Arno, e sbarcati presso il convento di S. Francesco. Secondo la testimonianza di Vesalio, tra i corpi arrivati a S. Francesco c'era anche quello di una monaca. Ma quella fame galenica cui accennavamo non tardò a farsi sentile di nuovo, e a comunicarsi da Vesalio ai suoi studenti. Vesalio si lamentò, di fronte a loro, a proposito dell'impossibilità di attenersi al testo della Fabrica, per l'insufficienza del materiale umano a disposizione. Gli studenti si procurarono allora, dietro suo consiglio, le chiavi del cimitero. Il



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camposanto del duomo si prestava particolarmente agli scopi di Vesalio. Una credenza diffusa, riferita anche da Montaigne nel suo diario di viaggio italiano, voleva che la terra di questo luogo avesse qualità particolari. Come scrive Montaigne:
Si dice afFermatamente da tutti che gli corpi che vi si mettono, in otto ore gonfiano in modo che se ne vede alzar il terreno; le otto di poi, scema e cala; le ultime otto si consuma la carne in modo, eh'innanzi le 24 non ci è più che ossa ignude7.
Galeno, da parte sua, aveva sostenuto che i cadaveri migliori sono quelli esposti agli effetti delle inondazioni8. Così la spedizione di Vesalio si indirizzò subito su quei corpi che, trovandosi ad essere sepolti nella sezione trasversale del chiostro, erano soggetti all'azione del vento e della pioggia. Una tomba in particolare attrasse l’attenzione dell'anatomista: era quella di una fanciulla di diciasette anni, morta a causa di difficoltà respiratorie. Il corpo della ragazza fu prelevato immediatamente, per essere condotto al luogo della dissezione. La caccia aveva dato buoni frutti. Ora l'anatomista disponeva di due cadaveri femminili: la monaca, una donna di trentasei anni, e la fanciulla diciassettenne strappata al cimitero. Vesalio, d’altra parte, non aveva che di rado anatomizzato una vergine: i cadaveri che gli venivano forniti a Padova erano, principalmente, cadaveri di prostitute. La comparazione dimostrò la sostanziale somiglianza dei due uteri, e l’illibatezza della più giovane, fra le altre cose, ricevette conferma, con piena soddisfazione dell'auditorio9.
Negli stessi giorni si verificò un altro episodio degno di nota, che non può non richiamare alla mente l’immaginario gotico. Era infatti accaduto che, di ritorno dalla lezione pomeridiana di anatomia, Vesalio si fosse trovato ad entrare in una libreria pisana. Tra coloro che curiosavano tra i libri c’era anche un giurista di Siena, un tale Belloarmato, il quale, riconosciuto Vesalio, non potè fare a meno di awicinarglisi. Durante il colloquio, Belloarmato si lamentò del suo pessimo stato di salute. Aggiunse che il giorno successivo si sarebbe di certo recato all’anatomia, perché, secondo il programma stilato da Vesalio in precedenza, la lezione avrebbe riguardato proprio quegli organi della digestione che il giurista riteneva fossero la causa dei suoi malesseri. In realtà, Belloarmato intervenne all’anatomia, ma non nella forma che aveva immaginato. Ritornati infatti che furono, Vesalio e Belloarmato, dal negozio di libri, il gentiluomo fu colto, subito dopo pranzo, da una sorta di secchezza del corpo, e da difficoltà di respirazione, finché, nonostante si tentassero vari rimedi, morì. I



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parenti decisero allora di trasferirne il corpo a Siena, e, secondo l’uso consueto, si rivolsero ad un chirurgo, perchè liberasse il cadavere dalle viscere, per facilitarne il trasporto. Vesalio ne approfittò per operare personalmente la dissezione, e per cercare di scoprire le cause di quella morte così rapida: gli organi residui, una volta estratti, furono portati da Vesalio in fretta alla dissezione, perché gli studenti potessero vederli. Alcuni giorni più tardi, Vesalio, chiamato a Firenze da Francesco Campana, potè sezionare, stavolta in forma privata, il cadavere di un altro gentiluomo morto improvvisamente, Prospero Martelli,0.
Non stupisce a questo punto che le fonti riferiscano che le anatomie di Vesalio erano frequentate. Si sa che esse, infatti, come l'anatomia bolognese cui abbiamo accennato, erano affollatissime. Il pubblico era attirato dalla novità della dimostrazione e degli argomenti, dalle critiche continue alle opinioni tradizionali, dai soggetti stessi che Vesalio sottoponeva alle dissezioni, dalla disinvoltura con cui l'anatomista si procurava il materiale. Il duca stesso avrebbe desiderato, a quanto sembra, essere tra gli spettatori. Erano tuttavia di certo presenti illustri personaggi collegati all'ambiente universitario, come lo sventurato Belloarmato. Uno di questi personaggi, riferisce una lettera dell’epoca, era tanto curioso da sporgersi incessantemente verso il cadavere, cosicché non gli venne risparmiata, anche a causa dello scarso spazio disponibile sulle gradinate del teatro, una rovinosa caduta11.
La collaborazione tra Vesalio e il duca era destinata a protraisi ancora per poco tempo. A Vesalio venne offerta una somma molto elevata di denaro perché rimanesse stabilmente a Pisa. In seguito al rifiuto di Vesalio, Cosimo scelse Realdo Colombo, che lo stesso anno ottenne la cattedra di anatomia. Dopo la partenza di Vesalio, l'anatomia di teatro pisana si definì e si stabilizzò. Fu edificato un teatro, venne assicurato un rifornimento adeguato di cadaveri, con leggi sicure. Da allora, la sezione pubblica si svolse annualmente. Già nell’epoca dominata dalla figura di Lorenzo Bellini (1643-1704), tuttavia, non sono pochi i segnali che indicano come le dissezioni si svolgessero in un clima di sempre maggiore disinteresse, se non di contestazione. Il teatro continuò a funzionare fino alla metà del Settecento, finché le dissezioni in pubblico non si interruppero del tutto e, quasi, se ne perse il ricordo 12.
5. Durante il carnevale, innanzitutto, soggiornavano in città i



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duchi. L'aria pisana, infatti, era considerata più salubre di quella fiorentina. Alla partecipazione ducale si univa una vivace vita festiva. Si avevano, in tempi ravvicinati, l’inizio delle vacanze accademiche, la conseguente libertà studentesca e uno spettacolare gioco di ispirazione militare, nel quale si affrontavano, armate di targoni di legno, due schiere che rappresentavano le due metà di Pisa, così come le separava il corso del fiume. A questo quadro già mosso vanno aggiunti gli spettacoli di piazza e di teatro, e il sanguinoso cerimoniale dell'anatomia. Si trattava di un contesto gioioso, ma accompagnato da esplosioni di violenza e dalla presenza di simboli di guerra e di morte. La violenza, che la città trecentesca non aveva certo ignorato, e che aveva segnato profondamente anche la storia quattrocentesca di Pisa (il lungo conflitto con Firenze si era prolungato per oltre cento anni nel corso del XV secolo e della prima metà del successivo, dal 1406 alle capitolazioni del 1509), tendeva ora ad essere fortemente ritualizzata e confinata perciò in tempi e luoghi specifici. Una delle sue componenti fondamentali era la presenza di gruppi dotati di forme di relativa immunità: cavalieri di S. Stefano e studenti si abbandonavano ad eccessi, sapendo di non essere soggetti alla legge ordinaria, e di poter essere giudicati da propri tribunali. Nel 1550, ad esempio, nell'anniversario di S. Antonio Abate (il 15 febbraio, giorno stesso della battaglia festiva), gli studenti invasero il cortile della Sapienza mascherati, pretendendo che si interrompessero le lezioni e organizzando una rissa a base di arance. Contemporaneamente fece irruzione in Sapienza un gruppo di persone armate di bastoni. Ne seguì una rissa violentissima. Oltre ad organizzare questa battaglia con le arance, gli studenti (che eleggevano un re del carnevale come loro rappresentante) si impegnavano in cacce di tori, in attività sportive, oppure si limitavano a passeggiare mascherati per le vie cittadine. Qual era, in questo carnevale, il ruolo del popolo? Il popolo vi svolgeva un ruolo importante, ma definito: forniva gli atleti per il gioco militare, alimentava le contese relative (tali da gettare l’intera città in una situazione di confusione), assisteva, se era possibile, alle dissezioni, lanciava sfide a cavalieri e studenti. Questo era il contesto carnevalesco. Passerò ora ad una descrizione dell’anatomia di teatro così come essa si svolgeva a Pisa B.
6. La tradizione del diritto romano non contemplava nessuna norma precisa a proposito della destinazione del corpo alle ricerche anatomiche. (Questo fatto è, di per sé, degno di nota). I giu-



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risti del Cinquecento furono così obbligati ad elaborare una nuova giurisprudenza sull'argomento. L'uso di destinare i condannati alla anatomia di teatro venne considerato un atto extra legem, che però era giustificato dalla volontà del principe. Nella Practi-ca criminalis di Giulio Claro, ad esempio, una intera sezione è dedicata al destino del corpo, destino che costituisce uno dei principali problemi che un sistema penale fondato sulla condanna a morte e sul supplizio si deve porre. Le domande che vengono formulate sono quattro: se il corpo del condannato debba essere tolto dal luogo della esecuzione e seppellito; se si possa destinarne il corpo all’anatomia; se debba essere eseguita ugualmente la sentenza nei riguardi di un condannato morto prima dell'esecuzione; che fare, infine, delle vesti del condannato. Per quanto riguarda il quesito che ci interessa, Giulio Claro si rifa a Bartolo, secondo il quale la questione non si può decidere su due piedi, ma richiede una adeguata meditazione («cogitandum»). Quanto al suo parere, aggiunge di non trovare la questione espressa in modo chiaro in nessun luogo della legge. La sola consuetudine decide, là dove si è instaurata questa pratica, unitamente alla volontà del principe. Un parere simile a questo, secondo il Claro, sarebbe stato formulato anche dai giuristi della università di Salamanca, inteiTogati su questo argomento da Carlo V14.
La volontà del principe è qui elemento del tutto decisivo: concorrono a giustificare l'uso anche l'autorizzazione del condannato, così come quella dei giudici. A favore del condannato gioca anche la possibilità di ricevere, a compenso della dissezione, un certo numero di messe a suffragio della sua anima, e la sepoltura di ciò che rimane del corpo. Solo a Milano, dominio spagnolo, a questa discrezionalità regia si sostituisce il potere del Senato. In questa concezione sta l'origine dell’atteggiamento di reverenza che gli stessi anatomisti manifestano nei riguardi di principi e autorità. Vesalio non fa, nella sua opera, che lodare l'operato dei magistrati (come il padovano Contarmi, cultore dilettante di anatomia) che gli concessero i cadaveri che gli erano necessari. Realdo Colombo rende omaggio a quei moderni principi che ritengono giusto effettuare simili concessioni «ad com-munem vivorum utilitatem»: re, papi, imperatori. D'altra parte, in Toscana, era questo solo un aspetto di un più generale uso del corpo per le pratiche scientifiche. Sono infatti frequenti i casi di condannati a morte sui quali si effettuavano esperienze con il napello ed altri veleni, per verificare l'efficacia di certi antidoti15.



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La rubrica «L» degli statuti universitari pisani prevedeva che ranatomia si svolgesse annualmente, su cadaveri di condannati di sesso diverso, o anche su di uno solo, se non fosse stato possibile reperirli entrambi. Un coerente ed efficace sistema di approvvigionamento dei corpi permetteva l’attuazione pratica di questa regola. Esso prevedeva la partecipazione di molte figure pubbliche importanti nella vita cittadina, e in quella dello stesso ducato: il commissario, o capitano, la magistratura criminale locale, gli otto di balia fiorentini, magistratura criminale centrale, e, per quanto riguarda l’università, il rettore. Naturalmente, in un sistema caratterizzato da un notevole grado di elasticità, all’interno del quale era sempre possibile l’eccezione, la deroga, altre figure pubbliche potevano dire la loro. Se il rettore era, di fatto, molto spesso, sostituito dal vicerettore (una figura che, come quella del rettore, proveniva dall’ambiente studentesco) il commissario cominciò, ad un certo punto, ad essere rimpiazzato dall'ufficiale di dogana, gli otto di balia dall’auditore fiscale. La richiesta era di solito formulata dagli organi universitari per primi. Il 28 gennaio 1621, ad esempio, il vicerettore dell’università Francesco Calonaci indirizza una lettera «agli molto illustri signori chiarissimi gli Sg.ri Otto di Balia della città di Firenze», per sollecitarne l’intervento: «alli dieci del presente scrivemmo alle Signorie loro che si compiacessero di ordinare al chiarissimo Commissario di qua che ci assegnasse per servitio dell’anatomia un suggetto di maschio». Insieme al condannato doveva giungere a Pisa anche il maestro di giustizia. Da Firenze, tuttavia, non era arrivata alcuna risposta; di qui la sollecitazione. La stessa fonte archivistica (l’archivio dell’Università) conserva anche una lettera di risposta, se non a questa, ad una sollecitazione analoga. Il 28 dicembre 1622, una lettera proveniente dagli otto informava dell’arrivo in città di «Lorenzo di Mariotto detto Buco, condannato a morte per omicidio». Nella stessa lettera si faceva presente che era vicino l’arrivo del maestro di giustizia, e si ipotizzava la possibilità di un uso del condannato per esperimenti scientifici prima dello svolgimento dell’anatomia. A seguito della richiesta del vicerettore, erano gli otto a muoversi a loro volta, secondo un sistema che implicava la collaborazione dei bargelli. Il 12 gennaio 1598 gli otto riferiscono al granduca circa una supplica pervenuta loro da Stefano Moranini, bargello di Borgo San Sepolcro. Questi affermava «d’haver fatta cattiva Madonna Agna di Ferdinando di Pandolfo. . .», la quale, ritenuta colpevole di aver ucciso il marito, era stata condannata a morte e alla confisca dei



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beni, con la precisa indicazione di essere inviata a Pisa «per serviti! della notomia». Il capitano Moranini pretendeva, perciò, «il prezzo solito», oltre alla possibilità di immettere di nuovo nel territorio ducale un bandito («la facultà d'immettere un bandito o due»). Questa relazione ci lascia immaginale un sistema consistente nell'allertare con un certo anticipo i bargelli; questi, a loro volta, si preoccupavano di segnalare quei casi che parevano più convenienti, per l'uso specifico cui i condannati erano destinati. La decisione finale, circa la richiesta, la natura e quantità del compenso era riservata agli otto. L’uso di liberare un bandito in cambio di una cattura non era infrequente, ed è documentabile nell’attività degli otto. La previsione anticipata di un vero e proprio compenso in denaro ci sembra evento più raro. È diffìcile dire, allo stato attuale delle nostre ricerche, se la somma fissata fosse una caratteristica esclusiva delle catture che erano di pertinenza dell’anfiteatro anatomico. Il tribunale degli otto di balia svolgeva una funzione di coordinamento delle condanne in ambito ducale. Nei Libri delle condanne si trovano i nominativi di persone che provenivano da ogni luogo del dominio. Proprio questa funzione di coordinamento permetteva agli otto di rifornire il teatro nei modi più opportuni16.
La complessità e tortuosità di questo sistema di reperimento dei corpi dipendeva, in sostanza, dal fatto che non si potevano utilizzare per l’anatomia, come previsto esplicitamente dagli statuti, né cittadini fiorentini né cittadini pisani («quod anatomia fieri non possit de corpore alicuius civis florentinis et pisani»). Anche i dottori e gli studenti dell’università non potevano in alcun modo essere utilizzati per la dissezione, a meno di una autorizzazione dei loro familiari. Non è agevole delineare i caratteri di una simile proibizione. Evidentemente essa si ricollegava al carattere infamante dell’anatomia. Tuttavia, come si è visto, non era infrequente l’apertura post-mortem dei cadaveri di illustri personaggi. Ciò che è certo è che il divieto dell’anatomia in pubblico, specialmente nel caso in cui si applicava ai pisani, era tut-t’altro che disatteso o formale. Nel gennaio del 1649, ad esempio, la decisione di condannare all’anatomia un pisano, Claudio Meucci, accusato di più furti ed uccisioni, provocò una vera e propria sommossa di piazza a favore della sua liberazione, che il duca peraltro non concesse 17.
La morte per anatomia, dolce e in qualche modo segreta, implicava spesso, per il condannato, sfinenti trasferimenti, interminabili passaggi di mano, che dovevano avere sulla psicologia un



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effetto di prostrazione. Domenico di Guglielmo, originario del Casentino, si preparava a morire a Pistoia, il 20 gennaio 1668. Assassino di strada, tipico deraciné, quali la società del tempo conosceva, costui era stato catturato dai parenti dell’ultima delle sue vittime, i quali «stracinatolo», l'avevano rimesso nelle mani degli otto, che lo avevano condannato a morire a Siena. Qui Guglielmo era stato già trasferito, ed aveva ricevuto, in prigione, la notte precedente 1’esecuzione, il conforto da parte dei membri della locale compagnia della morte. Ma durante la notte giungeva un staffetta da Firenze, inviata dagli otto, con la notizia che l'esecuzione era stata rimandata. Una grazia improvvisa, un impedimento? Niente di tutto questo: Guglielmo era soltanto stato richiesto dagli universitari: «destinato a Pisa», «facendosi noto-mia» 18.
Gli elenchi dei giustiziati della compagnia della morte pisana ci hanno tramandato una lista quasi completa dei condannati che affluirono a Pisa per il particolare «servitio dell'anatomia». Le scarne note di conforto non ci dicono se il delitto era stato compiuto in Toscana o fuori. Sono spesso silenziose anche sulla natura del reato. Viene invece in ogni caso segnalata la città di origine. I condannati hanno le origini più diverse: ve ne sono di provenienti da Lucca, da Urbino, dalla Romagna, dalla stessa Francia. I reati commessi, quando sono segnalati, sono tra i più svariati: i più comuni sono il furto, l'assassinio e, per quanto riguarda le donne, l’infanticidio. Un carattere che ci appare indiscutibilmente legato alla morte per anatomia è la condizione sociale umile. Questo problema, del resto, è affrontato dai giuristi: il giudice deve tenere conto, secondo Menocchio e il Ripa, della condizione di chi è destinato alla sezione: «sua prudentia considerare debet familiam, conditionem et dignitatem»: «nam si vilis et deploratae conditionis sit, tradendum anathomiae»: il Claro, che riferisce a proposito di questo dibattito, non è d’accordo con il principio enunciato da Menocchio e dal Ripa, poiché, sostiene, non si applica lo stesso principio ai casi di smembramento. Almeno a giudicare dalle fonti pisane, doveva tuttavia trattarsi di un principio molto diffuso. Molte sono le donne: l'anatomia reclamava spesso cadaveri femminili, meglio se gravidi. Quei corpi nascondevano forse una qualche attitudine simbolica (come è stato ipotizzato da Giovanna Ferrari), collegata alla natura stessa dell'anatomia come rito di morte e rigenerazione. La scena della dissezione di una donna gravida, è visibile sul frontespizio della Fabrica. Ma anche Realdo Colombo cita con particolare rilievo



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la dissezione, svoltasi a Pisa, di una donna che si era appena sgravata di due gemelli (strangolandoli poi con le sue mani)19.
7. Le dissezioni si situavano in un arco di tempo che andava dalla metà di gennaio ai primi di marzo. Frequente era l'uso di collocare la cerimonia subito a ridosso delle festività natalizie: non c'era quindi una coincidenza assoluta con la settimana conclusiva del carnevale. D’altra parte, i limiti di tempo del carnevale erano, in queste epoche più antiche, meno rigidi: per carnevale si deve intendere, in età moderna, il periodo che è compreso tra l'epifania e la quaresima. A Venezia, ad esempio, il carnevale cominciava subito dopo l’epifania20.
Come che fosse, il condannato, a partire dalla sera precedente la sua condanna, diveniva proprietà della compagnia locale della morte, allorché veniva alloggiato nel palazzo del commissario, dove esisteva una cappella utilizzata per il suo conforto, e dedicata a S. Giovanni decollato. La confraternita pisana della morte era stata fondata dalla colonia fiorentina di Pisa subito dopo la conquista della città da parte di Firenze. Nella Pisa cinquecentesca continuava ad essere composta in gran parte di fiorentini (anche Galileo vi appartenne durante l’infanzia). Il suo compito era quello di assistere i giustiziati, ma anche di occuparsi di tutti quei casi in cui l’eccezionaiità del morto imponeva un particolare riguardo nell'accompagnamento. Il conforto (termine tecnico) era quell'insieme di operazioni che i membri delle confraternite attuavano attorno al condannato e al suo corpo: operazioni così diverse, e tanto differenziate nel tempo e nello spazio, da non lasciarsi facilmente comprendere sotto una definizione unitaria. Il conforto includeva un tipo di assistenza materiale (cibi e bevande da somministrare al condannato, a spese dei confratelli), ma il suo principale obiettivo era di tipo spirituale. Si trattava, con il conforto, di assicurare ciò che nel linguaggio del tempo era chiamata «la buona morte», la cui connotazione essenziale era il pentimento e la buona disposizione a morire. Il pentimento, anche ottenuto all’ultimo istante, poteva riscattare i peccati di tutta l’esistenza, e assicurare, come nell'esempio evangelico del buon ladrone, il raggiungimento immediato della grazia. C’erano d'altra parte buoni motivi che incoraggiavano questa pratica: e, prima di tutto, l’opportunità che i confratelli si vedevano riconosciuta di ottenerne numerose indulgenze. Questa opportunità di assistenza materiale e spirituale si coniugava con altri, e più riposti, obiettivi del conforto, collegati alla manipolazio-



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ne del cadavere, e all'uso dei suoi prodotti come il sangue. Le compagnie di giustizia avevano iniziato la loro attività staccando i cadaveri dai patiboli. In seguito continuano a godere di questa possibilità di contatto con il corpo morto, oggetto scomodo perché ricco di forze negative che dovevano essere scaricate, ma anche, come le reliquie, avello di energie simboliche. Attorno a questa duplice opportunità, che si può dire riassunta nell’idea del conforto come forma di mediazione essenziale tra mondo dei vivi e mondo infero, si cementava la profonda compattezza di corpo delle compagnie, nelle quali gli sbarramenti di ceto e di status stridevano con l'idea di una fraternità proclamata continuamente a parole. Il conforto si trasformava allora in un crudele gioco delle parti, in un crudele finale di commedia, nel corso del quale un piccolo gruppo di preti ed aristocratici locali cercava di convincere il condannato, spesso di condizione opposta a quella dei confortatori, della necessità del suo pentimento. Questa «commedia morale» era di volta in volta subita o condotta con coraggio e spirito di resistenza da condannati che si negavano fino all’ultimo all'ipocrisia di un pentimento imposto. Per prevenire le resistenze, per guidare sulla buona via, per attenuare lo strazio del condannato, i confortatori avevano a disposizione le ore finali della notte. Nel corso dell’età moderna, una manualistica si sviluppa attorno al conforto: sono edite numerose opere che, muovendo dalla casistica specifica, si pongono a disposizione dei confortatori per risolvere i loro eventuali dubbi, le inevitabili incertezze21.
Il 27 giugno 1561, un'importante decisione venne presa durante una delle riunioni periodiche della confraternita di giustizia. I confratelli lamentavano che non ci fosse «uomo che si pigliassi a cuore e si dilettassi di un’opera così pia e giusta». Si faceva notare, da parte dei confratelli, che la compagnia non possedeva strutture adeguate per servire al conforto, e si prospettava la necessità di una riforma. Spesso, infatti, sta scritto sui verbali della compagnia, l'assistenza ai condannati «si riduceva in duo fanciulli inesperti». Eco di un dibattito controriformato, questo verbale schiude forse una immagine diversa dei conforti pisani cinquecenteschi. Qual era, in questi conforti, il ruolo dei fanciulli? «Homo» e «fanciullo», infatti, sono, nella lingua dell’epoca, termini tecnici, che designano particolari classi di età. Per «fanciullo» si deve intendere colui che si colloca in una classe di età adolescenziale (tra i 14 e 17 anni). È stata più volte sottolineata l'importanza dei fanciulli nella vita sociale fiorentina, e



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particolarmente nei riti di violenza. Nel caso di una esecuzione capitale i fanciulli potevano intervenire con un supplemento di punizione, consistente in una riesumazione, in una divisione e spartizione del corpo, in un annichilimento finale del cadavere. Era evidente la loro relazione con il cadavere dei giustiziati, e la loro dimestichezza, ai nostri occhi davvero singolare, con il corpo morto. Non ci stupirebbe se, in una preistoria del conforto fiorentino (fiorentino-pisano in questo caso) i fanciulli avessero giocato un loro ruolo. Come che sia stato, la riforma poneva fine a questa presenza dei fanciulli, e creava una struttura specifica destinata al conforto, formata da «un guardiano, un provveditore e altri uffitii»22.
Questa apparente maggiore strutturazione del conforto doveva però nascondere problemi irrisolti. Nuove riforme erano necessarie, e sarebbero state attuate negli anni successivi. L’occasione venne da un intervento dello stesso commissario di Pisa, il quale aveva notato l’esistenza, fuori della cappella del conforto, di una situazione anomala. Il 23 marzo 1618, a ridosso quindi dell'anatomia di teatro, che si era svolta, quell'anno, 1'8 febbraio, il commissario di Pisa emanava un bando che intendeva colpire tutti coloro che «per mera curiosità vogliono intervenire e ritrovarsi nella cappella» quando all'interno di essa si trovava il condannato. Il bando prevedeva che la notte precedente l’esecuzione l’accesso al palazzo del bargello fosse rigorosamente limitato. Soltanto i confratelli potevano esservi ammessi, ma anche per questi ultimi erano previste limitazioni: potevano essere fatti entrare soltanto i membri della compagnia già designati in precedenza, i cui nominativi erano stati comunicati al commissario in anticipo; ad essi potevano aggiungersi il servo della compagnia e il «confessore dell'afflitto». Pene specifiche, diversamente graduate, erano previste per chi contravvenisse. Le regole stabilite, d’altra parte, non erano fatte valere per il commissario e «i signori consoli con le loro famiglie». Il bargello stesso non poteva entrare nel suo palazzo. Le chiavi di quest’ultimo erano affidate al commissario, e le porte dovevano essere rigorosamente chiuse. Le stesse persone che erano ammesse nel palazzo, ad eccezione dei confortatori, non potevano in nessun caso superare la soglia della cappella di conforto. C'era dunque, attorno al conforto che precedeva l’anatomia e al condannato rinchiuso nel palazzo pisano una grande curiosità. Il condannato attraeva irresistibilmente. Era un grande privilegio poterlo avvicinare, toccare, forse, privilegio che veniva riconosciuto alle autorità, oltre che ai conforta-



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tori. A questa attrattiva si rispondeva con la creazione di soglie di liminalità, con divieti ed obblighi rigorosi, quanto inutili. La confusione e l’affollamento attorno alla cappella di conforto non cessarono affatto a causa dei provvedimenti adottati nel bando del Commissario (che i membri della compagnia si affrettarono a ricopiare sui loro libri... )23.
L’8 gennaio 1638, in vista dell’anatomia di quell’anno, destinata a svolgersi il 18 gennaio, si prese, in compagnia un partito (nel linguaggio del tempo, una deliberazione), di grande importanza, riguardo al conforto. Il partito cominciava con il notale, ancora, l’esistenza di una situazione di confusione, riguardo alla pratica del conforto, non dissimile da quella delineata nel bando del 1618. Il conforto, l’assistenza «a quei poveri afflitti che per mano di giustizia debbono finire la propria vita» era - si osservava - una pratica di estrema importanza e valore: «funzione introdotta dalla S. Madre Chiesa tanto grata a S.D.M. e di così grande peso». Tuttavia, c’era chi desiderava parteciparvi per un motivo non giusto. Accadeva che si facesse di tutto per poter vedere anticipatamente il condannato, per cercare di entrare in contatto con lui, e questo sia da parte di membri della compagnia non abilitati ad esercitare il conforto, sia da parte di estranei:
ancorché non si conoschino abili a subentrarsi a tale importante ministcrio, per mera curiosità spinti, anteponendola alla salute di quelle povere anime, tralasciando ogni altro zelo, cercano con ogni industria, arte e quasi per forza eleggersi nel numero determinato et hanno intromesso persone non descritte in questa nostra Ven. Compagnia ancorché inatte, contro la disposizione de capi e buoni ordini di essa et a danno de’ poveri condannati.
L’abuso andava avanti da tempo, e sembrava non essere stato, fino a quel momento, rimediabile. A seguito di questo stato di cose si decise che i priori della compagnia e gli altri magistrati preposti (i conservatori) dovessero nominare per l’assistenza solo «fratelli descritti nella compagnia» e solo quelli che giudicassero «habili ad esercitarla in tale importante pericolo». Pene severe erano previste per gli inadempienti. I priori e i consiglieri che avessero contravvenuto al partito potevano essere esclusi dalla carica e annotati sui libri di confraternita come «privi, inhabili e incapaci» 24.
L’esecuzione collegata alle esigenze del teatro anatomico era priva di qualsiasi elemento proprio del supplizio in senso stretto. Ridotte al minimo le sofferenze, l’uccisione avveniva mediante strangolamento. Il corpo del condannato poteva così conservarsi nelle migliori condizioni. Questa perfetta conservazione era fon-



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damentale. Bisognava che neppure una goccia di sangue fosse versata. Nella esecuzione di Domenico di Antonio da Perigliano (2 gennaio 1644), il maestro di giustizia non compì bene il proprio compito, e l'anatomia fu impossibile: «il boia strinse e torse il collo che gliene troncò - si legge nei verbali della compagnia della morte - et per essersi versato anche il sangue» il condannato «non potette servire». L'esecuzione si svolgeva nel perimetro stesso del palazzo del commissario, in un luogo chiamato la «Volta dei Prigioni», utilizzato soltanto in quella circostanza. I confratelli si occupavano probabilmente anche del trasporto all'anfiteatro anatomico. Questo trasporto per le vie cittadine era compiuto assieme con gli studenti, e rispecchiava una sorta di possesso condominiale del corpo da parte di questi due importanti «gruppi intermedi» della società pisana dell’epoca. Dal momento che il palazzo del commissario e l'anfiteatro erano situati sulle sponde opposte del fiume il rito doveva necessariamente implicare il passaggio dell’Arno; probabilmente, studenti e confratelli facevano uso dello stesso ponte sul quale si svolgeva la battaglia festiva (nelle incisioni pisane è indicato come palazzo del commissario un edificio situato a pochi metri di distanza dal ponte di mezzo). Nelle epoche più recenti il corpo era chiuso in una bara. Il trasporto doveva svolgersi in mezzo ad una certa curiosità, alimentando i doppi sensi e i comportamenti allegri degli studenti in vacanza25.
Con la consegna del corpo all'anfiteatro, il ruolo della compagnia nel cerimoniale si esauriva. Nel giorno di S. Giovanni decollato, poi, i confratelli celebravano una messa «per la salute delle anime dei giustiziati», davano vita ad una processione per le vie cittadine; mangiavano, tutti assieme, un capretto; bruciavano pubblicamente il cordino, il cappio servito per l’uccisione del condannato26.
Il conforto si inseriva nel cerimoniale come preparazione spirituale del condannato ma anche come momento di creazione di soglie liminali molto rigide. L'accostamento del conforto ai riti di passaggio è sempre possibile, ma in questo caso esso ci appare particolarmente evidente. Il condannato è, prima di tutto, uno straniero. Giunge nella città poco prima dell’esecuzione e per essere ammesso nella comunità deve assoggettarsi ad una sorta di percorso iniziatico che prevede una segregazione assoluta. Questa segregazione è rafforzata dalla chiusura nel palazzo, e, all'interno del palazzo, nella cappella del conforto. L’accesso a que-



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st’ultima è riservato ai soli confortatori, i quali, a loro volta, sono scelti, secondo rigidi criteri, ora tra i fanciulli, ora tra i membri eminenti della comunità fiorentina. Al lato opposto, quella cella isolata è fonte continua di comportamenti anomali. Fuori di essa, e del palazzo, si accalcano in molti. Alcuni arrivano addirittura a fingersi membri della compagnia per poter soddisfare il desiderio di entrare in contatto con il condannato, di poterlo vedere e toccare. È su questo sfondo di attrattiva popolare, che è un chiaro segno, mi pare, della sacralità di quel condannato e di quel corpo che si inserisce l'aspetto propriamente religioso del conforto, che a Pisa non è mai molto rilevante (quasi tutti i condannati si pentono senza difficoltà). Le messe, gli atti di purificazione, la ricerca del pentimento: tutto ciò aveva come scopo quello di controbilanciare, come è stato notato, le energie negative che il condannato e il suo corpo contenevano. Questi atti, indiscutibilmente rituali, tuttavia, a nostro giudizio, non spogliavano del tutto il corpo del condannato della sua sacralità. Il cadavere consegnato all'anatomista non era affatto un corpo inerte, pronto per l’«esercitio». Conservava invece intatta la sua forza magica e i suoi simbolismi, che la dissezione si sarebbe preoccupata di rivelare.
8. Nel piccolo teatro ottagonale il corpo del condannato arrivava quando ormai si era conclusa la processione per le vie cittadine. Qui erano ad attenderlo gli illustri membri del corpo accademico, studenti e spettatori comuni, e, naturalmente, l’anatomista con i suoi assistenti. Nella sala oscura, a mala pena illuminata da due alte finestre e dalla luce delle torce, calderoni pieni d’acqua fumigavano. Ammassati nelle strette panche di legno che formavano la platea gli spettatori si sporgevano ad osservare la scena. Guido Guidi il seniore (così chiamato per distinguerlo dal figlio, anatomista a Pisa e, prima ancora, archiatra del re di Francia Francesco I) è una fonte particolarmente attendibile per descrivere molti aspetti specifici di queste dissezioni pisane. Guido ha lasciato raccolte molte notizie riguardo al funzionamento effettivo del teatro in un libro introduttivo al suo trattato anatomico, intitolato Liber primus qui est de communibus totius anatomes, Guido studia, in questo libro introduttivo, tutto ciò che concerne l’operato dell'anatomista: analizza particolari altrimenti sconosciuti come la migliore forma di teatro, il tipo di illuminazione e gli strumenti di cui l'anatomista ha bisogno, ci informa sulle persone che assistevano alla dissezione. Si tratta,



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chiaramente, di un’opera preziosa. Essa rispecchia una fase piuttosto antica, ma nella quale l’anatomia di teatro aveva già avuto modo di acquisire una sua strutturazione coerente, dal punto di vista delle procedure, dei metodi, degli strumenti di lavoro27.
Secondo Guido il teatro anatomico deriva direttamente dalle antiche pratiche circensi, dagli spettacoli offerti dagli imperatori al popolo. Questa parentela ne spiega la forma, che può essere duplice: circolare, e allora si parlerà in senso proprio di teatro, semicircolare o ad anfiteatro. La distinzione principale tra l’anatomia e gli spettacoli del circo è da ricercarsi nel fatto che i primi, ad esempio le corse delle bighe, erano facili da osservare. Nell’anatomia, invece, lo spettacolo richiede un senso di osservazione molto più sviluppato, poiché spesso occorre osservare particolari minutissimi; ed è perciò necessaria una buona vista. La forma dell'anfiteatro, proprio perché consente a tutti gli spettatori di osservare la scena nelle stesse condizioni, è quella preferibile. Il teatro, dice Guido, deve essere rapportato alle dimensioni della città ed a quelle della sede universitaria: bisogna che nelle città maggiori sia abbastanza grande da permettere lo svolgimento dell’anatomia senza che l’eccessivo affollamento provochi incidenti. Rispetto a questi problemi di capacità occorre ulteriormente osservare che se il teatro deve essere collocato in un piccolo edificio, allora è preferibile la forma semicircolare dell'anfiteatro; se poi ci sono problemi derivanti, oltre che dalle piccole dimensioni, anche dalla forma dell'edificio, conviene utilizzare una struttura ottagonale, la quale è solo leggermente meno capace di quella rotonda («caedit haec rotundae, quod attinet ad ca-pacitatem, non tamen multo ab ea distat»). Proprio questa è la forma del teatro pisano («eiusmodi nunc utitur Pisana accademia»). Guido ci informa a proposito di molti altri particolari di questo edificio. Apprendiamo ad esempio che una parete divisoria era collocata alle spalle del tavolo di dissezione, in modo tale da poter ricavare una piccola stanza da utilizzare per le preparazioni. Il teatro, tenendo conto della stagione in cui si svolgevano le anatomie, era necessariamente coperto, e possedeva tre fonti di luce: una di esse proveniva dal soffitto; le altre due da due finestre collocate in opposizione all’altezza del tavolo di dissezione: una presso la testa, l’altra presso i piedi del cadavere. Nonostante la presenza di queste fonti di luce, l’illuminazione non era sufficiente. Molte candele erano approntate per permettere agli astanti di vedere quanto avveniva. Il corpo del condannato era situato di fronte agli spettatori, collocato su di un tavolo di for-



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ma rettangolare, leggermente declinante, che, negli anfiteatri, era sostituito da uno girevole. Tuttavia era frequente Fuso di sospendere il cadavere a travi che formavano una specie di croce, allo scopo di distaccare meglio la parte molle dallo scheletro28.
Guido ci fornisce un breve ritratto dell’anatomista: in piedi ad un lato del tavolo, con al lato opposto il minister che lo assiste nella dissezione. Le sue qualità debbono essere: la fermezza della mano ma anche l'abilità dialettica, necessaria alle dispute, alle discussioni frequenti che si accompagnano allo svolgimento della dissezione. Occorre che indossi vesti leggere, ma dignitose. Le sue unghie debbono essere ben tagliate. Accanto all'anatomista si affolla una congerie di individui, simili in qualche modo ai monatti di memoria manzoniana: sono i ministri. Spetta a loro compiere tutta una serie di operazioni connesse con l’anatomia: essi debbono lavare il cadavere, asciugarlo, pulirlo, tenere fermi gli animali che sono sottoposti alle anatomie dal vivo, ripulire le ossa da utilizzare nella fabbricazione degli scheletri, separare con le mani, o con un uncino, le parti da sezionare dalle altre, gonfiare, come se si trattasse di palloncini, i polmoni e le vesciche, separare le parti molli dalle dure. A questo lavoro sono adibite persone di condizione infima: abituate a tutti i lavori, capaci di aver a che fare con materie immonde, i ministri debbono tacere ed essere ossequienti agli ordini del medico29.
Il carattere macabro della scena della dissezione era evidente. La stessa incisione con cui si apre il De humani corporis fabrica lo dimostra. Il teatro vi appare in penombra, dominato da una figura ischeletrita, armata di falce, nella quale si può scorgere un'eco dell’iconografia di Saturno. Anche l'immagine che sovrasta lo scheletro, una sorta di maschera dalla bocca spalancata, ricorda l'iconografia del «padre tempo», in cui si univano i tratti del romano Saturno e del greco Crono (così raffigurato nell'atto di cibarsi dei propri figli). Sui ripidi banchi che attorniano il tavolo da dissezione fanno capolino le furie. Tra gli spettatori ci sono, numerosi, antichi anatomisti e filosofi: morti, cioè. Guido, del resto, precisa che una qualità fondamentale dei ministri doveva essere quella di non temere i fantasmi che si riteneva fossero presenti durante la sezione («ne, praesente cadavere, larvas pertimescant»). Una delle operazioni fondamentali che accompagnavano la dissezione era la bollitura delle ossa, seguita dalla ricomposizione dello scheletro liberato dalla carne: un procedimento colpito in passato da proibizioni ecclesiastiche per il suo carattere stregonesco30.



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Nella procedura di dissezione che a Pisa, come altrove, era regolata dagli statuti universitari, l’anatomista si atteneva all’or-do incidendi cadavera et dicendi anatomiam. Quest’ordine imponeva che si cominciasse con le parti molli, quindi più facilmente deperibili: si cominciava, cioè, come spiega Targioni-Toz-zetti, «dagli integumenti per finire colia osteologia». Oltre che dai ministri, l’anatomista era assistito nel suo lavoro da due scolari esperti (da alcune fonti definiti «anatomistini»), che dovevano aver già fatto esperienza presso altre sedi universitarie. Tra i loro compiti vi era quello di sedare eventuali disordini che si fossero sviluppati nel corso della sezione. L’esercizio sul cadavere si prolungava per giorni e giorni: Targioni-Tozzetti ne precisa in dodici giornate l’effettiva durata31.
Gli statuti prevedevano che all’anatomia partecipassero, innanzitutto, il rettore dell’università, gli scolari delle diverse facoltà, i dottori. Gli altri, se volevano assistere dovevano pagare saltuariamente una somma di denaro («solvent semel tantum»32). L’anatomia, tuttavia, era tanto affollata da lasciar credere che non solo questi soggetti abilitati potessero assistere alle dissezioni. Guidi afferma che l’anatomia può essere utile, essenzialmente, a tre categorie di persone: ai medici, prima di tutto (come è ovvio), ma anche ai filosofi e agli artisti. Ognuna di queste tre categorie poteva trovare nell’anatomia, secondo Guido, una propria ragione specifica di interesse. Per i medici le conoscenze anatomiche avevano uno scopo terapeutico. C’era, all’epoca di Guido, una categoria di medici, gli empiisci e gli alchimisti, che esprimeva un totale dissenso nei riguardi delie pratiche della dissezione. Secondo questi medici empirici nessuna nuova reale conoscenza poteva derivare da una apertura del corpo. All'anatomia vera e propria essi contrapponevano l’anatomia dal vivo, l’esame delle feci e delle urine, come mezzo più efficace di cura. Una battaglia tra empirici e dogmatici si compie nel Cinquecento proprio attorno all’anatomia (mi propongo di tornare su questo argomento in un saggio a sé). Guido, ovviamente, sta dalla parte degli anatomisti in questo dibattito. L’argomento che egli usa contro gli empirici è uno dei più comuni: già Galeno, dice Guido, ha spiegato che solo la tecnica della dissezione consente di scoprire la causa di alcune malattie: le paralisi di certe parti del corpo non possono essere studiate senza conoscere la natura della colonna vertebrale. Gli artisti, invece, potevano raffigurare meglio l'apparente, attraverso l'osservazione di ciò che si trovava sotto la pelle. Quanto ai filosofi, Guido osserva che anche i medi-



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ci debbono possedere una preparazione specifica nel campo della filosofia naturale. Per i filosofi, in particolare, si tratta, con l'anatomia, di approfondire la loro conoscenza della natura; di individuare le relazioni che collegano le facoltà dello spirito con la base materiale, corporea; di riconoscere la virtù teleologica della natura, il profondo ed essenziale finalismo che caratterizza il disegno complessivo e la conformazione particolare di ogni parte del corpo umano (in quanto creazione divina)33.
La presenza degli artisti può essere illustrata dall'esempio di Vasari. In una lettera dell’epistolario di Vasari, indirizzata allo spedalingo dell'ospedale degli Innocenti di Firenze, Vincenzio Borghini, Vasari riferisce di aver partecipato direttamente alla dissezione in pubblico, e di aver poi incaricato un suo allievo di assistere alle dissezioni che si sarebbero svolte nei giorni successivi e di fare delle copie delle singole parti del corpo che via via venivano sezionate. Qualche volta nella figura di uno stesso anatomista si univa la propensione al disegno con quella alla ricerca medica: un anatomista pisano del Seicento, Giovanni Battista Bellavita, ci ha lasciato un sonetto nel quale egli raffigura se stesso nel triplice ruolo di medico, anatomista e disegnatore. Come scrive Targioni-Tozzetti:
Fra le sue poesie vi è un Distico intitolato: de eodem (Bcllavitio) Doctorc, Secto-re, Pictore, donde pare, che egli facesse la Sezione (forse del Cadavere di qualche Condannato) la spiegasse, ed anche disegnasse alcune sue Preparazioni34.
Ma era altrettanto sicura la partecipazione dei filosofi. Realdo Colombo, ad esempio, intratteneva discussioni frequenti, nel teatro pisano, con l’aristotelico Simone Porzio. Durante una seduta anatomica pisana, il filosofo fece presente all’anatomista che la visione di quest'ultimo riguardo ad un punto specifico delle conoscenze anatomiche (la presenza di un deposito adiposo attorno al cuore) non era verosimile. La questione fu risolta a favore dell’anatomista quando questi fece sciogliere, con una delle candele che illuminavano il tavolo di dissezione, il deposito di grasso, e il filosofo dovette ammutolire (ma è Realdo Colombo stesso la fonte di questo racconto). L’intreccio continuato dei tre obiettivi indicati da Guido era anche ciò che caratterizzava le anatomie pisane: scoperte naturali, discussioni teologiche e filosofiche, oltre che esperienze di studio di tipo artistico vi trovavano accoglienza. Da questo intreccio si sviluppava, fra l’altro, la discussione criminologica che la materia prima delle dissezioni, fornita dai condannati a morte, fatalmente alimentava35.



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9. La conclusione del rituale implicava un problema ulteriore, riguardo al destino del corpo morto. Qual era il destino del corpo degli anatomizzati? A Pisa le notizie di archivio suggeriscono che, almeno da una certa epoca in poi, il seppellimento del corpo avvenisse. Il luogo di questo seppellimento era la chiesa di S. Maria della Neve, attigua all'anfiteatro anatomico36. Questo seppellimento dei resti del corpo aveva un suo omologo nel seppellimento dei cadaveri degli anatomizzati fiorentini, che veniva effettuato nella chiesa di S. Maria Nuova. Ma veniva sepolto Finterò corpo? Le considerazioni svolte da Manara, il gesuita autore del più famoso tra i manuali di conforto, fanno sospettare un destino diverso del corpo degli anatomizzati. Manara lascia intendere che esso fosse accaparrato dai presenti, o, forse, fatto oggetto di una vera e propria distribuzione, per poi essere utilizzato per la fabbricazione di medicamenti, o, anche, in pratiche magiche. Come scrive lo stesso Manara:
Col grasso de corpi umani si possono fare molte indegnità, e con la carne degli stessi.. . Onde per questo titolo i poveri condannati hanno occasione di dolersi, che dalla carne loro, ossa, sangue, grasso si possino fare stregonerie.. .37.
Questa possibilità si manifesta sia quando «sono lasciati pendere dai patiboli» sia in occasione delle anatomie di teatro. Secondo un'altra autorità del tempo, André Tiraqueau, d'altra parte:
... pcritissimos artis magicae multa ex carnibus, ossibus suspcndiorum ad rem ip-sam magicam conficere solitos, eaque in magicis veneficiis medicamcntissima exi-stimare38.
Entrambi, Manara come Tiraqueau, risalgono da qui a fonti classiche: Lucano, Pharsalia, particolarmente la descrizione delle arti stregonesche contenuta nel VI libro (w.531-556), e, soprattutto, l'VIII libro della Storia naturale di Plinio. Scrive ad esempio Plinio:
Circolano alcuni trattati di Democrito ove si legge che per un certo tipo di malattia giovano più le ossa del capo di un delinquente.... Secondo poi quanto ha scritto Apollonio, è indicatissimo nel dolore di denti scalfire le gengive con un dente d’uomo perito di morte violenta.... Artcmonc a sua volta faceva bere agli epilettici, al momento della crisi, l'acqua raccolta di notte da una fonte, usando come recipiente il cranio di un uomo ucciso e non cremato. Con le ossa sempre di un cranio di impiccato, Anteo preparava pillole contro il morso del cane idrofobo39.
Un autore come il Guaccio poteva, nel suo Compendium ma-



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leficarum, recuperare queste stesse argomentazioni, a proposito della stregoneria:
Alcuni maghi bruciano il cadavere fino a ridurlo in cenere, o, unendovi altre materie, ne fanno un impasto: cosa constatata personalmente a Napoli, da Giovanni Battista Porta, ma di cui parla anche Plinio. Sono fatti che avvengono ancora oggi in Lorena, stando a Rcmy, il quale dice di averli appresi dagli stessi rei sotto tortura 40.
Tra gli esempi citati dal Guaccio vi era quello di una certa Anne Roux, la quale «confessa di aver aiutato una strega a disseppellire un corpo inumato da poco, e, dopo averlo arso, d’aver composto con le ceneri una pozione venefica, da usare per l'avvenire contro coloro cui avessero deciso di recare danno»41.
Tutti sono concordi nel giudicare orribili, superstiziose, empie queste pratiche magiche (Plinio: «Via da noi simili pratiche e dai nostri libri! Noi parleremo di rimedi, non di sacrilegi»; Tira-queau: «haec veluti superstitiosa et omnimodo ridicula relinqua-mus»; Manara: «... altri particolari... io qui li taccio per parermi anche superstiziosi»)42. Di fatto, quelle pratiche superstiziose sono accettate e ritenute vere, anche perché fondate sull’autorità degli antichi e corrispondenti a comportamenti diffusi tanto negli ambienti medici quanto in quelli popolari. Ciò che Manara definisce «una fantasia del condannato»43 era una eventualità possibile.
Lo stesso Manara sottolinea la grandissima diffusione della pratica consistente nel curare con il grasso le doglie fredde. «Pare che questo habbia del barbaro assai, massima che quel grasso va colato e liquefatto come quello di altri animali», avverte il gesuita. Ma Manara è pronto a riconoscere la legittimità della medicina. Se il carnefice lo toglie con una certa precauzione «e serve grandemente per le doglie ... si può permettere»44.
Anche le pratiche di stregoneria aventi come ingredienti pezzi del corpo umano erano comuni. Una strega modenese, accusata di aver preparato venefici per i suoi vicini di casa, confessa di aver utilizzato per le sue magie anche pezzi di corpo45. Soprattutto, debbono essere ricordate qui le selvagge prostitute veneziane che si presentavano alle anatomie padovane di Vesalio per reclamare pezzi di cadavere (secondo O’Malley, è possibile scorgerle nella celebre incisione con la quale si apre il De humani corporis fabried). Queste prostitute, racconta lo stesso Vesalio, avevano finito per uccidere un bambino, per potersi appropriare di un cuore e di alcune ossa da utilizzare per la fabbricazione di



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filtri d'amore46. Queste opinioni circolavano, ovviamente, anche in Toscana, e resta vivo il loro ricordo anche nel Seicento. Accennando alla ispezione che si deve fare nelle case delle donne accusate di stregoneria, il Cospi osserva che le streghe «sogliono tenere i loro unguenti sotto il palco vicino al fuoco». Questi unguenti «fanno con grassi di fanciulli ammazzati da loro, o d'altri uomini morti di morte violenta o per mano di giustizia ...»47. Gli inquisitori dovranno accertare:
... se vi hanno teste di morto, stinchi o altri ossi: occhi o piedi di lupo, capi di ramairi o lucertole, o code di detti animali: pezzi di carne, che sogliono essere carne d'appiccati, o pezzo di scgolctta, o di canapo, e particolarmente nodo di capestro, col quale alcuno sia stato appiccato48.
Vi sono alcuni indizi che questa possibilità di appropriarsi delle parti del cadavere non fosse teorica anche per quanto riguarda Pisa. Il primo indizio è rappresentato da un racconto relativamente noto, riferito dal Vasari (e ripreso da Burckhardt), a proposito di uno scultore, il Cosini. Come racconta Vasari:
E perche abitò Silvio per qualche tempo in Pisa, essendo della Compagnia della Misericordia, che in quella città accompagna i condannati a morte insino al luogo della giustizia, gli venne una volta il capriccio, essendo sagrestano, della più strana cosa del mondo. Trasse una notte il corpo d'uno, che era stato impiccato il giorno innanzi, della sepoltura, e dopo averne fatto notomia per conto dell’arte, come capriccioso e forse magliastro c persona che prestava fede agl’incanti c a simili sciocchezze, lo scorticò tutto, ed acconciata la pelle, secondo che gli era stato insegnato, se ne fece, pensando che avesse qualche grande virtù, un coietto e quello portò per alcun tempo sopra la camicia, senza che nessuno lo pensasse giammai.
Lo scultore si era deciso, alla fine, a confessate a un frate il possesso di questo «coietto». Il frate l’aveva convinto non soltanto a smettere di usare il bizzarro capo di abbigliamento, ma anche a dargli sepoltura. Burckhardt, commentando questo episodio, non riusciva ad accordarlo con la sua concezione dell'artista rinascimentale, e ne concludeva che «appunto lo studio frequente dei cadaveri» doveva aver «contribuito a scemare sempre più la fede nella virtù magiche di alcune parti dei medesimi». Questa doveva essere, stando a quello che riferisce Vasari, una dissezione privata, di qualche anno precedente, del resto, l'istituzione del teatro anatomico (il soggiorno del Cosini a Pisa risale al 1528). Vasari, tuttavia, era un frequentatore abituale del teatro pisano, e, forse, questo racconto riguardava direttamente sue esperienze49.
Che ci si recasse al teatro anatomico per appropriarsi di pezzi



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di corpo, è dimostrato ancora più chiaramente da un frammento di un processo inquisitoriale, conservato presso l'Archivio Diocesano di Pisa. Il 20 settembre 1584 si presentò infatti davanti all' inquisitore Alessandro Betti, il quale raccontò di essere stato colto da un rimorso: alcuni giorni prima, un suo conoscente, Federigo Lauriana, con il quale era venuto «a ragionamento d’amore», gli aveva mostrato un foglio di scongiuri, contenente incantesimi amorosi che, per essere efficaci, si dovevano giovare di pezzi di cadavere: occorreva, perché l'incantesimo avesse effetto, che il nome dell’amata venisse scritto, la vigilia di S. Lorenzo, su di una costola umana che andava quindi bruciata mentre si pronunciavano certe parole magiche. «Se ti basta l'animo di trovare due Costole...» lo aveva sfidato il Lauriana, promettendogli, in cambio di parte del bottino, una copia degli scongiuri; e il Betti, che in quel periodo era appunto innamorato di una ragazza, Francesca Franchini, «ductus a Diabole», si era recato «in loco Anatomie». La sera di S. Lorenzo il Betti aveva messo in atto l’incantesimo, salvo poi pentirsene quasi subito, tanto da andarne a parlare con l'inquisitore. I rapidi interrogatori seguiti alla denuncia fecero emergere una trama ancora più complicata: si scoprì che la spedizione nell’anfiteatro, effettuata fuori del tempo dell'anatomia, era stata favorita da un bidello corrotto; e che il Betti e il Lauriana, con la complicità di altri, avevano anche cercato di impadronirsi di un cadavere appena seppellito50.
10. Abbiamo così ricostruito brevemente il cerimoniale ed il suo contesto. Da quanto ho scritto risulta subito un fatto importante: non si può affrontare lo studio dell'anatomia come evento scientifico ma anche cerimoniale senza descrivere l’insieme della cerimonia. A mio parere, l'anatomia, così come è stata descritta nelle pagine precedenti, era un rituale continuato ed integrato, che cominciava quando il condannato arrivava nella città, e si concludeva con l’annichilimento del suo cadavere. In questo lasso di tempo si intrecciavano pratiche di giustizia ed esperienze rituali, tecniche mediche e forme di assistenza a sfondo religioso. Tutti questi elementi erano presenti insieme nell’anatomia, con i loro specifici linguaggi, e interagivano tra loro. Ad ognuno di essi potrebbe essere dedicato uno studio particolare. Ma è soprattutto la loro fusione in un unico crogiolo ad interessarci. Le azioni simboliche, infatti, che fanno parte di un cerimoniale, una volta che se ne sia riconosciuto il carattere coerente, possono essere scomposte in unità più piccole, allo scopo di effettuare confronti



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con cerimonie simili. Si tratta del metodo morfologico, inaugurato dai grandi studiosi della fiaba e dagli antropologi comparativisti e utilizzato di recente nelle proprie ricerche da Carlo Ginz-burg, e Maurizio Bertolotti. Due paiono essere le caratteristiche fondamentali di questo metodo: esso richiede da un lato uno studio in termini unitari del fenomeno studiato, al quale bisogna riconoscere, almeno per via intuitiva, un carattere di coerenza, dall’altro un paziente lavoro di scomposizione e di confronto51.
Considerata da un punto di vista morfologico, l'anatomia di teatro pisana può essere scomposta nei seguenti elementi (tenendo ovviamente presente quel carattere arbitrario che la scomposizione morfologica reca comunque con sé): a) un condannato a morte; b) straniero; c) arriva in città dall'esterno; d) viene chiuso in prigione; e) si pente delle proprie colpe; f) viene ucciso; g) il cadavere è trasportato per le vie cittadine con il duplice accompagnamento di studenti e confortatori; h) ci si appropria del suo corpo (di frammenti di questo); i) il resto è annichilito; l) il tutto avviene nel cuore del carnevale.
11. A Venezia, il giorno del giovedì grasso, un toro e dodici maiali subivano una sorte non dissimile da quella dei condannati pisani. Secondo le informazioni che provengono dalle fonti, il rito veneziano presentava analogie evidenti con quello dell'anatomia di teatro. Tutto cominciava con l’arrivo degli animali nella città, il mercoledì di carnevale. Il toro e i dodici maiali era rinchiusi in una cella collocata nel palazzo ducale. Il giorno seguente, di fronte ad una folla rumorosa e festante, gli animali erano sottoposti ad una vera e propria condanna a morte. La sentenza era pronunciata da una corte composta dal doge, dagli ambasciatori stranieri, e dai membri della signoria vestiti di abiti rossi, sotto la presidenza del giudice in proprio, il magistrato che si occupava in prima istanza delle cause criminali. Successivamente alla condanna, gli animali erano condotti in processione dagli stessi dignitari, fino ad una piccola piazza davanti al palazzo ducale. Una corporazione cittadina, quella dei fabbri, era incaricata di dar loro la morte, mediante decapitazione. Gli animali erano lasciati liberi nella piazza, inseguiti e decapitati, mentre la folla «rideva e cantava deridendo i prigionieri simbolici». La carne dei maiali era quindi divisa tra i presenti. Questi riti erano già oggetto di critica nel primo Cinquecento, ma non per questo furono abbandonati, anche se furono assoggettati a frequenti riforme. Nel 1509 le spoglie cessarono di essere distribuite tra i senatori,



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come accadeva fino ad allora, e vennero invece destinate ad offerta a favore dei monasteri e delle carceri. Nel 1525 la riforma fu ancora più radicale: i dodici maiali furono eliminati; la partecipazione del giudice in proprio e dei membri della classe dirigente soppressa. Secondo Sansovino, il doge si era scagliato contro Fuso perché lo riteneva «ridicolo affatto, se bene ordinato dagli antichi padri...»; e se aveva deciso di mantenerlo in vita, in forma ridotta, era solo perché il popolo ne traeva piacere, oltre che per la sua antichità52.
I tori: cacce di tori simili a quella veneziana venivano effettuate anche altrove. A Roma, nel 1522, ad esempio, un toro venne ucciso presso il Colosseo, da un greco di nome Demetrio, come espediente per celebrare il carnevale e, insieme, pare, per scongiurare una pestilenza. A Pisa, un bando del 1568 ci ricorda Forganizzazione di una vera e propria caccia di tori durante il carnevale. Durante Fincoronazione di Carlo V a Bologna, nel 1530, un toro venne arrostito in piazza, dopo essere stato farcito di cacciagione. La folla si gettava con avidità sui pezzi di carne, che erano stati fatti oggetto di una distribuzione. Fontane, intanto, emettevano vino, mentre l’imperatore lanciava qualche cosa sugli spettatori, ad esempio avena. Si trattava di fenomeni diversi, confrontabili solo in una certa misura; tutti accomunati, tuttavia, da elementi come la collocazione carnevalesca o festiva, il carattere spesso sanguinoso, violento o rituale, la distribuzione vera o figurata delle spoglie53.
Questa attenzione verso il corpo era anche, come è stato notato, tipica dei linciaggi e delle esecuzioni caratterizzate da una forte carica di violenza popolare. Azioni di questo tipo vedevano spesso protagonisti i fanciulli. Nel 1478, questi ultimi, ad esempio, se la presero con il cadavere di Jacopo de’ Pazzi: «i fanciulli, parrebbe di loro iniziativa, lo dissotterrarono, lo trascinarono per tutta la città tirandolo con un pezzo di corda che aveva al collo» e infine lo gettarono nell’Arno. La spartizione delle membra non è documentabile in questo caso, ma è sicuramente presente in altri rituali in cui è provata la presenza dei fanciulli54.
Cerchiamo di ricapitolare. Possiamo distinguere: riti carnevaleschi, come quello veneziano, caratterizzati dall’uccisione di un animale e dalla distribuzione delle sue membra; riti in cui si distribuiscono le spoglie di un animale; riti di linciaggio in cui il cadavere del nemico è spartito e distribuito; riti di giustizia veri e propri, infine, che, come è noto, prevedevano uno smembramento. Nessuno di questi rituali può essere fatto corrispondere



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interamente all'anatomia di teatro, con la parziale eccezione del primo che, come vedremo, apparteneva ad una categoria più vasta. Tuttavia, nella vita rituale della prima età moderna, un rito carnevalesco la cui corrispondenza con l'anatomia di teatro può dirsi assoluta, esisteva. Si tratta delle cosiddette cerimonie di morte del carnevale, analizzate da Maurizio Bertolotti in un suo libro recente. Se esaminiamo le strutture morfologiche delle due cerimonie ci accorgiamo che esse presentano non la coincidenza parziale di alcuni elementi, ma una coincidenza totale, completa 55.
12. Le cerimonie di morte del carnevale implicavano, innanzitutto, la presenza di un pupazzo che rappresentava il carnevale e, al tempo stesso un essere mitico, o, comunque, un estraneo alla comunità. Giunto in città, il carnevale era accolto come un trionfatore. Ma subito dopo veniva arrestato, con le sue schiere carnevalesche. In alcune varianti della cerimonia (che era diffusa in molte parti d'Europa) riceveva, in prigione, la visita di preti e confortatori, faceva penitenza e confessava le proprie colpe. Successivamente, sempre in pubblico, era eseguita nei suoi confronti la sentenza. Alla morte del carnevale seguiva una distribuzione del corpo tra i presenti, sostituita, in alcuni casi, dalla recita dei cosiddetti «testamenti di carnevale», brevi sketch drammaturgici nei quali il carnevale personificato lasciava in eredità le varie parti del proprio corpo ai presenti. La cerimonia si concludeva con l'annichilimento dell'immaginario cadavere, o con la sua destinazione al fiume.
Come si vede, dunque, le due serie, studiate da un punto di vista morfologico, presentano consistenti analogie. Le due sequenze non possono ovviamente essere fatte coincidere in modo esatto. Ciò a causa delle innumerevoli varianti locali che caratterizzavano lo svolgimento delle anatomie di teatro come delle cerimonie di morte del carnevale. A questo proposito è stata avanzata l’ipotesi che ad un tipo di classificazione monotetica, basata appunto su di una coincidenza assoluta degli elementi morfologici, si debba sostituire un tipo di classificazione politetica, nella quale si abbia solo una coincidenza parziale delle serie. La differenza tra l'uno e l’altro tipo di classificazione sarebbe nulla dal punto di vista scientifico, rilevante, semmai, sul piano di un maggiore o minore appagamento estetico56.
D'altra parte disponiamo, mi pare, nel caso del rapporto tra anatomia e morte del carnevale, di almeno due prove capitali,



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collegate a due momenti chiave della cerimonia: la dissezione e la processione per le strade cittadine, con l'accompagnamento del corpo sotto la doppia tutela degli studenti e dei confortatori. Entrambi questi elementi sono presenti sia nelle dissezioni di teatro che nelle cerimonie di morte del carnevale.
Per il primo punto, Bertolotti riporta la pagina barocca di un folklorista meridionale, che aveva osservato sul campo la scena, e che poi la descrisse in questi termini:
... un chirurgo da quattro il mazzo. . . salito sopra un tavolo, immergca il bistuii nell'epa croia di un Mastro Adamo, cinquanta volte più idropico del dantesco, e da quella terribile epa estraeva maccheroni e salsicce. Una corrente di popolo alzava grida di giubilo, e dava in urtoni, in calci, in pugni fierissimi, e ne venia ricambiata da un’altra più densa57.
Nel commentare questa scena, svoltasi durante un carnevale ottocentesco, Bertolotti fa una osservazione decisiva, allorché equipara la dissezione alla distribuzione e alla uccisione rituale, compresa quella carnevalesca. Per il secondo punto, si legga questa descrizione relativa al trasporto funebre durante una cerimonia di morte del carnevale, osservata da un allievo di Paolo Toschi:
... Il lungo corteo è aperto da una specie di vessillifero recante un cartellone sul cui fondo nero spicca uno scheletro bianco c scomposto, contraffazione dei severi ammonimenti dipinti sugli stendardi delle confraternite paesane; dietro al cartellone si muove una lunga teoria di maschere d’ambo i sessi, tutte a lutto e in caricaturali atteggiamenti di dolore; viene poi la musica (fisarmonica, mandolino e chitarra) che suona un buffo e triste ritornello ripetuto con monotonia c con seria comicità. Segue infine la bara, con il fantoccio stesovi dentro, e portato a spalla da quattro gallonatissime maschere imponenti nella divisa di cocchieri; poi i dolenti in gr amaglie che strillano come dannati e dietro a loro le maschere che incontrano il corteo per via58.
Certo, c’è una differenza fondamentale tra le cerimonie di morte del carnevale e le anatomie. Nel primo caso la vittima è solo un simulacro. Nel secondo, invece, si tratta di una vittima reale. Si può chiamare in causa, per illustrare questo cambiamento, il concetto di sostituzione: la sostituzione di vittime animali con vittime umane (e l’operazione inversa) è tipica di numerose esperienze sacrificali. Come è stato scritto:
In uno studio generale sul sacrificio non c’è alcun motivo di separare le vittime umane dalle vittime animali59.
Fin qui saremmo solo a livello di luoghi comuni, non suffra-



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gati da alcuna prova. Ma le esecuzioni in tempo di carnevale non sono affatto, in epoca moderna, una rarità. Fino ad anni relativamente recenti, a Roma, il giovedì grasso, veniva ucciso un condannato a morte. Questo destino di vittima carnevalesca, secondo Toschi, toccò anche a Giordano Bruno, bruciato sul Campo dei Fiori il giovedì di carnevale dell’anno 1600. Un condannato romano, il 18 marzo 1719, viene portato al patibolo in compagnia di due strane figure: «due mascherati con maschere di trac-cagnino, et abito da Pulcinella inferraiolate, con girelle e corde per tirarlo sopra il patibolo se bisognava»60.
In una esecuzione francese settecentesca, ricordata da Foucault, l’inversione è di segno opposto e speculare: mentre viene condotto al patibolo il vero condannato, gli spettatori popolari si fabbricano un pupazzo, e mimano, con questo, la scena dell’esecuzione61.
La presenza delle confraternite in questi riti di carnevale è un altro dato degno di nota. Associazioni tipicamente religiose, coinvolte nella vita devota, le confraternite della morte trovarono facilmente una loro collocazione nel carnevale. Questa attenzione per le ritualità carnevalesche e per le maschere fu una caratteristica, innanzitutto, della cultura gesuitica. Ma non bisogna dimenticare che essa arrivava ai gesuiti, probabilmente, da una cultura più antica. I mascheramenti dei confratelli erano evidentemente adatti più di quanto si creda ad essere utilizzati durante il carnevale. Non a caso, si vedevano sfilare confraternite di penitenti, vere e false, nei carnevali. Goethe stesso osserva, nel resoconto del suo viaggio in Italia, come i cappucci delle confraternite e gli abiti monacali, così frequenti nelle strade italiane, abbiano qualcosa di carnevalesco, tanto che, aggiunge, «tutto l’anno sembra d’essere a carnevale». A Venezia la sfilata dei flagellanti è segnalata nei Diarii del Sanudo a metà Cinquecento62. Secondo quanto scrive Caro-Baroja, d’altra parte:
. . .ancora nei primi anni del secolo esisteva... una confraternita delle anime dei defunti che, alcuni giorni prima del Carnevale, passava di casa in casa per una questua. Il giorno di Carnevale, uno degli accoliti si travestiva da diavolo, indossando un costume giallo, una maschera orripilante sul volto e un paio di corna sul capo. In una mano stringeva una enorme nacchera; nell’altra un bastone nodoso. In tal guisa, andava di casa in casa anch’egli chiedendo offerte e terrorizzando i bambini. Quindi entrava in chiesa disturbando la sacra funzione, scimmiottando il celebrante e battendo le donne.
La stessa confraternita organizzava una questua, durante il carnevale, per le anime dei defunti. Negli stessi giorni essa dete-



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neva anche il controllo delle prigioni, e poteva incarcerare per burla gli abitanti della città (Carboneras, nella provincia di Cuen-ca), ottenendo somme di denaro come riscatto, che erano utilizzate per far dire messe da morto. In questo tipo di celebrazioni era evidente una triplice equivalenza: le maschere dei confratelli erano analoghe a maschere di carnevale, e, al tempo stesso, simboleggiavano le stesse anime dei morti. Ne deriva una prova indiretta alla tesi formulata da Meuli e ripresa da Toschi che le maschere di carnevale siano, in realtà, rappresentazioni dei morti. La compresenza di rituali fanciulleschi e di attività di confraternite è propria anche di uno dei molti riti di carnevale che avevano al centro l'uccisione di un gallo descritti da Caro-Baroja, particolarmente dei più complessi e meglio documentati di questi riti, quelli che si svolgevano nella provincia di Burgos. Secondo il folklorista spagnolo:
Alla vigilia del giorno di San Biagio, i ragazzi che prendevano parte alla festa facevano la ronda per le strade del villaggio armati di spade c a suon di musica (anticamente il piffero). Alle due del mattino del «santo» si disponevano a «suonar la sveglia» agli affiliati alla confraternita di San Biagio. Quindi, facevano ritorno a casa. Intorno alle nove e mezzo, uscivano un’altra volta, brandendo spade adorne di nastri multicolori e con coccarde sulle impugnature. Ad uno di loro toccava trasportare una pertica della lunghezza di tre metri, cui erano appesi galli, galline e conigli. In formazione percorrevano le strade del villaggio: ad essi si aggregavano il priore e i confratelli di San Biagio e, tutti insieme, si dirigevano verso il Palazzo Comunale. Da qui, guidati dalle autorità municipali, salivano verso il piccolo eremo di San Biagio. . ., dove veniva celebrata la messa c il sermone solenne.
Questa era solo la prima parte di un complesso rito carnevalesco di «sacrificio» degli animali (come lo definisce lo stesso Caro-Baroja, pur non accettandone se non in via ipotetica la derivazione dai sacrifici antichi), nel quale, alla fine, nel corso del pomeriggio, venivano coinvolte anche le ragazze del villaggio, incaricate di infliggere ai galli il colpo mortale. Naturalmente, trattandosi di animali commestibili, questi riti si concludevano sempre con un banchetto63.
13. Si potrà dunque ragionevolmente affermare che le cerimonie di morte del carnevale furono lo sfondo o il modello su cui si fondò l’anatomia di teatro (quelle cerimonie sono completamente assenti dal testo di Bachtin). Non si può escludere che sia avvenuto il contrario: forse fu solo dopo aver assistito alle vere dissezioni che si pose mano alle finte. Ma la sostanza non cambia. In ogni caso siamo qui in presenza di due riti paralleli, che gettano luce l'uno sull'altro. Era ad una cerimonia di morte



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del carnevale che gli spettatori popolari si immaginavano di assistere. Attraverso l'uso della cerimonia della morte del carnevale gli spettatori popolari o, quantomeno, gli studenti, esplicitavano una propria percezione della anatomia di teatro. Uno strato profondo di cultura popolare si incontrava qui, ed interagiva, con la nuova sperimentazione scientifica, dando luogo ad una forma singolare di rituale, in cui la scienza trovò una sorta di alveo, o di punto di riferimento, che ne assicurò lo sviluppo. Il rituale, almeno in questa occasione, non contrastò lo sviluppo della scienza, ma costituì una delle premesse del discorso che la scienza veniva imbastendo. Una circostanza apparentemente singolare, ma che si spiega con la natura stessa della scienza anatomica cinquecentesca e, insieme, con certi caratteri che da tempo la riflessione antropologica ha riconosciuto al rituale. L’anatomia, infatti, non si proponeva solo di aggiungere nuovi particolaii all'immagine del corpo umano, ma era caratterizzata da una particolare attrattiva per l’ordine e la classificazione tanto del mondo naturale, quanto, sulla base delle stesse caratteristiche fisiche, di quello umano e sociale. Ora, le stesse funzioni di ordine e di classificazione sono state spesso ritrovate dall’antropologia nell'analisi del rituale. Non deve stupire, perciò, che scienza e rituale trovassero un loro terreno di incontro, che si riconoscessero, in qualche misura, profondamente simili. Certo, il rituale dice le stesse cose della scienza ma le dice in una forma che è comunque più chiusa, statica, conservativa. Il tempo del rituale è percepito come un tempo ciclico, tipicamente festivo, che torna continuamente su se stesso. Il tempo della scienza è percepito, al contrario, come lineare, dinamico, costruttivo: è il tempo della ricerca e della scoperta, che nei teatri non mancava. Il fascino oscuro dell'anatomia di teatro è dovuto proprio alla sua natura di forma di passaggio: al suo carattere duplice ed ambiguo64.
14. Recentemente si è fatta più frequente la tendenza ad accostare, per analogia, il sistema delle condanne a morte nel Rinascimento ai sacrifici antichi. Questo sfondo sacrificale era stato delineato, per quel che riguardava il diritto penale romano, da Mommsen; per l’età moderna da studiosi come Saxl o Wind (quest’ultimo si ricollega direttamente al Nietzsche della Genealogia della morale). Nel caso dell’anatomia di teatro, un legame con il sacrificio è stato ipotizzato da Martinotti65. Non stupirà a questo punto la dichiarazione di Vesalio, contenuta nell’epistola dedicatoria della Fabrica a Carlo V, secondo la quale i procedi-



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Confezione generate de Garneuale.
Al nome fia de quel giorno tr iomphale Io mi confeffo al martire gloriofo A fan Gallo che pan tanto male Per dare a noi la pace con ripofo Per merito gli fu canato late • Allo honorato pane fan Golofo Alla fpofa Tua madonna Gallina Che martire con lui fu in la cocchia
^toceffo e Confezione oe! fqnaquaran te CarneuaeL
Figura 1. La morte del carnevale in una incisione cinquecentesca (Biblioteca Nazionale di Firenze, E. 6. 5. 3. 1, n. 5).
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menti sacrificali di apertura dei cadaveri praticati da popoli come i Traci o i Persiani potevano costituire una sorta di precedente dell'anatomia. In una delle miniature che decorano gli incipit della seconda edizione, quella del 1555, della Fabrica, l'immagine dell’anatomia come sacrificio è invece suggerita dal ricorso al mito di Marsia (si vede, in questo incipit, Apollo che toglie la pelle al pastore che l'aveva sfidato, svolgimento particolare di un tema tipico dell'incisione cinquecentesca)66.
I due saggi di Wind e Saxl, pur essendo usciti a distanza di tempo estremamente ravvicinata, e nell’ambito dello stesso filone di ricerca (quello del Warburg), affrontano il tema da due angolature diverse: non si può confondere infatti quella che è solo una suggestione culturale, sia pure estremamente diffusa e ricorrente (come quella analizzata da Saxl sulla scorta di una serie di testimonianze essenzialmente, ma non solo, di tipo figurativo), con le pratiche reali della giustizia studiate da Wind.
L'uso del metodo morfologico rivela qui tutta la sua efficacia, mi pare, nel senso che ci consente di fondare l'ipotesi di un collegamento tra anatomia, sacrificio e condanne a morte non su di una mera analogia, ma su fatti rilevati dal folklore, e diffusi in modo tanto capillare da non lasciare dubbi sulla loro realtà. Una incisione cinquecentesca (fig.l) mostra con esattezza l'omogeneità della struttura morfologica delle cerimonie di giustizia e di quelle di morte del carnevale: ci fa vedere come le cerimonie di morte del carnevale venissero concepite, o immaginate, proprio come esecuzioni, nelle quali comparivano il boia e le confraternite 67.
Luigi Lazzerini Istituto Universitario Europeo, Firenze
NOTE AL TESTO
1 Per uno sguardo d’insieme sulla anatomia di teatro cfr. G. Ferrari, Public anatomy lessons and thè carnivai: thè anatomie theatre of Bologna, in «Past and Present», CXVII (novembre 1978), pp. 50-116. In particolare v. p. 55 e p. 55 nota; p. 97 e p. 97 nota (con bibliografia); pp. 93-105 (per il rapporto tra l'anatomia e il carnevale); p. 99 e p. 99 nota (per la proibizione di andare all'anatomia mascherati).
2 R. Darnton, Il grande massacro dei gatti ed altri episodi della storia culturale francese, trad. it. Milano 1978, p. 15. È stato Darnton, fra gli altri, ad aver di nuovo richiamato l’attenzione su ciò che egli definisce «il truce folclore dei contadini e i violenti riti degli artigiani», i quali sembrano appartenere, scrive, «ad un mondo che oggi appare impensabile» (p. 134).
3 Ferrari, Public anatomy lessons cit., p. 95 (a proposito del valore moralistico dell’anatomia) e p. 96 (per la collocazione invernale). Alcune interessanti osser-



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vazioni sulla natura delle dissezioni teatrali padovane sono state compiute da G. Cosmacini in un articolo divulgativo apparso sul «Corriere della sera» del 7 luglio 1992, p. 26, dal titolo Un teatro per il più famoso dei chirurghi: Cosmacini (di cui non ho presente, al momento, le fonti) sostiene che l'anatomia, a Padova, si pratica in quaresima, per i motivi di carattere moralistico cui accenno. Ma la documentazione pisana contraddice questa ipotesi, almeno per quel che riguarda la città toscana. A questo proposito sono da considerarsi fondamentali le notizie circa l’effettivo svolgimento dei rituali di giustizia nell'Italia moderna contenute negli archivi delle compagnie che assistevano i condannati a morte (sulle quali: A. Prosperi, Il sangue e l'anima. Ricerche sulle compagnie di giustizia in Italia in «Quaderni storici», n.s., LI (dicembre 1982), pp. 959-999). L’archivio della confraternita di giustizia pisana (Archivio di Stato di Firenze, d’ora in poi ASF, Compagnie religiose soppresse, 2548-2553, Diocesi di Pisa, F XXXVI, Fraternità, particolarmente i nn. 3-7 del fondo, che contrassegnano i Partiti e Ricordi dal 1548 al 1720) contiene la notizia di tutte le condanne a morte pisane dal XVI secolo in poi, comprese quelle, piuttosto numerose, che si conclusero con la sezione pubblica del cadavere.
4 Ferrari, Public anatomy lessons cit., pp. 102 ss. per l’interpretazione rabe-laisiana della Ferrari: «Baktin remakes provide thè only adequate framework within which to account for complex and widespread behaviour such as 'carnevalized' or at least festive enjoyment and pcrception of public anatomy». Il riferimento è qui a M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, trad. it. Torino 1979.
5 Su Andrea Vcsalio cfr. l’insuperata biografia di C. D. O’Malley, Andreas Ve-salius of Brussels 1514-1564, Bcrkley-Los Angeles 1964; v. in particolare le pp. 199-203 per il soggiorno pisano di Vcsalio. Sullo stesso soggiorno v. anche: A. Corsini, Andrea Vesalio nello Studio di Pisa, Siena 1915; A. Taddei, La località ove Andrea Vesalio tenne in Pisa la sua lezione di anatomia, in «Bollettino dell’Istituto Italiano di Arte Sanitaria», II (1931), pp. 66-170; G. Del Guerra, A proposito della località ove Andrea Vesalio tenne in Pisa la sua lezione di anatomia, ivi, pp. 262263; Id., Le giornate pisane di Andrea Vesalio, in «Scientia Veterum», II (1954), pp. 5-8. Vesalio stesso fornì alcune notizie a proposito del suo soggiorno pisano in una sua piccola, celebre opera: VEpistola rationem modumque propinandi radici Chinae decocti quo nuper invictissimus Carolus V. imperator usus est pertrac-tans..., Basilac (ex officina Ioannis Oporini) 1546.
6 Paracelso, Paragrano, trad. it. Bari 1984, p. ll:»Così Galeno insegna ai suoi scolari a nutrirsi dei morti e della gente mandata in malora».
7 L'Italia alla fine del secolo XVI. Giornale di viaggio di Michele de Montaigne in Italia nel 1580 e 1581, a cura di A. D’Ancona, Città di Castello 1889, pp. 478-479. Bisogna aggiungere che secondo D’Ancona caratteristiche simili le aveva anche il cimitero degli Innocenti di Parigi, altro luogo frequentato dal Vesalio cacciatore di cadaveri: cfr. O’Malley, Andreas Vesalius cit., pp. 59-60.
8 C. Galeno, Anatomicae admnistrationes, I, 221 (trad. it. Procedimenti anatomici, a cura di I. Garofalo, Milano 1991, p. 87).
9 II rifornimento di cadaveri: lettera di Marzio dc’Marzii, vescovo di Marsico, a Pier Francesco Riccio del 22 gennaio 1544 in Corsini, Andrea Vesalio cit., p. 5. La scarsezza dei corpi: lettera del 30 gennaio 1544, sempre al Riccio, di Umilio Riccobaldi (ivi, pp. 5-6). La fanciulla rapita al cimitero: Vesalio, Epistola cit., pp. MOKI.
10 Vesalio, Epistola cit., pp. 173-175.
11 L’attrattiva dei pisani per le anatomie di Vcsalio: lettera di Umilio Riccobaldi ci Pier Francesco Riccio del 30 gennaio 1544 in Corsini, Andrea Vesalio cit., pp. 5-
6. La presenza ipotizzata di Cosimo e lo spettatore che cadde nel teatro: lettera



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dell’11 febbraio 1544, sempre del Riccobaldi, al Riccio in Corsini, Andrea Vesalio, cit., p. 6; O’Malley, Andreas Vesalius cit., p. 451 nota, suppone che potesse trattarsi del chirurgo Carlo Cortesi.
12 II rifiuto di Vesalio a rimanere a Pisa: A. Corsini, Nuovi documenti riguardanti Andrea Vesalio e Realdo Colombo nello Studio pisano, Siena 1918. Per ciò che concerne la funzione anatomica pisana, cfr. la descrizione fornita da G. Targio-ni-Tozzctti nella sua Selva di notizie spettanti all’origine dei progressi e miglioramenti delle scienze fisiche in Toscana, ms. conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, 17 voli.; v. voi. VI, cc. 349-350: «La memoria del gran Cosimo sarà sempre gloriosa presso tutti gli studiosi di Medicina, se non altro p(er) aver con speciale premura istituita la Cattedra di Anatomia nella sua Università di Pisa, ed averla sempre provvista dei più valenti Anatomici che fossero in quei tempi, e che ne sono stati solenni maestri. Oltre alle Lezioni ordinarie di Cattedra ed alle giornaliere ostensioni, egli saggiamente dispose che ogni anno nelle vacanze del Carnevale, il Lettore di Notomia facesse una metodica e continuata lezione sul Cadavere d’un qualche condannato a pena Capitale, che perciò condannato dal Carnefice sotto la volta accanto al Palazzo del Commissario di Pisa era subito consegnato agli Scolali di Medicina, che lo portavano in Sapienza, dove regolarmente per dodici giorni di continuo era a poco a poco notomizzato.. .». Sulla scuola anatomica pisana, dello stesso Targioni-Tozzetti, v. anche: Notizie degli aggrandimenti delle scienze fisiche accaduti in Toscana nel corso di anni LX del secolo XVII, 3 tomi, Firenze 1780. Il teatro, che già nel Settecento appariva malsano (Targioni-Tozzet-ti, Selva ms., cit., voi. VI, pp. 377-379), venne alla fine smantellato e messo in vendita: cfr. Archivio di Stato di Pisa (d’ora in poi ASP), Università, II versamento, sez. G, n. 76: Repertorio delle cose più rimarcabili dell’Università e Tribunale dello Studio, a c. 90r. Il progetto di edificarne un altro (ivi, c. 266r) fu, alla fine, abbandonato.
13 Sulle vacanze invernali pisane del duca e della sua famiglia cfr., ad esempio, Targioni-Tozzetti, Notizie cit., Ili, p. 123. Una descrizione del Gioco del Ponte, e del suo contesto (che era, poi, un contesto carnevalesco) in W. Heywood, Palio e Ponte. Gli sports dell’Italia Centrale dai tempi di Dante al Ventesimo secolo, Siena 1904 (ristampa, a c. di Alessandro Falaschi, da cui cito, Palermo 1981): sotto questo titolo si nasconde la pregevole opera di un serio studioso inglese di cose folklori-che. Per il Ponte v. in particolare le pp. 109-160 (naturalmente, c’è una letteratura infinita, e di disegualc valore, attorno a questo gioco). Ciò che mi premeva qui di sottolineare, sulla scorta del testo di Heywood, era la collocazione carnevalesca del Gioco, la cui data principale era, in origine, quella del 17 gennaio (cfr. Palio e Ponte cit., p. 113: come è noto, l’oplomachia pisana, o quel che ne resta, si fa combattere, oggi, di giugno, quindi assolutamente fuori stagione), la partecipazione popolare (ivi, pp. 130-131), il clima generale di violenza che il gioco contribuiva ad instaurare (ivi, pp. 154-155). Per la partecipazione alla violenza di gruppi immunitari: A. Segré, La Giustizia in Pisa dal Cinquecento al Settecento incluso, Pisa 1905. Sugli spettacoli teatrali: Id., Il Teatro pubblico in Pisa nel Seicento e nel Settecento, Pisa 1902. I tumulti studenteschi: A. Fabroni, Historia Academiae pisanae, Pi-sis (excudebat C. Magnainius) 1791-1795, 3 voli.; v. voi. II, p. 46 e la nota alle pp. 46-47. Il re del caincvale: Fabroni, Historia cit., voi. I, p. 101.
14 G. Claro, Opera omnia sive practica civilis atque criminalis, Venetiae (apud Baretium Baretium) 1640, lib. V, Qaestio C, fin., «De cadavcribus damnato-rum», pp. 715-716.
15 A. Vesalio, De humani corporis fabrica, Basilae (ex officina Ioannis Opori-ni) 1543, p. 650: cfr. O’Malley, Andreas Vesalius cit. pp. 112-113 c p. 436 nota; R. Colombo, De re anatomica (cito dall’edizione di Parigi del 1572, apud Andrcam



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Wechclum), lib. XIV, p. 472. Per gli esperimenti dal vivo effettuati in Toscana: Tar-gioni-Tozzetti, Selva ms., cit., voi. VI, pr. LXXVIII, a cc. 192-194.
16 Statuta almi Pisani Studii sumpta ex originalibus per tne lulianum Lu-pium, I.U.D. et Cancellarium dicti Studii, die 21 scp. 1621 stile fiorentino, ms. conservato presso la Biblioteca Universitaria di Pisa, Cap. L, «De anatomia singulis annis facicnda», a cc. 45-46 (documento pubblicato in Fabroni, Historia cit., voi. II, pp. 73 nota - 74 nota), v. c. 45r. L'ordine di un «suggetto di maschio» per l'anatomia: ASP, Università, II versamento, Scz. G, n° 3, Filza di negozzj e ordini, n. 1, dal 1575 al 1655, a c. 89. L’arrivo di «Lorenzo di Mariotto, detto Buco»: ivi, a c. 95. La proposta del bargello di Borgo San Sepolcro: ASF, Otto di Guardia e di Balia, n. 204, Partiti degli Ill.mi Otto dal primo di Novembre 1599 Dicembre Gennaio per tutto Febbraio, a c. 201. Per la proibizione dell’anatomia sui corpi di cittadini pisani o fiorentini: Statuta almi Pisani Studii ms., cit., cap. «L», c. 45v : «quod Anatomia fieri non possit de Corpore alicuius Civis fiorentini et pisani...».
17 Per la pratica dell'anatomia su illustri personaggi cfr. Colombo, De re anatomica cit., p. 492: dove l’anatomista dà il resoconto della dissezione, da lui effettuata nello Studio di Roma, di ben tre cardinali: il bresciano Gambata, il Cibo e il ferrarese Antonio Musa Brasavolo. Per il Mcucci: ASP, Università, II versamento, sez. G, n. 3, Filza di Negozzj e ordini, n. 1, dal 1575 al 1655, a c. 500 (lettera in data 18 gennaio 1643); ASF, Compagnie religiose soppresse, 2548, Diocesi di Pisa, F XXXVI, Fraternità, n. 6, Partiti e Ricordi dal 1621 al 1649, a c. 92r.
18 ASF, Compagnie religiose soppresse, 2548, Diocesi di Pisa, F XXXVI, Fraternità, n. 7, Partiti e Ricordi dal 1652 al 1720, a c. Iv.
19 Per gli elenchi dei giustiziati cfr. la nota n. 3 del presente articolo. Ho in parte pubblicato gli stessi elenchi nella mia tesi di laurea, La confraternita della morte di Pisa (sec. XIV-XVIII), rei. prof. Adriano Prosperi, Università di Pisa, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1989-1990. Per la discussione giuridica sulla condizione sociale degli anatomizzati: Claro, Opera omnia cit., lib. V, fin., Quaestio «C», p. 716 nota «b». Ferrari, Public anatomy lessons cit., p. 104 (per il valore del corpo femminile). Santa: Colombo, De re anatomica cit., p. 111.
20 P. Burke, Scene di vita quotidiana nell'Italia moderna, trad. it. Bari 1987, p. 230.
21 Sul «conforto», come attività specifica cui si dedicavano le compagnie di giustizia: Prosperi, Il sangue e l'anima, cit.; G. Romeo, Aspettando il boia. Condannati a morte, confortatori e inquisitori nella Napoli della Controriforma, Firenze 1993; V. Paglia, La morte confortata, Riti della paura e mentalità religiosa a Roma nell'età moderna, Roma 1982.
22 ASF, Compagnie religiose soppresse, 2548, Diocesi di Pisa, F XXXVI, Fraternità, n. 3, Partiti e Ricordi dal 1548 al 1575, a c. 25r. Cfr. O. Niccoli, Compagnie di bambini nell’Italia del Rinascimento, in «Rivista storica italiana», CI (maggio 1989), pp. 346-374; v. in particolare pp. 351-356.
23 Ivi, n. 6, Partiti e Ricordi dal 1621 al 1649, a cc. 11-13.
24 Ivi, a cc. 25v-26v .
25 II divieto di versare il sangue: ivi, n. 6, Partiti e Ricordi dal 1621 al 1649, a c. 92v. Per quanto riguarda la processione, le indicazioni dei documenti non sono univoche: Targioni-Tozzetti (Selva ms., cit., voi. VI, c. 351) parla di un trasporto effettuato dagli studenti. Nelle carte della compagnia si legge invece di un trasporto effettuato dagli stessi confratelli: cfr. il conforto, in data 10 gennaio 1639, di Gua-sparri da Castronovo di Romagna: ASF, Compagnie religiose soppresse, 2548, Diocesi di Pisa, F XXXVI Fraternità, n. 6, Partiti e Ricordi dal 1621 al 1649, a c. 91v: «... da medesimi confratelli portato il suo corpo al Teatro della notomia». Ho ipotizzato che il trasporto venisse effettuato da studenti c confortatori insieme, ma



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senza averne assoluta certezza. A proposito della disposizione degli edifici menzionati in questo saggio cfr. AA.W., Pisa. Iconografia a stampa dal XV al XVIII secolo, Pisa 1991.
26 Per una descrizione precisa delle feste del Decollato con tutte le modalità che ho descritto: cfr. ASF, Compagnie religiose soppresse, 2553, Diocesi di Pisa, F XXXVI, Fraternità, n. 38, Vacchetta di spese per i condannati a morte 1752-1763, cc. 91v-92r. (Con modalità in paite diverse, la festa fu celebrata in compagnia dal Quattrocento al Settecento).
27 Guido Guidi (Vidus Vidii), De anatome corporis humani, Vcnctiis (apud luntas) 1611 (il volume fu pubblicato postumo dal figlio: Guido, infatti, muore nel 1558). Guido venne assunto nel 1542 come archiatra dal re di Francia Francesco I, per consiglio, pare, di Luigi Alamanni. In quegli stessi anni si trovava a Parigi Celli-ni (altro membro illustre della colonia fiorentina) con cui Guido strinse amicizia. Nel 1547, dopo la morte del re francese suo protettore, Guido tornò in Italia, ed ottenne immediatamente la cattedra di Pisa. Il De anatome si apre con un «Liber primus qui est de communibus totius anatomes», pp. 1-15.
28 II tipo di teatro: ivi, lib. I, cap. Vili, «De Lumine, Loco ac Scanno idoneo ad Anatomen» (pp. 12-13).
29 L’anatomista e i suoi assistenti: ivi, lib. I, cap. V, pp. 5-6: «Qualcm oportet esse medicum, qui Anatomen profitetur, et quales ministros».
30 Sulla incisione iniziale del De humani corporis fabrica: O’Malley, Andreas Vesalius cit., pp. 139ss.; The illustrations from thè works of Andreas Vesalius of Brusselles, a cura di J. B.dec. M. Saunders c C. D. O’Malley, New-York 1973 ricostruisce la vicenda dei disegni preparatori del frontespizio. Saturno: E. Panofsky, Studies in Iconology. Humanist Themes in thè Art of Renaissance, New-York and Evanston 1962, cap. Ili, «Father Time», pp. 69-94. Il «ne larvas pertimescant»: Guidi, De anatome cit., p. 6. Per la questione della bollitura, che è molto complessa, occoiTe ricordare che proprio la proibizione generale della bollitura del cadavere, stabilita da Bonifacio Vili con bolle del 1299 e del 1301, fu a lungo scambiata come una proibizione della stessa anatomia: v. A. Corradi, Dello studio e deir insegnamento dell’anatomia in Italia nel medioevo e in parte del Cinquecento, Padova 1873, pp. 41 ss. La bollitura era, in realtà, un elemento caratteristico dell’immaginario del sabba: cfr. C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino 1989, p. 232 (ad esempio).
31 L’ordine da seguire nella sezione: Guidi, De anatome cit., lib. I, cap. IX, «Quo ordine persequi oporteat quae tractanda sunt in Anatome», pp. 14-15; Statu-ta almi Pisani Studii ms., cit., a c. 46r. L’assistenza da parte degli studenti anziani che dovevano evitare il tumulto: ivi, a c. 45v. L’annotazione di Targioni-Tozzetti: cfr. la nota 11 del presente articolo.
32 Statuta almi Pisani Studii ms., cit., a c. 45v .
33 Le tre categorie (medici, filosofi, artisti), a cui interessa l'anatomia: Guidi, De anatome, cit., lib. I, cap. I, pp. 1-2 «inspectio vero partium singularium, quam finem Anatomes posuimus, non modo pertinet ad Medicos, sed ad pictores etiam, fictores ac puilosophos...»; la polemica con gli empirici: ivi, p. 2: «falsarum est empiricorum sententia...». Va segnalato un rifiuto forte degli alchimisti e dei medici empirici verso le dissezioni anatomiche, alle quali essi contrappongono l’anatomia dal vivo, intesa non come vivisezione, ma come esame a vista delle orine c delle feci. Il conflitto tra medici empirici e medicina ufficiale trova insomma nell’anatomia un terreno di scontro. Si tratta di discussioni molto antiche, che muovono dal mondo ellenistico per continuare fino al XVIII secolo: per le origini della polemica cfr. E. Von Staden, Herophilus. The art of medicine in early Alexandria, Cambridge 1989.



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34 Targioni-Tozzetti, Notizie cit., t. Ili, p. 192.
35 Su Vasari: lettera del 6 gennaio 1561, indirizzata da G. Vasari allo spcdalin-go degli Innocenti di Firenze Vincentio Borghini, in G. Vasari, Le opere, a cura di G. Milanesi, Firenze 1906 (anastatica: Firenze 1981), t. Vili, pp. 353-354 (lettera n. 103 dell'epistolario di Vasari): «S'è fatta la notomia dove mi sono trovato a tutta e ho lasssato Iacopino mio che disegni molt’altre cose, che sono necessarie a que' signori medici; che di questo ho bisogno ne discorriamo a suo tempo». Il conflitto di Realdo Colombo con Simone Porzio: R. Colombo, De re anatomica cit., p. 324.
36 ASP, Università, I versamento, n. 229, Quaderno di cassa dello Studio Pisano del Rev.mo Mons. Sommai Proveditore, 31 ottobre 1626: «soldi ventiquattro pagati a Lazzero Muratore provveditore della sepoltura de morti della notomia la quale sepoltura s’è messa nella Chiesa di S.Maria della neve a canto ale stanze di detta anatomia»: questa notizia consente di identificare anche la posizione precisa del teatro anatomico pisano.
37 G. Manara, Notti malinconiche nelle quali con occasione di assistere à condannati à morte si propongono varie difficoltà spettanti a simili materie, Bologna 1658, p. 139.
38 A. Tiraqueau, De nobilitate, et iure primogeniorum, Lugduni 1566, pp. 123-124.
39 G. Plinio Secondo, Naturalis historia, XXVIII, 2 (trad. it. Storia naturale, a c. di G. B. Conte e G. Ranucci, Torino 1986, voi. IV, p. 17).
40 F. M. Guaccio, Compendium maleficarum, Mcdiolani (ex Collegi Ambrosiani Typographia) 1626; trad. it. (da cui cito) Torino 1992, lib. II, cap. II, p. 178.
41 Ivi, p. 179.
42 Plinio, Storia naturale cit., p. 19; Tiraqueau, De nobilitate cit., p. 124; Manara, Notti malinconiche cit., p. 139.
43 Manara, Notti malinconiche cit., p. 138.
44 Ivi, p. 139.
45 C. Ginzburg, Stregoneria e pietà popolare. Note a proposito di un processo modenese del 1519, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», classe di Lettere e Filosofia, serie II, XXX(1961), pp. 269-287 (ristampato ora nella raccolta di saggi Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Torino 1986, pp. 3-28; v. p. 7 di questa raccolta).
46 Vesalio, Fabrica cit., p. 126; cfr. O’Malley, Andreas Vesalius cit., p. 142.
47 A. Cospi, Il giudice criminalista, Firenze 1643, p. 367.
48 Ivi, p. 368.
49 Vasari, Le opere cit., voi. IV, p. 483. Per lo stesso episodio cfr. J. Burc-kardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, trad. it. Firenze 1943, p. 660.
50 Archivio Diocesano di Pisa, Inquisizione, 1580-1584, a cc. 560 ss..
51 Sul metodo morfologico sono da vedere, almeno: Ginzburg, Miti emblemi spie cit., pp. IX-XVI; Id., Storia notturna. Una decifrazione del sabba cit.; M. Ber-tolotti, Carnevale di massa. 1950, Torino 1966; V. Propp, Morfologia della fiaba, trad. it. Torino 1966; Id. Le radici storiche dei racconti di fate, trad. it. Torino 1972; L. Wittgenstein, Note sul ramo di Frazer, trad. it. Milano 1975.
52 Cfr. E. Muir, Civic ritual in Renaissance Venice, Princeton 1981, pp. 162 ss., da cui è tratta anche l’cspressionc «symbolic captives» con cui Muir indica i prigionieri.
53 Per il noto episodio della uccisione rituale di un toro a Roma cfr. M. Vovelle, Scene di caccia in Toscana: il carnevale macabro di Pietro di Cosimo in Immagini e immaginario nella storia: fantasmi e certezze nelle mentalità dal medioevo al Novecento, Roma 1989, pp. 29-37, v. pp. 36-37. La caccia dei tori: E. Mango-Tomei, Gli studenti dell’Università di Pisa sotto il regime granducale, Pisa



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1976, p. 74 (con il rimando a Fabroni, Historia cit., voi. II, Appendice, Sez. Ia-3). Per l’incoronazione bolognese di Carlo V: S. Bertelli, Il corpo del re. Sacralità del potere nell'Europa medioevale e moderna, Firenze 1990, pp. 104ss..
54 Niccoli, Compagnie di bambini cit., pp. 352-353 (con il rimando a L. Landucci, Diario fiorentino dal 1450 al 1516, a cura di I. del Badia, Firenze 1883, p. 21). In un altro caso segnalato dalla Niccoli, quello di Tommaso degli Strozzi (ivi, p. 352) i bambini giocano a palla con le mani mozze del condannato.
55 Bertolotti, Carnevale di massa cit. Il tema delle cerimonie di morte del carnevale (per le quali Bertolotti ha proposto una interpretazione particolare) è un topos della ricerca antropologica sin dai tempi di Frazer. Testi di riferimento fondamentali sull'argomento sono: J. Frazer, The Golden Bough. A study in Magic and Religion, Londra 1915 (ed. abbreviata: Il ramo d'oro. Studio della magia e della religióne, Torino 1950); J. Caro-Baroja, Il carnevale, trad. it. Genova 1989; P. Toschi, Le origini del teatro italiano, Torino 1955.
56 Ginzburg, Storia notturna cit., p. 148.
57 Bertolotti, Carnevale di massa cit., p. 72.
58 Toschi, Le origini cit., pp. 308-309.
59 R. Girard, La violenza e il sacro, trad. it. Milano 1980, p. 24.
60 Toschi, Le origini cit., p. 13. A. Ademollo, Le giustizie a Roma dal 1647 al 1739 e dal 1796 al 1840, in «Archivio della società romana di storia patria», IV (1881), pp. 484-485. L’annotazione che ho riportato è tratta dal Libro di tutte le giustizie eseguite in Roma dall'anno 1647 a tuttto il 1739, tenuto dal P. Ghezzi, membro dell' arciconfraternita degli agonizzanti di Roma (il cui originale è conservato presso la Biblioteca Angelica di Roma).
61 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it. Torino 1976, p. 64.
62 Sulle confraternite di carnevale: N. Zemon-Davis, The Reasons of Misrule: Youth Groups and Charivaris in Sixteenth-Century France, in «Past and Present», L (febbraio 1971), pp. 41-75 (ripubblicato in Le culture del popolo. Sapere, rituali e resistènze nella Francia del Cinquecento, trad. it. Torino 1980, pp. 130-174); E. Le Roy Ladurie, Il Carnevale di Romans, trad. it. Milano 1981, specialmente alle pp. 297-314; C. Faralli, Le missioni dei Gesuiti in Italia (sec. XVI-XVII): problemi di una ricerca in corso in «Bollettino della società di studi valdesi», CXXXVIII (dicembre 1975), pp. 97-116: v. pp. 109 ss. e p. 112 (dove ci si riferisce a C. Ginz-burg, Folklore, magia, religione in Storia d’Italia Einaudi, Torino 1972, voi. I, pp. 603-676, in particolare alla p. 659); J. W. Goethe, Viaggio in Italia, trad. it. Milano 1993, p. 545; Burke, Scene di vita quotidiana, cit., p. 230 (con l’indicazione di Sanudo).
63 Caro-Baroja, Il carnevale cit., pp. 323 ss. (la confraternita delle anime dei defunti) e p. 75 (le corride dei galli di Burgos). L’equivalenza tra anime dei morti e maschere: Toschi, Le origini cit., pp. 166-227 (con il rimando a K. Meuli, Maske, Maskerein, in Handwórterbuch des deutschen Aberglaubens, voi. V (1932-1933), col. 1744 ss.).
64 Sul rapporto tra scienza c rituale: C. Levi-Strauss, Il pensiero selvaggio, trad. it. Milano 1964; M. Douglas, Purezza e pericolo. Un'analisi dei concetti di contaminazione e tabù, trad. it. Bologna 1975. Da un altro punto di vista va segnalata qui la teoria antropologica che vede nel sacrificio una rappresentazione del mito della nascita del mondo dallo smembramento di una sorta di essere mitico originario: cfr. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, trad. it. Torino 1954, p. 359; B. Lincoln, Mith, Cosmos and Society. Indo-European Themas of Creation and Destruction, Cambridge-London 1986. Anche Bachtin non esclude una sop-prawivenza di miti di questo tipo nel carnevale cinquecentesco: cfr. Bachtin, L'o-



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pera di Rabelais cit., p. 386 nota. È da notare come la concezione cosmologica del sacrificio si accompagni ad una idea, quella dell’uomo come «micro-cosmo», che è anch’essa fortemente presente nella scienza anatomica cinquecentesca: indicazioni a questo proposito potrebbero essere fornite dall’operetta dell’anatomista Fabrizio Bartolctti d’Acquapendente intitolata appunto Anatomica humani microcosmi de-scriptio per theses disposita ex clarissimo Amphiteatro Pisano proposita, Bononiae (tipys Sebastiani Bonomi) 1619. L'autore della voce «Fabrizio Bartoletti» sul Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1964 mette erroneamente questo libro, del quale una copia è conservata presso la National Library of Medicine, Bcthesda, Di-strict of Columbia, USA, in un elenco di opere del Bartoletti «non reperibili, e quindi non controllabili e come tali di dubbia esistenza»: non ho potuto, tuttavia, per il momento, prendere visione di questo esemplare americano del volume.
65 G. Martinotti (L’insegnamento dell’anatomia in Bologna prima del secolo XIX, Bologna 1911) non parla esplicitamente di sacrificio, a proposito dell’anatomia; ma, come esempio del paganesimo dell’epoca (che avrebbe ingenerato un nuovo senso della morte), sente il bisogno di discutere a lungo l'episodio romano del sacrificio del toro del 1522 (cfr. p. 107 e la nota alle pp. 107-108). Per una discussione recente sulla teoria di Mommsen (a proposito della «securi percussio»: un particolare tipo di esecuzione romana fatta con la scure, per la quale esistono testimonianze medioevali pisane) cfr. E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, Milano 1991, pp. 153-167 (con il rimando a T. Mommsen, Le droit penai roman in T. Mommsen-J. Marquardt-P. Kruger, Manuel des antiquités romaines, voli. 17-18-19, Paris 1907, voi. Ili, pp. 234 ss. e pp. 252 ss.). E. Wind, The Crimi-nal-God in «Journal of thè Warburg Institute» I (1937-1938), pp. 243-245. F. Saxl, Pagan sacrifìce in thè Italian Renaissance, in «Journal of thè Warburg Institute», II (1939), pp. 346-367. /
66 Vesalio, Fabrica cit., f. 2v : «id quod tamen hodie apud Indios maxime re-ges exercent, Persae haereditario iure suis liberis ... Thraccs cum plerisque nationi-bus summè colunt, ac venerantur»: ci si riferisce qui all’anatomia, di cui Vesalio delinca uno sfondo sacrificale, con richiami alle popolazioni barbare per antonomasia come i Traci c i Persiani, secondo un giro di frase destinato a passare di peso nella cultura universitaria pisana (ripete l’affermazione Fabroni: cfr. Historia cit., voi. II, pp. 71 ss.: «Chaldei quidem, Persae, Poeni soliti, ut ait Ennius, mactare superis liberos suis...». Per Vincipit con Marsia cfr. O’Malley, Andreas Vesalius cit., p. 273.
67 BNF, E. 6, 5, 3, 1 n. 5; cfr. C. Angeleri, Bibliografìa delle stampe popolari a carattere profano dei secoli XVI-XVII, conservate presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, Firenze 1953, p. 32. Il testo che l'accompagna, Processo e Confessione del squaquarante Carneval è stato edito da P. Camporesi in La maschera di Bertoldo, Milano 1993 (nuova edizione), pp. 330-32. Per un'analisi comparativa di questo ed altri testi simili, cfr. ivi, pp. 246 ss.