L'INQUISIZIONE ROMANA E LA CRIMINALIZZAZIONE DEL DISSENSO RELIGIOSO A VENEZIA ALL'INIZIO DELL'ETÀ MODERNA

Item

Title
L'INQUISIZIONE ROMANA E LA CRIMINALIZZAZIONE DEL DISSENSO RELIGIOSO A VENEZIA ALL'INIZIO DELL'ETÀ MODERNA
Creator
John Martin
Marina Bocconcelli
Date Issued
1987-12-01
Is Part Of
Quaderni Storici
volume
22
issue
66 (3)
page start
777
page end
802
Publisher
Società editrice Il Mulino
Language
ita
Format
pdf
Relation
Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
Rights
Quaderni storici © 1987 Società editrice Il Mulino S.p.A.
Source
https://web.archive.org/web/20230921065519/https://www.jstor.org/stable/43778042?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxOSwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjQ1MH19&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Ae7acfa35b7935c33e3f72676f52ea9a1
Subject
surveillance
discipline
panopticon
exclusion (of individuals and groups)
extracted text
L'INQUISIZIONE ROMANA E LA CRIMINALIZZAZIONE DEL DISSENSO RELIGIOSO A VENEZIA ALL'INIZIO DELL'ETÀ MODERNA
Fu nell’ottobre del 1566, quasi ventanni dopo l’istituzione di un tribunale locale dell’Inquisizione romana a Venezia, che lo stato veneziano - per lungo tempo contrario a fare della repressione dell’eresia una questione speciale - acconsentì infine a infliggere una pena in pubblico. Così, la mattina di una domenica d’autunno, un certo Zuangiacomo Mocaiati, un ambulante veneziano di cinquantaquattro anni che si guadagnava da vivere vendendo velade, libri illustrati, coltelli e articoli di vario genere a Rialto, fu costretto a stare in piedi davanti alla chiesa parrocchiale di San Geminiano, con indosso una tunica da penitente e una candela accesa tra le mani. Secondo l’opinione del Nunzio apostolico Giovanni Facchinetti, che aveva insistito per l’applicazione di questa pena, era questo il luogo ideale. La chiesa (che oggi non c’è più) si affacciava su piazza San Marco, centro rituale della città, dove era facile richiamare una folla numerosa. «[Q]uesta penitentia», scrisse Facchinetti dopo aver appreso che il governo della Repubblica aveva dato la propria approvazione al pubblico rituale «sarà freno et terrore a gli altri», ma, per accertarsene, decise di mandarvi dei colleghi del Sant’Uffizio «che osserveranno diligentemente i moti, i gesti, i cenni et le parole di coloro che andaranno a veder questo spettacolo» ^
Le aspettative di Facchinetti non furono deluse. «[Q]uesta dimostrazione», osservò qualche giorno dopo nella sua corrispondenza ufficiale, «fu di grand’edificatione ché il popolo tutto di commun consenso gridava che si dovesse abbruggiare et lapidare» 2. Tale reazione non deve esser stata, tuttavia, molto diversa da quella prevista dal Nunzio, poiché nella Venezia del XVI se-
* Traduzione dall’inglese di Marina Bocconcelli
QUADERNI STORICI 66 / a. XXII, n. 3, dicembre 1987



778
John Martin
colo non costituiva una novità la disapprovazione popolare nei confronti del dissenso religioso. Già nel 1530-40, per esempio, mentre le nuove idee religiose del secolo della Riforma stavano cominciando ad avere un seguito popolare in città, i vicini di un certo Antonio, un falegname che non nascondeva il suo scetticismo nei confronti delle tradizionali dottrine cattoliche dell’intercessione dei santi e della necessità di rendere la propria confessione a un sacerdote, si erano più volte schierati contro le idee di quest'uomo le cui opinioni e la cui condotta risultavano moleste e provocatorie 3. L'elemento nuovo fu, però, la capacità di Facchinetti, tramite l'Inquisizione e i suoi atti ufficiali, di incanalare e esarcebare l'animosità popolare al servizio degli interessi di Roma nella sua battaglia contro l'eterodossia. Gli eretici, denunciò in un discorso al cospetto del Collegio veneziano, erano i «nemici occulti» dello stato, e Venezia, aggiunse, in quanto repubblica, era particolarmente vulnerabile. Le naturali difese della città non sarebbero bastate a proteggerla, «se l'eresia, che Dio non voglia, si fosse propagata al suo interno e il popolo si fosse diviso in fazioni avverse» 4. Per questo Facchinetti fu rinfrancato dall'ostilità popolare risvegliata dalla punizione inflitta pubblicamente a Zuangiacomo Mocaiati, al punto di credere (ma si sbagliava) che la favorevole reazione popolare avrebbe indotto il governo della Repubblica ad optare per l'esecuzione pubblica degli eretici, abbandonando la pratica dell'annegamento segreto dei dissidenti a cui si era affidato fino a quel momento 5.
Alla luce di questa testimonianza, si sarebbe tentati di considerare Venezia nel XVI secolo una città che aveva raggiunto un certo livello di consenso sulle questioni religiose - un luogo in cui i confini tra ortodossia e eterodossia erano sufficientemente netti e dove, di conseguenza, era possibile definire eretiche, quando non criminali, certe forme di credenze e pratiche religiose 6. Facchinetti, in sostanza, parlava di un «comune consenso» che condannava gli eretici, apparentemente anticipando la classica definizione data da Durkheim dell'atto criminale. «Il ne faut pas dire qu'un acte froisse la conscience commune parce qu'il est criminel», obiettava Durkheim, «mais qu'il est criminel parce qu'il froisse la conscience commune» 7. Indubbiamente la reazione dei vicini di Antonio e i motteggi ostili che accompagnarono la punizione pubblica di Zuangiacomo comunicano l'impressione di una «conscience commune» (o del «comune consenso» osservato da Facchinetti), scandalizzata dalla condotta dei dissidenti religiosi. E sono precisamente tali esempi a spingere lo sto-



Inquisizione romana e criminalizzazione del dissenso
779
rico ad esplorare le dimensioni sociali dell'eresia oltre a quelle teologiche. D'altronde il dissenso dalle credenze religiose dominanti di una cultura è facilmente esposto alla severa disapprovazione di ampi settori della società, sia laici che clericali. Lo stesso Machiavelli era acutamente consapevole delle profonde interconnessioni tra vita religiosa e vita politica. «Debbono, adunque, i principi duna republica o d'uno regno», scriveva Machiavelli nei suoi Discorsi «i fondamenti della religione che loro tengono, mantenergli; e fatto questo, sarà loro facil cosa mantenere la loro republica religiosa e, per consequente, buona e unita» 8. Era un consiglio che i Veneziani, benché in generale avessero una visione meno strumentale della religione, seguirono con particolare zelo 9. In tempi più recenti altri osservatori della vita sociale e religiosa, da Durkheim a Peter Berger, hanno messo in rilievo i legami che le uniscono 10. Non ci lasceremo certo sorprendere dalle manifestazioni di ostilità popolare. Anzi, di recente uno studioso dell’eresia veneziana si è spinto fino a sostenere che nella Venezia del XVI secolo esisteva un effettivo consenso tra governo, chiesa e popolo sul fatto che l'eresia costituiva una minaccia per la struttura sociale e politica della città 11.
Ma l'avversione popolare per il dissenso religioso non implicava necessariamente il sostegno popolare ai tentativi sempre più aggressivi della chiesa e dello stato di intromettersi nella vita religiosa dei Veneziani all'inizio dell’età moderna. Anche i nuovi tribunali dell'Inquisizione romana si scontrarono infatti con l’opposizione popolare. Pur se il saccheggio e l'incendio del Sant’Uffizio di via Ripetta a Roma nel 1559 resta senza dubbio il caso più esemplare dell'avversione popolare nei confronti dell'Inquisizione, gli inquisitori e i loro rappresentanti furono spesso minacciati e scherniti, e addirittura aggrediti fisicamente nelle città e nei borghi dell'Italia centrale e settentrionale 12. Suscitava, evidentemente, molto risentimento la pretesa della chiesa e dello stato di detenere l'autorità di vigiliare sulle convinzioni religiose. Malgrado non conosca casi di violenta opposizione popolare al Sant'Uffizio nella stessa Venezia, è chiaro che non tutti i Veneziani erano favorevoli al tribunale istituito localmente. Nel 1572, per esempio, quando un tale Prospero Cappeler e il suo amico Battista Amai, entrambi, come Zuangiacomo Mocaiati, ambulanti a Rialto, furono arrestati, la reazione dei vicini e dei loro compagni di lavoro di fronte all’intervento poliziesco dell’Inquisizione fu decisamente ambivalente. Prospero e Battista avevano probabilmente offeso qualcuno dei bottegai e ambulanti



780
John Martin
dèi ponte. Si erano divertiti alle spalle di un mendicante cieco, schernendo la sua devozione per i santi, e avevano più volte manifestato il loro disprezzo per i monaci e i preti. Fu d'altronde un bottegaio del ponte che, su incitamento del confessore, li denunciò; e quando le autorità bloccarono Battista, attorno si raccolse una folla che lo canzonava chiedendo a gran voce la «destruzione dei luterani» 13. Ma non dobbiamo lasciarci ingannare dall'apparente unanimità della folla. I vicini di Prospero, ad esempio, lo avevano avvertito che un «offizial» del Sant'Uffizio era stato a casa a cercarlo, e diversi bottegai furono costernati dalla notizia della denuncia. Il setaiolo Camillo, per citarne uno, ammise davanti all'Inquisizione di aver avvertito Battista del pericolo e di avergli consigliato di lasciare la città. Neppure Vincenzo, un altro setaiolo del ponte, esitò ad esprimere la propria disapprovazione, dichiarando anzi che «si savesse chi fusse el denonicato, gli lo adverteria, acciò che'l scampasse» 14. Analogamente, nel 1578, la denuncia di un anziano ciabattino che percorreva la città declamando i suoi scritti millenaristi suscitò reazioni altrettanto contrastanti. Dopo che il delatore, un coltellinaio di nome Iseppo, denunciò al Sant'Uffizio il vecchio di cui ignorava persino il nome, ma che aveva visto «camminando per la terra» un vicino protestò, dicendo a Iseppo che quello non era affar suo. «[I]n ogni modo», precisò «tu non lo conosci» 15. E nel 1580, il frate agostiniano Lorenzo da Venezia fu denunciato per aver dichiarato, tra le altre cose, «che non dovrebbe esser officio alcuno d'inquisitio-ne, perché è uno sforzar le genti a dire, et a far a suo modo privandoli pur della libertà che Iddio li ha dato» 16.
A un livello più generale, l’ostilità di molti Veneziani nei confronti dell'Inquisizione era la naturale conseguenza del loro desiderio di affrontare le controversie di carattere religioso in modo più informale e comunitario, senza ricorrere allo stato o alla chiesa. Abbiamo già visto, come nel caso del falegname Antonio i vicini intervenissero per cercare di contrastare l'«eresia», ma anche il luogo di lavoro e la famiglia fornivano contesti adatti a correggere l'individuo apparentemente irriverente e provocatorio, il blasfemo o l'iconoclasta. I compagni di lavoro, per esempio, potevano semplicemente fare orecchio da mercante di fronte alle opinioni ritenute oltraggiose di uno di loro. È proprio la linea di condotta dei compagni di Antonio da Bologna, tessitore di seta, per protestare contro il suo proselitismo e la continua derisione delle pratiche e delle credenze cattoliche, in particolare delle invocazioni ai santi per conquistare la grazia divina e dell'ostia consacrata che, ai suoi



Inquisizione romana e criminalizzazione del dissenso
781
occhi, altro non era che un «pezzo di pasta». I colleghi di un altro loquace e provocatorio tessitore, un certo Zuan de Angelo, si comportarono con lui esattamente nello stesso modo 17. Nel 1561 Nicolo da Cherso, un maestro d'ascia dell'Arsenale, spiegò al Sant'Uffizio in che modo lui e i suoi colleghi artigiani avessero fatto chiaramente capire a un certo Iseppo, operaio alla Tana, una manifattura di cordami non lontana, che non gradivano la sua presenza, almeno finché insisteva a denigrare le loro convinzioni religiose. «Noi perciò el fessemo privar de quel squero donde el lavoravemo noi, et se ben el vien qualche volta, non el sopportemo chel parli più [delle sue idee religiose]» 18.
Anche la famiglia era uno strumento informale ma efficace per imporre l'ortodossia. Le mogli cercavano di disciplinare i mariti, e i mariti le mogli. Anche se dai processi si ricava raramente un quadro approfondito della situazione familiare, essi offrono di tanto in tanto dei rapidi squarci da cui risulta che erano in prevalenza le donne a patrocinare la causa dell'ortodossia cattolica, tanto che qualora un sospettato sposasse una fervente cattolica, l'Inquisizione rinunciava solitamente a procedere contro di lui. Così quando il parroco di Christoph Ott assicurò all’Inquisizione che sua moglie, malgrado fosse tedesca era nondimeno una devota cattolica, il Tribunale abbandonò il caso. Analogamente, nel 1568 un ciabattino riferì al Sant'Uffizio di come il matrimonio avesse giovato al suo padrone, un immigrato fiammingo di nome Romano. Prima del matrimonio, raccontò il ciabattino, Romano aveva l'abitudine di incontrarsi spesso con i compatrioti fiamminghi che condividevano le sue idee eretiche, «[ma d]apoi che esso Romano ha preso moglie», continuò, «non si ha veduto con questi fiamenghi». A questo punto l’ortodossia di Romano non fu più messa in dubbio. In certi casi, tuttavia, toccava al marito correggere la propria moglie. Dominico di Albori, per esempio, spiegò all'Inquisitore che fu lui a ricondurre la consorte, figlia di un dissidente, alla vera fede. Il padre non le aveva ovviamente mai insegnato a pregare correttamente, ma Dominico si assunse questo compito. «Ho habudo gran fadiga a farge dir oration», disse «[m]a adesso la le disse» 19.
Ma l'opposizione all'Inquisizione non nasceva solamente dalla tendenza dei Veneziani a comporre le controversie religiose in maniera formale, era altresì una conseguenza dell'atmosfera relativamente tollerante di questa città mercantile. In tutto il Mediterraneo e sul continente europeo non c'era forse un altro posto altrettanto cosmopolita. La città, in quanto centro commer-



782
John Martin
ciale, pullulava di mercanti di altri paesi, di pellegrini e viaggiatori e ospitava diverse comunità straniere, tra le quali spiccavano quella ebraica, la turca e la greca 20. La diversità religiosa era perciò quasi un fatto scontato, e la vocazione commerciale della Repubblica rendeva relativamente tolleranti gran parte dei Veneziani. Inoltre, la tolleranza genera tolleranza. Gli stranieri, infatti, erano la prova vivente della reale esistenza di assetti religiosi alternativi; essi diventarono una componente dell’orizzonte mentale di molti Veneziani, sia eretici che ortodossi. Erano il veicolo di storie e informazioni sulle differenze tra i paesi cattolici e quelli protestanti o addirittura quelli che non facevano parte della cristianità. Ciò spiega in parte la diffusione a Venezia a quest’epoca della favola dei tre anelli, una storia che insegnava che non cera modo di riconoscere quale delle tre grandi religioni mediterranee (giudaismo, cristianesimo, islamismo) fosse la vera fede 21. Fu in gran parte questo aspetto della vita veneziana che attirò nella città, nel decennio 1540-50, il bizzarro, ma brillante sincretista francese Guillaume Postel e che indusse il filosofo politico Jean Bodin a indicare Venezia come sede del suo Colloquium Heptaplomeres de Rerum Sublimium Arcanis Additis, un dialogo in cui vengono prese in esame, oltre alle religioni più importanti, anche le principali opinioni sulla religione diffuse nell’Europa del XVI secolo. Cattolicesimo, luteranesimo, calvinismo, giudaismo e islamismo sono presenti senza esclusioni, al pari dello scetticismo e della religione naturale. E Venezia, spiegò Bodin ai suoi lettori in una interessante variante del mito di Venezia, era la sede ideale per tale dialogo, «non soltanto perché i Veneziani riservano un’accoglienza ospitale ai forestieri, ma anche perché vi si vive nella massima libertà. Mentre le altre città e regioni sono minacciate da guerre civili o dall’incubo di un tiranno o di esazioni esagerate o di insopportabili intereferen-ze nelle proprie attività, mi sembrava che fosse forse l’unica città ad offrire riparo contro tutte queste forme di asservimento. Questa è la ragione per cui la gente vi affluisce da ogni parte, desiderosa di trascorrere la propria vita nella massima libertà e tranquillità di spirito, sia che voglia dedicarsi al commercio, a un’attività artigianale o ai propri svaghi, come si addice a uomini liberi» 22.
Pure, negli anni centrali del XVI secolo, sia il mito che la realtà della tolleranza veneziana furono messi a dura prova. Nel cuore della città era stato insediato un tribunale dell’Inquisizione e intorno al 1560 i Veneziani incominciarono, in numero sem-



Inquisizione romana e criminalizzazione del dissenso
783
pre maggiore, a rivolgersi a questa istituzione giudiziaria ufficiale per denunciare coloro di cui giudicavano oltraggiose le convinzioni e le pratiche religiose. Era un cambiamento radicale. Comportamenti e credenze che un tempo erano stati considerati non più che provocatori o sconcertanti, ai quali si poteva rispondere col disinteresse o la disapprovazione, ma quasi mai con una denuncia, furono gradatamente ridefiniti come criminali, e i Veneziani cominciarono a ritenere loro dovere informarne le autorità. Due erano le ragioni di questo cambiamento. La più ovvia fu, naturalmente, la creazione stessa dell'Inquisizione romana, versione rinnovata e centralizzata delle corti medievali. Nel 1542, il papa Paolo III, sotto la minaccia o la supposta minaccia che il protestantesimo rappresentava per l'Italia e le pressioni di zelanti consiglieri come Gian Pietro Carafa, aveva istituito questo tribunale al fine di proteggere ovunque i cattolici dal contagio dell'eresia. Successivamente, nel 1547, lo stato veneziano, dapprima restio a permettere l'istituzione di un Sant'Uffizio in città, acconsentì al suo insediamento a condizione che gli ufficiali ecclesiastici (il nunzio, il patriarca e l'inquistore) fossero affiancati da tre rappresentanti laici, i Tre Savi sopra eresia23. Quantunque il solo fatto dell'esistenza dell'Inquisizione non implicasse automaticamente che i Veneziani vi facessero ricorso, essa finì comunque col conquistarne l'adesione. Ma c'era un'altra ragione, benché meno evidente, alla base di questo cambiamento della concezione popolare dell’eterodossia e del dissenso religioso; Venezia non era più il centro a vocazione prevalentemente commerciale di una volta; stava trasformandosi rapidamente in una grande città manifatturiera. Quindi, non solo la sua popolazione era in rapida espansione, ma la città si andava riempiendo di una nuova classe di immigranti, per lo più poveri lavoratori e artigiani ambulanti, invece dei ricchi mercanti che i Veneziani avevano, al contrario, accolto tra di loro senza difficoltà. Venezia stava insomma progressivamente diventando più anonima. Gli strumenti informali a cui la popolazione locale aveva tradizionalmente fatto ricorso per cercare di correggere, allontanare o reprimere coloro la cui condotta e credenze religiose apparivano provocatorie si erano logorati. Né la famiglia, né i vicini, né i compagni di lavoro erano più in grado di imporsi al dissidente o al non conformista. In conseguenza, il dissenso religioso cominciò ad essere percepito, tanto a livello ufficiale quando popolare, come un problema che esigeva di essere affrontato con strumenti più formali.



784
John Martin
Beninteso, la repressione del dissenso religioso a Venezia, come hanno sottolineato molti studiosi, non fu mai assoluta. La composizione mista del Sant'Uffizio veneziano era una garanzia in tal senso. Infatti, fin dalla prima introduzione dell'Inquisizione a Venezia, la classe dirigente veneziana, di cui facevano parte uomini le cui famiglie avevano fatto fortuna col commercio, si era preoccupata che la penetrazione dell'Inquisizione romana in città potesse compromettere i suoi rapporti commerciali con gli stati protestanti. Così, per esempio, nel 1561, in un famoso caso in cui era coinvolto un ex segretario dell'ambasciatore inglese a Venezia, un certo Guido Giannetti da Fano, il Consiglio dei Dieci rifiutò sulle prime di autorizzare l'Inquisizione veneziana ad accondiscendere a una richiesta di estradizione papale del Signore Giannetti a Roma, dichiarando esplicitamente che il rifiuto era dettato da considerazioni commerciali: «[D]ovemo haver molto rispetto [alla Regina]», spiegarono i Veneziani, «facendo i nostri mercadanti tante faccende in quell'isola, et [...] dalla qual Regina et suo Conseglio essi et le mercantie loro sono ben trattati et comportati, che quando essi [gl'Inglesi] intendessero i servitori loro non solamente esser ritenuti de qui, ma mandati anco a Roma, potrebbero alterarsi, come sono quelle gente pronte ad sdegno et altiere» 24. Similmente il Consiglio dei Dieci cercava di proteggere la comunità greca e quella ebraica dalle indebite interferenze della Inquisizione romana 25. Ma questo principio fu esteso anche ad altri. Nel 1569 il governo veneziano proibì la pubblicazione della bolla pontifìcia In coena Domini che imponeva ai principi di rifiutare la propria protezione a chiunque non fosse cattolico. Intorno al 1580 Alberto Bolognetti, nunzio pontificio a Venezia, tracciò questo quadro della politica veneziana. 1 signori veneziani, osservò, concordavano sulla necessità di punire le offese più gravi, ma diventavano clementi quando si trattava di protestanti stranieri: «[V]olevano solamente prohibi-re che questi oltramontani non dessero scandalo ne' luoghi pubblici, permettendo poi loro nel resto che nelle proprie case vivessero a modo loro» 26.
Non dobbiamo tuttavia esagerare l'opposizione dello stato veneziano alle direttive romane intese a reprimere l’eresia. Infatti, quantunque il governo veneziano avesse in molti casi preferito chiudere un occhio quando nascevano questioni sulle credenze religiose dei mercanti stranieri, aveva nondimeno dato segno da tempo, come altre città-stato del Rinascimento, di essere preoccupato dell'ortodossia religiosa della popolazione locale. Come



Inquisizione romana e criminalizzazione del dissenso
785
in altre città italiane, l'inquisizione medievale vi si era insediata nel corso del XIII secolo e sebbene Venezia sospendesse ufficialmente la rendita spettante all'inquisitore nel 1423, c’è qualche traccia di una sporadica ripresa della sua attività verso la fine del XV secolo e i primi anni del XVI secolo27. Inoltre il XVI secolo portò nuovi fermenti politici e sociali e lo stato veneziano, che si era già dotato di una burocrazia legale e di una forza di polizia alquanto sofisticate per il controllo di crimini come l'omicidio, lo stupro, il furto e il ladrocinio, si accinse ora, con particolare zelo, a cercare di estendere la sorveglianza anche alla moralità dei Veneziani28. La guerra della Lega di Cambrai (1509-1516), da cui la fiducia di Venezia nelle proprie forze uscì alquanto malconcia, rappresentò una specie di spartiacque. Nel 1509, fu varata una serie di nuove e più severe leggi per cercare di arginare il comportamento notoriamente licenzioso di molte monache della città. Nel 1512 le leggi suntuarie si moltiplicarono e fu creata una nuova magistratura, i Provveditori sopra le pompe, per cercare di limitare l'uso di abiti eccessivamente costosi, il lusso delle abitazioni e i festeggiamenti. Nel periodo compreso tra il 1514 e il 1517, la pena per i blasfemi, coloro che con la loro condotta o con le loro parole offendevano Dio, fu portata a cinquecento lire di ammenda e cinque anni di esilio. Successivamente, nel 1521, il Consiglio dei Dieci istituì una magistratura per la sorveglianza dei monasteri, i Provveditori sopra i monasteri. Nel 1527, questo organismo ottenne il diritto di concedere l'imprimatur, e nel 1537, quando giunse la notizia che Corfù, colonia veneziana, era stata occupata dagli Ottomani, nominò degli Esecutori contro la bestemmia. Benché queste istituzioni fossero per molti aspetti tradizionali, c'era però un'importante novità: ora agivano in stretto collegamento con gli enti di governo più potenti all’interno dello stato veneziano e in partico-lar modo con il Consiglio dei Dieci. Erano i suoi satelliti e, in quanto tali, rappresentavano un tentativo di pianificare strumenti più razionali di controllo sociale 29.
In questo stesso periodo, Venezia emanò inoltre nuove leggi per i poveri, tese a migliorarne i costumi oltre che a risolvere problemi di alloggio e nutrimento. I Veneziani ritenevano che la carità giovasse tanto all'anima del benefattore quanto a quella del beneficato 30. Perciò, sebbene la classe dirigente veneziana abbia talvolta agito in difesa dei propri interessi commerciali, non era affatto contraria a collaborare col Sant'Uffizio allo scopo di rafforzare il proprio controllo sociale. L'Inquisizione, infatti,



786
John Martin
negli obiettivi e nelle procedure, aderiva perfettamente al nuovo indirizzo politico e sociale, sempre più rigido e inflessibile, che Venezia aveva adottato intorno al 1540. Si trattò di un ulteriore giro di vite.
Vediamo quindi come a Venezia i due poteri della chiesa e dello stato, la prima preoccupata principalmente dalla minaccia rappresentata dal protestantesimo ma non indifferente ai disordini politici che spesso seguivano la riforma religiosa, il secondo principalmente intenzionato a mantenere lordine pubblico, ma altrettanto consapevole delle questioni religiose interne ad esso, si allearono per combattere insieme contro l'eresia. Poiché la loro azione aveva motivazioni diverse, ci furono inevitabilmente tra loro tensioni e contrasti, ma si trattò quasi sempre di liti in famiglia, semplici battibecchi. Sulla questione fondamentale della necessità di mantenere l'ortodossia, il loro accordo era totale. Per farlo dovevano però assicurarsi l'appoggio dei fedeli sudditi di Venezia. L'obiettivo primario del Sant'Uffizio diventò di conseguenza la criminalizzazione del dissenso religioso. L'Inquisizione puntava cioè a ridefinire in termini di eresia e crimine quelle forme di condotta religiosa e di espressione di certe idee religiose che il popolo percepiva come manifestazioni provocatorie e inquietanti, ma nient'affatto criminali. Il tribunale doveva insomma inserirsi a legittimare la propria funzione all'interno della società veneziana. Come conseguì questo obiettivo? Quali erano gli strumenti a sua disposizione?
Poiché l'Inquisizione veneziana, non diversamente da analoghi tribunali insediati altrove, faceva parte di una complessa rete di istituzioni ecclesiastiche che si estendeva dalle parrocchie locali fino a Roma, questi strumenti erano numerosi e di versificati. Tramite la divulgazione di editti, i sermoni, le cerimonie pubbliche e anche attraverso i confessori, il Sant'Uffizio trasmise ai fedeli il messaggio che era loro dovere denunciare all'Inquisizione chiunque sospettassero di eresia. Malgrado questo spiegamento di mezzi, il messaggio non fu però prontamente recepito tra i laici, almeno all'inizio. Inevitabilmente perciò l'Inquisizione fu costretta ad affidarsi in gran parte al clero, al quale faceva direttamente appello, per essere aiutata ad individuare gli «eretici». Nessuno dei tre processi più importanti del biennio 15471548, infatti, sembrava aver preso avvio da una denuncia partita dal basso, per iniziativa di un laico. Fu il parroco di San Raffaele, per esempio, che attirò l'attenzione del Sant'Uffizio su un gruppo di donne che facevano abitualmente il giro delle chiese



Inquisizione romana e criminalizzazione del dissenso
787
vicine per ascoltare i nuovi predicatori evangelici e criticavano le tradizionali pratiche religiose delle donne cattoliche in cui si imbattevano. Così, fu il parroco di San Moisé a presentare una denuncia contro un nutrito gruppo di artigiani eretici, una vera e propria «scuola dei luterani» attiva nella sua contrada, mentre un domenicano rivelò al Sant'Uffizio resistenza di un altro circolo di popolani evangelici 31. Durante la prima fase dell'attività dell'Inquisizione, dunque, la denuncia proveniva tendenzialmente da una direzione precisa, e da una gerarchia ben definita: il clero. Era un classico caso di inquisitio, caratteristico dei tribunali religiosi e secolari del XVI secolo. All'inizio dell'età moderna, cioè, era generalmente un'istituzione giuridica ufficiale, sensibile alle aspettative della chiesa e dello stato, che prendeva l'iniziativa di sostenere un'accusa e non la comunità stessa 32.
Ma il meccanismo messo in moto nel 1547 e 1548 era destinato a catturare nei suoi ingranaggi anche i laici. In un primo tempo toccò agli accusati, perché l’inquisitore quasi mai trascurava di chiedere a un denunciato di fare il nome dei suoi complici, e successivamente ai testimoni, che venivano sottoposti a martellanti interrogatori per indurli a rivelare con chi il denunciato trascorresse la maggior parte del suo tempo. Il tribunale garantiva a coloro che convocava che parlando non correvano nessun rischio: il Sant'Uffizio avrebbe protetto il loro anonimato e loro stessi erano tenuti per giuramento a mantenere il segreto. Ma le indicazioni fornite all'inquisitore sul conto dei sospettati di eresia finirono rapidamente col coinvolgere persone che non avevano direttamente a che fare con i primi processi, e mentre nel 1547 e 1548 le denunce partite dalla comunità furono in numero limitato (quanto meno in alcuni casi di minor rilievo), nel corso del decennio 1550-60 divennero una pratica generalizzata. L’Inquisizione stessa aveva offerto ai Veneziani il modello dei nuovi sistemi con cui potevano risolvere la loro ostilità verso coloro che costituivano una minaccia alle loro credenze. Nel 1550, per fare un esempio, troviamo una guardia della prigione che dichiara di non avere nessuna simpatia per un certo sacerdote e che, dice rifacendosi ai primi processi del Sant'Uffizio veneziano, se dipendesse da lui, sarebbe contento di vederlo finire in galera, «come quello di San Barnaba el centurion che fu messo per he-retico» soltanto pochi anni prima, sollevando scandalo e polemiche 33.
In effetti le denunce della gente divennero col tempo una prassi sempre più diffusa. Anche i sermoni ebbero un ruolo non



788 John Martin
secondario. Francisco Pena, nella sua prestigiosa e autorevole edizione del Directorium Inquisitorium di Nicolas Eymeric del XIV secolo, pubblicata per la prima volta a Roma nel 1578, aveva conferito al pulpito una posizione di primo piano nel controllo dell'eresia. L'inquisitore (o il suo rappresentante) doveva sollecitare i fedeli a presentare delle denunce durante l'Avvento e la Quaresima. Il manuale di Pena, inoltre, forniva al predicatore finanche una formula. «Avec l'autorité du pape, dont nous sommes investis; en vertu de la sainte obéissance et sous peine d’excommu-nication», il sacerdote doveva dire:
nous ordonnons et statuons par trois sommations et d’une fagon péremptoire à tous et à chacun, laiques, membres du clergé séculier et du clergé régulier de quelque fonction, grade ou dignité quils soient [.. J [quils] nous disent s’ils savent, s’ils ont su ou s’ils ont entendu dire que tede personne est hérétique, connue comme hérétique, suspecte d’hérésie, ou quelle parie contre tei ou tei article de la foi, ou contre les sacrements, ou quelle ne vit pas comme le commun, ou quelle évite le contact des croyants, ou quelle invoque les démons et leur rend culte M.
E fu proprio un sermone simile, letto nella chiesa parrocchiale di San Salvatore, la Domenica delle Palme del 1576, a indurre Nicolò Scarpa a denunciare Giorgio Negri, un avvocato di palazzo, accusandolo di eresia 35.
Fu però il confessionale a fornire il mezzo più efficace per incoraggiare la delazione. Mentre assolveva alla sua indispensabile funzione di sfogo alle incertezze e le frustrazioni della vita quotidiana, poteva essere utilizzato per assicurare la religiosità dell'ambiente di lavoro e della famiglia e impedire il diffondersi dell'eresia. Carlo Borromeo si espresse in maniera categorica sulla relazione tra confessione e ortodossia, tanto da indicare nella personale conoscenza di eretici un impedimento all'assoluzione. «Interroghi, se [il penitente] sa alcuno heretico», raccomandava Borromeo ai confessori, «o sospetto di heresia, o altra simile cosa, quale habbia da denunciare per vigore de Nostri editti o d'il Padre Inquisitore, e trovando che habbia tale obbligo, lo faccia satisfare» 36. E infatti, quando la frequenza delle denunce sembra subire una brusca accelerazione nel corso del 1565, non mancano elementi che dimostrano come questo cambiamento fosse frutto delle pressioni esercitate sui credenti attraverso la confessione. Si può dire, anzi, che durante il periodo di Quaresima del 1565, il suo ruolo sembra farsi sistematico. Fu allora, per esempio, che il confessore di un certo Jacomo di Vieimi gli ingiunse di denunciare all'Inquisizione il cardatore Paolo da Cam-pogalliano, da tempo conosciuto tra i membri della sua corpora-



Inquisizione romana e criminalizzazione del dissenso
789
zione come «Polo luterano» ed evidentemente tollerato, e una donna di nome Andriana, sempre su sollecitazione del suo confessore, presentò cinque denunce al Sant'Uffizio 37. Anche Vosel-lador Andrea Ballao, spinto dal suo confessore, in questo stesso periodo, presentò all'Inquisizione una serie di denunce contro i suoi compagni di lavoro 38. In certi casi il delatore era tormentato, diviso tra la lealtà verso gli amici e i doveri dettati dalla coscienza. «Queste son cose che io dico malvolentieri», non potè trattenersi dal precisare un certo Marcantonio de Simon, balan-zer, nel corso di una denuncia contro il suo collega Antonio, detto «Melon», anche lui balanzer, «perche son amico de questi che ho nominato, ma perche mi son confessato per pigliar questo S.mo Giubileo, et anco avanti questa Natale. Et sempre el confessor mi ha ditto che son obligato sotto pena di escomunicatio-ne a dirlo al S.to Off.o dell'Inquisitione et mi l'ho voluto dire per scarico della mia conscentia» 39. E Vienna Bertapaia, dopo aver denunciato all'Inquisizione il proprio genero per le sue esagerazione eretiche, non si peritò di nascondere la sua perplessità circa quell'azione. «Et veramente si il mio confessore non mi avisa-va di questo mio obligo», disse ai membri del Tribunale, «io non sarei mai venuta a far questo officio» 40.
Anche la spettacolarità ebbe un suo ruolo. Benché lo stato veneziano non abbia mai allestito niente di simile agli impressionanti e infami autodafé della Spagna e del Portogallo, e neppure alle esecuzioni pubbliche di Campo dei Fiori a Roma, riuscì ugualmente a trovare il modo di fare dell'eresia una questione pubblica. Fin dall'inizio, le abiure e le condanne furono lette ad alta voce nelle chiese parrocchiali, e dopo il 1565 l'Inquisizione diede il via ad un periodo nettamente più teatrale: la punizione pubblica di Zuangiacomo Mocaiati fu solo la prima di una lunga serie. Nel maggio del 1567, Alessandro Riva, un giovane legale in stretti rapporti con molti evangelici della città, fu costretto a stare in piedi davanti alla chiesa parrocchiale di San Geminiano, come già Zuangiacomo nell'autunno precedente41. In giugno un calzolaio di nome Giacomo de Sacil fece pubblicamente penitenza di fronte alla chiesa parrocchiale di Santa Sofia, dove c'era una «frequenza altissima di popolo» 42. Ma gli evangelici non furono i soli a subire questo trattamento. Nel settembre 1573, quattro seguaci della setta millenarista di Benedetto Corazzare furono messi alla gogna in piazza San Marco, dove rimasero esposti per due ore con un cartello che diceva: «Per haver letto Bibie volgari prohibite et voluto contendere temerariamente del-



790
John Martin
le cose della Scrittura Sacra essendo ignoranti» 43. E nel 1582, in un caso famoso in cui la negromanzia si mescolava alla ricerca di tesori sepolti nel Veronese, ai quattro principali imputati fu imposta una pubblica confessione nella Basilica di San Marco. Il nunzio pontificio Alberto Bolognetti commentò che «questo [...] accresceva riputatione al nostro tribunale et accresceva insieme il terrore a quelli che per avventura havessero havuto inclinatio-ne a simili superstitioni» 44. La pena inflitta in pubblico era cioè diventata un elemento centrale della prassi inquisitoria. «Non dobbiamo dimenticare», ricordava il Directorium Inquisitorium ai suoi lettori, «che il fine ultimo del processo e della condanna a morte non è salvare t'anima dell'accusato, ma concorrere al bene comune e intimorire la moltitudine» 45.
Queste pubbliche rappresentazioni avevano uno scopo duplice. In primo luogo spinsero indubbiamente molti Veneziani a identificarsi sempre di più con la chiesa e con lo stato e a convincersi che era non solo obbligatorio, ma anche opportuno denunciare coloro la cui condotta religiosa li scandalizzava. La punizione pubblica, col suo apparato simbolico, trasformava in definitiva un atto religioso tradizionalmente privato in un avvenimento pubblico, incoraggiando gli spettatori a considerare la religione una questione di stato. In secondo luogo, questa esibizione di giustizia ecclesiastica sembra aver avuto l'effetto di intimorire gli eretici stessi. Lo stato veneziano però, a dispetto di zelanti inquisitori come Facchinetti, continuando a propendere per l'affogamento notturno dei dissidenti recidivi o recalcitranti, alla discreta presenza di qualche secondino e di un sacerdote, non permise mai di allestire in pubblico l'esecuzione capitale di un eretico. Ma la segretezza non era meno efficace della spettacolarità in questa come in altre fasi dell'attività inquisitoria. La segretezza, anzi, incuteva terrore 46. Agli occhi dei Veneziani, infatti, un uomo convocato dall'Inquisizione, soprattutto se era la seconda volta, poteva svanire semplicemente nel nulla senza lasciare traccia. Non veniva fornita alcuna spiegazione alla sua sparizione. E quando qualcuno veniva giustiziato, gli amici e i parenti della vittima devono averne avuta notizia attraverso voci terrificanti, efficacissime nel diffondere ulteriormente la paura. Nel 1567 un certo Giacomo Lucengo dichiarò davanti all'Inquisizione che aveva sentito dire «che in questa città di Venezia era una grande quantità della setta de Ugonotti; ma che loro si sforzano a non scoprirsi per non esser presi dalla giustizia et anegati» 47.



Inquisizione romana e criminalizzazione del dissenso
791
Ma il successo dell'Inquisizione nell’incitare alla denuncia la popolazione veneziana non fu dovuto solo alla pressione esercitata dall'alto. Ormai erano in gioco anche fattori di ordine sociale. Nel corso dei primi settant anni del XVI secolo, Venezia era diventata una città sempre più anonima e impersonale, e in questo contesto il ricorso alla denuncia (che, benché accettabile solo in teoria se firmata, tuttavia celava al sospettato il nome del delatore) era comprensibile. In ultima analisi, infatti, l'Inquisizione aveva interposto una burocrazia, benché non efficientissima, all'interno di una comunità che precedentemente aveva trovato sistemi più informali e personali per risolvere i contrasti religiosi. In effetti, la dichiarata esitazione con cui l'Inquisizione stessa accoglieva le accuse di eresia (dato che l'accusato veniva informato dell'identità del suo accusatore, mentre il nome del firmatario di una denuncia restava segreto) era la dimostrazione di questo nuovo stile impersonale del Sant'Uffizio 48.
Il carattere sempre più impersonale della vita veneziana era esso stesso una conseguenza di cambiamenti avvenuti al livello più profondo della società della Repubblica, in special modo quelli associati alla trasformazione della città da centro prevalentemente commerciale a centro manifatturiero. Il decollo del settore tessile in particolare fu fenomenale. Tra il 1500 e il 1565 la produzione laniera decuplicò, mentre quella della seta triplicò. Un'analoga espansione si registrò nell'industria delle costruzioni navali, con il raddoppio della manodopera impiegata intorno alla metà del secolo. Anche la produzione metallurgica e quella del sapone aumentarono, come pure, anche se in modo meno spettacolare, l’attività delle vetrerie di Murano, dei cantieri edili e il numero delle tipografie della città. Lo storico francese Fernand Braudel esagerava appena osservando che la Venezia del XVI secolo era diventata «una grande città industriale, probabilmente la prima in Italia». Durante la prima metà del secolo, la città assunse una fisionomia industriale assolutamente eccezionale nell'Europa del XVI secolo. All’estremità orientale dell’isola si trovavano l’Arsenale e la Tana, gli «stabilimenti non meccanizzati». All’altro capo della città, intorno a Rio Marin e a Cannaregio, erano concentrati gli operai della lana e della seta 49. Forzatamente aumentò il ricorso alla forza lavoro costituita da immigranti o da artigiani itineranti che si riversavano in città per lavorare come tessitori, operai navali, carpentieri e tipografi. Certi mestieri erano prerogativa quasi esclusiva di determinati gruppi etnici. Quasi tutti i fornai e un gran numero di



792
John Martin
ciabattini e sarti erano tedeschi; molti macellai erano originari dei Grigioni, gli arsenalotti venivano dal Trentino, mentre gli operai stampatori venivano in gran parte della Francia e dalla Savoia 50. Nel corso di questa transizione, la popolazione crebbe rapidamente, passando dai 100.000 individui dell'inizio del secolo ai circa 175.000 del 1576, allo scoppio della peste 51.
Inevitabilmente, queste trasformazioni sociali modificarono i rapporti tra padroni e dipendenti, tra vicini e persino in seno alla famiglia. Ma i cambiamenti si fecero sentire soprattutto nelle botteghe artigiane. Gli operai, per esempio, erano spesso immigranti e i tradizionali sistemi di controllo non potevano più essere applicati efficacemente. Senza dubbio, queste trasformazioni furono in larga misura alla base dell'appello lanciato dalla nuova religiosità controriformistica. Esse furono per esempio all'origine delle argomentazioni di Carlo Borromeo, il quale si sentì tenuto a sostenere che la bottega artigiana doveva essere una pia istituzione. «Non tenga il mastro di bottega, o di lavorerio alcun ministro, lavorante, o garzone, che non sia confessato et comunicato quell'anno, nella Pasqua di Resurretione. Ne meno alcun biastematore, concubinario o altrimenti scandaloso, o che si deletti di consumar nelle taverne il suo guadagno facendo patire la propria famiglia, quando non s'emendi, dopo avergli fatto la debita corretion fraterna» 52. Ma questi stessi cambiamenti resero anche i Veneziani per la prima volta meno restii a rivolgersi alle anonime e impersonali istituzioni dell'Inquisizione per risolvere le loro divergenze religiose. E in effetti col passare del tempo le denunce sembrano provenire con sempre maggiore frequenza dalla bottega artigiana. Nel 1576, per esempio, il sarto Zorzi Gebler fu denunciato per eresia da un compagno di lavoro, e41 negoziante di stoffe Bernardino Palavicino fu denunciato dal suo apprendista perché teneva nella sua bottega tre Fiamminghi che, diceva l'accusa, proibivano ad una domestica di sentire messa. Nel 1580, un apprendista battiloro denunciò un collega e l'apprendista di un rilegatore fece il nome del suo padrone alle autorità accusandolo di eresia 53.
L'Inquisizione raggiunse dunque pienamente io scopo di criminalizzare, anche nella coscienza popolare, certe credenze e pratiche religiose, il che consentì di intensificare la repressione. Le prove sono schiaccianti: intorno al 1565, l'attività annuale dell'Inquisizione era quasi raddoppiata rispetto a quella dei primi due decenni 54. A quanto sembra, la popolazione in generale era sempre più incline a considerare il dissenso religioso un atto



Inquisizione romana e criminalizzazione del dissenso
793
criminale meritevole di punizione. Le classi popolari erano diventate meno tolleranti e spesso, ma la cosa non sorprende, il bersaglio delle loro denunce erano degli stranieri, anche quando si trattava in realtà di ferventi cattolici. Alla domanda se conosceva la ragione della sua convocazione davanti al Sant'Uffizio, il tipografo Pierre De Huchin rispose, «Signore no, ne mi posso imaginar de niente, ma ve diro, son qua in Venezia forestiero, ancora che sia stato forsi venti otto anni». Intorno allo stesso periodo, un altro forestiero, uno stampatore di Chiavenna riprese questo argomento all’apertura del suo processo, spiegando all’in-quisitore di essere stato accusato di eresia, «perché son gri-son» 55. A causa di tali affermazioni, il Sant'Uffizio esaminò accuratamente entrambi i casi per accertare se le denunce erano fondate o semplicemente l’espressione della xenofobia popolare. Così, l’Inquisizione che tanto aveva fatto per alimentare l’intolleranza religiosa, si trovava ora a dover valutare le conseguenze degli antagonismi che aveva contribuito a scatenare. Chi aveva presentato denunce false fu punito, mentre con chi era stato accusato di eresia in certi casi fu addirittura usata clemenza, col risultato che uomini e donne, che una generazione prima avevano tranquillamente fatto a meno dell’Inquisizione, le furono riconoscenti per le occasionali manifestazioni di indulgenza. Questa fu la prova definitiva del successo ottenuto dal Tribunale nel conquistare la fedele adesione della popolazione veneziana 56.
Fu così che Venezia, come altre città italiane, divenne un po’ meno tollerante. Gli stessi contemporanei ne erano consapevoli. Verso il 1550, la maggioranza degli osservatori sembra giudicare la repressione non particolarmente severa. In una lettera al riformatore svizzero Heinrich Bullinger, il vescovo istriano Pier Paolo Vergerio, lui stesso vittima dell’Inquisizione, osservava: «dice-res quotidie centum comburi. Et non est ita, ne unus quidem, ta-metsi levis quaedam persecutio paucis in locis oborta sit» 57.
Ma nel corso del decennio 1560-70 il tono si inasprì. L’Inquisizione, che aveva già intensificato la propria attività durante il papato di Paolo IV, fu successivamente investita di ulteriori poteri dallo stesso Papa nel 1562 58. Ma fu solo alla conclusione del Concilio di Trento nel 1563 e l’elevazione del cardinale Ghisleri al soglio pontificio col nome di Pio V nel 1565 che l’Inquisizione riuscì ad avere la meglio nella caccia agli eretici. L’uso della tortura divenne più comune, e a Venezia il Nunzio apostolico Facchinetti potè reintrodurre la punizione del servizio sulle galee 59. Anche i processi si concludevano sempre più spesso con la con-



794
John Martin
danna a morte. In questi tre decenni, ci furono quasi venti esecuzioni capitali, mentre nei primi quindici anni, soltanto due uomini furono mandati a morte per le loro convinzioni religiose 60. Nel 1569, per esempio, don Basilio d'Istria, priore di San Giorgio Maggiore a Venezia, ricordava con una certa nostalgia i primi anni dell'Inquisizione: «allhora non si procedeva con quella dili-gentia che si fa adesso» 61. Il cardinale Seripando si era abbandonato a una riflessione simile: «In un primo tempo questa Istituzione si era dimostrata un tribunale moderato e indulgente [...], ma soprattutto da quando il Carafa cominciò ad esercitare il suo incontrastato impero, la reputazione dell'Inquisizione divenne tale che da nessun'altra corte giudicante della terra si dovevano temere sentenze più orribili e spaventose» 62.
Ironia della storia, all'epoca in cui il controllo del dissenso religioso era passato saldamente in mano all'Inquisizione -quando, cioè, la chiesa e lo stato veneziano erano riusciti ad alimentare nel popolo una certa intolleranza verso la diversità religiosa - le condizioni sociali e culturali che avevano reso possibili una varietà di movimenti ereticali popolari (evangelismo, anabattismo, millenarismo) non prevalevano più. Nel corso degli anni Settanta del XVI secolo, la guerra di Cipro e poi soprattutto la peste avevano rafforzato la nuova religiosità nata dalla Controriforma, e le guide dei movimenti ereticali della generazione precedente che avevano animato le speranze di una riforma religiosa in Italia o erano morti o esiliati. L'eresia era stata, in fondo, un fenomeno di breve durata. «Per grazia di Dio, non ci sono eretici in questa città», rilevava il servita Paolo Sarpi al principio del XVII secolo, «e per decenni non ci sono stati processi per eresia, ma solo per qualche caso di linguaggio irriverente [...] e qualche episodio di stregoneria o di magia bianca» 63.
Se però l'eresia non costituiva più un problema, il carattere della vita religiosa dei Veneziani era fondamentalmente mutato. Infatti negli ultimi decenni del XVI secolo, un importante cambiamento era intervenuto nel rapporto tra convinzioni dell'individuo e la società e lo stato. Nelle città del Rinascimento, tutto considerato, l'eterodossia o la condotta irriverente erano stati problemi risolti per lo più nell'ambito della famiglia, del vicinato o anche del lavoro. La fede, cioè, era una questione collettiva. Ma con la Controriforma le cose cambiarono: le convinzioni e la condotta religiosa di un individuo diventarono una faccenda ad un tempo più personale e più pubblica. I sodalizi tradizionali si erano disgregati lasciando l'individuo solo davanti allo stato che



Inquisizione romana e criminalizzazione del dissenso
795
aveva ormai assunto il ruolo di arbitro dell’ortodossia. La religiosità e la politica avevano stretto un'insolita alleanza e l'Inquisizione era stata l’artefice di questo matrimonio tanto caratteristico dell’età moderna.
Ben più di altri tribunali, l’Inquisizione ha naturalmente, per via della sua raison d’ètre, della sua storia e delle sue procedure, esercitato un fascino particolare tanto sugli studiosi quanto sull’immaginazione del pubblico, dando origine ad una vasta letteratura sia scientifica che popolare. Ma è chiaro che l’attenzione che dedichiamo a questo tribunale non nasce dalla straordinaria crudeltà da esso usata nei confronti dei criminali, essendosi in realtà dimostrato almeno tanto clemente quanto i suoi corrispondenti secolari, se non di più, ma dalla nostra mentalità moderna, frutto deH’Illuminismo, che considera la religione, come osservò Voltaire nel suo commento del 1766 all’opera del Beccaria Dei delitti e delle pene, una faccenda che riguarda Dio e l’individuo in cui lo stato non deve interferire. Infatti «[c]e fut surtout la tyrannie qui la première décerna la peine de mort contre ceux qui différaient de l’Eglise dominante dans quelques dogmes» 64. Siamo restii ad accettare insomma, malgrado l’evidenza, che nell’età moderna il dissenso religioso costituisse un crimine. Dopo tutto, mancava il corpo del reato.
Il crimine, tuttavia, come è stato sottolineato dallo storico inglese J.A. Sharpe, «non comprende soltanto le azioni che la maggior parte degli uomini considera intrinsecamente malvage [...], abbraccia anche quei comportamenti di volta in volta definiti criminali da una determinata società» 65. E anche nel XVI secolo, numerosi osservatori precisarono che il «crimine» dell’eresia sottintendeva un contesto sociale e politico preciso. «Dopo un attento esame del significato della parola eretico», scriveva Sebastiano Castellio nel suo De haereticis immediatamente dopo la controversa condanna di Serveto decisa da Calvino nel 1553, «non posso concludere altro che questo, e cioè che noi consideriamo eretici coloro dai quali dissentiamo. Lo dice il fatto stesso che oggi non esiste una delle nostre innumerevoli sette che non consideri tutte le altre eretiche, al punto che se sei ortodosso in una città o regione, vieni giudicato eretico nell’altra» 66.
Ma le riflessioni di Sharpe e Castellio, quantunque preziose, possono soltanto servire come punti di partenza per comprendere il processo attraverso il quale le società giungono a classificare criminali o eretiche certe forme di comportamento e credenze.



796
John Martin
Infatti, come ho cercato di dimostrare in questo saggio, questo processo di classificazione si è sviluppato attraverso la complessa interazione tra magistratura e la gente in genere. Sicuramente il ruolo sempre più predominante di una nuova istituzione giudiziaria come il Sant'Uffizio fu fondamentale. Si trattava di una magistratura collegata ad un vasto schieramento di istituzioni ecclesiastiche e in grado, perciò, di esercitare una considerevole influenza sul modo in cui la gente percepiva il dissenso religioso. In questo senso, l'eresia può essere considerata una delle conseguenze di ciò che gli storici Bruce Lenman e Geoffry Parker hanno recentemente definito la «rivoluzione giudiziaria» dell'Europa dell'età moderna. In altre parole, l'eresia fu ad un certo livello il risultato dell'espansione del potere statale e dei tentativi delle autorità di mantenere e rafforzare, appoggiandosi a nuove istituzioni e procedure giudiziarie, il controllo sociale all'interno di società commerciali sempre più complesse 67. Tuttavia, quanto meno a Venezia, date le radicate tradizioni di tolleranza religiosa e la partecipazione comunitaria al giudizio sul dissenso religioso, se il Sant'Uffizio non avesse in qualche modo risposto ai bisogni sociali di una città che stava attraversando un periodo di rapida espansione industriale e di aumento del movimento immigratorio, la criminalizzazione del dissenso religioso, in special modo a livello popolare, non avrebbe avuto molte probabilità di riuscita. I cambiamenti sociali, infatti, non meno della politica erano alla base del modo in cui uomini e donne di questa città dell'Italia settentrionale pervennero a definire e ad affrontare l'eresia e quindi, in ultima analisi, a definire la comunità, lo stato e se stessi.
John Martin
Trinity University, San Antonio
NOTE AL TESTO
1 Giovanni Antonio Facchinetti, «Lettera a Michele Bonelli, 5 ottobre 1566», in A. Stella (a cura di), Nunziature di Venezia, voi. Vili, Roma 1963, p. 116. Gli atti del processo si trovano nell’Archivio di Stato di Venezia (d’ora in poi ASV), Sant'Uffizio, busta 12, fascicolo «Contra Maximum de Maximis ingenerium et compli-ces». Per una rapida analisi di questo processo si veda A. Ouvieri, L'ecclesia di Massimo Massimi. Ricerche sul movimento ereticale veneto del Cinquecento, in Miscellanea Gilles Meerseman, Padova 1970, pp. 817-827. Su questa prima punizione pubblica, si veda anche P. Grendler, The Roman Inquisition and thè Venetian Press, Princeton 1977, p. 138.
2 Giovanni Antonio Facchinetti, «Lettera a Michele Bonelli, 12 ottobre 1566», in A. Stella (a cura di), Nunziature di Venezia cit., voi. Vili, p. 119.



Inquisizione romana e criminalizzazione del dissenso
797
3 F. Gaeta (a cura di), Documenti da codici vaticani per la storia della Riforma in Venezia, appunti e documenti, in «Annuario dell’Istituto Storico per l’Età Moderna e Contemporanea», 7, 1955, pp. 6-53.
4 Facchinetti fornisce un resoconto del suo discorso al Collegio in una relazione del 21 giugno 1572 per il segretario di Stato del Papa; si veda A. Stella (a cura di), Nunziature di Venezia cit., voi. X, pp. 221-222.
5 Giovanni Antonio Facchinetti, «Lettera a Michele Bonelli, 12 ottobre 1566», in A. Stella (a cura di), Nunziature di Venezia cit., voi. Vili, p. 119.
6 In effetti, dal punto di vista dello stato cristiano, l'eresia era un crimine. Benché questo concetto fosse stato esplicitamente ammesso fin dai tempi della lotta di Sant’Agostino contro i donatisti, fu ribadito con particolare vigore nell'editto dell'imperatore Federico II emanato intorno al 1235: «Statuimus in primis, ut cri-men haereseos atque damnatae sectae cuiuslibet, quocumque nomine censeantur sectatores, (prout veteribus legibus est indictum) inter publica elimina numeren-tur», Directorium Inquisitorium F. Nicolai Evmerici Ordinis Praedicatorum, cum commentariis Francisci Pegna Sacre Theologiae ac luris Utriusque Doctoris, Venezia, Apud Marcum Antonium Zalterium, 1607, p. 14 e ripetuto testualmente, p. 29. Quest'opera fu pubblicata per la prima volta a Roma nel 1578. Il decreto di Federico, frequentemente citato tanto dai giuristi del diritto canonico quanto dagli inquisitori, continuò ad influenzare la concezione politica e legale dell'eresia in Italia per tutto il Rinascimento e il periodo della Controriforma. Compare anche, per esempio, nel manuale Repertorium Inquisitorium Pravitatis Haereticae, Venezia, Apud Da-mianum Zenarum, 1588, p. 211 s., alla voce crimen. Sull'emergere del concetto di eresia in seno allo stato cristiano, si veda A. Momigliano, Freedom of Speech and Religious Tolerance in thè Ancient World, in S. C. Humphreys, Anthropology and thè Greeks, London 1978, p. 193. Va detto subito che, benché l'eresia abbia sempre costituito una possibilità latente all'interno della cristianità, la definizione e la classificazione di determinati atti e/o credenze come eretiche presenta gli stessi problemi teorici della definizione di un qualsiasi «X» come criminale. Inoltre, durante la Riforma, la definizione dell'eresia si fece sempre più complessa per via del proliferare di sette e chiese, come riconobbe Sebastiano Castellio nel suo De haereticis, an sint persquendi, Magdeburg, Per Georgium Rausch, 1554. Su quest'opera, si veda più oltre la nota 66.
7 E. Durkheim, De la division du travail social, Paris 1978, p. 48. La prima edizione è del 1893.
8 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, in G. Mazzoni e M. Casella (a cura di), Tutte le opere storiche e letteratura di Niccolò Machiavelli, Firenze 1929, p. 78.
9 I. Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, Napoli 1974, p. 20.
10 E. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, Paris 1912 e P. Ber-ger, The Secret Canopy: Elements of a Sociologica! Theory of Religion, New York 1967.
11 N. Davidson, Il Sant’Uffizio e la tutela del culto a Venezia, in «Studi veneziani», n.s., 6, 1982, pp. 87-101.
12 S. Seidel-Menchi, Inquisizione come repressione o inquisizione come mediazione?, in «Annuario dell'Istituto Storico Italiano per l'età moderna e contemporanea», 35-36, 1983-1984, pp. 56-61.
13 «dum duceretur in Carceribus, populus clamabat, bisogna destruzer i luterani», ASV, Sant’Uffizio, busta 33, fascicolo «C. Prosperum Capellarum et Battista Amai dalle Bambine», rapporto dell'ufficiale giudiziario che effettuò l'arresto, 20 settembre 1572.
14 Ibid., testimonianza del 12 luglio 1572. Sull'avvertimento dato a Battista da



798
John Martin
Camillo, si veda la sua testimonianza del 21 ottobre. La denuncia fu presentata 1'11 luglio. Sulla visita dell'offìzial a casa di Prospero, si veda l’interrogatorio di Prospero del 4 luglio.
15 ASV, Sant'Uffìzio, busta 43, fascicolo <Domenego di Lorenzo», testimonianza del 31 marzo 1578.
16 ASV, Sant'Uffizio, busta 46, fascicolo <Fra Lorenzo da Venezia», denuncia dell'11 settembre 1580.
17 ASV, Sant'Uffìzio, busta 7, fascicolo <Contra Antonium Bononiensem», e ibid., fascicolo «Contra Franceschinam et al.».
18 ASV, Sant’Uffìzio, busta 19, fascicolo <Zanco Giuseppe», testimonianza del-1'8 luglio 1561.
19 ASV, Sant'Uffìzio, busta 40, fascicolo <Paolo di Albori», testimonianza del 5 gennaio 1576. Su Christoph Ott, si veda ibid., busta 49, fascicolo <Otto, Cristolo; Otto Daniele; Otto Girolamo», testimonianza del 10 febbraio 1582, e su Romano, si veda ibid., busta 23, fascicolo < Contra Romanum Fiamengum Callegarium», testimonianza del 19 maggio 1568. Infine, sulle donne nel ruolo di garanti dell'ortodossia all’interno della famiglie nella Venezia del XVI secolo, si veda J. Martin, Out of thè Shadow: Heretical and Catholic Women in Renaissance Venice, in <The Journal of Family History», 10, 1985, pp. 21-33.
20 Sugli Ebrei a Venezia, si veda C. Roth, History of thè Jews in Venice, New York 1975, e B. Pullan, The Jews of Europe and thè Inquisition of Venice, 1550-1670, Totowa, New Jersey 1983; sui Greci, G. Fedalto, Ricerche storiche sulla posizione giuridica ed ecclesiastica dei Greci a Venezia nei secoli XV e XVI, Firenze 1967; e sui Turchi, A. Sagredo e F. Berchet, Il Fondaco dei Turci in Venezia, Milano 1860.
21 A proposito di questa favola, si veda ASV, Sant'Uffìzio, busta 46, fascicolo <Contra Antonium Aurifìcem», denuncia del 18 ottobre 1580 e C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Torino 1976, pp. 58-59.
22 J. Bodin, CoUoquium of thè Seven about thè Secrets of thè Sublime, trad. ingl. M. L. Kuntz, Princeton 1975, p. 3. Sull'importanza di Bodin e di Postel nella storia della tolleranza religiosa, si veda Q. Skinner, The Foundations of Modem Politicai Thought, voi. II, The Age of Reformation, Cambridge 1978, pp. 244-249. Sui legami tra Postel e Venezia, si veda W. J. Bouwsma, Concordia Mundi: The Career and Thought of Guillaume Postel (1510-1581), Cambridge, Massachusetts 1957, e più recentemente M. L. Kuntz, Guillaume Postel, Prophet of thè Restitution of All Things: His Life and Thought, The Hague 1981.
23 Sulla creazione dell'Inquisizione romana, si veda L. von Pastor, The History of thè Popes, Wilmington, North Carolina 1978, voi. XII, p. 504; e, sul suo insediamento a Venezia, si veda Grendler, The Roman Inquisition and thè Venetian Press, pp. 35-42 e Pullan, The Jews of Europe and thè Inquisition of Venice cit., pp. 3-57. La presenza di magistrati laici in un tribunale urbano non era una particolarità di Venezia; si veda, a questo proposito, G. Bertora, Il tribunale inquisitorio di Genova e l'Inquisizione Romana nel '500, in «La civiltà cattolica», 104, 1953, pp. 173-187.
24 Citato in A. Stella, Guido da Fano eretico del secolo XVI al servizio dei re d'Inghilterra, in <Rivista di storia della Chiesa in Italia», 13, 1959, p. 196.
25 G. Fedalto, Ricerche storiche sulla posizione giuridica dei Greci cit., e Pullan, The Jews of Europe and thè Inquisition of Venice cit.
26 Sul rifiuto opposto dal governo veneziano alla pubblicazione della bolla, si veda Giovanni Antonio Facchinetti, < Lettera a Michele Bonelli, 10 dicembre 1569», in A. Stella (a cura di), Nunziature di Venezia cit., voi. IX, p. 169. Alberto Bolognet-ti, < Dello stato et forma delle cose ecclesiastiche nel dominio dei signori venetiani» in A. Stella (a cura di), Chiesa e Stato nelle relazioni dei nunzi pontifìci a Venezia, Vaticano 1964, p. 282.



Inquisizione romana e criminalizzazione del dissenso
799
27 Grendler, The Roman Inquisition and thè Venetian Press cit., p. 35. Sull'attività dell'Inquisizione a Venezia precedente alla sua riorganizzazione del decennio 1540-50, si veda in particolare Archivio Patriarcale di Venezia, Criminalia Sanctae Inquisitionis, busta 1.
28 Sul controllo del crimine nella Venezia del XV secolo, si veda S. Chojnacki, Crime, Punishment, and thè Trecento Venetian State, in L. Martines (a cura di), Vio-lence and Civil Disorder in Italian Cities, 1200-1500, Berkeley 1972, pp. 184-228 e G. Ruggiero, Violence in Early Renaissance Venice, New Brunswick 1980. Le mie osservazioni non vogliono suggerire che i Veneziani trascurassero di occuparsi della moralità dei costumi dal punto di vista giudiziario nel tardo periodo medievale. Anzi, è vero il contrario - in particolare riguardo ai comportamenti relativi alla sessualità - come mostra Ruggiero nel suo The Boundaries of Eros: Sex Crime and Sexuality in Renaissance Venice, Oxford 1985. Tuttavia, il tono si inasprì all'inizio del XVI secolo; si veda G. Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati Italiani: Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 81-174.
29 Sulla legislazione concernente le monache, si veda F. Gilbert, Venice in thè Crisis of thè League of Cambrai, in Gilbert, History: Choice and Commitment, Cambridge, Massachusetts 1977, p. 279; sui Provveditori sopra le pompe, si veda G. Bistort, Il magistrato alle pompe nella Repubblica di Venezia, Bologna 1969; e sulle pene inflitte ai blasfemi nel 1514, si veda G. Cozzi, Religione, moralità e giustizia a Venezia: Vicende della Magistratura degli Esecutori contro la bestemmia, Padova, dattiloscritto senza data, p. 8 e R. Derosas, Moralità e giustizia a Venezia nel ’500-’600: Gli Esecutori contro la bestemmia, in G. Cozzi (a cura di), Stato, Società e Giustizia nella Repubblica di Venezia (Sec. XVI-XVIII), Roma 1980, pp. 431-528.
30 Sulle nuove leggi per i poveri e l'ideale veneziano di carità, si veda B. Pul-lan, Rich and Poor in Renaissance Venice: The Social-Institutions of a Catholic State, Cambridge, Massachusetts 1971.
31 ASV, SanfUfftzio, busta 7, fascicolo «Contra Franceschinam et al.», ibid., fascicolo «Contra Denuntiatos prò hereticis de contracta Sancti Moysis», e ibid., fascicolo «Boccaloro Gio. Maria et al.». Sebbene questi casi rappresentino soltanto un quarto circa di tutti i procedimenti legali istituiti nel 1547 e nel 1549 (contro residenti di Venezia), la maggior parte degli altri casi coinvolgevano singoli individui o quantomeno piccoli gruppi di individui. Non dobbiamo dimenticare che l’Inquisizione aveva particolarmente insistito presso il clero perché sollecitasse denunce. Si véda A. Santuosso, The Moderate Inquisitor: Giovanni Della Casa’s Venetian Nunziature, 1544-1549, in «Studi Veneziani», n. s., 2, 1978, p. 188. Inoltre, persino le prime denunce contro gli anabattisti veneziani provenivano dall'esterno della comunità, dalla stessa Roma, a seguito delle straordinarie rivelazioni dello spretato Pietro Manelfi; si veda C. Ginzburg, I costituiti di don Pietro Manelfì, Dekalb-Chica-go 1970.
32 Col termine inquisitio si definisce un procedimento giudiziario, non confinato all'Inquisizione, ma usato anche dai tribunali laici, in cui «la corte stessa istruiva la causa contro il sospettato». Su questa procedura, in molti casi chiamata in-quisitionsprozess, si veda J. H. Langbein, Prosecuting Crime in thè Renaissance, Cambridge, Massachusetts 1974, pp. 129-139 e B. Lenman e G. Parker, The State, thè Community and thè Criminal Law in Early Modem Europe, in V. A. C. Gatrell, B. Lenman e G. Parker, Crime and thè Law: The Social History of Crime in Western Europe since 1500, London 1980, in particolare pp. 29-30.
33 ASV, Sant’Uffìzio, busta 8, fascicolo «Andrea di Colori», testimonianza del 25 gennaio 1550. Il caso del sacerdote di San Barnaba ebbe un considerevole impatto sull'opinione popolare veneziana. Durante il processo di un folto gruppo di eretici della parrocchia di San Moisé, un testimone parlò di «qualche predicator



800
John Martin
che predica ala roverza come fu quello di San Barnaba», e un altro osservò che «quando fu retenuto uno certo predicator salve el vero di San Barnaba lui mistro Iseppo si lamentava pur troppo publicamente», ibid. busta 7, fascicolo «Contra De-nuntiatos prò hereticis de contracta Sancti Moysis», testimonianze del 14 ottobre e 20 novembre 1548.
34 N. Eymerich e F. Pena, Le manuel des Inquisiteurs, trad. a cura di L. Sala-Molins, Paris 1973, p. 110.
35 ASV, Sant'Uffizio, busta 40, fascicolo «Negro Giorgio», denuncia del 23 aprile 1576.
36 Carlo Borromeo, Avvertenze di Mons. Illustrissimo Cardinale di S. Prassede, Arcivescovo di Milano, ai Confessori nella Città et Diocese soa, in Acta ecclesiae me-diolanensis, voi. II, col. 1893.
37 ASV, Sant’Uffìzio, busta 15, fascicolo «Andrea ormesiner, Marangon Iseppe, Martinello Pietro», denuncia del 15 aprile 1565, e ibid., busta 20, fascicolo «Moian Vettore, Pizzamano Catterina, fra Felice da Padova, Rado Francesco, Marcello Francesco», denuncia del 27 maggio 1565.
38 Ibid., busta 7, fascicolo «Pre Alvise de Michiel», denuncia del 17 aprile 1565.
39 Ibid., busta 40, fascicolo «Antonio ditto Melon», testimonianza del 13 marzo 1576.
40 Ibid., busta 43, fascicolo «Cromeri Guglielmo», denuncia del 30 maggio 1578.
41 Giovanni Antonio Facchinetti, «Lettera a Michele Bonelli, 17 maggio 1567», in A. Stella (a cura di), Nunziature di Venezia, cit., voi. Vili, p. 217. Sui rapporti tra Alessandro e gli altri avvocati di Venezia, si veda ASV, Sant’Uffìzio, busta 22, fascicolo «Matteo degli Avogari; Alessandro degli Avogari, Andrea Pasqualigo».
42 Giovanni Antonio Facchinetti, «Lettera a Michele Bonelli, 7 giugno 1567», in A. Stella (a cura di), Nunziature di Venezia cit., voi. Vili, p. 227. Per il processo, si veda ASV, Sant’Uffizio, busta 22, fascicolo «Giacomo da Sacil».
43 C. Ginzburg, Due note sul profetismo cinquecentesco, in «Rivista storica italiana», 78, 1966, pp. 211-212.
44 Alberto Bolognetti, «Dello stato et forma delle cose ecclesiastiche nel dominio dei signori venetiani», in A. Stella (a cura di), Chiesa e Stato nelle relazioni dei nunzi pontifici a Venezia cit., p. 288.
45 Questa citazione di Pena si trova in J. P. Dedieu, The Inquisition and Popu-lar Culture in New Costile, in S. Haliczer (a cura di), Inquisition and Society in Early Modem Europe, London 1987, p. 143. Ma questo concetto dell'importanza della punizione esemplare non era esclusivo del controllo dell’eresia. Si veda su questo tema M. Foucault, Surveiller et punir: naissance de la prison, Paris 1975 (trad. it. Sorvegliare e punire, Torino 1976), e P. Spierenburg, The Spectacle of Suffering: Exe-cution and thè Evolution of Repression, Cambridge 1984.
46 La scelta del governo veneziano di eseguire segretamente le sentenze di morte degli eretici più ostinati riveste un notevole interesse. Le esecuzioni capitali comminate per altri tipi di crimini, dopo tutto, erano in generale allestite in pubblico. Gli ambasciatori del Papa a Venezia, inoltre, si erano battuti perché fosse riservato un analogo trattamento anche agli eretici fin dagli esordi dell'Inquisizione romana in città. Nel 1547 il nunzio pontificio Giovanni Della Casa, ad esempio, aveva insistito perché lo stato veneziano autorizzasse la decapitazione pubblica e il rogo di Fra Baldo Lupetino tra le due colonne di piazza San Marco «talmente che la pena sua sia exempio ad altri», ASV, Sant’Uffìzio, busta 10, fascicolo «Lupetino Fra Baldo», sentenza del 27 ottobre 1547. Ma il governo veneziano rifiutò di acconsentire alla richiesta. Tuttavia aH'interno della classe dirigente veneziana non mancarono discussioni su quale fosse il sistema da preferire (se il rogo in pubblico o



Inquisizione romana e criminalizzazione del dissenso
801
l’affogamento notturno); si veda a questo proposito ibid. e anche Giovanni Antonio Facchinetti, «Lettera a Michele Bonelli, 1 febbraio 1567», in A. Stella (a cura di), Nunziature di Venezia cit., voi. Vili, pp. 166-167. I vecchi appoggiavano l’opinione di Facchinetti che l'esecuzione dovesse essere pubblica, ma i giovani prevalsero. Tuttavia, come nota B. Bennassar, LTnquisition espugnale XVe-XIXe siècle, Paris 1979, in particolare, pp. 123-130, anche le esecuzioni segrete incutevano terrore.
47 ASV, Sant’Uffizio, busta 22, fascicolo «Lucengo Giangiacomo», testimonianza del 31 gennaio 1567.
48 Ufficialmente, cerano tre sistemi per avviare un processo per eresia: (1) accusa, (2) denuncia, (3) inchiesta; si veda B. Pullan, The Jews of Europe and thè Inquisition in Venice cit., pp. 92-93, quantunque, come Pullan osserva sulla scorta dei manuali stessi dell'Inquisizione, il primo di questi tre sistemi venisse raramente usato. Il fatto che alla base di un processo ci fosse molto più frequentemente una denuncia che un'accusa (che faceva ricadere sulle spalle dell'accusatore l’obbligo di fornire le prove) rese l’Inquisizione un organismo spiccatamente impersonale. E benché John Langbein abbia minimizzato l’importanza del modo di avviare un In-quisitionsprozess, i suoi argomenti sono poco convincenti poiché quantunque scarsamente illuminato dalle testimonianze rimasteci, il modo prescelto riveste però una grande importanza per la storia sociale del crimine in quanto opposta a quella puramente legale. Le osservazioni di Langbein sono presentate nel suo Prosecuting Crime in thè Renaissance cit., pp. 130-131. Interessanti conclusioni ricavate dall’analisi dei modelli di accusa si trovano in P. Boyer e S. Nissenbaum, Salem Posses-sed: The Social Origins of Witchcraft, Cambridge, Massachusetts 1974 (trad. it. Salem. Le origini sociali di una caccia alle streghe, Torino 1986).
49 F. Lane, Venice: A Maritime Republic, cap. XXII, pp. 308-321, B. Pullan, Crisis and Change in thè Venetian Economy, introduzione pp. 1-21, London 1970, e F. Braudel, La vita economica di Venezia nel secolo XVI, in La civiltà veneziana del rinascimento, Venezia 1958, pp. 8-101 offrono eccellenti panoramiche sulla storia economica di Venezia nel XVI secolo. Sull’espansione dell’industria laniera, si veda D. Sella, The Rise and Fall of thè Venetian Wool Industry, in B. Pullan (a cura di), Crisis and Change cit., pp. 106-126; sulla crescita dell'industria della seta, del sapone, del metallo e del vetro, si veda F. Lane, Venice: a Maritime Republic, in particolare pp. 31 e 313; sull’Arsenale e i suoi lavoratori, si veda R. Romano, Economie Aspects of thè Construction ofWarships in thè Sixteenth Century, in B. Pullan, Crisis and Change cit., pp. 59-87. D. Howard, Jacopo Sansovino: Architecture and Patronage in Renaissance Venice, New Haven 1975, p. 2 esamina l’espansione del settore edilizio. Per quanto riguarda la stampa a Venezia, si veda in particolare M. Lowry, Aldus Manutius, Oxford 1979, soprattutto il cap. I. L’espressione «stabilimento non meccanizzato» è di Lane, si veda The Rope Factory and Hemp Trade in Venice and History: The CoUected Papers of Frederic C. Lane, p. 270. La citazione è tratta dal saggio di Braudel, p. 97.
50 Sui fornai, si veda H. Simonsfeld, Der Fondeco dei Tedeschi in Venedig und die deutsch-venetianischen Handelsbeziehung, Stuttgart 1887, voi. Il, pp. 269-275; sui macellai, F. Braudel, Capitalism and thè Material Life, New York 1973, p. 129 (trad. it. Capitalismo e civiltà materiale, Torino 1977); sui lavoratori dell'Arsenale, R. Gallo, Maestranze trentine nell’arsenale di Venezia, in «Archivio Veneto», 26, 1940, pp. 113-124; e sugli stampatori, si veda in particolare ASV, Sant’Uffìzio, busta 39, fascicolo «D’Ochino Pietro».
51 Sulla popolazione veneziana, si veda K. J. Beloch, Bevolkerungsgeschichte Italiens, Berlin 1961, voi. Ili, p. 17 a D. Beltrami, Storia della popolazione di Venezia dalla fine del secolo XVI alla caduta della Repubblica, Padova 1954, p. 59.
52 Carlo Borromeo, Literae Pastorales, in Acta ecclesiae mediolanensis, Ferrara



802
John Martin
o Milano 1892, voi. Ili, col. 666. Furono effettivamente molte le denunce provenienti dalle botteghe, soprattutto dopo il 1575.
53 ASV, Sant’Uffìzio, busta 40, fascicolo «Gebler Giorgio», denuncia del 7 aprile 1576; ibid., fascicolo «Palavicino, Bernardo», denuncia del 1 aprile 1576; ibid., busta 46, fascicolo «Poter Giovanni», denuncia del 22 ottobre 1580; e ibid., fascicolo «Raniero Bravi», denuncia del 19 giugno 1580.
54 Questi dati statistici si basano sull’analisi preliminare di tutti i processi istruiti a Venezia dal 1547 al 1583 in cui furono coinvolti dei residenti. Dal 15471564, il numero degli individui denunciati o implicati in qualche processo si aggirava su una media annua di poco più di 15, nel 1564-1583, il numero salì a più di 30 all’anno ... Tuttavia, non tutti gli imputati furono processati.
55 ASV, Sant’Uffìzio, busta 39, fascicolo «Pietro D’Ochino», testimonianza del-1’11 agosto 1575, e fascicolo «Giovanni Grigioni», testimonianza del 7 maggio 1579.
56 Si veda, per un confronto, L. Gernet, Law and Prelaw in Ancient Greece, in L. Gernet, The Anthropology of Ancient Greece, trad. ingl. Baltimore 1981, p. 176. Il saggio di Gernet fu pubblicato per la prima volta in «Année sociologique», III serie, 1948-1949, pp. 21-119.
57 Vergerio a Bullinger, 1553, citato in L. Von Pastor, The History of Popes cit., voi. XIU, p. 219.
58 Sulle riforme di Pio IV, si veda L. von Pastor, The History of thè Popes cit., voi. XVI, p. 309.
59 Sul crescente ricorso alla tortura, si veda S. Seidel-Menchi, Inquisizione come repressione o inquisizione come mediazione? cit., p. 77; sulla reintroduzione del servizio sulle galee, si veda B. Pullan, The Jews of Europe and thè Inquisition of Venice cit., p. 61. Pullan osserva che questa forma di punizione equivaleva virtualmente a una sentenza di morte.
60 Grendler presenta un elenco parziale degli individui giustiziati dal Sant’Uffìzio veneziano nel suo Roman Inquisition and thè Venetian Press cit., p. 57, n. 92.
61 Citato in S. Seidel-Menchi, Inquisizione come repressione o inquisizione come mediazione? cit., p. 76.
62 Citato in L. von Pastor, The History of thè Popes cit., voi. XII, pp. 508-509.
63 Citato in B. Pullan, The Jews of Europe and thè Inquisition of Venice cit., p. 11. Sulla sociologia dei movimenti ereticali stessi, si veda J. Martin, Salvation and Society in Sixteenth-Century Venice: Popular Evangelism in a Renaissance City, in «The Journal of Modem History», di prossima pubblicazione (1988).
64 Voltaire, Commentaires sur le livre des délits et des peines in Oeuvres complè-tes de Voltaire, Paris 1892, voi. XXVIII, pp. 228 e 233. Sulla moderazione dell'Inquisizione rispetto ad altri tribunali si veda J. Tedeschi, Preliminary Observations on Writing a History of thè Roman Inquisition, in F. F. Church e T. George (a cura di), Continuity and Discontinuity in Church History, Leiden 1979, pp. 232-249.
65 J. A. Sharpe, Crime in Early Modem England, 1550-1750, London e New York 1984, p. 4.
66 Sebastiano Castelli©, De Haereticis. Ho consultato la traduzione di Roland Bainton: Conceming Heretics: Whether They are to be Persecuted, New York 1935, p. 129.
67 Cfr. Lenman e Parker, The State, thè Community and thè Criminal Law cit.