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Title
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UN SECRETO PER FAR MORIRE LA PERSONA DEL RE. MAGIA E PROTEZIONE NEL PIEMONTE DEL '700
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Creator
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Sabina Loriga
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Date Issued
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1983-08-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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18
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issue
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53 (2)
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page start
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529
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page end
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552
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
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Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello... Un caso di parricidio del XIX secolo, Italy, Einaudi, 1976.
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Rights
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Quaderni storici © 1983 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230921071403/https://www.jstor.org/stable/43777167?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoyMCwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjQ3NX19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Aa373d9b4a4f2a6f8e5ee57387483657f
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Subject
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institutions
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individuals and individualization
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discourse
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non-discursive practices
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extracted text
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UN SECRETO PER FAR MORIRE LA PERSONA DEL RE.
MAGIA E PROTEZIONE NEL PIEMONTE DEL 700
Nell'Archivio di Stato di Torino sono conservate alcune cause di stregoneria intentate dal tribunale secolare nel primo trentennio del secolo XVIII: nove processi (con più di sessanta imputati), oltre a dieci casi in cui l'incartamento si limita alla fase istruttoria o in cui l'accusato è recluso senza processo (detenuti in attesa di giudizio, individui incarcerati su decisione reale, etc. 0, che si svolgono a ridosso della prematura scomparsa del principino Vittorio, avvenuta nel marzo del 1715, e che il più delle volte hanno per oggetto la costruzione di ima piccola statua malefica contro qualche membro della famiglia reale. Sono tutte cause istruite non da giudici inferiori — legati a situazioni periferiche e locali— bensì dal Senato, l'istanza suprema della magistratura piemontese, che vedono l'intervento di alcuni rappresentanti di primo piano della politica sabauda e che spesso si concludono con condanne a morte o alla galera perpetua. Non si tratta di sprazzi tardivi o di appendici casuali di persecuzioni più antiche e nemmeno di eventi sporadici o comunque marginali rispetto alla realtà sociale e culturale del Piemonte di Vittorio Amedeo II: il numero delle persone coinvolte, il ristretto e compatto arco di tempo in cui sono istruiti i processi2, l'importanza che viene loro attribuita non sono che alcuni dei segnali, i primi e più evidenti, di ciò. Piuttosto, si è di fronte a una vera e propria ondata di persecuzione, che possiede una sua fisionomia peculiare e che esprime e nello stesso tempo illumina alcune delle contraddizioni che attraversano la società piemontese nel primo trentennio del Settecento.
Una documentazione ricca, che solleva immediatamente alcuni interrogativi importanti sia sul piano storico comparativo sia per quanto riguarda i criteri interpretativi generalmente utilizzati nelle ricerche sulla persecuzione della stregoneria. In primo luo-
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go, infatti, tali processi — incentrati su statue malefiche dirette contro la persona del sovrano o contro altri componenti di casa Savoia e basati su uno stretto intreccio tra crimine di stregoneria e delitto di lesa maestà — pongono un problema, quello della percezione popolare dell'immagine regale (del significato e dello spessore della presenza del sovrano nella vita sociale), in particolare in una monarchia di dimensioni geografiche relativamente piccole come quella sabauda. Inoltre, svelando una ripetuta e talora feroce volontà di persecuzione da parte dell'alta magistratura e dell’autorità sovrana, questi processi mettono in discussione un’interpretazione, diffusa e condivisa da molti studiosi, che ha attribuito la fine della persecuzione legale della stregoneria al crescente scetticismo dei gruppi dirigenti e che ha visto nei processi tardivi, intentati alla fine del secolo XVII e nel secolo XVIII, nient’altro che dei residui accidentali di un fenomeno ormai concluso, frutto della pressione sociale del volgo su qualche giudice di provincia3.
Tuttavia, non affronterò immediatamente questi interrogativi. Utilizzerò invece i processi per esaminare un problema apparentemente molto lontano, quello dell’internamento e, più precisamente, della cultura di individui internati in ricoveri di carattere assistenziale oppure reclusi in carcere. La documentazione offre infatti alcuni spunti di riflessione sul rapporto tra individuo e istituti assistenziali o luoghi punitivi, consentendo di avvicinare un problema su cui gli studi sul pauperismo e sulle istituzioni totali — nella maggioranza dei casi tesi ad analizzare la politica della Chiesa, dello Stato e dei gruppi sociali più abbienti verso la povertà e verso i poveri e i 'marginali' — sono spesso rimasti silenziosi: quello degli atteggiamenti popolari verso le istituzioni 4.
«Ho inteso che vi era un huomo nel carcere che haveva fatto una statua contro il Re, et che gli haveva messo una Resca, et che detto huomo il re l'haveva fatto squarttare à Coda di Cavalli, et che haveva premiato e ricompensato un altro huomo, che haveva rivelato la fabrica di tal statua». È il 2 giugno 1717 e Clara Ribolletta cerca di spiegare ai giudici che la interrogano i motivi per cui nel dicembre precedente ha accusato padre, sorelle, marito, suoceri e molti personaggi altolocati di maleficio, commercio carnale col demonio, partecipazione al sabba e soprattutto di avere costruito tre statuette malefiche: una che avrebbe provocato la prematura morte del principino Vittorio nella pri-
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mavera del 1715 e le altre due, ancora in cantiere, che sarebbero dirette contro il principino vivente e contro il re. Adesso, accortasi di essere rimasta intrappolata nelle sue stesse accuse, la Ribolletta cerca invano di smontare il racconto precedente e di liberarsi dal giudizio di stregoneria che le grava sulla testa. Per questo ricorda di non essere stata la prima a formulare simili accuse e spiega di avere «detto tutto quanto sopra su tal fiducia, credendo anche di esser premiata»5.
In effetti, se torniamo indietro di sette anni, nelle carceri senatorie di Torino troviamo il detenuto Antonio Barbero che dichiara di avere importanti rivelazioni da fare e che racconta «qualmente in queste carceri siasi macchinato da qualche detenuto di formare una statua di cera rappresentante l'effigie e persona della medesima Regia Altezza et indi quella consumare ad effetto di far morire detta Altezza Reale». Accusa, insomma, di avere costruito una statua malefica contro Vittorio Amedeo II il suo compagno di cella Antonio Boccalaro, recluso da venti mesi per avere partecipato all'omicidio del fiscale Franco Vercellino. In cambio chiede «se S.A.R. voleva degnarsi di farlo liberare»6. Le sue parole sono confermate da altri due reclusi e durante la perquisizione della cella comune i giudici trovano il corpo del delitto: un fantoccio di tela, cucito con filo bianco, alto un palmo di mano, il capo grande come una noce, la marca delle ciglia, gli occhi neri, il naso rilevato, le braccia, il membro virile, le gambe. Il ritrovamento del fantoccio è fatale: dopo tre interrogatori in cui tenta di affermare la sua innocenza Boccalaro viene condannato alla morte con esemplarità. L'esecuzione ha luogo in piazza delle Erbe il 30 gennaio 1710. A Barbero, come ricorda la Ribolletta, viene concessa una diminuzione della pena.
Vi sono due elementi proposti dalla vicenda Boccalaro-Barbe-ro che si ripresenteranno più volte nei processi successivi: il primo è che il maleficio riguarda un membro della famiglia reale e il secondo è il ricorrere degli istituti assistenziali e di quelli punitivi, degli «assembramenti e spazi governati dall'autorità»7. Nella maggioranza dei casi (sette processi su nove) l'accusatore è infatti internato in un ricovero o in uno ospizio oppure è addirittura recluso in carcere: Cattarina Cuore, che nel 1716 denuncia svariate persone di avere provocato mediante malefici la morte del principino Vittorio, è un'interna del Deposito dell'Opera Pia San Paolo di Torino; Clara Ribolletta, che come ho già detto denuncia nel 1716 molte persone di stregoneria, ha un lungo e travagliato passato di internata alle spalle (deposito dell'Opera
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Pia Buon Pastore di Asti, Ospizio dei poveri di Aosta, deposito dell'Opera Pia San Paolo di Torino); Onorato Daniele, che nel 1721 accusa il prete Albanelli e Giuseppe Peiron di avere fatto «un secreto per far morire le persone del Re nostro Reai Sovrano e del Reai Principe di Piemonte di lui figliolo», è detenuto nelle carceri senatorie di Nizza; Joseph Laurencet, che denuncia nel 1723 il conte Depleoz di avere maleficiato la moglie, è recluso alla Cittadella di Torino e Martin Barro di Vico, che nel 1725 accusa sei suoi compaesani di avere compiuto un maleficio contro il principe, nel castello di Ivrea; infine, Onorato Arnaudo, che nel 1726 accusa Carlo Farò di avere maleficiato la fu principessa di Piemonte e il principe e di voler maleficiare la regina, si porta dietro un'esperienza di reclusione nelle carceri senatoriali di Pinerolo. Vi è poi il caso di Biaggio Forno, di cui manca l’incartamento processuale, ma di cui si sa che, detenuto nelle carceri senatoriali di Torino, denuncia nel 1718 alcune persone «di sorti-leggy»8.
Un elemento che colpisce, anche tenendo presente l’alta percentuale di reclusi e di internati in questo periodo9, e che caratterizza sia gli istituti assistenziali che quelli carcerari come un terreno privilegiato per le accuse di stregoneria, un luogo dove esse trovano più facilmente un'espressione legale e formale. Tale elemento, che suscita immediatamente interrogativi e curiosità, in un primo tempo mi ha portata a pensare che esistesse un nesso causale tra un simile concentramento di accuse in ambito istituzionale e la dimensione totale degli istituti. Si tratta di un problema non del tutto nuovo nella letteratura storica e antropologica sulla stregoneria, che si è già presentato altre volte, anche se in modi o sotto aspetti differenti, e che ha dato luogo ad alcune ipotesi interpretative di cui forse la pena di ricordarne schematicamente due.
Robert Mandrou e altri storici, che hanno preso in considerazione le cosiddette «epidemie conventuali», vale a dire episodi collettivi o a catena di possessione e di accuse di stregoneria in istituti religiosi, hanno individuato nel carattere appunto religioso e nella dimensione comunitaria di tali istituti un elemento che favorisce il persistere di credenze arcaiche e superstiziose e soprattutto fenomeni di regressione culturale e psicologica. Mi sembra che tale ipotesi non possa aiutane a spiegare le radici sociali e culturali dei processi istruiti nel primo trentennio del Settecento in Piemonte. In primo luogo perché questi processi hanno come protagonisti accusatori singoli che in anni e in
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istituti diversi sporgono una denuncia di stregoneria davanti al tribunale e quindi non presentano mai i tratti del contagio o deH’epidemia. Inoltre — al di là del particolare contesto piemontese — l'analisi di Mandrou, tesa a limitare l'importanza teorica e storica della persecuzione della stregoneria in epoca tarda, riduce l’accusa di maleficio a un problema di arretratezza culturale e di patologia psicologica e la confina in situazioni definite tautologicamente come periferiche o eccezionali rispetto al resto della società10.
Alcuni antropologi — penso in particolare a Mary Douglas e Godfrey Lienhardt — hanno invece formulato l'ipotesi secondo cui situazioni comunitarie e totali in cui le relazioni sono intense, personalizzate e limitate impediscono l'espressione diretta ed esplicita di tensioni e aggressività, costringendo quindi l'individuo a ricorrere all'accusa di stregoneria in quanto forma espressiva mediata che permette di dar voce a tali conflittualità. Si tratta di un'ipotesi a mio parere molto interessante, che pone l'accento sul significato concreto e relazionale della credenza, che caratterizza l’accusa come risorsa positiva nelle relazioni tra individui o tra gruppi e che cerca di analizzare le possibilità espressive e di comunicazione offerte all’individuo in contesti che possiamo definire come totali11.
Mi sembra però che gli interrogativi sollevati dalla documentazione da me esaminata non trovino — e risiede forse qui il loro precipuo carattere storico, rivelatore di alcuni tratti della società piemontese del primo Settecento — una risposta esauriente in tale ipotesi. Certo, nelle relazioni tra internati, molto cariche sul piano emotivo e nello stesso tempo segnate dall’impossibilità di ricambio (non si scelgono né si possono cambiare i compagni di stanza o di cella), l’accusa può rappresentare un modo per esprimere e ‘risolvere’ gli impulsi aggressivi12. Senz'altro, ad esempio, in quella formulata da Barbero trovano espressione i sentimenti ostili che questi o altri detenuti provano verso Boccalaro, il quale per tutto il periodo della detenzione ostenta diffidenza verso i compagni di cella, con cui non vuole parlare e che considera «tutti delle oanalie», e sceglie come unico interlocutore e confidente il guardiano del carcereB. Vi sono, tuttavia, alcuni motivi per cui mi sembra che questo aspetto sia affatto collaterale e che l’accusa non assolva tanto il compito di esprimere i conflitti che attraversano e segnano le relazioni in un contesto totale.
In primo luogo, infatti, nella maggior parte dei casi soltanto
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l’accusatore è recluso o internato, mentre l’accusato vive all’esterno dell’istituto e generalmente è una persona che l’accusatore ha conosciuto in un periodo precedente al suo internamento. Inoltre, anche quando — come nel caso di Boccalaro — l’accusa riguarda e investe relazioni interne agli istituti, non emerge una situazione di compressione aggressiva. È significativo a questo proposito il distacco emotivo che accompagna le parole degli accusatori, che non coincidono mai con la vittima del maleficio — indicata invece quasi sempre, come ho già detto, in un membro della famiglia reale — e che non mostrano segni di particolare tensione o inquietudine; e che accompagna anche le deposizioni degli altri internati, che spesso reagiscono con estrema indifferenza all’intera vicenda. Le risposte dei testimoni al processo del 1726 non sono che un esempio. All’inizio di questo anno Onorato Arnaudo, graziato da S.M., esce dalle carceri senatoriali di Pinerolo e si reca dal conte Michele Antonio Borda per ringraziare il Senato dell’atto di clemenza che è stato usato nei suoi confronti e per fare una comunicazione importante riguardante «la persona di SA.R. e tutta la casa reale, per sgravio di sua coscienza». Denuncia così il suo ex-compagno di cella Carlo Farò di avere costruito una statua malefica che avrebbe portato alla morte «la fu Reale Principessa di Piemonte in occasione di suo parto, com’altresì il Reale Principe» e di voler «anche far morire S.M. la regina e tutta la casa reale di Savoia» e, per accreditare le sue parole, racconta di avere pubblicamente accusato Farò di fronte agli altri carcerati. Questi ultimi, interrogati sui motivi per cui non hanno denunciato i discorsi uditi, danno risposte assai evasive: «■ma signore non ci ho pensato né fatto su alcun riflesso», «erano discorsi di cose ch’io credevo improbabili et che fussero cose da esso inventate», «parlatte che non havevan Creditto» 14.
Mi sembra, insomma, che l’accusa non riguardi e non investa tanto la relazione tra accusato e accusatore, né più in particolare le relazioni tra internati o quelle tra reclusi. Il discorso principale è piuttosto quello che si svolge tra accusatore e istituzione e il vero protagonista della vicenda giudiziaria è l’accusatore, mentre l'accusato recita semplicemente la parte di spalla involontaria.
È interessante notare a questo proposito le modificazioni che la credenza nella stregoneria subisce in ambito istituzionale. In altri contesti sociali, quali emergono soprattutto dalle deposizioni dei testimoni15, la credenza agisce da strumento per spiegare disgrazie e interpretare relazioni16. Ne è un esempio la situazione che si crea intorno a Clara Ribolletta, quando questa giunge a
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Ivrea, dopo essere fuggita per la terza volta dai marito e avere trascorso parecchi mesi vagabondando. Per ottenere l'aiuto e la protezione del parroco della chiesa di San Maurizio e quello della chiesa di Sant'Uldarico, Clara infatti non soltanto accusa i suoi famigliari di stregoneria, ma sostiene anche — perpetuando la tradizione dei cerretani cinquecenteschi17 — di non avere mai ricevuto il battesimo cattolico e di essere stata donata e sacrificata dal padre a Belzebù e recita la parte dell'indemoniata. Questo episodio, che provoca nei due curati un'immediata disponibilità verso di lei, non passa inosservato in città, opera fratture e scatena conflitti tra i curati e i loro fedeli e costringe molti di questi a esprimere un giudizio sulla Ribolletta e a confrontarsi con l'interrogativo se «fosse mascha, indemoniata o matta» 18. Ciò che è interessante di questa situazione è l'estrema diversificazione di posizioni: pur credendo tutti quanti nella stregoneria, coloro che seguono e partecipano a questa vicenda scelgono di interpretare il caso della Ribolletta in modi divergenti. La credenza, cioè, non è un tutto omogeneo e indifferenziato: limgi dall’avere un valore prescrittivo, essa agisce invece come orizzonte culturale, al cui interno sono possibili posizioni e atteggiamenti discordi. Leggere un evento attraverso la ‘ideologia' della stregoneria è soltanto una delle possibili scelte interpretative. Quello che è determinante nella scelta, in questo caso nella definizione di Clara come strega, posseduta o simulatrice è il rapporto dei singoli partecipanti con la Ribolletta stessa; il giudizio di questi riflette le tensioni e i sentimenti, sia personali che sociali, da loro provati e vissuti verso la nuova arrivata. È in gioco il significato stesso della relazione, «thè total relationship»19. Il travaglio interiore in cui si dibatte il chierico Gamacio, indeciso se attribuire o meno a un maleficio la subitanea scomparsa delle sue due sorelle, avvenuta durante la permanenza della Ribolletta nel Canavese, e se considerare quest'ultima ima strega, mi sembra particolarmente esplicativo:
ho parlato veramente della morte di dette mie sorelle, et mi hanno detto che sarà torsi la detta Clara che l’havrà fatte morire, ma io risposi di non perché non lo potevo saper positivamente [. . .] puoi essere che io babbi detto a qualche persona che dette mie sorelle fossero ben stanti, forti e robuste e che non sapevo comprender mentre che subito partita detta Clara da nostra casa la mia sorella la più piccola d’anni quattro circa era stata sorpresa da un accidente che quantonque si siano fatti rimedj non si era potuta rihaver ma bensì morta [. . .] e non so cosa mi dica perché è mal il sospettar contro persone, ho bensì sentito dire che detta Clara fosse marcata [. . .] come si fa alle streghe, ma io non l’ho veduta et in quanto all'altra mia sorella che parimenti è muorta in puochi giorni
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era pur forte e robusta et è morta in cinque giorni [. . .], e non so cosa io debba giudicare, e quando detta Clara era in casa nostra si è sempre trattenuta con dette mie sorelle ma non posso dir che quelle Labbia preso in brachi©, ne fatto delle carezze 20.
In contesti diversi da quello istituzionale la credenza nella stregoneria permette insomma all'individuo di difendersi «dai rischi della crisi esistenziale di fronte al negativo» e di esprimere e definire le tensioni e le ambiguità che sorgono nelle relazioni21. È peraltro significativo che tali sospetti trovino assai raramente uno sbocco legale e che siano controllati e risolti attraverso quei meccanismi di protezione psicologica — come ad esempio la magia — che secondo De Martino permettono di instaurare un «regime protetto di esistenza» oppure sul piano metacomunicativo, all'interno della relazione accusatore-accusato. Ne è un esempio la ricomposizione di carattere rituale tra la moglie di Matteo Rostagno (una delle persone accusate dalla Cuore) e una tal Cattarina, in seguito a un litigio di natura economica in cui sono stati pronunciati insulti e maledizioni:
ritrovandomi io vicino a San Francesco che vollevo accomprare un bonetto negro, passando ivi in tal tempo detta Cattarina moglie del chiavatino mi disse ò Ruffianassa Putana faresti meglio di pagare li calzetti, che ha acomprato tuo marito che accomprar bonetti e far l’Ambitiosa e come che la medesima così in publico m’haveva vilipesa et ingiuriata io li dissi che non potesse mai più dir verità di ciò m’haveva detto, et che s’andasse à confessare et che non potesse mai haver parte in paradiso, perciò detta Cattarina andò a casa sua et disse à sua Madre e suo Marito che io gl’havevo detto che non potesse mai far la Creatura che haveva nel ventre viva, e perciò si portarono [. . .] a mia Casa e mi rimproverarono [. . .] et io havendoli calmati dicendoli che ciò non era vero e doppo haver detto Mio Marito pagato [. . .] detta Madre della Cattarina mi disse mia figlia ve ne ha detto à voi e voi ne havete detto ad essa perciò non pensateci più e continuate ad esser buone Amice22.
In ambito istituzionale viene meno questo aspetto della credenza, vale a dire la sua dimensione relazionale ed esplicativa, e l'accusa costituisce invece un canale di con trattazione: attraverso di essa l’accusatore si rivolge all'istituzione e instaura un rapporto di minaccia e insieme di richiesta.
Di minaccia, perché l'accusa, che consiste quasi sempre nell’avere costruito una statua malefica contro qualche componente di casa Savoia, acuisce i timori e ii senso diffuso di complotto che accompagnano la politica sabauda in questo periodo, in particolare dopo l’improvvisa e prematura scomparsa del primo-
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genito di Vittorio Amedeo II, seguita assai presto da quella del principe Tommaso, il figlio di Emanuele Filiberto di Carignano. E di minaccia soprattutto perché l’accusa rappresenta rimmagine regale come vulnerabile, mettendo in gioco il carisma del sovrano e quella che Marc Bloch ha definito «risonanza della regalità»23. E difatti le parole degli accusatori colpiscono nel segno, suscitando gravi preoccupazioni tra i ministri e i magistrati. Sono preoccupazioni che trovano una loro espressione esplicita nelle dichiarazioni del primo ministro Pietro Mellarede, che nel 1719 commenta come «ces sortes des statues» siano «Tentretien de plusieurs» e sostiene la necessità di non dare troppa pubblicità a «certaines fabriques des statues dont on parlait fort au pays [...] par raport à la curiosité qui engagé des esprits à tenter le mal». E che spingono i magistrati a compiere interrogatori minuziosi sui «secreti per pregiudicare alla salute» dei principi e dello stesso sovrano24 e ad alternare supplizi spettacolari (come quello di cui è vittima Boccalaro) a esecuzioni misurate e senza eccessi, in cui «la parte di spettacolo è neutralizzata» ^ oppure a rinchiudere direttamente in qualche fortezza l’accusato, senza istruire il processo, in una di quelle «oubliettes, par lesquelles le Roi Victoir a fait passer tout ceux qu’il vouloit faire perir, et qu’il n’osoit mettre à mort publiquement»26. .
L’accusatore, insomma, risveglia e attiva i timori che circondano rimmagine sovrana. È grazie a ciò che può poi avanzare una rivendicazione. Barbero non è infatti il solo a chiedere qualcosa in cambio della denuncia. Tutti gli altri accusatori condividono la speranza di trarre un beneficio da essa. Ricalcando un comportamento classico, tipico di un assetto giuridico che favorisce e premia la delazione, Onorato Daniele, Biaggio Forno, Joseph Laurencet e Martin Barro chiedono, come d’altronde Barbero, una diminuzione della pena. Ma in altri casi la posta in gioco è diversa: Francesco Freylino, un giovane di venticinque anni che ha lavorato in uno studio notarile ed è poi divenuto vagabondo, confessa in punto di morte che le accuse di maleficio rivolte contro Antonio Borda e Giuseppe Cernua sono state «inventioni per ottenere impieghi»; e altrettanto fa Onorato Ar-naudo che, scontato l’anno di reclusione cui è stato condannato per porto d’armi abusivo, denuncia Carlo Farò nella speranza «di ottener qualche premio ed impiego da S.M. per può ter vivere». Ancora diverse le motivazioni di Clara Ribolletta, che ricorre all’accusa più volte e sempre con fini differenti: prima nella speranza di non dover tornare dal marito da cui è fuggita e di
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essere accettata, di trovare una collocazione, nelle comunità cui approda durante il vagabondaggio, poi per entrare al Deposito dell’Opera San Paolo di Torino e infine per sfuggire alla reclusione. Mentre Catfarina Cuore crede che «ciò dicendo sarebbe stata ben veduta da S.M. et che mai li sarebbe mancato del pane per tutta la vita [...] che così faciendo haverebbe mosso à Compassione S.M.»27.
La richiesta che perciò viene espressa attraverso l’accusa non sempre ha come obiettivo la scarcerazione o un beneficio di natura immediatamente economica. In molti casi l’accusatore spera di ottenere un posto di lavoro, di ricevere un trattamento privilegiato, di accedere a un istituto assistenziale e talora anche di scavalcare le gerarchie degli istituti, la loro tassonomia ideale — e di entrare, per esempio, al deposito San Paolo invece che venire recluso all’Ospizio di carità28. D’altronde, che l’accusa non abbia una motivazione semplicemente economica o materiale è confermato dalle informazioni sulle condizioni patrimoniali degli accusatori, che indicano che nella maggioranza dei casi questi non appartengono agli strati più miserabili della popolazione, ma piuttosto a quella moltitudine di poveri congiunturali che vivono in condizioni di estrema variabilità e precarietà non soltanto sul piano strettamente economico, ma anche, soprattutto, su quello sociale29. Una situazione spesso rievocata negli interrogatori di imputati e accusatori e che induce Cattarina Rama, denunciata dalla Cuore, a commentare:
e non sto alli detti della detta Cuore, perché è una brutta Bestia perché stava hora otto giorni in un luogo, hora otto in un altro [. . .] e ne meno l’Anina la volleva retirare, et si è gietata una volta detta Cuore giu da una finestra, e ne meno li suoi fratelli la vogliono in casa [. . .] non ostante havesse un coffano con robbe dentro30.
Mi sembra quindi che il nodo che si cela dietro le accuse rimandi non tanto agli istituti assistenziali o a quelli carcerari in quanto luoghi totali, edifici chiusi e separati dalla società, ma piuttosto all’istituzione come dispensatrice di assistenza e come luogo o occasione di inserimento sociale31; non solo quindi alle condizioni di vita imposte dali’internamento, ma a ima situazione di non protezione, di non appartenenza ad alcun corpo sociale32.
Un nodo importante, che mette in luce alcuni caratteri dei meccanismi assistenziali del Piemonte dell’inizio del secolo XVIII. Come emerge dalle motivazioni che giacciono dietro alcune accu-
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se (la speranza di avere un posto di lavoro, di ottenere un aiuto economico, di accedere a un istituto assistenziale, etc.), Fuso dell’accusa di maleficio come strumento di affermazione di esigenze individuali affonda infatti le sue radici in ima situazione caratterizzata da una forte domanda di protezione, o meglio di riconoscimento, sociale che rimane insoddisfatta. Si tratta di una domanda che proprio in questi anni diviene viepiù pressante — con le strade e le piazze di Torino invase dai mendichi e i questuanti che importunano i benefattori33 —, che porta alla promozione di un nuovo programma assistenziale34 e che si scontra con una gestione dell’assistenza affatto esclusiva e arbitraria.
L’aspirazione morale della politica assistenziale, di riabilitazione del povero, è infatti accompagnata nella realtà quotidiana da una gestione privilegiata dell’assistenza, vale a dire che il criterio in base al quale questa viene distribuita non è tanto quello di soccorrere le fasce della popolazione che versano in condizioni particolarmente precarie e difficili, bensì quello di salvaguardare e tutelare le preoccupazioni di status e di onore di «nobili di antica e recente investitura, funzionari di vario grado, notai, avvocati, medici, modesti dignitari di corte» che attraversano un periodo di difficoltà o che sono decaduti a condizioni di vita inadeguate al loro livello35.
Accanto a simili preoccupazioni di carattere corporativo hanno inoltre una parte importante vincoli di natura parentale e clientelare. Tale tendenza, che emerge dalla stessa documentazione prodotta dalle istituzioni responsabili dell’assistenza36, trova inoltre conferma nelle biografie di alcuni dei protagonisti dei processi presi in esame. Sia che si tratti di un posto di lavoro, di un sussidio economico o invece della possibilità di accedere a un istituto assistenziale, il problema dei mediatori fra la miseria e le autorità emerge con violenza e — mi sembra importante sottolinearlo — in maniera affatto esplicita e consapevole. Così, ad esempio, Lucia Giordano spiega come, dopo la fuga dalla casa paterna e una travagliata esperienza di vagabondaggio e di questua, sia riuscita a entrare all’istituto Buon Pastore di Asti grazie all’intervento di madama Orsetta e la Cuore sostiene di essere entrata al Deposito San Paolo di Torino in seguito all’intervento del provinciale dell’ordine dei carmelitani; mentre Marianna Muratore racconta di essersi portata ad Asti, «allliosteria di San Giorgio tenuta in tal tempo dalla signora Testa [...], li racontai con tal Ocasione che [...] il mio Marito m’haveva abandonata et
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che perciò mi facesse il piacere d'insegnarmi il modo che dovevo tener per essere acetata nelle Convertite et essa mi disse che era necessario che facessi capo al Signor Conte di Revigliasco»37.
È perciò in un contesto di domanda insoddisfatta che si inserisce la denuncia di stregoneria: in una società tutta articolata in corpi e comunità, l'accusatore, individuo che non è legato ad alcun corpo sociale, affida ad essa il compito, o almeno la speranza, di sopperire a tale mancanza di legittimazione e protezione e di scavalcare le reti clientelari che gestiscono la distribuzione dell'assistenza.
Mi sembra significativa in questo senso la vicenda di Clara Ribolletta. Il ragionamento, a prima vista contorto e sforzato, con cui questa donna spiega ai giudici di avere accusato famiglia-ri e persone a lei care per essere Ascoltata' dall'istituzione acquista un senso evidente non appena si presta attenzione al modo in cui essa riesce ad entrare al Deposito dell'Opera Pia San Paolo di Torino, uno dei principali istituti assistenziali gestiti dalla carità privata all’inizio del Settecento38. La Ribolletta, infatti, tenta varie volte e sempre inutilmente di accedere ad esso: Lucia Giordano, un’internata nel Deposito, la descrive «alla porta del medemo deposito per vedere se essa signora [la direttrice] la volleva acetare, et [...] li Signori della Congregazione di San Paulo non ITiavevano volsiuta acetare» e lei stessa racconta di essere andata a cercare l’appoggio della principessa di Francavilla «ch’avendo molte amicitie m’haverebbe fatta mettere nel deposito»39. La Ribolletta, cioè, si scontra in un primo tempo con i criteri di selezione che regolano l’accesso al deposito, criteri fortemente segnati da interessi corporativi e clientelari e che ispirano l’intera attività della Compagnia San Paolo40. Ed è solo a causa, o anzi per merito, delle accuse che in seguito riesce a forzare tali criteri, interessando al suo caso personaggi influenti e altolocati. È grazie alle loro pressioni che viene infatti revocato il rifiuto che il deposito ha precedentemente operato nei suoi confronti perché «povera» e «forestiera»:
padre Fea [provicario dell’inquisizione e parroco della chiesa di San Maurizio a Ivrea] mi disse ne haverebbe scritto al padre Alfieri Vicario del Sant’Officio di Torino, quale ne haverebbe parlato al signor presidente Pallavicino, et intesi dal padre Fea era venuta la risposta, et che non potevo haver luogo nel detto deposito per esser forestiera, et essendo povera non potevo nemmeno pagare la pensione come è stile delle forestiere, ciò da me inteso snidai a pregare il signor presidente Gabutto acciocché s’adoperasse acciocché havessi luogo nel detto deposito, et il padre Fea andò pure pregare il signor Pinchia desistermi per tal
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effetto qual signor Pinchia hebbe risposta da Torino che v’era speranza sarei acetata nel detto Deposito et che S.M. s’era meschiato per farmi acetare, all’hora io dissi al padre Fea chi m’haverebbe provisto degli habiti, et del necessario per gl'indumenti esso padre Fea mi replicò che non dubitassi, che haverebbero informato S.M. delle qualità di Mio Marito, Socero e Padre [tutti accusati dalla Ribolletta di avere costruito statue malefiche contro il re e i suoi due figli] e perciò non si doveva permettere che andassi a casa de medesimi, e per conseguenza m’haverebbe fatto provedere del tutto41.
E, in effetti, l'intervento dei potenti, ottenuto attraverso le accuse, le apre le porte del Deposito. La Ribolletta — come d'altronde Freylino, Arnaudo e tutti gli altri accusatori ____________ ha quindi ragione quando individua nel meccanismo di accusa un valido strumento per affermare le sue esigenze e quando dichiara, senza mezzi termini, rintreccio tra minaccia e richiesta di protezione sociale che in essa si esprime:
et intanto hò detto tante cose delle suddette statue in quanto che mi persuadevo che [. . .] haverei havuto qualche risguardo da S.M. con haver ciò palesato, et che detta S.M. m’haverebbe rimunerata con darmi qualche tratenimento, con il quale sarei vivuta senza andar più a casa del mio Marito, qual aborivo et aborisco.
E Cattarina Cuore rammenta in modo accorato di avere sperato, con l’accusa, di muovere «à Compasione S.M. ancorché non havesse volsiuto»42.
D'altronde, che l’accusa nasconda simili speranze non sfugge neanche agli altri protagonisti delle vicende processuali, accusati e testimoni. Sono infatti in parecchi a sottolineare l'intento strumentale dell'accusa, sostenendo che si tratta di «una burbaria che si inventano loro per essere graditi da loro Signori», che ha per scopo di «haver la gratia da S.A.R.», di «tirar una mancia», di «ottener qualche impiego» o, invece, di farsi «dar qualche Recapito». Ma, soprattutto, alcuni di essi spiegano esplicitamente l’accusa con i criteri arbitrari che dominano la distribuzione dell’assistenza e ricordando quanto sia facile esserne esclusi. Così, molti testimoni del processo del 1716 sostengono che i poveri di Ivrea si sono lamentati che, in seguito alle accuse, la Ribolletta «li levasse la carità che di giustitia li veniva a loro» e «che se si fosse trattato di qualche povera miserabile della città l’havrebbe-ro lasciata crepare, et quella scrocha haveva tutto»43.
Ma, oltre a indicare le deficienze dell’istituzione o i limiti di una politica assistenziale profondamente impregnata di interessi corporativi e clientelari, l’accusa mette pure in luce la domanda
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sociale che circonda e investe l’istituzione. Essa cioè — svelando una richiesta attiva, anche se implicita, di legittimazione e di protezione sociale — caratterizza l’istituzione non solo come istanza repressiva e punitiva (e gli istituti come un momento di separazione dell’individuo dalla società e di suo assoggettamento), ma anche come interlocutore dell’individuo non protetto.
È un problema che trova conferma negli itinerari biografici di alcuni dei protagonisti dei processi, soprattutto per quanto riguarda gli istituti assistenziali — indicando il rapporto complesso, non semplicemente di rifiuto o soggezione, che lega l’individuo all’istituzione. Quello della Ribolletta è, ad esempio, un rapporto denso di ambiguità e di tensioni. Allo stato di insicurezza materiale e soprattutto sociale, che la costringe a usare tutte le carte a sua disposizione per cercare di entrare nel Deposito dell’Opera San Paolo di Torino, si accompagna infatti la difficoltà ad accettare la vita dell'internamento: così, dopo avere intrapreso e vinto una difficile battaglia per essere accettata, al momento di varcare la soglia del deposito non può fare «à meno di piangere», già pentita «d’haver preso la resolutione di retirarsi in detta casa»44. E il suo soggiorno nel ricovero è tutto segnato dalla paura di essere cacciata e, insieme, da continui tentativi di eludere o forzare le regole impostele dagli istitutori, cercando di ottenere un trattamento privilegiato, di incontrare persone a lei care o di estorcere un regime alimentare speciale. Ma, lungi dall’essere un problema che coinvolga la sola Ribolletta, questo duplice vissuto dell'istituzione è un’esperienza comune a molti, in un alternarsi di insofferenze, fughe, episodi di indisciplina e insieme continui tentativi di accedere agli istituti. Cacciata dall’istituto Buon Pastore di Asti per avere «messo in scompiglio la diretrice di detta Casa», dopo solo due mesi Lucia Giordano fa domanda di essere ammessa al Deposito di Torino, da cui sarà nuovamente espulsa nel giro di breve tempo sempre «per i suoi mali deportamenti et impertinenze usate alla direttrice». E Marianna Muratore, che del destino della Giordano condivide l’esperienza del Buon Pastore e quella del Deposito, non si comporta molto diversamente: durante il suo terzo soggiorno nel ricovero di Asti patisce infatti molto le condizioni di disciplina cui deve sottoporsi e nell’aprile 1716 fugge, ma sette mesi più tardi la ritroviamo a casa del tesoriere Berlenda che chiede di entrare al deposito di Torino45.
Mi sembra quindi che l’istituzione non sia percepita semplicemente come controparte negativa e che l’atteggiamento popolare
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nei suoi confronti sia caratterizzato e segnato da profonde ambivalenze46, che rimandano a un'ambiguità intrinseca dell'istituzione, della sua storia e del suo significato sociale: luogo punitivo, di separazione dei poveri e dei sans-aveu dalla società, essa costituisce anche «la risposta della classe dirigente a un problema posto dalla plebe»47.
Infine, l'uso dell'accusa di stregoneria come risorsa per correggere i meccanismi esclusivi dell'istituzione e per ottenere una legittimazione sociale da essa rivela una capacità di conoscenza e manipolazione della cultura istituzionale. Non si tratta di un semplice atteggiamento compiacente nei confronti dei giudici. Gli accusatori conoscono non soltanto — come ho già indicato precedentemente — i criteri di funzionamento dell'istituzione, ad esempio le modalità di distribuzione dell'assistenza, ma anche le attese e i valori culturali dei rappresentanti e dei mediatori istituzionali (amministratori, sovrano, giudici, preti, confratelli).
Essi sanno, ad esempio, che la scomparsa del primogenito di Vittorio Amedeo II (1715) costituisce una condizione di morbilità magica, così come conoscono pure l'importanza degli attributi simbolici e politici dell'immagine regale, e attraverso l’accusa cercano proprio di aggravare i dubbi che circondano la morte del principino e la preoccupazione che si stia tramando un complotto contro casa Savoia. E infatti, allorché sporgono la denuncia, accentuano i toni di deferenza verso l'autorità e calcano la mano sull'elemento di minaccia, sull'«horrore di una propositione sì esecranda», rammentando la possibilità che ad altri componenti della famiglia reale tocchi la medesima sorte del principino e rammentando anche la gravità simbolica di un gesto contro la corona e, soprattutto, di un gesto che ne mostra la sua vulnerabilità.
Così, molti accusatori insistono nel dichiarare che non si tratta di una denuncia qualsiasi, bensì di «un affare importantissimo riguardante la casa reale». Alcuni di essi sottolineano tale elemento nella descrizione della statua malefica, di cui viene detto che è «un busto [...] con un cerchio in forma di corona separata e amovibile»; altri, invece, preferiscono ricordare la ‘scadenza': Martin Barro dichiara che al secondogenito di Vittorio Amedeo II, il futuro Carlo Emanuele III, «li havevano dato tempo cinque anni, fra quali bisognava morisse», mentre la Cuore sostiene «che la statua è cominciata per quest'ultimo [Carlo Emanuele], che se si comincia a dare il fuocho non sarà più tempo di rimediarvi». E la Ribolletta imbastisce una vera e
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propria congiura ai danni di casa Savoia. All'armata in cui «sono più di tre milioni di persone che fano la profesione [di stregoni]» aderirebbero infatti molti personaggi influenti della società piemontese «che volino divenir monarcha» e che, responsabili della morte del principino Vittorio, starebbero adesso attentando alla vita del principe Carlo e dello stesso sovrano, «sapendo che la statua è cominciata per questi ultimi, che se si comincia a dar il fuocho non sarà più tempo di rimediarvi»: tra i congiurati compaiono i nomi del presidente Pallavicino che «si lamenta di non essere stato fatto primo presidente», del conte Massetto che con la statua vuole vedere «se S.M. puoteva più di loro» e di altri che «hanno li bracchi più longhi», come il governatore di Torino, il confessore personale di Vittorio Amedeo II (padre Dormiglia), il principe di Carignano ^ Inoltre, l'accusa di maleficio è talvolta seguita da altri discorsi volti a ribadire la gravità della minaccia che circonda la casa reale non soltanto per quanto riguarda le persone fisiche ma pure gli stessi simboli e rappresentazioni della regalità, cosicché il furto sacrilego della lampada e del candeliere d'argento avvenuto nel settembre 1716 alla cappella del SS. Sudario, la cappella prediletta della famiglia reale, è un argomento su cui gli accusatori si soffermano spesso.
Alcuni protagonisti dei processi dimostrano poi di conoscere le differenti posizioni sulla stregoneria dei loro interlocutori. In questo periodo, infatti, la posizione del tribunale secolare e quella del Sant'Uffizio sono tutt'altro che omogenee tra loro e mentre il primo persegue ancora con tenacia e vigore la stregoneria49, il secondo esercita ormai stancamente il suo apparato repressivo, commina pene meno severe50 e privilegia alla stregoneria la possessione — una modalità che permette agli inquisitori di ribadire la centralità del dogma del diavolo, salvaguardando contemporaneamente l’innocenza dell'individuo posseduto (vittima involontaria del demonio), e di esercitare in tal modo un’effettiva pressione culturale (agendo, attraverso gli esorcismi, su livelli intimi della coscienza) senza dover ricorrere a sanzioni giuridiche. Ora, quello che mi sembra interessante è appunto che alcuni dei protagonisti processuali siano informati di simili divergenze e mutino il loro comportamento in base a tali informazioni. La Ribolletta, Freylino o la Cuore, ad esempio, che iniziano la loro vicenda come accusatori, allorché rimangono intrappolati nelle loro stesse accuse e vengono incriminati di stregoneria, insistono nel dire «che i loro affari non erano quelli di S.M. ma quelli del Sant’Uffizio» e uno di essi spiega nei particolari i
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motivi che lo spingono a preferire il convento dei domenicani, quello tanto odiato da Radicati di Passerano51, alla giustizia secolare:
la differenza che tra detti carceri vi è è ben longa, mentre che dalle carceri ecclesiastice sempre si esce e basta che una persona vada con dire queste parole in latino, cioè spontaneamente comparenti, quelle ottengano la sua assoluzione e vengano rilassate; et in quanto alle Carceri mondane cioè seculari quando qualche persona andasse spontaneamente ad accusarsi sarebbe castigata et io ne hò veduti Molti ad impicare e tenagliare et la Giustitia eclesiastica non fa morire alcuno tutto che non vadino spontaneamente52.
E la Ribolletta — che a Ivrea e, più in generale, finché si rivolge agli inquisitori sceglie come strumento di rivendicazione la possessione —, allorché ha come interlocutori i magistrati secolari si guarda bene dall'interpretare nuovamente la parte dell'indemoniata, cerca anzi di nascondere questi suoi precedenti e calca invece la mano sulle accuse contro i potenti, un argomento che negli interrogatori al Sant'Uffizio non ha mai menzionato.
È chiaro che la capacità di distinguere i discorsi portati avanti dai magistrati, dagli inquisitori e dagli istitutori e di giostrarsi tra di essi non è per niente lineare e scontata. Tuttavia, quello che mi preme sottolineare è che la politica istituzionale trova un suo preciso limite — per quanto riguarda sia ima distribuzione dell'assistenza fondata su criteri corporativi e clien-telari sia il controllo che intende esercitare sul piano culturale — proprio in quegli individui che dovrebbero essere il bersaglio principale dei meccanismi di esclusione e di assoggettamento. Un esame del comportamento degli accusatori muta, almeno in parte, l’immagine del rapporto tra individuo e istituzione che negli ultimi anni ai è sovente stata proposta, un'immagine per cui internati, reclusi e assistiti sarebbero vittime inerti e addomesticate. Inesistenti sul piano individuale — se non per analizzare i discorsi istituzionali che su di loro vengono compiuti53 — essi sono infatti spesso stati presi in considerazione su quello sociale, o collettivo, per confermare la loro impotenza e la loro sottocultura, appunto per confermare e ribadire la loro impotenza e la loro sottocultura, appunto, istituzionale. Mi sembra che questi processi di stregoneria ci restituiscano un'immagine alquanto diversa del cosmo istituzionale del Piemonte del primo Settecento. Gli accusatori — nella grande maggioranza reclusi, internati o assistiti — non appaiono difatti individui sprovveduti culturalmente né, nei loro tentativi di forzare le realtà istituzionali, sembrano aggrappati a istanze
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culturali tradizionali e arcaiche. Essi, viceversa, dimostrano di essere informati, di padroneggiare i fatti di cronaca (basta pensare alla memoria dei processi precedenti e all’estrema rapidità e prontezza con cui vengono utilizzati avvenimenti come la morte del principino e il furto alla cappella del SS. Sudario) e di conoscere le attese e i valori culturali dei rappresentanti e dei mediatori istituzionali. Si può anzi pensare — spiegando così l’alta concentrazione di accuse in ambito istituzionale — che gli accusatori abbiano una percezione sviluppata dei discorsi portati avanti dai loro interlocutori, che li maneggino con destrezza, proprio in quanto internati, reclusi, assistiti. Gli istituti assistenziali e quelli punitivi, allora, nelle loro intenzioni luoghi di controllo e di assoggettamento culturale di individui e di segmenti sociali, si caratterizzano invece nel loro esistere quotidiano come un terreno assai più accidentato: luoghi in cui vi è circolazione di informazioni (sia al loro interno, tra internati o tra reclusi, sia con l’esterno)M, e in cui l'individuo ha maggiori possibilità di entrare in contatto con i modelli e i valori culturali dei suoi interlocutori, di appropriarsene e di imparare a manipolarli.
Le denunce di maleficio sporte davanti al tribunale secolare ci parlano insomma delle speranze e dei tentativi di utilizzare e forzare le realtà istituzionali, delle strategie con cui gli individui cercano di sopravvivere, non solo in senso materiale, e della memoria che di tali speranze e tentativi si conserva. Tutti gli accusatori riescono a trarre il beneficio sperato; tutti riescono, magari solo per qualche giornata, a esistere per l’istituzione e nello stesso tempo a trovare in essa un momento di legittimazione e di protezione sociale. Gli esiti delle denunce sono però molto diversi tra loro. Alcuni accusatori — come Barbero, Onorato Daniele e Biaggio Forno — ottengono una riduzione della pena, mentre le persone da loro accusate vengono giudicate colpevoli. Boccalaro viene impiccato e poi squartato. Vale forse la pena di ricordare che il suo caso è ripreso un mese più tardi da tre alti magistrati, fedelissimi del re e rappresentanti di primo piano della politica sabauda (l’avvocato generale Riccardi, il cancelliere de Bellegarde e il ministro de Gubernatis), che esprimono la loro disapprovazione verso la sentenza. Portavoci di una concezione gerarchica della pena, in quanto produzione differenziata di sofferenze, l’esecuzione di Boccalaro appare loro difettosa e la pena ingiusta e inadeguata perché «in uso per molti e diversi altri delitti inferiori di molto»:
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siamo entrati in sentimento che trattandosi di cosi nero delitto di Lesa Maestà in primo capo, aggravato eziandio di sortilegio ereticale, fosse dovuta [. . .J una pena più rigorosa ed esemplare come quella del strozziamento o dilania-zione à coda di cavalli, lasciando alla sola e solita pietà e clemenza del sovrano il fare moderare con colpo di grazia, o simile, la forma e modo della morte per più facile saluto dell’anima [. . .], quantonque la pena della morte sia in stessa la maggiore [. . .] e perciò nominata dalle leggi e legislatori con termini e superlativi di ultimo supplicio [. . .] ha però ella ancora li suoi gradi, se non nella sostanza che è il morire, nella forma però e modi di dare la morte55.
E il conte Depleoz, il prete Albanelli, Guid, Chichiastro, il prete Duret e molti altri accusati vengono anch’essi condannati a morte o alla galera perpetua. Ma in altri casi sono invece gli stessi accusatori a seguire la sorte di Boccalaro. La Ribolletta, che grazie alle accuse riesce a non tornare dal marito, a ottenere l'appoggio dei curati di Ivrea e a entrare al deposito di Torino, finisce con l'essere incriminata di stregoneria e viene condannata all’impiccagione. E per la Cuore e Freylino l'esito della denuncia non è diverso: anch’essi vittime delle loro stesse parole ed entrambi giudicati colpevoli di stregoneria, la prima è condannata al rogo e il secondo, condannato alla galera perpetua, viene recluso nella fortezza di Miolans, dove morirà pochi anni dopo, in seguito a un tentativo di evasione56.
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NOTE AL TESTO
1 Si tratta generalmente di cause scottanti, segnate da conflitti di competenza con l’Inquisizione, cui si preferisce non fare troppa pubblicità. Archivio di Stato di Torino (d’ora in avanti AST), Sez. I, Materie Criminali. Le informazioni sui detenuti per stregoneria di cui manca l’incartamento processuale si trovano nelle Visite dei carcerati, che fanno anch’esse parte del fondo di Materie Criminali, e nei registri della Segreteria Interna.
2 Sono solamente due le cause per «sortileggy ed inchiarmi* promosse dal tribunale secolare nei secoli precedenti di cui sia rimasta traccia negli archivi (ima del 1417 e l’altra del 1618). Non ho invece trovato nessun processo istruito dopo il 1727, ma solo alcuni casi di inclusione per stregoneria tra il 1730 e il 1740. AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 1, fase. 3; mazzo 4, fase. 3; Materie Criminali, Pareri e Memorie, mazzo l non inventariato.
3 Diffusione dal centro alla periferia di ima nuova giurisprudenza, declino della persecuzione della stregoneria come risultato di un'azione dall'alto verso il basso e cioè della presa di coscienza dell'alta magistratura e dell’autorità
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sovrana: questa l’ipotesi, fondata sulla dicotomia centro-periferia e concezione illuminata-superstizione, che attraversa Magistrati e streghe nella Francia del '600. Tale interpretazione, se trova in Mandrou la sua espressione più compiuta ed estrema, è d'altronde condivisa da altri studiosi. Anche Trevor-Roper e Thomas, ad esempio, spiegano il declino della persecuzione della stregoneria con il concetto di distanza, o dislivello, tra alta magistratura, giudici inferiori, popolazioni. Cfr. R. Mandrou, Magistrats et sorciers en France au XVII siècle, Paris 1968, trad. it. Bari 1971, pp. 198, 214, 299, 428, 544, 627; H. Trevor-Roper, Religion, thè Reformatio and Social Change, London 1967, trad. it. Bari 1975, p. 213, n. 140; K. Thomas, Religion and thè Decline of Magic, London 1971, pp. 546-48, 694-96, 798-99.
4 Cfr. le considerazioni di G. Ricci, Da poveri vergognosi ad ex-nobili poveri. Un episodio sulla Toscana del primo Ottocento, relazione al Convegno Pauperismo e assistenza negli antichi stati italiani, sec. XV-XIX, Cremona, marzo 1980.
5 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 13, Risposte personali di Clara Ribolletta, 2 giugno 1717, d. 19.
6 AST, Sez. I, Materie Criminali, mazzo 12, fase. 3, Atti criminali contro Gio Antonio Boccalaro, deposizione di Antonio Barbero, 18 dicembre 1709.
7 Cfr. E. Grendi, Ideologia della carità e società indisciplinata, relazione al Convegno Pauperismo e assistenza negli antichi stati italiani, Cremona, marzo 1980.
8 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 13 e 14, Processo criminale contro Clara Ribolletta, Cattarina Cuore e Marianna Muratore; mazzo 15, fase. 10, Processo criminale contro il prete Albanelli accusato di diversi sortilegi; mazzo 23 e 24, Informazioni, lettere, etc. sulla causa del conte Depleoz della Valle d'Aosta e suoi complici inquisiti di sortilegio; mazzo 25, fase. 4, Atti criminali contro Martin Barro; mazzo 28, fase. 4, Copia d’informaioni prese contro Carlo Farò. AST, Sez. I, Segreteria Interni, Serie IV Giuridico-Ecclesiastico-Economico, Registro 7.
9 Cfr. Brian Pullan, Poveri, mendicanti e vagabondi, in Storia d’Italia, Annali 1 Torino 1976, p. 994; E. Grendi, Ideologia cit.; G. Levi, Mobilità della popolazione e immigrazione a Torino nella prima metà del Settecento, in «Quaderni Storici», VI, n. 17, maggio-agosto 1971, pp. 546-554. Cfr. pure D. Carutti, Storia di Torino, Torino 1846, ristampa anastatica, Torino 1979, pp. 533-34.
10 Cfr. R. Mandrou, Magistrats cit., passim. Cfr. anche M. Craveri, Sante e streghe, Milano 1980.
11 M. Douglas, Thirty years after Witchcraft, Oracles and Magic e G. Lienhardt, The Situation of Death, in M. Douglas (ed.), Witchraft: Confessions and Accusa-tions, London 1970, pp. XIII-XXXVI, 279-89. Cfr. anche K. Thomas, Religion cit., pp. 796-97; A. Macfarlane, Witchcraft in Tudor and Stuart England, London 1970, pp. 168, 200-201; P. Boyer and S. Nissenbaum, Salem Possessed, Camb. Mass., pp. 69, 143-46.
12 Sulle accuse di stregoneria come espressione di impulsi aggressivi, cfr. in particolare J. Demos, Underlying Themes in thè Witchcraft of Seventeenth-Century New England, in «American Historical Review», voi. 75, n. 5, giugno 1970, pp. 1311-26; J. Middleton and E. H. Winter (eds.), Witchcraft and Sorcery in East Africa, London 1963, passim; C. Kluckhohn, Navaho Witchcraft, in M. Marwick (ed.), Witchcraft and Sorcery, London 1970, pp. 220-27.
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13 AST, Materie Criminali, mazzo 12, fase. 4, Atti criminali contro Gio. Antonio Boccalaro, interrogatorio di Boccalaro, 19 dicembre 1709.
14 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 28, fase. 4, Copia di informazioni prese contro Carlo Farò, deposizione di Gio Domenico Payre, 11 gennaio 1726; deposizione di Cesare Berarda, 11 gennaio 1726; deposizione di Marco Lorenzo Brun, 12 gennaio 1726.
15 Sulle deposizioni dei testimoni come superior records e cioè come documenti particolarmente rivelatori della concezione della stregoneria e dell’uso della credenza a livello popolare, cfr. R. Kieckhefer, European Witch Trials, London 1976, pp. 29 e 45 e anche K. Thomas, Religion cit., p. 531.
16 Cfr. A. Macfarlane, Witchcraft cit., p. 176; E. Evans-Pritchard, Witchcraft, Oracles and Magic, trad. it. Milano 1976, p. 146; P. Mayer, Witches, in M. Marcwick (ed.), Witchcraft cit., p. 56.
17 Cfr. B. Pullan, Poveri cit., pp. 1013-14; P. Camporesi, Il libro dei vagabondi, Torino 1973, passim.
18 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 13, Processo contro Clara Ribolletta, testimoniali Ivrea n. 16, deposizione di Marco Antonio Pitolio, 22 luglio 1717.
19 A. Macfarlane, Witchcraft cit., p. 176.
20 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 13, Processo contro Clara Ribolletta, testimoniali Ivrea n. 35, deposizione di Domenico Gamachio, 26 luglio 1717.
21 E. De Martino, Sud e magia, Milano 1959, pp. 2, 27, 96-97, 112-113, 181. Cfr. anche sul concetto di cultura di rassicurazione G. Levi, Regioni e cultura delle classi popolari, in «Quaderni Storici», n. 41, maggio-agosto 1979, pp. 720-31.
22 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 13, Risposte personali di Giovanna Cattarina Rama, 2 aprile 1717, d. 42.
23 M. Bloch, Les rois thaumaturges, trad. it., Torino 1973.
24 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 16, fase. 20, Copie di biglietti del conte Mellarede al cavaliere Leblanc, 23 agosto 1719 Segreteria Interna, Serie Ili-Economica, Registro 87, lettere del conte Mellarede al marchese Foschieri, all’avvocato generale Giusiana e al cavaliere Leblanc, settembre-ottobre 1721; Segreteria Interna, Serie I-Giuridico, Registro 1, lettera di S.M. al presidente Gand, febbraio 1716; Lettere particolari, lettera G, mazzo 14 e 15, lettera del presidente Gand al re, gennaio 1716; lettera P, mazzo 8, lettera del conte Mellarede all'intendente Palme, ottobre 1716. AST, Materie Criminali, mazzo 13, domanda del magistrato Deville a Cattarina Cuore, 10 gennaio 1717.
25 M. Foucault, Surveiller et punir, trad. it., Torino 1976, p. 70.
26 A. Radicati di Passerano, Histoire de l'abdication de Victor-Amédee, citato in F. Venturi, Saggi sull’Europa illuminista. Alberto Radicati di Passerano, Torino 1954, p. 166. Peraltro, le preoccupazioni di non dare troppa pubblicità ai processi sono in parte determinate dai gravi conflitti giurisdizionali con la S. Sede, e in particolare da quelli di competenza con l'Inquisizione, che accompagnano il regno di Vittorio Amedeo II e che talvolta hanno un effetto inibitorio sui magistrati: per esempio nel 1717 Ludovico Guid, accusato di stregoneria e patto con il demonio dalla Cuore, viene rinchiuso nella fortezza di Miolans invece che essere condannato a morte per paura di «faire naitre quelques contrarietes Ecclesiasti-ques». Lo stesso d’altronde accade al prete Albanelli e a Giuseppe Peiron. AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 12, fase. 16, Lettera del conte Mellarede al
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cavaliere Leblanc, novembre 1717; mazzo 14, Lettera del senatore Bally, ?0 settembre 1717; AST, Sez. I, Segreteria Interna, Serie Ili-Economico, Registro dei prigionieri, n. 87, Lettera del conte Mellarede al conte Foschieri, 31 ottobre 1721. Sulla politica giurisdizionalista del governo sabaudo cfr. F. Venturi, Saggi cit., pp. 63-100; G. Guazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, Modena 1957, pp. 29, 358-63, 399-403; G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli 1970, pp. 305-6, 493.
27 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 16, fase. 10, Atti criminali contro Francesco Gerolamo Freylino; mazzo 28, fase. 4, Copia d’informazioni prese contro Carlo Farò; mazzo 13 e 14, Processo criminale contro Clara Ribolletta, Cattarina Cuore e Marianna Muratore.
28 Per i dati sulla reclusione dei mendicanti in Piemonte, cfr. G. Levi, Mobilità cit., pp. 546-554.
29 Cfr. J. P. Gutton, La société et les pauvres en Europe (XVI-XVIII siècles), trad. it. Milano 1977, pp. 8-10; B. Pullan, Poveri cit., p. 1039; S. Woolf, Problemi della storia del pauperismo in Italia, 1800-1815, relazione al Convegno Pauperismo cit.; G. Ricci, Povertà, vergogna e povertà vergognosa, in «Società e storia», n. 5, 1979.
30 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 13, Risposte personali di Giovanna Cattarina Rama, 2 aprile 1717.
31 Per una definizione di istituzione totale, cfr. E. Goffmman, Asylums, trad. it., Torino 1968, pp. 35-37. Ci si può peraltro domandare se le prigioni d’ancien régime che — per la loro collocazione nel tessuto urbano (celle che affacciano sulla strada o su un cortile, da cui i detenuti parlano, scambiano messaggi, etc. tra loro, con i passanti e pure con gli abitanti delle attigue case civili) e per l’alta circolazione di reclusi (tipica di ima situazione in cui la criminalità si fonda su un illegalismo generalizzato e in cui quindi l’esperenza della detenzione coinvolge ampi strati della popolazione) — "ono caratterizzate da un flusso continuo di comunicazione con l’esterno siano definibili come istituzioni totali.
32 Uso il termine di non protezione o di non protetti per indicare la condizione di individuo non garantito socialmente, sans aveu. Cfr. J. P. Gutton, La société cit., p. 10.
33 Cfr. L. F. Soleri, Il giornale di cose degne di memoria in Piemonte e specialmente in Torino, manoscritto, Biblioteca Reale, Storia patria 230, annotazione del 7 aprile 1717; L. Cibrario, Storia di Torino cit., p. 532.
34 Programma che prevede il divieto di questua, una progressiva reclusione dei vagabondi ed espulsione di quelli forestieri, la estensione del sistema degli ospizi e la fondazione di nuovi istituti (ad esempio l’Opera delle partorienti e l’Ospedale dei pazzi). Cfr. A. Guevarre, La mendicità sbandita col sowenimento de poveri tanto nella città che ne’ borghi, luoghi e terre de’ Stati di qua e di là da monti e colli di S. M. Vittorio Amedeo, Torino 1717; F. A. Duboin, Raccolta per ordine di materia delle leggi, editti, manifesti emanati negli stati di terraferma fino all’8 dicembre 1798 dai sovrani della Reai casa di Savoia, Torino 1818-69, tomo VI, p. 267; tomo XII, pp. 280-83, 34-39, 79-92; G. Prato, La vita economica in Piemonte a mezzo il secolo XVIII, Torino 1908, pp. 329-72; D. Carutti, Storia di Vittorio Amedeo II, Torino 1897, p. 460; G. Quazza, Le riforme cit., pp. 313-19; P. Chierici, L. Palmucci, Gli ospizi di carità in Piemonte: appunti per una storia del
Magia e protezione nel Piemonte del 700
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fenomeno insediativo, in «Storia Urbana», a. IV, luglio sett. 1980, pp. 27-57.
M S. Cavallo, Assistenza femminile e tutela dell’onore nella Torino del XVIII secolo, in Annali della Fondazione Luigi Einaudi, Torino, voi. XIV, 1980; cfr. E. Grendi, Ideologia cit..
36 Cfr. S. Cavallo, Assistenza cit., p. 145.
37 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 13, Risposte personali di Lucia Giordano, 14 aprile 1717; Risposte personali di Cattarina Cuore, 23 dicembre 1716; Interrogatorio di Marianna Muratore, 9 giugno 1717, d. 4.
38 Fondato nel 1684, nelle sue intenzioni dovrebbe offrire un ricovero a carattere temporaneo a donne «cadute ma non esposte al pubblico». Sulla mancata applicazione di tali principi, cfr. S. Cavallo, Assistenza cit., p. 143.
39 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 13, Risposte personali di Lucia Giordano, 15 aprile 1717, d. 22; Interrogatorio di Clara Maria Brigida Ribolletta, 3 maggio 1717, d. 11.
40 Per esempio, per quanto riguarda la distribuzione delle doti e delle elemosine sono esplicitamente privilegiate le persone di condizione civile a quelle di condizione vile.
41 La versione della Ribolletta è peraltro confermata dal tesoriere e direttore del deposito Berlenda. AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 13, Risposte personali di Clara Ribolletta, 16 marzo 1717, d. 18; mazzo 14, Relazione del tesoriere Berlenda.
42 AST, Sezione I, Materiali Criminali, mazzo 13, Risposte personali di Clara Ribolletta, 2 maggio 1717, d. 76; mazzo 13, Risposte personali di Cattarina Cuore nell’atto di tortura, 31 maggio 1717.
43 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 12, fase. 3, Atti criminali contro Gio Antonio Boccalaro, interrogatorio di Boccalaro, 19 dicembre 1709; confronto Boccalaro-Pern, 20 dicembre 1709; mazzo 28, fase. 4, Copia d’informazioni prese contro Carlo Farò, deposizione Bruno, 12 gennaio 1726; mazzo 13, Processo contro C. Ribolletta, testimoniali Ivrea, n. 23, C. M. Cantino, n. 26, M. D. Pavetto, n. 29, A. M. Caligaris.
44 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 13, Risposte personali di Clara Ribolletta, 2 gennaio 1717 e 17 marzo 1717.
45 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 13, Risposte personali di Marianna Muratore, 6 gennaio 1717, d. 99; mazzo 14, Deposizione del signore Francesco Domenico Berlenda, 15 febbraio 1717.
46 Sulla domanda di internamento, cfr. G. Assereto, Alcuni cenni sull’assistenza pubblica genovese agli inizi dell’Ottocento, relazione al Convegno Pauperismo cit., Cremona, marzo 1980.
47 E. Grendi, Ideologia cit.; cfr. anche Cissie C. Fairchilds, Poverty and Charity in Aix-en-Provence (1640-1789), Baltimore 1976.
48 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 16, fase. 10, Atti criminali contro Francesco Gerolamo Freylino, interrogatorio di Freylino, gennaio 1718; mazzo 25, Atti criminali contro Martin Barro, interrogatorio di Martin Barro, 6 marzo 1724; mazzo 13, Risposte personali di Cattarina Cuore, 23 e 26 marzo 1717; mazzo 13, Risposte personali di Clara Ribolletta, 1 gennaio 1717 e 24-26 dicembre 17x6; mazzo 14, Memoria del soldato di giustitia Serra, 1 dicembre 1716.
49 Cfr. C. Dionisotti, Storia della magistratura piemontese, Torino 1881, pp.
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Sabina Loriga
361-70. Si veda anche l’editto di Carlo Emanuele II (1673) e quello di Maria Giovanna Battista (1675), in Editti antichi e nuovi de sovrani principi delta reai casa di Savoia, raccolti dal senatore Gio Battista Borelli, Torino 1681, libro VI, titolo IX e libro Vili, titolo V.
50 Cfr. C. Ginzburg, Folklore, magia, religione, in Storia d’Italia, Torino 1972, voi. I, p. 660; L. Accati, Lo spirito della fornicazione: virtù dell’anima e virtù del corpo in Friuli tra ’600 e ’700, in «Quaderni Storici», n. 41, maggio-agosto 1979, p. 650.
51 Cfr. F. Venturi, Saggi cit., p. 140.
52 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 13, Risposte personali di C. Cuore, 28 dicembre 1716.
53 Cfr. le considerazioni di C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Torino 1976, p. XVI-XVII sul libro di M. Foucault (a cura di), Moi, Pierre Rivière . . ., trad. it. Torino 1976.
54 Cfr. M. Perrot, L’impossible prison, in M. Perrot, L’impossible prison, Paris 1980, p. 62.
55 AST, Sezione I, Materie Criminali, mazzo 12, fascicolo 3, Parer sur la sentence criminelle rendue par le Senat de Piemont le 27 janvier 1710. Sul codice del dolore come parte integrante del supplizio, cfr. M. Focault, Survellier cit., p. 37.
56 Cfr. A. Dufour e F. Rabut, Miolan Prison d’Etat, Chambery 1879.