I «TRIBUNALI DELLA COSCIENZA» DI ADRIANO PROSPERI

Item

Title
I «TRIBUNALI DELLA COSCIENZA» DI ADRIANO PROSPERI
Creator
Peter von Moos
Giovanni Romeo
Andrea Del Col
Genoveffa Palumbo
Michele Sampaolo
Date Issued
1999-12-01
Is Part Of
Quaderni Storici
volume
34
issue
102 (3)
page start
781
page end
818
Publisher
Società editrice Il Mulino S.p.A.
Language
ita
Format
pdf
Relation
La cura di sé, Italy, Feltrinelli, 1985
Rights
Quaderni storici © 1999 Società editrice Il Mulino S.p.A.
Source
https://web.archive.org/web/20230921073124/https://www.jstor.org/stable/43779916?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoyMCwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjQ3NX19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Aa373d9b4a4f2a6f8e5ee57387483657f
Subject
sexuality
postmodernism and modernity
ethics
extracted text
I «TRIBUNALI DELLA COSCIENZA» DI ADRIANO PROSPERI*
F*
Le trop d’attention qu’on a pour le danger, fait le plus souvent qu’on y tombe. [La troppa attenzione al pericolo, fa spesso sì che vi si cada] (La Fontaine, Fab. XII, 18)
Da medievista non italiano, privo di qualsiasi competenza nel campo della storia della Chiesa nella prima età moderna, non mi sarei mai permesso di stendere una recensione sul più affascinante fra i nuovi libri sul cattolicesimo post-tridentino apparsi in Italia, se la redazione di «Quaderni storici» non avesse chiesto esplicitamente di avere il «parere» di un esterno. Il presente contributo alla discussione non si limiterà, come è proprio di una recensione, a trattare del tema ben delimitato del volume, ma si interrogherà su aspetti comparativi ai suoi margini, che lo introducono in un più ampio contesto cronologico e spaziale.
C’è una tesi di fondo che percorre l’intera opera, e riguarda il corso complessivo della storia della Chiesa, anzi il «processo di civilizzazione»: con le novità prodotte dal clima generale del concilio di Trento si realizzò un «salto di qualità» all’interno delle istituzioni ecclesiastiche esistenti, una trasformazione che avrebbe contribuito - in maniera decisiva, più massiccia che il protestantesimo - alla nascita del mondo moderno, e avrebbe segnato per lungo tempo con la sua impronta l’Italia moderna. Una tesi così netta ha diversi buoni fondamenti, di cui avremo modo qui di parlare, ma inutilmente si cercherebbe nella voluminosa opera una definizione concettuale delle categorie temporali di Medioevo e di età moderna, una presa di posizione teorica nel dibatti-
* A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996.
* * Traduzione dal tedesco di Michele Sampaolo.
QUADERNI STORICI 102 / a. XXXIV, n. 3, dicembre 1999



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to sulla modernità (per esempio in riferimento a Max Weber, a Norbert Elias, a Michel Foucault, ad Alain Touraine o a Niklas Luhmann). Il Medioevo viene qualificato spesso con aggettivi quali «vecchio», «tradizionale», «tuttora perdurante» o addirittura «atemporale», una specie di preistoria che non ha bisogno di ulteriore definizione, mentre il concetto di modernità si colora a seconda dei casi come un insulto o un titolo di nobiltà: in un momento compare come il relitto di un illuminismo già superato da un cattivo presente, e subito dopo come progresso di razionalità organizzativa e «disincanto» nel senso weberiano diventato ormai di uso corrente. Infine anche il concetto centrale di «salto di qualità» è ambivalente, dal momento che significa insieme continuità e discontinuità, una continuazione dell’identico, solo con mezzi migliori (e qui forse gioca un ruolo la trasformazione della quantità in qualità). In ogni caso, esso esime elegantemente dal fornire una definizione più precisa del nuovo che emerge gradualmente e che è nuovo nella sostanza.
Per il medievista, questa indeterminatezza teorica non è per nulla sorprendente: da tempo si succedono titoli di libri che esaltano il Medioevo come «moderno», solo perché a livello di coscienza comune continua a essere pur sempre «oscuro». Ma non sono solo motivi pubblicitari a spingere a questa esaltazione; ci sono invece anche buone ragioni: la ricerca presta oggi maggiore attenzione ai semi invisibili e alle piante in lenta crescita nel periodo di latenza e di incubazione che ha portato all’età moderna, come la «genesi dello Stato moderno», la scoperta dell’individuo, «Téveil de la conscience» (Chenu), l’ondata di codificazione scritta della razionalità amministrativa e così via. Il ruolo di battistrada esercitato dalla Chiesa e dal diritto ecclesiastico in tutti questi campi è oggi largamente riconosciuto. Anzi, la sua tendenza unificante transpersonale, antifeudale, antietnica, antiparticolaristica, romano-imperiale è vista addirittura in generale come una delle più importanti forze di modernizzazione del Medioevo. Lo storico dell’età moderna, che si occupa della fase successiva di fenomeni del genere, quella del pieno dispiegamento e della realizzazione, tanto più ha ragione di utilizzare il concetto di modernità in questo senso tecnicamente neutro. Sotto questo aspetto, «salto di qualità» è addirittura una formula piuttosto modesta che rispetta le «modernità» medievali, a differenza per esempio del pathos umanistico-illuministico con cui si evocano fratture e inizi completamente nuovi. Ma nelle pagine che seguono intendo sostenere un concetto dell’età moderna più preciso e più pretenzioso sul piano teorico, tanto più che Prosperi fornisce tutto il materiale necessario per una sua definizione. E con questo spero magari di portare ulteriore sostanziale appoggio alla sua tesi principale, pur con alcune riserve.



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Al di là della questione del «da dove» e «verso dove» nella «lunga durata», il contributo dato da Prosperi sta nel fatto di aver illuminato in qualche modo nella condizione dell’isolamento analitico un segmento del passato nazionale piuttosto trascurato, anzi rimosso perché doloroso, nella ricerca storica italiana (a differenza per esempio di quella spagnola): il disciplinamento integrale della società attraverso un complesso programma, in sé contraddittorio, di metodi violenti di polizia e della più sottile azione pastorale, che rendeva possibile all’autorità ecclesiastica di penetrare fin nell’intimo, nella «coscienza» dei fedeli. Suo merito principale è sicuramente di aver esposto con efficacia questo paradosso (presente certo già nel Medioevo) di «repressione» inquisitoriale e di «persuasione» pastorale, indirizzate entrambe in fin dei conti allo stesso scopo di una completa e sincera obbedienza di fede, nella situazione unica e senz’altro nuova del cattolicesimo dopo lo scisma della Chiesa, prendendo in esame in maniera integrata le tre istanze di controllo dell’Inquisizione, della confessione e della missione interna (spesso analizzate separatamente). Per quanto non si occupi molto degli sviluppi di più lungo periodo, egli riesce tuttavia a documentare in modo convincente, per l’arco di tempo relativamente breve che va dal 1520 circa fino alla metà del XVII secolo, una certa trasformazione: dopo aver costruito una diga efficace contro l’«eresia» protestante, l’Inquisizione romana del Sant’Uffizio, per non rimanere senza nulla da fare, si volse ad altri compiti, come la persecuzione delle streghe, la lotta contro la bestemmia, e il controllo generale dei costumi. Ma insieme dovette lasciare subito il passo a preoccupazioni terapeutiche e civilizzatrici di istanze soprattutto pastorali, dal momento che si manifestarono con chiarezza gli effetti negativi collaterali del suo primo imponente intervento (la distruzione della coesione sociale a seguito della dilagante rete di delatori, lo svuotamento di senso del sacramento della confessione per l’eccessiva disinvoltura nei confronti del segreto confessionale, la devozione puramente formale e conformistica e il «nicodemismo» a protezione contro l’occhio pubblico del Grande Fratello). Veniva così a ripetersi in una versione nuova un cammino storico già osservato dal XII al XIII secolo, quando alla «crociata contro gli albigesi» lanciata in una situazione quasi di panico fece seguito un accurato lavoro di evangelizzazione svolto a fondo dai membri degli ordini mendicanti che ascoltavano le confessioni e predicavano. Nell’insieme, il processo che si realizzò nella prima età moderna può essere sintetizzato anche con la formula «dall’inquisitore, al padre confessore e al missionario» o «dalla repressione romana alla persuasione episcopale e gesuitica». Prosperi ha delimitato con precisione il suo oggetto non soltanto nel tempo, ma anche dal punto di vista degli atto-



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ri: al centro dell’interesse non sono le «vittime» o i fedeli, di cui finora gli storici si sono per lo più (e secondo Prosperi troppo unilateralmente) interessati, né il dialogo del popolo della Chiesa con le guide delle anime, ma l’autocomprensione, le motivazioni e soprattutto le strategie e i principi organizzativi dei funzionari ecclesiastici di tutte le risme. Prosperi scrive una storia dell’istituzione nel suo complesso, che combina aspetti giuridico-normativi e pratico-laici della migliore qualità, non una storia della cultura dell’Italia nella prima età moderna.
In un programma di questo tipo, definito con tanta precisione dal punto di vista cronologico e istituzionale, il medievista può prima di tutto trovare una conferma per i propri interessi: la tradizionale soglia del Rinascimento viene ancor più affievolita a favore dello scisma della Chiesa, sostanzialmente più incisivo; alcuni degli «orrori» e delle «tenebre» addebitati al Medioevo non possono più ora essere messi in contrasto ingenuamente con la luce dell’illuminismo, dal momento che - dopo un salto di qualità (spesso direi piuttosto: salto di perversione) - essi raggiunsero punti culminanti di efficienza nel periodo di transizione di impronta tutta rigoristica che inizia col XVI secolo, di fronte al quale il Medioevo appare quasi un campione di tolleranza, e arriva al XVIII secolo quando diedero luogo al ben noto risultato della scristianizzazione. Anche qui, d’altronde, vediamo ritornare una vecchia dialettica: mentre da un lato la Chiesa grazie alle più gravi crisi è stata capace di rinnovarsi in chiave autocritica e di rafforzarsi, dall’altro lato in prospettiva più lunga le sue vittorie sulle fasi di crisi si sono risolte in irreparabili vittorie di Pirro proprio a motivo di un’eccessiva consapevolezza del successo.
Dal punto di vista metodologico considero un modello per i medievisti anche la concentrazione di Prosperi sulla gerarchia: l’epoca della «persecuting society» (Moore), della «culpabilisation» (Delumeau) e della «punition généralisée» (Foucault) non viene illustrata precipitosamente dal punto di vista dei «perseguitati» o degli «erranti», a noi evidentemente più simpatici, le cui visioni conosciamo quasi soltanto dallo specchio deformante dei controllori; è piuttosto questo specchio che viene studiato in se stesso, il che è raccomandabile in sostanza già solo per il fatto che dalle motivazioni soggiacenti alle sue deformazioni si possono ricavare anche indispensabili indizi per le nostre ricostruzioni degli elementi patologici o di devianza della realtà. Al centro della prima parte c’è il profilo spirituale o «univers mental» dell’inquisi-tore, i cui tratti dominanti erano molto più paternalistici o paranoici che cinici o sadici, ma soprattutto burocratici e impersonalmente funzionalistici.



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Nel descriverlo, Prosperi si sente impegnato a compiere un’«operazione non pacifica» (p. 213), che nella storia dell’età moderna - a differenza che nella medievistica - solleva diffidenze di parte, soprattutto in un paese come l’Italia che già dal Medioevo è forse il più cattolico e il più anticlericale insieme dell’Europa. E per farlo cerca evidentemente di attenersi al postulato dell’obiettività, di «descrivere» non di «sollecitare» la politica ecclesiastica, di tenersi a distanza tanto dall’apologetica confessionale quanto dalla polemica laicista, senza tuttavia cadere in uno storicistico «tout comprendre, c’est tout pardonner» (che avrebbe potuto suscitare un altro Historikerstreit). Non riabilita in alcun modo l’Inquisizione. Ma cerca piuttosto di og-gettivarla nella razionalità dei suoi scopi. Indaga non con categorie morali ma con categorie funzionali i problemi, le difficoltà, i successi e le delusioni di un «ufficio» - oggi visto per lo più con disgusto in quanto tale -, la cui semantica nel corso del tempo si trasformò caratteristicamente da\i’officium come «compito» o dovere di cura in quella di ufficio burocratico, di posto di polizia e centrale di spionaggio.
Per quanto legittima possa essere la delimitazione dell’ambito del lavoro e per quanto ricco possa risultare il frutto nel campo della storia istituzionale, lo specialista del Medioevo vorrebbe tuttavia sapere qualcosa di più preciso su che cosa sia cambiato per quanto riguarda l’epoca di cui si occupa. Alcune lacune che il libro rivela da questo punto di vista potrebbero essere dovute non tanto al modo di lavorare dell’autore quanto piuttosto alle condizioni strutturali imposte dalla divisione delle discipline accademiche. La medievistica e la modernistica si sono sviluppate in un confronto reciproco nel settore della storia della Chiesa e della religione forse più che in altri settori, quasi che fossero condannate a perpetuare oggi, attraverso la loro divisione specialistica nella pratica degli studi, la grande frattura che spaccò l’unità della respublica christiana esente da concorrenzialità in due comunità religiose in lotta fra loro nel rivendicare alla propria parte l’interpretazione più autentica del cristianesimo. La responsabilità principale in tutto questo ricade forse ancora sui medievisti, abituati a considerare la fase finale della loro grandiosa epoca come una lunga crisi, come decadenza o «autunno» senza futuro. In tempi più recenti, invece, è andata via via diffondendosi la consapevolezza che la devotio moderna rappresenta un importante elemento di sutura fra la spiritualità tardomedievale, l’umanesimo, la Riforma e la Controriforma, e in certo qual modo la radice religiosa comune di entrambe le confessioni, e che il movimento degli bussiti - come prima «Chiesa particolare» territoriale e organizzata in alternativa a Roma e da questa tollerata suo malgrado - costituisce un modello decisivo per l’uguale successo con-



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seguito da Lutero con l’appoggio del potere statale. Questo recupero di attenzione vale soprattutto per la storia degli eretici medievali d’Italia, che in questo periodo evidenzia piuttosto un eclissarsi delle eresie, una frantumazione dei movimenti socioreligiosi un tempo collettivi in conventicole e individualità staccate con connotati fra l’esaltato e il mistico, quasi che questo isolamento o questa «orfanizzazione» dei cristiani da parte della Chiesa ufficiale, che li abbandonava alle loro personali paure e private preoccupazioni di salvezza, non fosse uno dei presupposti fondamentali della svolta imminente. La valenza traumatica per gli avvenimenti di cent’anni dopo va riconosciuta anche al concilio di Costanza, in cui è vero che Hus fu bruciato come eretico, ma allo stesso tempo - e in sostanza, certo, con lo scopo di far fuori un papa eretico - per la prima volta nella storia della Chiesa un papa fu insediato dall’«assemblea dei fedeli», sicché tutta la successione dei papi da allora fino a oggi dipende in ultima analisi dalla grazia di quella elezione per maggioranza. Com’è noto, lo spettro del conciliarismo tardomedievale contribuì in maniera decisiva all’irrigidimento autoritario di Roma, e fece sì che a Trento si creasse quel clima di rifiuto di dialogo per cui non furono mai pronunciate una sola volta parole concilianti, e per cui la tradizionale mancanza di comprensione della Chiesa ufficiale per le opinioni devianti fu acuita a tal punto che da allora il semplice fatto di discutere su «quello che Santa Madre Chiesa crede», indipendentemente dai contenuti, cominciò a essere visto come l’eresia principale, come una messa in discussione del primato papale, come un reato di lesa maestà contro il potere delle chiavi.
Mentre il medievista termina il suo lavoro sull’affermazione che gli eretici in senso stretto non possono essere considerati precursori della Riforma, in quanto in mancanza dell’appoggio statale non hanno mai distrutto l’unità della Chiesa, lo storico dell’età moderna inizia con la storia di varie confessioni religiose che egli, contro il tenore delle sue fonti ma in base a una obbligata neutralità, non può più designare come eresie se non fra virgolette. E tuttavia, un leitmotiv di Tribunali della coscienza è proprio che a innescare tutte le innovazioni cattoliche o «salti di qualità» rispetto alle forme medievali della disciplina della fede fu appunto la portata del pericolo di un’«eresia» a nord delle Alpi che si sarebbe potuta rapidamente diffondere e installare pienamente a livello istituzionale, e che, grazie alla stampa, avrebbe potuto dilagare spiritualmente dovunque, diventando un focolaio di contagio straniero, un’importazione transalpina. Quello di eresia è fondamentalmente un concetto dell’autorità ecclesiastica, che mai nessun eretico si è sognato di attribuirsi. La sua semantica per lo storico non dipende dai contenuti giusti o sbagliati degli insegnamenti, ma solo dal muta-



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mento delle istituzioni dominanti e dei rapporti di potere. Siamo quindi già in ritardo nella necessaria opera di collegare la prospettiva medievistica con quella degli storici dell’età moderna e di accordare i loro discorsi. E un’operazione che, naturalmente, non può essere fatta da nessun singolo, ma deve essere il frutto di un dialogo continuo fra le discipline. Uno dei meriti principali di Prosperi sta nel fatto di aver reso evidente questa esigenza.
Per avviare una simile discussione, ho cercato di individuare in tutto il libro prima di tutto gli elementi che indubitabilmente non ricorrono ancora nel Medioevo e sulla cui novità è facile trovare un consenso generale. Ma le novità che si riescono a trovare sono pochissime, e per di più soprattutto di carattere tecnico-formale; la grande maggioranza dei fenomeni descritti oscilla fra continuità e discontinuità, dipende cioè dall’interpretazione, dalla prospettiva da cui si guarda, che li si designino come vecchi o nuovi. Una delle innovazioni più vistose è per esempio l’introduzione dell’«Indice dei libri proibiti» centralizzato. Sorprendentemente, Prosperi ne parla solo marginalmente, soprattutto per sottolineare la realtà del pericolo rappresentato dal nuovo mezzo di comunicazione della stampa. Questo strumento di censura, che fin dall’inizio fu adoperato in maniera incoerente e arbitraria ed ebbe notevole peso nel far sì che l’Italia, già culturalmente preminente nell’Europa medievale, perdesse col tempo i collegamenti intellettuali con il resto del mondo e si provincializzasse, non era evidentemente adatto ad attestare la modernità della Controriforma da Prosperi rivendicata appunto per la penisola.
Un’altra indiscutibile novità è l’invenzione del confessionale, la cui componente principale, la grata, era destinata a impedire la sollicitatio ad turpta, la seduzione delle donne da parte del prete confessore (in realtà, come Prosperi vede col suo occhio attento agli eufemismi misogini e di altro tipo, per proteggere i confessori dalle donne tentatrici). Questa curiosità architettonica è d’altronde sintomatica dell’atmosfera soffocante che cominciò a dominare da quando il nemico esterno dell’eresia non rappresentò più un pericolo, e la Chiesa come nel tardo Medioevo potè sempre più concentrarsi sulle diavolerie interne, di cui i peccati sessuali rappresentavano la parte preponderante. Il fatto che ora i sacerdoti stessi diventino oggetto di una campagna di disciplinamento e di riduzione all’uniformità ricorda - benché i suoi metodi di controllo dei costumi siano tecnicamente incomparabili con quelli dell’età moderna - gli inizi dottrinali della lotta contro gli eretici dell’XI secolo, quando la Chiesa della riforma gregoriana definiva la simonia e il nicolaitismo come vere e proprie eresie e le combatteva con estrema durezza. La prima «eresia» del Medioevo non fu in senso



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stretto una dottrina errata, ma un comportamento scandaloso dei preti secolarizzati. In età moderna lo scandalo era rappresentato dagli abusi nella somministrazione del sacramento della confessione e dalla condotta di vita non confacente allo status sacerdotale, cui un’autorità attenta alla dignità cercò di porre rimedio con misure tutte materiali. Il confessionale divenne così un nuovo pezzo dell’arredo delle chiese, ma insieme un simbolo dei più antichi problemi della disciplina ecclesiastica.
A parte queste e poche altre vere innovazioni, in tutti gli ambiti tematici toccati dal libro sembrano intersecarsi vecchio e nuovo, che si tratti di abbassamenti o di rivalutazioni, oppure di inasprimenti dell’esistente. E si discute pertanto solo con le categorie del «più» o del «meno». Nell’insieme, dunque, il concilio di Trento appare insieme come la conclusione e il coronamento del concilio Lateranense del 1215 e come l’apertura dell’età moderna, non in quanto esso stesso «moderno» ma in quanto foriero della modernità in senso dialettico (per le reazioni che scatenò).
Anche l’Inquisizione, quanto a procedura, non si può dire sia una vera innovazione del XVI secolo, nonostante la sua centralizzazione in uno speciale vertice romano, l’appena creato Sant’Uffizio. Questo istituto si richiamava già esso stesso esplicitamente ai suoi precursori medievali, perché questo corrispondeva alla sua coscienza storico-giuridica e non solo per legittimare sotto il mantello della tradizione una vera e propria «rivoluzione», come insinua Prosperi (generalizzando la posizione di Pena-Eymerich). Si era detto che il Medioevo aveva conosciuto solo inquisizioni, mentre soltanto a partire dal 1542 si può parlare della Inquisizione. Ma con questa argomentazione di carattere giuridico formale-organizzativo contrasta in maniera eclatante la prassi, sia prima che dopo quella data. Già da tempo il papato aveva aspirato a una concentrazione burocratica della vigilanza sulla fede, e sotto Innocenzo IV fu anche ufficialmente introdotta. In età moderna - Prosperi lo conferma con l’analisi di numerosi casi - questa aspirazione potè realizzarsi certo in maniera più efficiente, peraltro in misura nien-t’affatto complessiva e a raggio di Europa, sia perché i conflitti di competenza all’interno della Chiesa fra l’Inquisizione e i suoi supposti collaboratori - i vescovi, gli ordini mendicanti, i gesuiti e i parroci, nonché i poteri secolari - ne frenarono la presa «totale» persino sulla penisola italiana, sia perché la sorveglianza suprema sull’ortodossia in territori più lontani doveva essere delegata per via di privilegi ad altre «centrali» (per esempio al regno spagnolo o francese). Anche nell’età moderna ci fu una molteplicità di inquisizioni. (Si aggiungevano persino - bombile dictu, per i protestanti - i calvinisti a Ginevra).



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Rimane senz’altro vero che in Italia l’efficacia d’azione del Sant’Uffizio fu ostacolata in minima misura. Da questo, Prosperi deduce (soprattutto nella sua Premessa) che la Roma pontificia ha offerto un contributo all’unificazione politica dell’Italia. Un’affermazione del genere può avere un certo fondamento sul piano della storia delle mentalità per quel che riguarda i metodi di psicologia sociale profonda del disciplinamento; ma le formulazioni di tipo politico - anche se intese come consapevolmente provocanti -, che vorrebbero far credere si debba accreditare all’Inquisizione l’«italianizzazione» dell’Italia in età moderna, suscitano inutili equivoci. E un dato di fatto che almeno a partire da Gregorio VII la Chiesa fu l’unica istituzione centrale in un paese che andava sempre più sprofondando nello stato di semplice «espressione geografica». La dichiarazione di Croce secondo la quale la Chiesa perlomeno conservò alla penisola politicamente frantumata l’unità di fede non può essere stirata fino al punto da dire che essa abbia fatto qualcosa per la nazione. La sua centralità continuava a poggiare su una pretesa di universalità sovraitaliana, che non poteva essere rinchiusa in nessuno schema provinciale. D’altro canto, dopo la divisione fra territori statali dell’Europa e la perdita della Germania da parte della Chiesa, la sua principale influenza politica si concentrò in realtà, «in mancanza di meglio», sulla regione più vicina, sullo Stato della Chiesa e i suoi comuni fedeli al papa (in parte già dal XIII secolo), che collaboravano con l’Inquisizione. Ma qui la Chiesa divenne una delle tante forze particolari che si opponevano all’unificazione nazionale. Sotto entrambi gli aspetti - come effettiva potenza territoriale e come nelle intenzioni potenza spirituale mondiale - essa era in fondo più un corpo estraneo che una forza trainante per l’integrazione nazionale.
Attenendomi qui a quanto esposto dai Tribunali della coscienza, ai miei occhi il cambiamento più radicale portato dalla Controriforma fu l’abolizione, o quanto meno messa in discussione, della «libertà del cristiano». Prosperi fa ripetutamente riferimento a questo concetto come un postulato tipicamente protestante e quindi come l’«eresia più alta» per i cattolici (p. 214), e non è del tutto chiaro se lo dica in senso ironico o ritenga invece come semplicemente cattolica l’incondizionata obbedienza a prescindere dalla convinzione personale. Ma al riguardo non fa cenno ad alcun cambiamento dottrinale, nonostante che la libertà di coscienza sia sempre stata una delle fondamentali categorie teologiche della Chiesa, che dal XII secolo era ancorata come diritto soggettivo nella codificazione canonica e che (soprattutto nei dibattiti sul concilio di Costanza) non potè mai essere sacrificata dai funzionari dell’amministrazione pontificia sull’altare dell’ordine gerarchico uffi-



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ciale. Su questa trasformazione tridentina, se pure ebbe luogo, bisognerebbe scrivere un altro libro. Esula dalle mie competenze di verificare in chiave teologica l’esposizione di Prosperi su questo punto. Posto che sia corretta anche solo nelle grandi linee, il richiamo di Lutero alla fede e allo «Spirito che è in noi» avrebbe provocato nell’avverso campo cattolico una reazione epocale, che avrebbe radicalmente distrutto il fin allora necessariamente sempre paradossale teso rapporto fra Chiesa dello Spirito e Chiesa ufficiale. I suoi due poli di «carisma e istituzione» (Weber) si sarebbero allora divisi fra le due confessioni in maniera tale che l’originaria definizione della Chiesa come «comunità dei credenti» avrebbe lasciato una sua interpretazione unilateralmente spirituale e liberale sul versante protestante e un’interpetazione altrettanto unilateralmente istituzionale e disciplinare sul versante cattolico. È forse questo ciò che è effettivamente accaduto? Nel Medioevo, comunque, non ci fu nessuna riduzione a eresia della coscienza, la quale almeno dal XII secolo era considerata come una legge divina «scritta nel cuore» di ognuno singolarmente. Ed è significativo che persino il papa Innocenzo III avesse decretato che, in caso di dubbio, il cristiano dovesse piuttosto accettare la scomunica che scontrarsi con la sua propria coscienza, ultima istanza davanti a Dio. Se a Trento questa apertura spirituale fu davvero buttata a mare o no - mi è difficile immaginarmelo - è un’autentica questione storica per storici dell’età moderna imparziali, che non si lascino contagiare dalla temperie di «disgelo» ecumenico né dalla retroguardia neoguelfa ma conservino il distacco scientifico nei confronti di un oggetto attualissimo e «non pacifico».
Fra i temi più difficili da collocare nella logica di continuità e discontinuità vanno annoverati gli sforzi specificamente pastorali, cui nelle sezioni «La confessione» e «La missione» Prosperi dedica le pagine più convincenti del suo libro scritte per lo più con molta sensibilità psicologica e sociale. Il primo è quello della valutazione del grande contributo, sotto molti aspetti innovativo, dei gesuiti, un contributo che tuttavia deve alla tradizione patristica e medievale (anche secondo ciò che gli stessi gesuiti pensavano) molto più di quanto Prosperi non dica. Nella lotta per la fede, nella propagatio fidei (e qui Prosperi sottolinea che da questa espressione deriva il senso secondario del moderno concetto di propaganda), l’ordine dei gesuiti assunse subito lo stesso ruolo di avanguardia papale con privilegi operativi trasversali rispetto alle istituzioni esistenti che trecento anni prima era stato affidato agli ordini mendicanti (nel frattempo diventati troppo indipendenti per la centrale romana). L’ordine gesuitico rappresenta quindi un nuovo fattore nel gioco di forze delle responsabilità pastorali e tuttavia ricalca una funzione di élite già collaudata. A differenza dai «predicatori»



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domenicani (al tempo attivi mercanti delle indulgenze), i gesuiti si concentrarono soprattutto sulla interiorizzazione delle norme cristiane di vita attraverso una più raffinata prassi confessionale e la «direzione spirituale» di carattere individuale. Come giustamente sottolineato da Prosperi, essi più di tutti hanno contribuito a far sì che l’ideale di perfezione monastico si allargasse a progetto di vita generale da proporre a ogni cristiano. Il giovane ordine, pieno di ottimismo, intendeva rendere vincolante per tutti il «virtuosismo religioso» (Weber), con tutti i suoi tratti introspettivi, personalistici, di etica dell’intenzione. Gli «esercizi spirituali» sotto la guida di un «padre spirituale» secondo il collaudato modello neoplatonico-patristico dovevano rendere anche tecnicamente possibile a ognuno U diuturno lavoro su se stesso, il perfezionamento nel «souci de soi» (Foucault). Forse Prosperi avrebbe potuto mettere in evidenza più di quanto non faccia l’importanza di questa cultura della interiorizzazione nella formazione del moderno individualismo. Questo aspetto, infatti, merita davvero come pochi altri l’attributo della modernità, tanto più che troppo spesso viene ascritto al «progressismo» protestante. In generale, certo, la Chiesa riformata influenzò la «vecchia» Chiesa imponendole la pressione di una concorrenza in direzione più morale-spiritualistica, come Prosperi accenna ripetutamente in riferimento ad altri settori, per cui di sicuro il peso assegnato da entrambe le confessioni all’esame di coscienza e alla tematizzazione del sé non fu una concordanza casuale; ma una tecnica della contemplazione così scientificamente fondata, come quella sviluppata dai gesuiti, la si cercherebbe invano nell’altro «campo». D’altro canto, se Prosperi sottolinea la differenza fra l’autoeducazione protestante in base a un’unica conversione di vita e l’eterodeterminazione cattolica tramite l’attività pastorale di un somministratore di sacramenti, bisogna dire che furono proprio i gesuiti a ridurre notevolmente questa differenza, dal momento che si proponevano di guidare i fedeli solo in vista di metterli in grado di procedere a un certo punto con le proprie forze a condurre in autonomia la loro «vita nuova» e di trasformare la «direzione» in «autodirezione».
In questo quadro Prosperi si è spinto a proporre una visione affascinante la cui importanza teorica potrà essere ulteriormente approfondita: la raffinata arte dei gesuiti (e anche di altri confessori) della guida delle anime ha condotto a una «femminilizzazione» della religione, poiché erano soprattutto le donne a frequentare il confessionale, e nella loro meticolosa sorveglianza e introspezione di se stesse si spingevano a volte fino alla scrupolosità o all’«intimismo» mistico-visionario, mentre gli uomini, meno aperti al soffio dello Spirito, si comportavano in maniera conformistica sul piano religioso e guardavano



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con sufficienza la devozione esaltata e il bigottismo delle donne. Di conseguenza il mondo maschile dell’economia e della politica fu lasciato a se stesso e si emancipò dal controllo ecclesiastico. E questo, a parte la questione di storia della differenza di genere, mi pare fornisca una duplice pista esplicativa della successiva secolarizzazione: l’arrischiato allargamento dell’originario programma monastico di perfezione all’intero popolo laico suscitò da un lato esigenze eccessive dall’altro una spinta verso l’indifferenza. Una minoranza di cristiani, costituita soprattutto da donne, ma anche da altri «devoti», cercavano con la cosiddetta ascesi interiore di vivere «nel mondo, senza essere del mondo» e sperimentavano se possibile bisogni, tentazioni e sentimenti di impotenza ancora maggiori che i monaci nella loro più protetta separazione anche esterna da questo mondo. La tiepida maggioranza rimaneva invece per così dire fuori della Chiesa, davanti alla porta, relativamente soddisfatta di una vita imperfetta. Nulla si presta meglio a confermare la teoria della modernità quale l’ha sviluppata N. Luhmann: la «differenziazione» di sottosistemi particolari (come religione, scienza, politica, economia ecc.) dall’unico sistema di partenza, nel nostro caso dal complessivo ordine religioso che legava indissolubilmente tutti i campi parziali. Questa è la modernità inosservata della Controriforma: un’azione pastorale sempre più professionale, con la sua simultanea intensificazione e globalizzazione, dispiegò in misura eccessiva le sue possibilità e produsse, se non l’uscita in massa dalla Chiesa, la sua trasformazione in una istituzione particolare per una devozione privata «femminilizzata» e la sua perdita di peso presso il mondo «maschile».
Certo, all’epoca dei Tribunali della coscienza queste conseguenze non erano ancora visibili, e Prosperi non era quindi tenuto ad anticiparle. Un altro tema importante della sua opera mostra un’analoga ambivalenza fra Medioevo ed età moderna: la lotta della Chiesa contro i «residui pagani» nelle usanze popolari (la magia nera, la stregoneria e i tanti altri fenomeni raccolti nei testi ecclesiastici sotto la voce «superstizione»), Come abbiamo già rilevato, ci viene illustrato in maniera convincente che la tardività di questa «azione di pulizia» si spiega con la precedenza data all’urgente lotta contro l’eresia, la quale pertanto appare come una momentanea cesura fra la persecuzione delle streghe avviata nel XIV secolo e il loro momento culminante nel XVII secolo. Trovo condivisibile anche che questo argomento venga trattato nella parte del libro dedicata alla pastorale, non in quella dedicata all’Inquisizione, dal momento che la Chiesa italiana (a differenza di quella del Nord e dai tribunali secolari) era nell’insieme interessata più alla pedagogia dell’acculturazione che alle sanzioni e allo sterminio. Anche in



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questo campo i gesuiti hanno messo a frutto le loro capacità di riflessione intellettuale, in quanto, forti delle loro esperienze nelle «lontane Indie» d’America, affrontarono i «selvaggi interni» delle «vicine Indie» del continente con un certo interesse etnografico (peraltro in chiave strategica) in atteggiamento pedagogico e di civilizzazione. Centri di potere meno animati da sentimenti missionari intralciarono certo a più riprese con misure repressive la loro azione, la quale senza dubbio può essere qualificata per questo come modernizzante, anzi sotto certi aspetti persino come illuministica. Rimane la questione del perché proprio l’Italia, o comunque l’Italia meridionale, ancora oggi si trovi a far parte dei più arcaici o, se si vuole, più «arretrati» territori d’Europa e perché il protestantesimo nel Nord abbia avuto molto maggiore successo nel-l’espellere la mentalità magica e nel «disincantare» completamente le anime. Si deve questo fatto alle più profonde radici delle «credenze» medievali, all’atteggiamento più comprensivo dei missionari italiani nei confronti del popolo o alla (arrogante) posizione critica clericale verso le pure e semplici allucinazioni, prive di contenuti di realtà, comunque sempre ispirate dal diavolo? Qua e là Prosperi accenna a simili possibili risposte nel suo variegato e ricco affresco, senza tuttavia discutere esplicitamente il problema, ingombrante per la tesi della modernità. Forse (sulla base di sue specifiche osservazioni) esiste una spiegazione più semplice: molte pratiche di incantesimo, cioè tutte le forme di magia nera che provocavano danni a livello di rapporti interpersonali o sociali, ricadevano già in partenza nel campo della giustizia secolare, competente per i reati di lesa maestà, di congiura, di sovversione, di disturbo della quiete pubblica. Solo pochi procedimenti magici, e per l’esattezza solo quelli (peraltro difficili da definire) «che puzzavano di eresia», ricadevano nella competenza dei tribunali della fede. La maggior parte delle altre usanze e cerimonie non cristiane o precristiane rimanevano in un territorio intermedio di cui non si occupavano i «tribunali» e che venivano tollerate da preti di villaggio incolti, e spesso «superstiziosi» essi stessi. Ci si può anche spingere ad avanzare la seguente ipotesi: proprio perché da quel momento l’Italia divenne il paese della Chiesa cattolica nel senso di Prosperi, sopravvisse in questo paese contadino più che altrove una delle più elevate (secondo Bachtin e i suoi ammiratori) realizzazioni culturali del Medioevo, la controcultura sincretistica ufficialmente più o meno tollerata, per cui «Cristo si è fermato a Eboli».
Come che sia, non fu in Italia ma in territori di più attivo scambio culturale fra le confessioni che si rivelò quella radicale spinta alla modernizzazione - per l’Occidente, a quanto pare, definitiva -, messa in moto dalla liberazione della religione dall’intreccio con altri ambiti



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della vita personale e sociale. Non soltanto per togliere argomenti alla polemica protestante, ma anche per proprio impulso interno la Chiesa post-tridentina fece di tutto per trascendentalizzare il cristianesimo, per liberarlo dalle scorie troppo umane, secolari, primitive, magiche e «antirazionali». Il suo principale apporto in quest’epoca sta nell’accurata distinzione dei concetti di «sacro» e «profano». Uno «scherzo della storia» ne fece in tempi successivi un fattore di autodistruzione per la sua posizione di potere. Questa purificazione post-tridentina, infatti, ha portato come ultima conseguenza anche alla separazione fra Stato e Chiesa, che, nonostante tutte le confusioni tuttora esistenti, si è realizzata pure in Italia. Il fatto che ora la monocultura dell’alleanza fra sacro e profano di trono e altare in Occidente abbia ceduto il passo dappertutto al «libero mercato» delle opinioni e delle appartenenze religiose, non è per lo storico né una fortuna né una disgrazia, ma non è nemmeno una banalità, bensì un dato di fatto che tocca la storia mondiale, che non fa altro che rendere significativa la questione della alterità storica: perché prima le cose stavano in maniera diversa?
Appendice sugli aspetti teorici
Solo dopo che avevo finito di stendere il contributo sopra riportato sono venuto a conoscenza del sostanzioso saggio di Prosperi, Cristianesimo e religioni primitive nell’opera di Robert Hertz, che mi costringe a una aggiunta: qui l’autore rivela una sorprendente conoscenza dei dibattiti di fondo fra sociologi, etnologi e storici sul senso delle scienze umane all’inizio del XX secolo. Ne deduco che l’assenza di teoria che mi aveva colpito in Tribunali della coscienza potrebbe corrispondere a una precisa scelta dettata proprio da motivi teorici nell’ottica di una storia di processo, e comunque non era frutto di un capriccio corporativo per il Solo-Storico. Al centro del saggio su Robert Hertz, antropologo ingiustamente trascurato della scuola di Durkheim e amico di Marcel Mauss, ci sono appunto temi come il male e il suo superamento o la damnatio memoriae, la colpa e l’espiazione attraverso il giudizio e la confessione. Essi vengono tutti ricondotti complessivamente a un unico «rito di passaggio» elementare, alla transizione dal negativo al positivo, da «sinistra» a «destra». Benché non mi trovi d’accordo con questa interessante teoria, individuo in essa un motivo del disinteresse di Prosperi per gli sviluppi di lungo periodo e per le diacronie. Nell’elogio riservato all’etnologo si intravede così qualcosa che assomiglia a una dichiarazione a favore dell’«archeologia» nel la-



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voro storico, della ricerca degli strati profondi antropologicamente costanti delle «rappresentazioni» collettive. Lo storico pertanto non ha da descrivere le «civiltà» (al plurale) in trasformazione o che magari progrediscono verso livelli culturali superiori o da disegnare la lunga strada che dall’animismo porta fino alle «religioni superiori» spiritualizzate, ma piuttosto ha da aiutare l’antropologo a riesumare i resti - seppelliti appunto dai sedimenti della civilizzazione e della «modernizzazione» - dell’unica, antichissima e sempre uguale «civiltà», in cui non ci sono primitivi e civilizzati, ma soltanto l’«uomo quale è, sempre fu e sarà» (J. Burckhardt). A questo punto, la mia domanda su quali siano gli elementi medievali e quelli che condussero alla nostra concreta modernità dei Tribunali della prima età moderna non può che apparire superficiale. Quello che interessa infatti a Prosperi non sono determinati gradini temporali dello sviluppo europeo, ma la mitica «meraviglia di un mondo antichissimo» e la «modernità»: sineddoche per le macerie dell’intero processo di civilizzazione, che vale la pena di rimuovere «con cognizione di causa». Questo paradigma, che in effetti può contribuire a una salutare eliminazione dell’etnocentrismo europeo, viene oggi in generale molto apprezzato, ma un po’ meno fra gli storici, che continuano a credere al percorso speciale della cultura occidentale e la cui attività concreta continua a essere indirizzata alla cronologia. Per questo forse di questo si parla soltanto nel breve saggio antropologico-teorico, e non nel ponderoso e solido lavoro dello storico della prima età moderna. Ma se, partendo da un modo contrario di porre le questioni, faccio riferimento a questa fuga dal tempo nella metastoria, è per riprendere la discussione di fondo sulla «antropologia storica» e la «critica della cultura» quale si sviluppò all’inizio del nostro secolo, prima di estinguersi repentinamente con le successive catastrofi. Il «disagio della cultura» (e della «dialettica dell’illuminismo»), infatti, non si è nel frattempo attenuato, e «il ritorno alla natura» sembra trovare sempre più adepti contro la storia e la sua prosecuzione, sicché il postmoderno si sta forse già trasformando in antimoderno.
Peter von Moos
La Chartreuse de Valprofone, Béon



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Giovanni Romeo
II
1. Sono un lettore attento di Adriano Prosperi, soprattutto da quando i suoi interessi scientifici si sono concentrati stabilmente sulla storia dell’Inquisizione romana. E proprio per la mia familiarità con i suoi orizzonti di ricerca sono rimasto deluso da Tribunali della coscienza.
Malgrado la suggestione di parecchie pagine e l’originalità dei contributi dedicati a singole questioni, è poco convincente, a mio avviso, la tesi centrale del libro. Secondo Adriano Prosperi, nella subordinazione del confessionale alle esigenze di tutela giudiziaria dell’ortodossia si deve ravvisare lo strumento più incisivo utilizzato dalla Chiesa cattolica in età moderna per assicurarsi ima egemonia duratura sull’Italia. L’arruolamento dei confessori al servizio del Sant’Ufficio si sarebbe realizzato in due modi e in due tempi: prima obbligandoli a non assolvere i fedeli che nel confessarsi avessero rivelato trasgressioni, proprie o altrui, di competenza inquisitoriale, poi sottoponendo al giudizio degli inquisitori un delitto - quello di adescamento in confessione - fino a quel momento di pertinenza delle autorità diocesane e, per i regolari, di quelle dei rispettivi Ordini. Si sarebbe così consolidato in Italia, tra la seconda metà del Cinquecento e i primi decenni del Seicento, un modello di governo delle coscienze originale, efficace, solidamente ancorato alla più influente tra le Congregazioni romane.
Questo schema interpretativo mi sembra debole. Una prima perplessità riguarda l’accentuazione «nazionale» del problema. È vero, i cardinali del Sant’Ufficio, in quanto giudici dell’ortodossia, seguirono da vicino quasi soltanto l’operato dei tribunali vescovili e inquisitoriali dislocati nei vari Stati della penisola; e sorvegliarono forse con particolare attenzione i confessori italiani. Ma non trascurarono affatto le esigenze di controllo e di conversione degli «eretici» fuori d’Italia, a cominciare dalle frontiere dell’Europa religiosamente divisa. E uno degli strumenti che usarono di preferenza - non l’unico - fu proprio il confessionale. Perciò, ammesso e non concesso che la subordinazione dei confessori agli inquisitori sia stata una delle armi vincenti nelle mani della Chiesa impegnata a conquistare/riconquistare spiritualmente l’Italia, mi sembra doveroso domandarsi se e in quali modi essa fu utilizzata altrove. Oltre tutto, intrecci di questo tipo sono documentati anche in Spagna e Portogallo, nell’operato delle rispettive Inquisizioni. E un esame accurato di entrambi gli aspetti della questione potrebbe ridimensionare nettamente, a mio avviso, l’enfasi «italiana» di Tribunali della coscienza.
2. Ma anche a voler ritenere dimostrato che una stretta dipendenza dei confessori dal Sant’Ufficio (con gli inevitabili riflessi sulle «scor-



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rerie» dei missionari) costituisca, a partire dalla metà del Cinquecento, una specificità della storia religiosa d’Italia, non mi sembra che Adriano Prosperi abbia addotto prove solide dell’effettivo funzionamento di questo sistema di controllo in tutto il territorio italiano e per tutta l’età moderna. I limiti della rete inquisitoriale, le precise scelte istituzionali compiute dalla Congregazione del Sant’Ufficio, l’ammorbidimento crescente della tensione repressiva tardo-cinquecentesca, le diffidenze e le resistenze diffuse, non solo tra i laici e non solo nei confronti degli inquisitori: furono molti gli elementi che resero problematica, sia nell’immediato, sia nella lunga durata, l’applicazione piena di strategie di «conversione» così sottili e ben articolate.
Ragioni di spazio mi impediscono di motivare adeguatamente in questa sede le mie perplessità (rimando i lettori interessati a un ciclo di lezioni su Confessione dei peccati e Inquisizione nell'Italia del Cinquecento tenute nel maggio del 1997 presso la sede napoletana dell’Istituto Italiano di Studi Filosofici e pubblicate poco dopo a cura dello stesso Istituto, con il titolo Ricerche su confessione dei peccati e Inquisizione neU'Italia del Cinquecento). Sintetizzo qui i più forti elementi di dissenso rispetto al modello interpretativo proposto in Tribunali della coscienza.
Sul piano territoriale, l’impossibilità di affidare in tutta Italia la tutela dell’ortodossia a inquisitori «professionisti» pregiudicò gravemente la diffusione omogenea degli schemi d’intervento predisposti verso la metà del Cinquecento. Mi riferisco in primo luogo all’inadeguatezza dell’organizzazione del Sant’Ufficio nel Regno di Napoli. Questo aspetto della storia religiosa e civile dell’Italia moderna, noto da tempo, almeno nelle linee generali, mi sembra singolarmente sottovalutato in una ricerca di così ampio respiro. Nel Sud furono quasi solo i tribunali vescovili a interessarsi di Inquisizione. E, per quanto ne sappiamo finora, essi si impegnarono poco - con l’importante eccezione di quello della capitale - in un’attività impopolare e spesso infruttuosa. Così, la circostanza che in Italia meridionale i vescovi e i loro ufficiali continuarono a curare - a differenza del resto del paese - sia l’amministrazione del sacramento della penitenza, sia la tutela giudiziaria dell’ortodossia, non aprì la strada a una più proficua collaborazione tra i confessori e i colleghi titolari delle «Inquisizioni» diocesane. Insomma, neppure in condizioni particolarmente favorevoli fu agevole - o semplicemente opportuno - piegare la pratica della confessione alle esigenze del Sant’Ufficio.
Inoltre, ostacoli di un certo peso condizionarono l’applicazione delle strategie romane anche nell’Italia centro-settentrionale. Le cause di fede dovevano essere cogestite, secondo regole ben precise, da vescovi e inquisitori. Ma il netto sbilanciamento dei poteri a vantaggio



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dei delegati della Congregazione, tenacemente perseguito da quest’ul-tima tra il tardo Cinquecento e il primo Seicento, alimentò frequenti dissapori tra gli uni e gli altri. E si può immaginare con quanto zelo i responsabili delle Chiese locali, espropriati di competenze formalmente mai revocate, potessero sollecitare i confessori diocesani a dare una mano a colleghi malvisti, considerati talvolta poco più che usurpatori.
3. Accanto a questi limiti territoriali e istituzionali, bisogna tener presente almeno altri due aspetti del problema. Nelle zone in cui cominciamo a misurare con una certa precisione il numero dei confessori attivi e le frequenze medie del sacramento, la collaborazione con i giudici di fede si configura come un momento decisamente secondario della pratica della confessione. Gli ordini di grandezza sono incommensurabili. E quanto capita nella diocesi di Napoli ai primi del Seicento: si confrontano le centinaia di migliaia (di confessioni presunte) e le decine (di denunce/autodenunce presentate in giudizio da fedeli intercettati in confessionale). E largamente probabile, insomma, che la stragrande maggioranza dei confessori risolvesse in piena autonomia - grazie a specifici privilegi, per ignoranza, per consapevole rifiuto della prospettiva «giudiziaria», per non pregiudicare i rapporti, spesso fragili, con i penitenti - i casi di coscienza più delicati. D’altra parte, in un’organizzazione della pratica sacramentale che rinunciò molto presto ai problematici controlli territoriali legati al precetto pasquale, non risulta che essi fossero abitualmente in grado di imporre l’adempimento di un obbligo - la comparizione in giudizio - quasi sempre sgradito, o di evitare che colleghi più tolleranti assolvessero senza difficoltà i «bocciati». E questo risvolto della questione, di cui non può sfuggire l’importanza, mi sembra sostanzialmente eluso da una prospettiva di ricerca troppo condizionata dalle evidenze inquisitoriali.
Per di più, Tribunali della coscienza non dà il rilievo che merita a un elemento già affiorato negli studi degli ultimi anni. Con una coincidenza a mio avviso non casuale, il rimando dei penitenti non assolti alla comparizione in Sant’Ufficio comincia a raggiungere dimensioni apprezzabili solo nei decenni centrali del Seicento, nello stesso momento in cui i responsabili del negotium fidei utilizzano in modo sempre più distratto e stanco le testimonianze rese dai presunti eretici «fermati» dai confessori. Il trattamento di favore riservato a partire dalla seconda metà del Cinquecento a tutti i fedeli - e quindi anche ai penitenti - che denunciano «spontaneamente» agli inquisitori se stessi e/o i presunti complici di abusi contro la fede non è abolito; ma le loro rivelazioni sono sfruttate sempre di meno. Questa svolta vistosa, che



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già si era profilata nelle strategie di contenimento delle pratiche magi-co-diaboliche, era stata segnalata dallo stesso Prosperi, in un saggio pubblicato pochi anni fa (Jdinquisitore come confessore, in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra Medioevo ed età moderna, a cura di P. Prodi, Bologna 1994); ed era quella, a mio avviso, l’ipotesi storiografica da approfondire. Lo suggeriscono sia le fonti inquisitoriali, sia quelle - per lo più nascoste, oblique, difficilmente reperibili - relative all’amministrazione del sacramento della penitenza. Eccone un esempio.
E merito di Tribunali della coscienza - e ne costituisce una delle novità più importanti - aver fatto luce su una bolla di Paolo IV sfuggita finora agli studiosi. E grazie a essa che l’utilizzazione della confessione dei peccati al servizio dei tribunali addetti alla tutela dell’ortodossia comincia a configurarsi stabilmente come uno dei presupposti decisivi per l’annientamento del dissenso religioso. Ed è giusto sottolineare che il card. Ghislieri, prima come inquisitore maggiore, poi come Pio V, fu uno dei più convinti fautori della necessità di servirsi di uno strumento così rischioso per difendere la Chiesa da avversari pericolosi, sfuggenti, ben organizzati. Fu anche per la spregiudicatezza e la tenacia mostrate dal Carafa e dal Ghislieri che l’Inquisizione romana disarticolò e disperse in tempi relativamente brevi le tante esperienze di fede fiorite in decenni di straordinaria tensione spirituale e civile.
Ciò non vuol dire però, secondo me, che i metodi di lotta antiereticale sperimentati in quegli anni furono l’inizio di un processo di assoggettamento dei confessori agli inquisitori. C’è una bella differenza tra la legittimazione di un uso spregiudicato del sacramento e la predisposizione di un sistema di controlli stringente - al limite dell’intimidazione - nei confronti degli ecclesiastici che lo amministravano. Il ruolo avuto al riguardo dalla Compagnia di Gesù - non solo in Italia - mi sembra indicativo. Religiosi colti e potenti, attentissimi alla pratica della confessione dei peccati e agli interessi del Sant’Ufficio, ben presenti sul territorio, finemente guidati e coordinati da una Curia Generalizia che opera in stretto contatto con il papa e con le più alte autorità della Chiesa, i gesuiti, per quanto finora mi risulta, applicarono abitualmente la bolla di Paolo IV senza sgradevoli appendici giudiziarie; e anche nelle frequenti scaramucce con Pio V difesero gli spazi di autonomia dei loro confessori, sia pur con duttilità e con ampie concessioni alle esigenze repressive. Fece così, d’altronde, almeno nei loro confronti, anche il terribile Ghislieri. Già da allora, insomma, nelle esperienze d’avanguardia di una Congregazione religiosa influente e combattiva come poche, si prefigura uno scenario familiare a chi segua con attenzione gli sviluppi del problema nel Sei-Settecento. La



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confessione dei peccati è lo strumento fondamentale per conquistare/ riconquistare spiritualmente l’Italia - e forse il mondo intero. Il contributo che essa può dare all’Inquisizione è un aspetto importante - in certi momenti e in certe situazioni, decisivo - di questo processo, non certo l’obiettivo principale perseguito da una Chiesa in espansione.
4. Queste osservazioni non intendono affatto sminuire il ruolo della repressione nelle strategie di consolidamento del consenso adottate dalla Chiesa cattolica in età moderna. Se gli inquisitori italiani del Sei-Settecento divennero tendenzialmente «confessori», è altrettanto certo, ad esempio, che i confessori veri e propri non furono estranei - il caso del conforto dei condannati a morte insegna - a logiche di violenza e di intimidazione. In generale, poi, se un equilibrio ben bilanciato tra forza e persuasione ha consentito al cattolicesimo moderno, come Prosperi osserva giustamente più volte, di radicare e allargare la sua presenza nella società italiana, il rilievo non si può circoscrivere al lavoro di dissodamento e di «pulizia» assicurato dai confessori e dagli inquisitori. Ed è qui che mi sarei aspettato una diversa articolazione interna del nucleo centrale della ricerca.
A mio avviso, sarebbe stato molto più opportuno - anziché presentare singole tematiche di rilievo inquisitoriale - approfondire, anche in un’area circoscritta e per un periodo limitato, l’andamento complessivo dei controlli di «coscienza» operati ordinariamente dalle autorità ecclesiastiche, nelle sollecitazioni romane e nelle diverse applicazioni locali. Forse ne sarebbe risaltata meglio anche l’importanza dell’ultima parte del lavoro, quella dedicata al contributo dei missionari. Proprio nelle pagine finali, suggestive ma un po’ slegate dal resto del libro, si avverte maggiormente l’esigenza di una ricostruzione storica che dedichi più ampio spazio agli equilibri religiosi ordinari, agli orizzonti quotidiani allargati o sconvolti dagli uomini «che venivano da lontano e andavano lontano».
Giovanni Romeo
Università «Federico II», Napoli Istituto Universitario Orientale, Napoli



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III
Il libro di Adriano Prosperi, pubblicato alla fine del 1996 da Einaudi e baciato da una inusuale fortuna editoriale (nel primo mezzo anno quattro ristampe a spron battuto), è molto importante per la storiografia non solo italiana, ma non ha avuto finora, forse, un’adeguata discussione. L’ampiezza della trattazione, la connessione del tema Inquisizione con i grandi temi ecclesiastici, religiosi e sociali della storia moderna, la ricchezza della base documentaria e bibliografica hanno avuto l’effetto, mi pare, di inibire piuttosto che di rilanciare il dibattito su una lunga pagina abbastanza sconosciuta della storia italiana.
Il libro si colloca alla fine di una stagione di studi sull’Inquisizione romana operante in Italia, rinnovati in parte in seguito alla grande vitalità della storiografia sull’Inquisizione spagnola, e posti ora di fronte all’apertura dell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede come ad una sfida documentaria e storiografica non indifferente. Già negli anni ’70 gli studi di John Tedeschi avevano dimostrato l’importanza essenziale degli aspetti canonistici e legali per capire il funzionamento dell’istituzione e il linguaggio dei processi, tendendo a mostrare come i tribunali del Sant’Ufficio amministrarono la giustizia secondo regole precise, controllate centralmente e con garanzie per gli imputati che gli altri sistemi giudiziari ancora non avevano, senza con questo fare una difesa d’ufficio degli inquisitori.
Negli anni ’80 e ’90, oltre alla continuazione degli studi sulla Riforma in Italia e sugli «eretici» in senso cantimoriano, sono cominciate le edizioni critiche di processi inquisitoriali, che riguardano più direttamente la storia dei singoli imputati, ma mettono ugualmente in luce il modo di operare e gli atteggiamenti dell’istituzione di controllo. A questo duplice interesse rispondono anche le ricerche dell’ultimo decennio, in particolare i libri di Giovanni Romeo sugli atteggiamenti teorici e pratici della Chiesa italiana verso la magia e stregoneria alla fine del Cinquecento e di Gigliola Fragnito sulla proibizione della Bibbia in volgare nel Cinquecento. L’Inquisizione romana viene studiata assieme alla spagnola e alla portoghese in un volume di Francisco Bethencourt, che esamina come alcuni aspetti fondamentali delle loro forme istituzionali si radicarono nelle diverse società dell’Europa mediterranea cattolica. La parte dell’Inquisizione romana risulta la più scadente per la limitatezza delle fonti disponibili e la povertà degli studi precedenti.
Lo studio di Adriano Prosperi, che è il più generale e innovativo tra quelli recenti, ha collocato nella prospettiva di una storia della società italiana l’Inquisizione, che nei decenni precedenti si tendeva an-



802on uno stile denso (le parole non sono sprecate) e avvincente (c’è un intreccio forte dei temi).
L’impressione generale che mi ha fatto è stata quella di vedere un argomento che conosco bene trattato in modo diverso e nuovo. Ho avuto cioè l’impressione di capire per la prima volta a fondo molti aspetti di temi a me familiari. Per usare un’immagine, è stato come se avessi visto una costruzione nota in un contesto completamente inusuale: ad esempio la basilica di San Pietro con il suo colonnato e la cupola in mezzo ad un deserto. A dire il vero, Prosperi fa l’operazione inversa: ha finalmente posto una cattedrale, che stava nel deserto, all’interno di una città, riannodando alla società circostante i fili di una istituzione poco studiata.
In questo libro l’Inquisizione non è più solo lo strumento che ha eliminato la Riforma protestante dall’Italia del Cinquecento, come si riteneva fino alla metà di questo secolo, o ha represso le culture popolari, come è vista ad esempio nei libri di Carlo Ginzburg. Visioni fondate, ma parziali. Prosperi non fa neppure una storia istituzionale dell’Inquisizione romana, che pure manca, come ha cominciato a proporre trent’anni fa John Tedeschi.
Il lavoro di Prosperi va ben al di là: vede l’Inquisizione come uno degli strumenti più importanti con cui venne attuata l’egemonia cattolica sulle credenze e coscienze degli italiani, con riflessi fino ai nostri giorni, egemonia attuata non solo con metodi repressivi (cioè l’Inquisizione), ma anche attraverso il controllo capillare dell’intimo (cioè con il sacramento della confessione) e la persuasione (cioè con la direzione spirituale e le missioni in Italia).
La grande novità del libro è proprio questa: la compresenza di questi tre elementi fondamentali nella storia del cattolicesimo, utilizzati dalla Chiesa in risposta alla grave crisi provocata dalla Riforma protestante, visti nei loro rapporti reciproci all’interno della società italiana dell’età moderna. In precedenza il tema dell’Inquisizione veniva sempre visto a sé, come repressione, nell’ottica ottocentesca del contrasto tra Rifor-



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ma-liberalismo da una parte e cattolicesimo-oscurantismo dall’altra, contrasto cioè tra industrializzazione-sviluppo ed economia agricola-arretratezza. Le questioni principali all’interno di quest’ottica erano quante persone l’Inquisizione aveva processato, quante uccise, come il Sant’Ufficio aveva soffocato la libertà di pensiero ed emarginato le culture popolari. Queste questioni ci sono anche nel libro di Prosperi, ma non in un’ottica controriformistica.
Un secondo punto chiave del libro è infatti il superamento di problemi storiografici singoli, che finora hanno orientato tipi diversi di ricerca: la Riforma in Italia (il suo fallimento), l’applicazione del concilio di Trento (la vittoria), la lotta contro la magia e stregoneria (repressione della cultura popolare), il controllo delle devozioni (finta santità), il disciplinamento e la modernizzazione (moralizzazione delle masse). Prosperi adotta in modo originale ed efficace due fulcri, complementari, attorno cui far ruotare queste problematiche:
a. le credenze e le coscienze, cioè la vita intellettuale, ed etica, degli uomini e delle donne; all’interno di questa: la libertà di coscienza;
b. il potere sulle credenze e coscienze e sui comportamenti sociali che ne conseguono: chi lo esercita, con che modelli (repressione, controllo capillare e persuasione), con quali dislivelli tra autorità ecclesiastiche e con quali concordanze e conflitti tra autorità ecclesiastiche e statali.
Questo orientamento, se si vuole, si può discutere, ma secondo me ha una grande rilevanza non solo per le possibilità interpretative che offre in campo storico, ma anche perché tocca sul piano storico-religioso generale uno dei punti chiave del cristianesimo, inteso come messaggio di Gesù Cristo: la liberazione dell’uomo. Anche il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ritiene che il rapporto libertà-potere sia fondamentale nel pensiero moderno (J. Ratzinger, Il sale della terra. Cristianesimo e Chiesa cattolica nella svolta del millennio. Un colloquio con Peter Seewald, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1997, p. 191), che la Chiesa sia oggi «una forza di opposizione contro tutti i meccanismi di oppressione e di omologazione politico-economica in tutto il mondo», un «elemento di libertà» (p. 189), e che l’imposizione, la forza e la violenza sia una forma di potere non consona a Dio e alla Chiesa (pp. 249-250). Ma nel passato?
I problemi coinvolti in questi temi storici sono grossi. Da qualsiasi parte li si rigiri tornano sempre a galla, anche se non si parla solo di Inquisizione, ma questa viene collocata nella storia della Chiesa e della società italiana. Ci saranno stati pochi morti, pochi «grandi inquisitori» (mentre in Spagna c’erano gli inquisitori generali, il capo della Congregazione del Sant’Ufficio era addirittura il papa). Ma il papa più sanguinario non fu Paolo IV Carafa, fu Pio V Ghislieri (1566-1572),



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Andrea Del Col
cioè san Pio V, canonizzato agli inizi del Settecento: Inquisizione e santità? Dalla nuova angolatura degli studi più recenti sul Sant’Ufficio non risultano tanto deviazioni personalistiche, quanto la forza terribile delle strutture secolari della Chiesa: la commistione tra Inquisizione e confessione, che rese morbida la repressione, ma piegò le coscienze alla delazione; gli inquisitori non assetati di sangue, ma funzionari più o meno ligi a doveri impersonali.
Le tre tematiche del libro
Il controllo della vita religiosa, della cultura e delle coscienze venne dunque operato negli Stati italiani di età moderna attraverso una molteplicità di strumenti ecclesiastici con l’appoggio fino a Settecento avanzato delle autorità statali. Oltre all’attività pastorale dei vescovi, che cercarono di applicare il concilio di Trento, e alla predicazione e amministrazione della confessione da parte degli ordini religiosi, uno strumento poco studiato, ma di capitale importanza, fu l’azione della Congregazione del Sant’Ufficio attuata nella sede centrale e nelle sue dislocazioni periferiche.
A. Inquisizione e Riforma. L’Inquisizione, nata per arginare la Riforma protestante in Italia, fu il primo potere che agì in tutta la penisola al di sopra delle frontiere statali, realizzando un disegno egemonico del papato sugli altri Stati e rispondendo al bisogno di stabilità interno delle diverse autorità politiche. Negli anni iniziali, data la situazione di emergenza, ci fu la ricerca di mezzi straordinari, con varie soluzioni nelle diverse situazioni statali e l’uso di vescovi, nunzi apostolici e inquisitori. Con il pontificato di Pio V l’azione pastorale dei vescovi, rinnovata e rilanciata dal concilio di Trento, venne sottoposta più direttamente al potere degli inquisitori, controllato centralmente da Roma. L’Inquisizione operò investendo tutta la società attraverso non solo gli inquisitori, ma anche i vicari foranei dell’Inquisizione, le compagnie dei crocesignati, e adottando delle regole che miravano a controllare tutta la vita religiosa, non soltanto le deviazioni dall’ortodossia nel foro esterno.
B. Inquisizione e confessione. A quest’ultimo proposito divenne di cruciale importanza il rapporto tra Inquisizione e confessori, instaurato già alla metà del Cinquecento per debellare l’eresia protestante nella grave situazione d’emergenza, e diventato via via un asservimento del foro interno della confessione sacramentale al foro esterno dell’Inquisizione. Questo avvenne nel corso del primo Seicento nelle varie materie collegate all’eresia che entrarono nella competenza e nell’azione



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giudiziaria del Sant’Ufficio: magia e stregoneria, affettata santità, sollecitazione ad atti turpi durante la confessione. La rete inquisitoriale sul territorio si modellò su quella vescovile, ci furono sovrapposizioni e contrasti, ma le autorità ecclesiastiche romane preferirono il controllo centralizzato che permetteva l’Inquisizione all’azione pastorale dei vescovi e alla confessione come consolazione e aiuto alle coscienze. Queste forme dolci e non repressive di intervento ebbero ad ogni buon conto largo spazio nel Seicento e Settecento soprattutto per opera dei gesuiti (confessione generale come via alla santità, non come tribunale delle colpe).
C. Conversioni e missioni in Italia. La confessione non fu solo un mezzo dell’Inquisizione per conoscere gli eretici e i loro complici, ma servì anche per convincere le coscienze, per parlare al cuore dei credenti. La Chiesa non solo controllò le credenze, la morale e i comportamenti, ma istruì e indirizzò i fedeli attraverso le missioni. Predicazioni, confessioni, processioni furono usate da molti ordini religiosi, e soprattutto dai gesuiti, per trasformare le «Indie nostre» in territori cattolici, attraverso la catechizzazione dei fedeli e la cristianizzazione dei riti di passaggio (matrimonio, battesimo, funerale) secondo le indicazioni tridentine e le strategie dei vari ordini religiosi.
Alcune valutazioni
Una descrizione così scheletrica del libro non rende conto della sua ricchezza e della grande rilevanza che esso riveste nella cultura italiana. Cercherò di delinearne alcuni tratti portanti.
1. Scontata l’attenzione rivolta alle diverse situazioni statali (o regionali) italiane, il quadro di riferimento e di confronto diventa l’Europa: ovviamente Lutero e gli stati protestanti, soprattutto Spagna e Francia, ma anche Inghilterra. Due soli esempi: come modello della neoistituita Congregazione viene vista non solo l’Inquisizione spagnola, ma la Chambre ardente di Francesco I. La mancata introduzione dell’Inquisizione spagnola nel ducato di Milano e nel regno di Napoli viene contestualizzata con la contemporanea imposizione dell’Inquisizione spagnola nei Paesi Bassi e i loro diversi esiti (le valutazioni di allora si rivelarono del tutto sbagliate).
2. Il libro è costruito su una massa enorme di fonti edite e inedite: le prime sono studi pubblicati, tesi di laurea (debitamente citate), libri in corso di stampa; le seconde processi dell’Inquisizione, manuali per inquisitori e per confessori, istruzioni per missionari, lettere di ogni genere. Gli archivi consultati non sono soltanto i molti già noti agli storici, ma in parecchi casi sono indicati documenti dell’Inquisizione



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in fondi prima sconosciuti o poco utilizzati. Vengono fatte delle scoperte interessanti sui manuali degli inquisitori, sono utilizzate in modo ampio e nuovo le relazioni sulle missioni dei gesuiti
3. Il periodo storico considerato parte dalla crisi religiosa europea del Cinquecento, da cui nacquero la Riforma protestante e il rinnovamento cattolico in forte conflitto, tratta il Seicento e fa alcune puntate nel Settecento. Ma non si limita all’età moderna e nelle prospettive storiografiche tiene conto degli effetti della industrializzazione, che ha comportato il superamento dei confini nazionali con la mondializzazione dell’economia, il dislocamento della religione in un mondo secolarizzato, il ripiegamento nella ricerca delle proprie radici culturali (studio della magia e stregoneria).
4. Il libro non è uno studio di tipo accademico, chiuso all’interno di questioni tecniche della storiografia, ma mostra come la storia del controllo e indottrinamento delle coscienze abbia dei risvolti e dei riscontri nelle nostre abitudini e caratteristiche culturali d’oggi. E una ricerca che fa intuire ad esempio perché papa e vescovi hanno grande peso nella politica italiana odierna, come mai la solidarietà della carità cristiana e non il rigore della fede sia il tratto caratteristico della nostra religiosità, e infine, anche se solo in parte, come mai il conformismo e l’adattamento più o meno furbesco alle regole senza rispettarle sia purtroppo un tratto tipico delle nostre abitudini pubbliche e private, dal Nord al Sud. Questi confronti con l’oggi sono tutti miei, eccetto il primo, sono dunque opinabili, ma mostrano che questo non è un libro scritto da uno storico che vive chiuso tra i documenti antichi e non capisce il tempo in cui vive.
Per tornare a questioni storiche e sintetizzare in una battuta la mia valutazione: il libro rappresenta una rivoluzione copernicana negli studi dell’Inquisizione romana, imponendo la considerazione delle funzioni plurime da essa svolte nella storia religiosa, sociale e politica italiana, e il loro inserimento nell’azione di controllo interiore e di convincimento religioso e culturale che avvenne nel contesto europeo.
Osservazioni su due temi
Una collega, appena uscito il libro di Prosperi, mi scrisse: «dopo le 700 pagine del volume Einaudi di Prosperi non so più cosa resti da scrivere». Io credo invece che questo libro non sia una conclusione, ma un nuovo avvio delle ricerche sull’Inquisizione in Italia. Intanto non è un libro o tutto o niente. Non mi immagino poi che Prosperi intenda imporre una verità definitiva, una ortodossia. I temi che tratta sono talmente tanti, che è impossibile che tutti gli storici pensino le stesse cose.



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Anch’io dissento su due questioni ed entro subito nella discussione. Una questione è l’analogia tra inquisitore e antropologo, proposta anni £a da Ginzburg e ripresa da Prosperi senza critiche; l’altra è il rapporto tra inquisitori e vescovi, uno dei temi portanti del volume.
1. Sulla prima questione penso proprio il contrario: l’inquisitore è un anti-antropologo, e gli elementi per un’analisi di tipo antropologico che lo storico trova nei documenti del Sant’Ufficio ci sono nonostante gli inquisitori, non per loro merito. Ma l’effetto negativo di questa analogia tra inquisitore e antropologo, attraente all’apparenza, è quello di far considerare i processi inquisitoriali come fonti affidabili, evitando la loro analisi critica. E diventato di moda parlare di dialoghi tra inquisitori e inquisiti (nessuno parla esplicitamente di interviste, o indagini sul campo, ma l’idea è quella). Secondo me invece questi discorsi a due sono talmente particolari e asimmetrici che hanno un loro nome: interrogatori. Nessuno parla di dialogo ad esempio per un altro discorso a due asimmetrico, il molto più semplice esame scolastico, dicendo: vado all’università a fare un dialogo in storia moderna. La controprova che questa analogia è un’operazione non buona si trova nello stesso libro di Prosperi, quando egli parla delle lettere dei gesuiti che riferiscono le loro missioni in Italia: non seguendo l’analogia missionario-antropologo, che nel caso sarebbe ancora più plausibile della precedente, queste lettere sono sottoposte ad attenta valutazione per individuarne gli scopi per cui furono scritte, la validità e i limiti delle informazioni in esse contenute, la possibilità indiretta di risalire alla cultura popolare, agli usi tradizionali, senza restare invischiati nelle valutazioni dei missionari. Se le stesse cautele critiche fossero applicate, come si dovrebbe, ai processi inquisitoriali, si vedrebbe bene che questi non si autocertificano, non si autoverificano.
Si cercherebbe di capire il linguaggio in cui sono scritti, non solo quello teologico, ma quello giuridico, canonistico. Non ci si meraviglierebbe più, ad esempio, del termine spontanea comparizione, pensando che non era spontanea perché l’imputato era costretto a presentarsi al tribunale dal confessore (intendendo cioè spontanea come libera), mentre invece era un termine giuridico che voleva solo indicare che l’imputato non era stato citato e non c’erano contro di lui denunce o testimonianze (spontanea come volontaria).
2. Più complessa è la mia posizione sul rapporto tra inquisitori e vescovi. L’idea di Prosperi, ridotta all’osso, è che mentre i vescovi tendevano ad un intervento pastorale, morbido, contro gli eretici, la Congregazione del Sant’Ufficio e gli inquisitori usarono un atteggiamento giudiziario, repressivo e assoggettarono nel corso del Cinquecento l’opera dei vescovi, estromettendoli in pratica dai processi di fede, eccetto



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che a Napoli, e che questo rapporto si stabilizzò nei secoli seguenti, pur prendendo l’Inquisizione atteggiamenti più pastorali. A me pare invece, partendo da un altro punto di vista, che i vescovi o i loro vicari ebbero un ruolo preminente nell’azione antiereticale fino agli anni ’70 del Cinquecento certamente nella Repubblica di Venezia, ma anche altrove, e che in seguito la partecipazione alle sedute del tribunale inquisitoriale fu uno dei compiti primari dei vescovi nel governo della diocesi. Traducendo la questione in termini strutturali, mentre Prosperi propende per l’idea che l’Inquisizione romana fosse fatta dagh inquisitori, con la supervisione dei nunzi e con l’ausilio subordinato dei vescovi, io credo che fosse fatta contemporaneamente dai nunzi, dagli inquisitori e dai vescovi con poteri talvolta concorrenti, talvolta contrastanti. Penso insomma che lo schema inevitabilmente ricavato dagli studi sull’Inquisizione spagnola, dove contavano solo gli inquisitori, non vada temperato con la presenza marginale di altri giudici, ma modificato radicalmente con la compresenza strutturale di più giudici (nunzi, inquisitori e vescovi nelle capitali di Stato, inquisitori e vescovi nelle altre sedi), salvo a verificare di periodo in periodo, di sede in sede, di regione in regione, chi furono i giudici predominanti, quali accordi e quali contrasti ebbero con gli altri giudici.
Conclusione
Gli storici lavorano sui documenti e l’apertura dell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede fa sorgere alcune domande cruciali: quali documenti contiene, quali sono stati irrimediabilmente distrutti, e come potranno cambiare le nostre conoscenze dell’Inquisizione e della società italiana?
Gli storici lavorano anche all’interno delle questioni storiografiche, ogni tanto proponendone di nuove. In qualsiasi modo lo si voglia considerare, apprezzandolo o criticandolo, apprezzandone alcune parti, criticandone delle altre, il volume di Prosperi si pone come il nuovo paradigma degli studi sull’Inquisizione romana, ma probabilmente sull’Inquisizione in genere. Forse vale la pena parlarne apertamente tra gli storici, questi «scienziati» che conservano ancora molte abitudini, non si capisce se fortunatamente o sfortunatamente, del lavoro artigianale.
Andrea Del Col
Dipartimento diStoria Università degli Studi di Trieste



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IV
1. Per noi che ci troviamo a vivere alla fine del XX secolo l’immagine più diffusa dell’Inquisizione, certamente il più famoso tribunale del passato, non è solo quella di un’istituzione che fu invadente e oppressiva, ma soprattutto quella di un’istituzione che ha caratterizzato, per la sua pretesa di giudicare le coscienze, un’intera epoca facendone un’epoca di intolleranza; recenti e meno recenti revisioni storiografiche soprattutto con questa immagine di fondo hanno tentato di misurarsi. Ma qual era l’immagine che gli uomini del passato, i contemporanei, per dir così, dell’Inquisizione, avevano di quel tribunale? Lo hanno sentito anche essi sempre e comunque come un tribunale oppressivo, o per essi il compito di giudicare le coscienze poteva sì risultare un fatto doloroso, ma era comunque considerato un irrinunciabile dovere che alcuni apparati istituzionali dovevano per forza di cose assumersi? E qual era, inoltre, nei vari stati italiani l’immagine diffusa di questo tribunale che pretendeva di imporre, con un accentramento certo non usuale per gli apparati legislativi allora operanti nella penisola, una legge «romana»? Riuscì davvero efficace questo accentramento, e quali furono i modi con cui si raggiunse, se si raggiunse, questa pretesa «unità inquisitoriale» d’Italia? Adriano Prosperi, ricostruendo nei suoi Tribunali della coscienza l’azione di coloro che, deputati a penetrare gli spazi segreti dell’animo per ascoltare le confessioni, come per operare nella società tutti i più dolorosi tagli che potessero valere a ridarle i «buoni usi conformi alle leggi», a un certo punto si sofferma su un’immagine che ben sembra sintetizzare alcune delle idee allora più diffuse intorno a questi problemi e che può aiutarci a rispondere ad alcune di queste domande
Che «riformare» cioè, volesse dire, tra Cinque e Seicento, imporre con dolorosa violenza il proprio modello ideale per tagliar via dal corpo della società, come da quello di un albero, tutti i rami «superfluamente cresciuti», lo affermava senza alcuna incertezza il più famoso dei manuali d’immagini, la celebre Iconologia di Cesare Ripa. La Riforma, secondo questo diffusissimo testo riedito fino al ’700 inoltrato più e più volte, era perciò immaginata come una figura armata di «roncietto», ossia di una sorta di piccola falce con la quale si dovevano levare via «gl’abusi» degli uomini. «Coltivare gli ingegni», lungi dal suscitare quelle rigogliose immagini di libere fioriture che ci appaiono ormai naturali, faceva a quel tempo pensare piuttosto a una precisa azione volta da un lato a «tagliar via certi modi di pensare dannosi e pericolosi», dall’altro a far «crescer la pianta dell’intelletto in direzioni giuste» (p. 614). Consigliare e indirizzare, dunque, ma anche recidere con inflessibile durezza. Era del resto allora, come è stato detto, piuttosto ancora l’epoca dei doveri delle



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autorità per la salvezza delle anime che non quella dei diritti degli individui, e due furono soprattutto le vie attraverso le quali Fazione delle autorità si fece sentire nella società italiana: la via degli inquisitori e la via dei confessori. Le tracce di questa azione che assicurò quella «unità inquisitoriale dell’Italia» sono ancora vive e attuali. Della prima di queste istituzioni qui passate in rassegna, l’Inquisizione, «se ne parla da secoli, ma non se ne sa molto» (p. XIII), eppure, a misurare la necessità di approfondire la nostra conoscenza su questo tribunale basterà riflettere sul fatto che il Sant’Uffizio fu l’unico potere centrale operante nella penisola italiana in età moderna. Già da parecchi anni in verità Adriano Prosperi era tra quegli storici che andavano soffermando la loro attenzione sui nodi problematici legati all’azione di questo tribunale: in un ormai lontano articolo del 1988 egli poneva quel problema fondamentale della nuova immagine dell’Inquisizione di cui altre successive ricerche dovevano poi sempre meglio delineare i contorni.
Quest’ultimo libro, riassumendo anni di ricerca, e utilizzando fonti provenienti da vari archivi italiani, inserisce questi problemi in un quadro complessivo della vita religiosa e politica della società italiana del tempo. Un quadro che fa comprendere i modi e le forme concrete dell’organizzazione inquisitoriale, gli intrecci che questa grossa macchina aveva con altri apparati burocratici del tempo, oltre a tentare di rispondere alle domande di fondo sul significato che l’Inquisizione assume nella storia della società italiana.
L’Inquisizione è descritta nel suo formarsi, nel suo trasformarsi, e nel suo adattarsi alle diversificate situazioni politiche esistenti nella nostra penisola; conosciamo il suo funzionamento, il numero e le funzioni dei suoi addetti ai lavori, e naturalmente gli aspetti politici del tribunale non appaiono meno importanti di quelli religiosi. Conosciamo i conflitti interni alla magistratura straordinaria dell’Inquisizione e quelli esterni, le lamentele dei vescovi contro l’invadenza degli inquisitori, la reazione dei cardinali. Ma soprattutto l’Inquisizione è descritta nei suoi intrecciati rapporti con gli altri organismi destinati a trasformare e riformare la società italiana. Non solo rapporti tra vescovi e inquisitori, ma anche tra inquisitori e confessori, tra esorcisti e inquisitori, e infine tra inquisitori e inquisitori di varia collocazione geografica. Ed è intrecciando questi fili che si delineano i caratteri di un’istituzione alla quale proprio la flessibilità e l’adattabilità alle diverse situazioni politiche e sociali conferirono quella possibilità di intervento durevole, e quella capacità di penetrazione profonda sulle quali nel tempo si costruirà quel tessuto connettivo comune a gran parte della penisola italiana.
Nella loro evoluzione i tribunali inquisitoriali appaiono attraversare una parabola che da tribunali dell’eresia, quali sono stati in origine,



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li £a diventare a poco a poco tribunali della moralità collettiva, quella moralità collettiva che costituì appunto uno degli elementi forti di questa unità raggiunta nella penisola.
Perché, e questo ce lo dicono soprattutto le fonti utilizzate in questa ricerca, quella inquisitoriale fu un’istituzione centralizzata eppure diversificata; diversificata non solo come funzionamento concreto dei vari tipi di tribunali («tanti diversi tipi di tribunali quanti erano gli interlocutori») ma anche perché piuttosto che essere governata con un sistema rigido di norme procedurali, viveva «in una fitta e continua serie di minute trattative» (p. 109); trattative che avvenivano, per obbligo di un preciso decreto del Sant’Uffizio, attraverso una rete di corrispondenza che copriva tutto il paese. Ed è proprio questa la ragione per cui noi, che possiamo leggere una parte di questa corrispondenza che si trova depositata in vari archivi periferici, abbiamo potuto conoscere il funzionamento di questa istituzione anche prima dell’attuale apertura, peraltro ancora misurata, dell’archivio centrale romano del Sant’Uffizio, che, come è noto, aveva dischiuso in passato le sue porte solo per qualche singolo studioso, in qualche eccezionale occasione. In realtà questi documenti costituiscono una serie documentaria di straordinaria importanza per ricostruire non solo la storia di questo tribunale, ma, più in generale, molti di quegli eventi che sono incomprensibili, come le più recenti tendenze storiografiche vanno mostrando, al di fuori di questa dialettica costante tra poteri centrali e periferici.
2. Il libro di Prosperi, del resto, non è utile solo per i problemi che affronta direttamente, ma anche per quelli che contribuisce a porre su rinnovate basi documentarie e soprattutto a inquadrare in un contesto di analisi storiografica più precisa, pur non soffermandosi particolarmente su di essi. Tra i problemi più interessanti intorno a cui si potrebbe approfondire l’indagine, c’è ad esempio quello che ruota intorno a quella che potremmo chiamare la connotazione «sociale» dell’Inquisizione. Abbiamo noi elementi sufficienti per affrontare un discorso di questo tipo? Da un certo punto di vista la ricerca disegna un’istituzione sensibile, come tutti gli apparati statali di Ancien régime, ai privilegi di ceto: la «giustizia di classe» dell’Inquisizione toscana non esita a punire esemplarmente i «meno nobili di sangue» risparmiando i più nobili (p. 77). L’Inquisizione sembra soprattutto un’istituzione che condivise, con altre istituzioni del tempo, chiusure e diffidenze verso ogni mutamento sociale. Situazione, questa, che permise quella collaborazione tra poteri laici dei singoli stati e poteri inquisitoriali che costituì, come si è detto, la forza operativa dell’Inquisizione. Perché, infatti, gli stati, in linea di massima e tranne eccezioni anche significative, avreb-



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bero collaborato con Roma se non perché ne condividevano i principi fondamentali che vedevano l’eretico innanzitutto come un rivoltoso e un ribelle pronto a sovvertire l’esistente?
Eppure, da altri fatti sembrerebbe invece emergere un altro volto di questa istituzione, un volto nuovo e addirittura, per certi aspetti, rivoluzionario. L’Inquisizione che si disegna è anche, e ciò si legge molto chiaramente dietro la serie dei fatti, un’istituzione pronta a scompaginare antichi privilegi non esitando a distruggere consolidate carriere e a costruirne altre, di homines novi che, gradino dopo gradino, è capace di condurre sempre più in alto. Il libro rivela i meccanismi di nomina dei giudici inquisitoriali; in alcuni casi ci rende note le posizioni, le «raccomandazioni» che stavano alle spalle di quelle nomine; fu anche per questa via, lo si comprende bene da vari esempi, che uomini di umili origini poterono ascendere a posizioni di potere inimmaginabili in passato. Comprendiamo perciò come l’Inquisizione romana sia nata anche come uno strumento per dirimere le lotte interne all’apparato ecclesiastico, e sia stata uno strumento potente di dominio non solo nella società civile ma anche all’interno stesso della Chiesa, dove carriere che sembravano destinate ai più alti fastigi (si pensi a Reginald Pole) furono mandate in frantumi, mentre l’appartenenza alla potente congregazione portò più di un inquisitore sullo stesso soglio pontificio. I problemi dell’Inquisizione si intrecciano qui con altri problemi così dibattuti, per altri versi, oggi dalla storiografia, di carriere e solidarietà di ceto, mentre questo coté sociale, per così dire, di una certa Inquisizione, la mostra anche particolarmente attenta agli inquisiti poveri: nelle lettere agli inquisitori locali si trova ad esempio frequentemente il richiamo al dovere di provvedere gli imputati indigenti di avvocati d’ufficio.
La varietà, dunque, dell’Inquisizione su cui la grande massa di notizie che questo libro offre invita a riflettere, è davvero profonda, e si delinea sempre più chiaramente nella seconda parte, quella che guarda all’Inquisizione attraverso altri punti di vista, e soprattutto quella che guarda all’Inquisizione attraverso la confessione. Tema, questo della confessione, di straordinario interesse, per la grande influenza che quest’altro «tribunale della coscienza» ha avuto, ancor più della stessa Inquisizione, sugli aspetti più quotidiani della società. Tema, tuttavia, studiato poco, finora, e soprattutto dal punto di vista dei suoi rapporti con la predicazione o attraverso la normativa di Summae, manuali di confessione e catechismi.
Sono invece proprio questi diversi punti di vista adottati nel libro che non solo ci dicono molte cose nuove sulla confessione, ma che modificano il nostro punto di vista anche sull’Inquisizione. Soprattutto, questi diversi punti di vista riescono a disegnare anche quelle finalità pedagogico-pastorali, quel «prevalere di una strategia “pastora-



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le”» (p. 416) che l’Inquisizione venne acquistando quando ampliò lo spettro dei suoi campi di interesse includendo tra i reati sottoposti alla sua competenza, accorpandole sotto il nome di apostasia, tutte le pratiche magiche e superstiziose più diffuse. E sarebbe certamente molto importante riuscire a conoscere in maniera più precisa, da un lato, il ruolo avuto dalla confessione in questo ampliamento, dall’altro lo spazio complessivo che attraverso collaborazioni, scontri e patteggiamenti tra Inquisizione e confessione la Chiesa riuscì a guadagnarsi nella società italiana. Delle due certamente fu la confessione ad acquisire sempre più potere, e fu la via inquisitoriale che a poco a poco si addolcì, «confessionalizzandosi» sempre più.
In ogni caso i rapporti tra confessione e Inquisizione appaiono complessi e inquietanti. Soprattutto appare inquietante il tentativo inquisitoriale di privare la confessione della sua segretezza per mettere al servizio del tribunale ciò che i fedeli rivelavano ai sacerdoti in materia di eresia. Che fossero comunemente sentiti in opposizione confessori e inquisitori lo si può comprendere da mille segnali, ma innanzitutto dal fatto che non erano pochi coloro che speravano di cancellare il loro peccato di eresia, come avveniva per gli altri peccati, semplicemente in confessione, per sfuggire in questo modo a tutte le procedure che un intervento dell’inquisitore avrebbe comportato. Del resto non erano pochi nemmeno i confessori che avrebbero voluto applicare questa terapia in ogni caso, e assolvere dopo una semplice penitenza anche dai peccati di eresia. In particolare i gesuiti, coerentemente con quell’atteggiamento aperto che a essi veniva soprattutto dall’esperienza missionaria, sempre pronti a cercare aggiustamenti e compromessi pur di ottenere ciò che ai loro occhi era essenziale, sembravano propensi a tale soluzione. Anzi essi si erano per lo più comportati così quando si erano trovati, nei territori tedeschi, di fronte a rei confessi di eresia, e proprio ai gesuiti un ordine di Sisto V, il 1° ottobre 1587, aveva vietato di assolvere eretici in confessione e ne aveva imposto il rinvio al tribunale inquisitoriale.
Centro di questo inquietante rapporto tra confessione e Inquisizione - che resta merito non piccolo del libro di Prosperi avere in diverse maniere contribuito a evidenziare - fu dunque soprattutto lo scontro tra segretezza della confessione e pubblicità dell’azione inquisitoriale. L’odiosità dell’Inquisizione sembrava essere anche in quel suo apparato pubblico, e pure se gli stessi inquisitori talvolta ebbero a nutrire dubbi sull’utilità dei pubblici rituali e seppero scegliere anche più appartati e solitari scenari, quell’onta coram populo alla quale chi incappava in quella rete non riusciva quasi mai a sfuggire caratterizzò a lungo l’immagine dell’Inquisizione. A giudicare invece dal ruolo sem-



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pre crescente occupato dalla confessione nella società italiana, pare davvero che tale pratica sacramentale sia riuscita tutto sommato abbastanza bene a sottrarsi a norme e prescrizioni che, se puntualmente applicate, avrebbero certamente minato la fiducia che la gente continuava a riporre in essa. Considerazione, questa, che apre uno spiraglio su quello che è forse il principale problema che riguarda non solo i rapporti tra confessione e Inquisizione, ma quelli, assai più vasti, tra rigidità della normativa e flessibilità delle pratiche che varie, recenti ricerche ripropongono. Quanto, ci chiediamo, prescrizioni, Bolle, decreti emanati da Roma furono realmente osservati? Fino a che punto l’analisi di altri documenti, lo studio di altri e più numerosi casi potrà modificare, trasformare, capovolgere anche il giudizio che ci stiamo facendo sul reale funzionamento di tali istituzioni? Anche a giudicare dalla documentazione ricordata da Prosperi sembrerebbe che non sempre decreti vari e Bolle papali abbiano avuto un’incidenza profonda nel costume e che l’applicazione, in genere, della normativa sia stata assai duttile. Varie ricerche, di recente portate a compimento o ancora in fase di ultimazione in diversi archivi diocesani italiani, e in particolare in quello di Napoli, potranno certamente anche aiutarci a rispondere a questa domanda. Ma forse solo le rinnovate ricerche che l’apertura agli studiosi dell’archivio centrale dell’Inquisizione ha reso finalmente possibili, potranno davvero fornire risposte meno provvisorie anche a questo problema del rapporto norme/pratiche che oggi è al centro del dibattito, e non solo tra gli studiosi di storia religiosa italiana.
Un’altra questione, indubbiamente interessante, pure legata per altri versi a questo più generale discorso del rapporto norme/pratiche, è certamente quella che riguarda la giustificazione, a livello teorico, di tutto l’apparato di magia positiva strettamente connesso con il miracoloso cattolico, di fronte alla condanna cui va incontro quello stesso apparato quando è in mani laiche. Sappiamo, ad esempio, in qual modo oggetti come gli Agnus Dei, per secoli distribuiti dalla Chiesa rischiavano ora a ogni passo di essere condannati come strumenti di operazioni diaboliche. Riuscì effettivamente la Chiesa a ridisegnare, attraverso un quadro teorico preciso, i confini del bene e del male nell’uso di oggetti consacrati da tradizioni ecclesiastiche di lunga durata come questi? Riuscì a essere davvero convincente? Erano, soprattutto, davvero sempre convinti dei sottili distinguo tra usi magici e usi religiosi coloro che della stessa Inquisizione dettavano le leggi? Anche intorno a queste domande ci piacerebbe saperne di più. Ciò che sembra apparire un po’ da tutte le ultime ricerche su questi fatti è l’esistenza di un tribunale che si sforza di trovare anche soluzioni parziali e provvisorie, nelle quali, forse, ciò che gioca la parte più importante è la personalità



I «Tribunali della coscienza» di Adriano Prosperi 815 dei singoli inquisitori, al di fuori di quei vasti disegni complessivi «sul potere» che si erano immaginati in un passato anche piuttosto recente.
3. Anche intorno al problema delle missioni, questioni storiografiche quanto mai attuali rendono difficile il giudizio. Sulle rinnovate prospettive antropologiche che hanno da tempo trasformato l’antica storia delle missioni intesa in senso strettamente confessionale, la ricerca di Prosperi innesta il punto di vista inquisitoriale. Nel libro non solo dell’opera dei missionari si parla, ma anche delle trasformazioni che le scoperte «dell’altro» legate ai nuovi orizzonti missionari che persino lo stesso territorio italiano andava dischiudendo, provocarono nel concetto di sé che gli ordini religiosi, e più in generale la società cristiana, elaborarono nel secondo Cinquecento. E la Chiesa che emerge da questa analisi comparata dei suoi ruoli inquisitoriali e missionari sembra aver tenuto bene le sue redini del potere, anche perché è riuscita a guardare i suoi problemi interni con quel distanziamento, con quel senso di rinnovamento che le proveniva dalla sua esperienza missionaria. Se tale Chiesa conquistò a poco a poco la capacità di concepire il concetto di riforma non solo come un ritorno all’antico, non solo, per ritornare alla nostra metafora iniziale, come un’arte del «roncietto», dovette questa conquista soprattutto ai missionari.
Più ancora che sui missionari in partibus infidelium, il libro di Prosperi si sofferma su quelli delle cosiddette missioni interne, i missionari che si recavano nelle più sperdute campagne italiane a catechizzare i rudes che le abitavano. Dei confessori, questi religiosi conservavano ed esaltavano il ruolo: uno dei motivi, è cosa nota, che avevano determinato la realizzazione di queste missioni era proprio quello di evitare che i fedeli, tacendo al proprio parroco i peccati di cui si vergognavano, finissero, per colpa di tali ripetute confessioni non valide, col rimanere perennemente in peccato mortale. Ma non era soltanto per insegnare la dottrina e per confessare che i missionari erano disposti ad affrontare i disagi e le sofferenze che ogni avventura missionaria comportava. Qualche volta essi sembravano svolgere ruoli anche simili a quelli inquisitoriali, sebbene perseguendo finalità diverse. Essi, come testimonia ad esempio Cristoforo Landini, recatisi nel luogo di missione, si comportavano davvero come una sorta di inquisitori, assumendo le più minute informazioni sui fedeli, e cercando di conoscere le cause di tutte le inimicizie che dividevano la comunità allo scopo di far cessare le liti e organizzare pubbliche cerimonie di riappacificazione generale. E sarebbe certamente interessante poter approfondire, a tal proposito, quanta parte degli antichi riti pubblici penitenziali e inquisitoriali sia trapassata in questi momenti delle cosiddette «paci» che attestavano,



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in maniera evidente e plateale, della riuscita della missione. Momenti, anche questi, che probabilmente ebbero un ruolo significativo nella penetrazione profonda della Chiesa nella società italiana che doveva trovare proprio nella campagne le sue più durature conquiste.
4. Attraverso l’analisi dell’impatto sociale che questi tribunali della coscienza fecero registrare a partire dal secondo ’500, come attraverso un punto di vista che potremmo ben dire di gender history, il libro di Prosperi riapre il dibattito anche su un altro nodo problematico assai importante legato a ciò che per secoli si era dato per scontato: che l’Europa uscita dalla Riforma fosse assai più evoluta e libera di quella cattolica. Questa teoria, portata avanti da una scuola illuminata di lunga durata e di variegate appartenenze e ridimensionata fino a essere negata ai nostri giorni, tracciava, com’è noto, un filo diretto che collegando la Riforma protestante alla Rivoluzione francese, si lasciava alle spalle l’«altra Europa», quella cattolica e arretrata, quella dell’Inquisizione e dell’oppressione. Che poi nell’Europa delle libertà la presunta linea del progresso abbia mostrato incrinazioni anche assai vistose, e che in quell’altra, quella cattolica, persino la posizione delle donne pare che non sia stata poi così negativa, sono tutti problemi che la prospettiva di genere che si ritrova nel libro di Prosperi contribuirà certamente a mostrare attraverso un punto di vista nuovo.
Non si può infatti ignorare quanto in questo saggio i problemi legati alla cosiddetta storia di genere siano profondamente integrati con i più generali problemi della storia religiosa e sociale della penisola italiana. Si pensi non solo alla centralità di un problema come quello della confessione nella vita delle donne in Italia come in tutta l’Europa cattolica, ma a come il punto di vista del genere apra prospettive nuove su tutta la storia di questo istituto. L’evoluzione verso la segretezza che la confessione attraversa, ad esempio, con tutte le conseguenze sulla trasformazione anche teorica dell’idea del peccato, compresa l’enfatizzazione della natura sessuale del peccato stesso, va iscritta in questa evoluzione. Molte questioni, di natura teorica come di più specifico significato storico legate al controllo familiare e di vicinato sulla vita delle donne, risultano incomprensibili senza tener conto dei problemi particolari che la confessione, e solo la confessione delle donne comportava. Senza parlare di altri, più specifici problemi che l’intreccio tra confessori ed esorcisti faceva nascere in modo particolare per la confessione delle donne; senza parlare, soprattutto, di quanto questi problemi di «femminilizzazione» della religione, sottesi anche a un certo uso del confessionale, possano essere legati a temi quali quelli della più generale secolarizzazione della società con i quali la stessa Chiesa di



I «Tribunali della coscienza» di Adriano Prosperi 817
inquisitori e confessori sarà costretta ben presto anche in Italia a fare i conti.
Ma forse il vero nodo problematico che si presenta a chi legge questo libro non è dissimile, in ultima analisi, dal più generale nodo che riguarda un po’ tutti i discorsi che affrontano il tema istituzionale, tema tornato di moda, se così si può dire, e che ha coinvolto in questi anni molte e interessanti ricerche. Molti testi, come suggeriva in un intervento su questa stessa rivista Sandra Cavallo, «nell’ansia di mostrare i limiti del discorso normativo e le possibilità di manipolazione cui le regole sono soggette, [...] hanno forse distratto in modo eccessivo l’attenzione dal linguaggio istituzionale e dal ruolo che esso svolge». Sono queste le istituzioni «in un certo senso disarmate e innocue», di cui si scoprono aspetti sempre meno totalizzanti. Fa parte quest'ultima ricerca di Prosperi di questa serie di testi?
Smontata con documentazione di fatti la leggenda nera dell’Inquisizione, proposte soluzioni equilibrate e diversamente variegate agli antichi dilemmi sulla forzatura delle coscienze cattoliche attraverso gli apparati di controllo sociale, dell’azione missionaria sottolineato soprattutto il ruolo di apertura che essa ebbe nei confronti di antiche presunzioni etnocentriche, ciò che si delinea è forse un giudizio troppo indulgente su questa Europa cattolica e controriformata? Un giudizio indulgente su un paese dove per oltre due secoli il «roncietto» degli apparati di potere non solo potò instancabilmente rami e rametti ma sradicò, o almeno tentò di sradicare dalla radice intere foreste mutando forse per sempre l’aspetto - alcune ricerche lo hanno sostenuto - del paesaggio italiano? La ricerca di Prosperi, se mostra dell’Inquisizione, della confessione e dell’apparato propagandistico missionario, come pur anche dei loro intrecciati rapporti le possibilità di manipolazione ed insiste sulla necessità di seguirne tutti i variegati percorsi strategici, non produce certo alla fine un’immagine disarmata e innocua di questi tribunali che si arrogavano il diritto di essere tribunali della coscienza.
Il libro, come altre recenti ricerche, non trascura mai di ricordare come potesse essere difficile vivere in un paese dove anche possedere una Bibbia in italiano poteva essere pericoloso, ma esso non dimentica neppure di sottolineare come limitazioni e attenuazioni di divieti formalmente rigidi non solo fossero sovente concesse nella pratica, ma fossero in realtà previste da una normativa pronta, come si è detto, ad adattarsi a casi e situazioni. La «diversità» che emerge dal volume non consiste dunque in una presunta «immagine debole» dell’Inquisizione, né, tantomeno, in una sopravvalutazione della normativa, ma proprio nel tentativo di indagare le ragioni profonde, anche positive, che possono spiegare la penetrazione della Chiesa nella società italiana e



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Genoveffa Palumbo
la sovranità da essa per secoli esercitata su questa stessa società. Ragioni a spiegare le quali nulla concorre meglio delle strategie, anche di flessibilità, adoperate in maniera sempre più significativa da missionari, confessori, inquisitori. E di queste ultime due categorie soprattutto, e anche questa è per molti versi una «novità», si mostrano anche incertezze e indecisioni: non sempre inquisitori e confessori sapevano come comportarsi, e sovente si chiedevano angosciati se realmente dovevano violare il segreto confessionale, incitare ad accusare i complici, difendere in nome dell’istituzione preti che sapevano colpevoli. E come intorno all’Inquisizione non tutti i dubbi sono sciolti, anche intorno alla confessione alcune domande paiono rimanere senza risposta. Quale fu realmente il ruolo svolto da questa fondamentale istituzione nella società italiana? La gente, la maggioranza della gente, la gente «normale», trovò nel sacerdote un aiuto a superare dubbi e angosce della vita, o trovò in esso un oppressore, uno che alimentava sensi di colpa, che voleva costringerla a denunciare, insieme con i suoi peccati, quelli di compagni, amici, parenti? Anche qui il libro non fornisce una risposta univoca. La ricerca racconta di confessori pronti ad approfittare delle donne, ma anche di quelli disposti ad aiutarle. Di confessori che pretendono la denuncia dei complici e rifiutano l’assoluzione se il penitente non va «spontaneamente» dall’inquisitore, ma anche di quelli che fanno di tutto per non rivelare ciò che hanno udito in confessione. Forse anche in questa incertezza, in questa adattabilità nata dalla necessità stessa di convivere con norme di non facile applicazione si radica qualche aspetto di quella uniformità inquisitoriale d’Italia che appare così difficile da definire. Il libro disegna dunque anche della confessione, come dell’Inquisizione, un’immagine varia, diversificata, un’immagine, soprattutto, che cambia nel tempo. E probabilmente questa è davvero l’unica immagine che poteva venir fuori. Un’immagine tutta costruita sui modi concreti usati dalla Chiesa per penetrare sempre più profondamente nella società italiana. Conoscere gli animi, cambiare dal profondo la società, eliminare gli errori, tagliar via tutti i rami «superfluamente cresciuti», è questo il disegno che da un lato i missionari e dall’altro confessori e inquisitori si sforzarono di realizzare. Ma tagliar via rami e rametti non poteva essere né semplice, né indolore, e, soprattutto, lo si era capito ben presto, non poteva bastare, occorreva, per conservar la metafora, vegliare fin dal principio perché le piante venissero fuori ben fatte. Prosperi ci spiega come fecero. Altro problema è se fecero bene.
Genoveffa Palumbo
Istituto Universitario Orientale, Napoli