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Title
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IL NUOVO E IL VECCHIO: L'INSORGERE DELLA SIFILIDE (1494-1530)
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Creator
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Anna Foa
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Date Issued
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1984-04-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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19
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issue
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55 (1)
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page start
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11
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page end
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34
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Storia della follia nell'età classica, Italy, Rizzoli, 1963
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Rights
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Quaderni storici © 1984 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230921074153/https://www.jstor.org/stable/43777222?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoyMCwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjQ3NX19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Aa373d9b4a4f2a6f8e5ee57387483657f
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Subject
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exclusion (of individuals and groups)
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surveillance
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biopower
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extracted text
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IL NUOVO E IL VECCHIO: L’INSORGERE DELLA SIFILIDE (1494-1530)
Quae lues unquam pari celeritate percurrit sin-gulas Europae, Africae Asiaeque partes? Quae peni-tius sese inferit venis ac visceribus. Quae tenacius haeret aut pervicacius repugnat arti curaeque medicorum? Quae faciliore contagio transilit in alterum? Quae crudeliores habet cruciatus?
Lingua per Desiderium Erasmum Roterodamum . . . Epist. Nuncupatoria, Coloniae 1530, p. 3V
La malattia \ a cui molto più tardi Girolamo Fracastoro darà il nome di sifilide, appare in Italia intorno al 1494 e, nel giro di pochi mesi, si estende a macchia d'olio a tutta l'Europa in forma estremamente virulenta, e con il carattere di vera e propria pandemia. Il morbo non aveva ancora un nome; come scriveva Tritemio, era un morbo «che non si poteva definire con alcun termine medico usuale»2. In attesa di trovarne la cura, era necessario quindi dargli un nome: quello che resterà poi il più diffuso è quello che gli viene dato immediatamente in Italia, e che ne attribuisce l'origine all'esercito di Carlo Vili: mal francese. Ma molti altri ne ebbe presto il morbo, quasi ad accompagnare il suo estendersi nello spazio, da quello di mal napoletano, con cui lo chiamarono i francesi, a quello di male dei cristiani con cui fu definito dai turchi.
Una considerazione si impone immediatamente: la sifilide è sempre un male che viene dall'esterno, dal paese confinante o, ancor meglio, dal paese nemico. È inoltre un morbo nuovo, sconosciuto. Su questo punto si apriranno subito discussioni eruditissime, in cui i medici metteranno a confronto il loro sapere, paragonando i sintomi di questa malattia con quelli già codificati di altre, in particolare con la lebbra. Discussioni tutte rigidamente «mediche» e certo importantissime dal punto di vista
QUADERNI STORICI 55/ a. XIX, n. 1, aprile 1984
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della storia della medicina, ma non prive di altre importanti implicazioni che affiorano dietro il rigore scientifico, coinvolgendo livelli teorici diversi. Ne derivano indizi essenziali per capire come funzionò il meccanismo di accettazione della malattia, che spazio le fu riservato nel quadro mentale dell’epoca, in che modo insomma si inserì nell'immaginario medico e non medico del mondo rinascimentale; perché, questo è certo, il nuovo male trovò rapidamente il suo posto nell'orizzonte culturale del tempo, ebbe presto delle coordinate che lo definirono, fu accettato oltre che spiegato: ed è di questo percorso che si cercherà qui di cogliere i modi e le ragioni.
Prima dei medici, sono i cronisti a mettere in rilievo la novità della malattia, la sua eccezionalità, il suo carattere di calamità. Come sono sempre i cronisti, testimoni di un immaginario certo non popolare, ma comunque diffuso e non esclusivamente erudito, a mettere subito in luce l'altra caratteristica del nuovo male: l’essere un morbo venereo, che si attacca attraverso il coito, e che colpisce per primi gli organi genitali: «uenia ditto male a le done corno ali homini e la più parte pigliauano ditto male per il choito e pochi pochi ne guariua che fosseno liberi»3.
Per secoli, il mondo cristiano si era interrogato sui mali che lo affliggevano. Per secoli, alla sapienza medica si era affiancata, intrecciando visi con mille nodi, la preoccupazione religiosa: i morbi dell’uomo, dell’individuo come della collettività, erano stati di volta in volta attribuiti al volger degli astri, al modificarsi degli umori, alla stregoneria, alle esalazioni dell’aria. Ma una spiegazione era sottesa sempre alle altre, e rendeva ragione del male restituendolo al peccatore, confortava il giusto nella speranza dell'immunità: che la malattia fosse una punizione di Dio per i peccati degli uomini, che poteva colpire o il peccatore individualmente, o intere indifferenziate comunità per far loro espiare i peccati del mondo. Il peccato si affacciava così sempre dietro la malattia, e di tutti i peccati dell'uomo, uno era particolarmente assillante, perché era all'origine della vita e quindi fu posto all’origine della morte, perché era un peccato del corpo e quindi richiedeva che fosse il corpo ad essere colpito dal male: il peccato della carne, la sessualità. Per secoli, quindi, l’ombra del peccato carnale aveva sfiorato più o meno da vicino le malattie dell’uomo.
Ora la Cristianità aveva il suo male venereo, quello vero. Eppure, è un dato di fatto che anche nella fase più acuta della sifilide, la società europea dell'inizio del Cinquecento non mise in
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moto, in linea di massima, i consueti meccanismi atti a preservarla dalla disgregazione mentale in caso di calamità, quale l'individuazione di opportuni capri espiatori al suo interno. Certo, tentativi di questo tipo ci furono, come l'editto di Massimiliano contro i bestemmiatori, ma ebbero indubbiamente un carattere di eccezionalità. È un altro dato di fatto che, nonostante che il meccanismo di trasmissione della malattia, cioè il suo carattere venereo, fosse stato subito individuato, l'atto sessuale non si caricò di una valenza negativa particolarmente accentuata. Anche la repressione contro le prostitute costituì una risposta sporadica e limitata. È possibile che in questo caso abbiano prevalso le preoccupazioni di contenere al massimo le spinte omosessuali della società rinascimentale. In sostanza, la sifilide non indusse, da parte della società europea del Cinquecento, meccanismi metaforizzanti 4.
Attraverso due meccanismi, in particolare, la società europea riuscirà ad inserire nel suo orizzonte, senza eccessivi traumi, una malattia in un primo momento disastrosa: proiezioni sulValtro e utilizzazione di topoi rassicuranti. Centrati tutti sul rapporto con la lebbra, morbo che mantiene intatta la sua fortissima valenza di metafora individuale del male fisico e morale5, questi stereotipi tendono ad addomesticare il nuovo, ad esorcizzarne le potenzialità disgregatrici. I meccanismi proiettivi, prima spontanei poi mirati, allontanano l'aura di colpa: il peccato resta, certo, ma concreto, reale, controllabile e la paura si attenua.
Da dove veniva la sifilide? La risposta a questo quesito non era neutra, ma coinvolgeva importanti questioni di ordine morale e religioso, oltre che scientifico. Proprio attraverso il dibattito sull'origine del male si può ricostruire il percorso del morbo nella cultura del tempo, la via attraverso cui la società europea della fine del XV secolo e della prima metà del successivo riuscì ad assimilare la nuova malattia. La prima interpretazione che fu data della sifilide, a livello di opinione generale, fu che si trattasse di im morbo assolutamente nuovo e sconosciuto. Tutte le testimonianze dei cronisti sono categoriche al riguardo, e non lasciano adito a dubbi sullo stupore che pervase la società al primo apparire della malattia6. Più cauti, anche se ovviamente condizionati dall'opinione generale e dalla scarsa efficacia dei rimedi disponibili, i medici, tra i quali si aprirà presto un dibattito, che vedrà una parte di essi schierarsi a favore della tesi della novità del morbo, mentre non mancheranno i tentativi di giungere ad identificarlo con altri mali noti al mondo antico.
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Quest’ultima strada presentava degli indiscutibili vantaggi, nel senso che eliminava il rischio del nuovo, utilizzava vecchi schemi preesistenti, reinseriva insomma il flagello in un quadro più rassicurante, contribuendo in un certo senso ad esorcizzarne la paura. Assai meno rassicurante era sostenere la novità del morbo, anche se era questa l'opinione generale. Inoltre, i medici erano assai poco propensi a staccarsi troppo recisamente dalla tradizione medica classica ed araba. Così, nell’opera di Niccolò Leoniceno, scritta poco dopo l’insorgere della sifilide, nel 1497, si comincia con il demolire sistematicamente le identificazioni tentate con altre malattie conosciute, ma si nega altrettanto decisamente che si tratti di un morbo nuovo:
Il fatto che ci fosse non solo incertezza sul suo nome, ma anche discordanza sulla sua natura, indusse molti ad ipotizzare che questa malattia fosse nuova, che gli antichi non l'avessero mai conosciuta, e che per questo i medici greci e quelli arabi non ne avessero parlato. Quanto a me, come non sono d’accordo con quanti hanno attribuito a questo morbo nomi diversi, che non corrispondono affatto alla sua natura, così quando considero uomini che hanno la stessa natura, che sono nati sotto lo stesso cielo, che sono cresciuti sotto le stesse stelle, sono portato a concludere che essi sono sempre stati soggetti alle stesse malattie, e non riesco assolutamente a credere che questa malattia sia nata improvvisamente solo ora e abbia infettato la nostra epoca e nessuna delle precedenti. E se qualcuno la pensa diversamente chiarisca questo punto. Si tratta forse di una vendetta degli dèi? Infatti, se si prendono in considerazione le cause naturali, le stesse condizioni si sono ripetute migliaia di volte dall’inizio del mondo. Perciò ci sentiamo di affermare che una simile malattia, derivante da cause simili, ha infettato anche epoche precedenti 7.
Non interessa qui tanto la soluzione che Leoniceno dà al problema delle origini della sifilide, molto importante dal punto di vista scientifico per le sue analogie con le teorie miste che si sono affacciate nel nostro secolo, quanto come sia stato possibile superare una simile recisa affermazione di principio, volta a negare anche solo la possibilità dell’esistenza di nuovi morbi. Nonostante l’apertura mentale di Leoniceno (e si pensi alla disinvoltura con cui egli liquida l’ipotesi della sifilide come punizione divina), il nuovo non ha diritto di cittadinanza nel suo universo. Superare questa petizione di principio richiedeva un notevole salto di mentalità. Proprio in quegli anni, la coscienza europea stava però già affrontando un’altra novità, che avrebbe scardinato concezioni del mondo, messo in crisi le parole stesse della Sacra Scrittura, posto problemi difficilmente risolvibili entro i vecchi schemi: addirittura l’apparire di un nuovo mondo, e con
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esso di milioni di uomini non previsti, non toccati dalla Rivelazione. C'è una diretta analogia tra i meccanismi protettivi e i percorsi conoscitivi attraverso cui la coscienza colta europea accettò Videa del nuovo mondo, e quelli attraverso cui reinserì senza traumi nella sua cultura il terribile mal francese 8. Il nuovo si stava affacciando prepotentemente sulle scene, e chi dovette accettare che ci fosse un nuovo mondo potè anche credere che nel suo mondo così mutato ci fossero nuove malattie: tanto più poi che ben presto la stessa sifilide sarebbe stata ricondotta proprio alle terre ignote scoperte da Colombo, agli indios che non avevano conosciuto la parola di Cristo.
Presto, l'idea della novità del morbo si affermò anche a livello medico, e del resto ne aveva gettato le basi lo stesso Leoniceno, demolendo con tanta precisione e tempestività possibili identificazioni con morbi antichi che, ove si fossero imposte, avrebbero pesantemente compromesso gli sviluppi della scienza medica in questo campo9. Respinte possibili identificazioni, il problema del nome si poneva anche ai medici: mentre le denominazioni geografiche restano le più diffuse e fortunate, e mentre quelle legate alla protezione dei Santi sono solo due (mal di San Giobbe e mal di San Mento 10), nascono dalla penna dei medici molti nomi eruditi: di questi solo sifilide di Fracastoro avrà una storia.
Il generale riconoscimento del carattere di novità a questo morbo costituisce un notevole salto qualitativo nella mentalità collettiva, e a livello medico rappresentò una posizione legata ad una visione empirica e sperimentale della medicina, che portò ad attribuire al morbo, con Fracastoro, il carattere di morbo contagioso, facendo così dell'epidemia di sifilide «la prova del fuoco della nuova medicina» H. Con l’idea di contagio si scioglie finalmente l'intrico assai complicato tra considerazioni mediche e religiose che aveva caratterizzato la medicina fino ad allora; quest'idea permette, infatti, uno spostamento fondamentale d’accento, dalle cause prime alle modalità di trasmissione del morbo, e quindi una laicizzazione delle considerazioni che lo concernono. Non a caso, in quelle malattie in cui l’idea di contagio non si afferma che parzialmente, come nel caso della peste, un simile intreccio di livelli si mantiene fino a tutto il XVII secolo. Ma i campi non erano poi così ben delimitati, e tra i fautori della novità del male rientravano anche quanti sostenevano tout court che la malattia era dovuta non al contagio, ma alla punizione divina per la lascivia e l’immoralità del secolo. Una simile inter-
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prelazione tendeva però a minimizzare o addirittura a negare gli aspetti nuovi del morbo, proprio in quanto ne sottolineava comunque il valore di punizione per l'antica, costante inclinazione dell'uomo al peccato della carne. Tra i sostenitori dell’origine endogena della sifilide, tra quanti cioè si opponevano all'idea di contagio, rientravano anche coloro che, più naturalisticamente, la consideravano una conseguenza spontanea degli abusi sessuali12.
Indubbiamente, raffermarsi dell’idea di contagio, spostando l'attenzione dalle cause alla modalità di trasmissione, permise di rimuovere, almeno in parte, anche il problema della colpa. L’idea di contagio, infatti, con il suo meccanismo tutto naturale di trasmissione, tendeva ad eliminare un aspetto essenziale della colpa, l’aura di mistero che sempre la circonda. La colpa non era però così rimossa del tutto, ma solo spostata su prime, lontane origini, proiettata, allontanata indefinitamente nel tempo e nello spazio.
Due di queste attribuzioni di colpa c’interessano qui in modo particolare, perché riguardano gli altri per eccellenza della società cristiana dell'epoca: da una parte l’altro interno, il testimone del mondo cristiano, l’ebreo, dall'altra parte l’altro assoluto, l'estraneo al cristianesimo, colui che ancora non riesce a trovare una sua collocazione nel contesto culturale del tempo, l’indio. Proprio sulla tesi che vede l’origine della sifilide nelle Americhe appena scoperte da Colombo e su quella che invece la vede negli ebrei scacciati dalla Spagna nello stesso 1492, converrà qui fermarsi, perché le implicazioni di simili attribuzioni di colpa vanno ben al di là di qualunque razionale indagine, quale fu tentata dalla cultura del tempo, suH'origine del morbo scoppiato in Italia proprio in quegli anni.
L’attribuzione dell'origine della sifilide agli indios diventa dominante solo nel terzo decennio del Cinquecento, ma si affaccia già fin dall’inizio del secolo. Le prime testimonianze in questo senso provengono da uomini legati in un modo o nell’altro all'esperienza della Scoperta e della Conquista, da Pietro Martire d'Anghiera13, a Gómara14, a Fernandez de Oviedo, al medico Roderico de Isla, che aveva curato i marinai di Colombo in Spagna15. L'analisi di queste testimonianze è stata tutta finora finalizzata a provarne la veridicità, in un dibattito sostanzialmente ancora aperto sulla possibile origine americana della sifilide. In questo contesto, è stato spesso sottolineato il fatto che queste testimonianze erano tarde, oppure rielaborazioni successive di
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testimonianze dirette16. Qui interessa invece chiarire a che tipo di operazione culturale risponda la diffusione della tesi sull’origine americana del morbo, in che modo essa sia divenuta una spiegazione dominante, che tipo di coordinate mentali richiedesse. Perché si potesse attribuire agli indios la colpa del nuovo morbo era anzitutto necessario che si fosse formato lo stereotipo dell’indio lussurioso. Ecco quanto scrive Amerigo Vespucci, che pure non accenna direttamente alla sifilide: «Hanno tante mogli quante ne desiderano; vivono in promiscuità senza tener conto dei legami di sangue; le madri giacciono con i figli, i fratelli con le sorelle; soddisfano come capita alla loro libidine come le bestie» 17. Nello stesso senso va la testimonianza di Fernandez de Oviedo, che sottolinea più volte i costumi libidinosi delle donne delle Americhe, tanto che «pocchi Christiani sono da questo di-sgraciato male iscampati, i quali si siano carnalmente giacuti con le donne Indiane di questi luoghi» 18. Oviedo non ha dubbi sull’origine della sifilide: «Mi ridea molte volte in Italia sentendo dagli Italiani nominare il mal Francese, et dalli Francesi dir’ il malo di Napoli, et in effetto, che et questi, et quelli havrebbono indouina-to il vero nome, se il male dell’Indie chiamato l’hauessero» 19. È lo stesso Guicciardini a riprendere la tesi americana in un passo della Storia d’Italia:
Né pare, dopo la narrazione dell'altre cose, indegno di memoria che, essendo in questo tempo fatale a Italia che le calamità sue avessino origine dalla passata de’ franzesi, o almeno a loro fussino attribuite, che allora ebbe principio quella infermità che, chiamata da’ franzesi il male di Napoli, fu detta comunemente dagli italiani le bolle o il male franzese; perché, pervenuta in essi mentre erano a Napoli, fu da loro, nel ritornarsene in Francia, diffusa per tutta Italia: la quale infermità o del tutto nuova o incognita insino a questa età nel nostro emisperio, se non nelle sue remotissime e ultime parti, fu massime per molti anni tanto orribile che, come di gravissima calamità, merita se ne faccia menzione [. . .] Ma è conveniente rimuovere questa ignominia dal nome francese, perché si manifestò poi che tale infermità era stata trasportata di Spagna a Napoli, né propria di quella nazione ma condotta quivi di quelle isole le quali [. . .] cominciarono, per la navigazione di Cristofano Colombo genovese, a manifestarsi, quasi in questi anni medesimi, al nostro emisperio20.
Il carattere di calamità del morbo al suo primo apparire, e la novità che rappresentò sono qui messi chiaramente in luce, oltre ad altri due elementi importanti: da una parte il carattere di proiezione che assunse anche l’attribuzione ai francesi del morbo; dallaltra, la più tarda attribuzione alle Americhe, a cui lo
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storico crede, ma che in realtà risponde (e ciò trapela dal testo stesso) ad un analogo meccanismo proiettivo.
L'attribuzione della sifilide agli indios resta in realtà legata a due momenti fondamentali: da una parte, la diffusione della cura a base del legno di guaiaco, proveniente dalle Antille, che faceva pensare ai contemporanei, per analogia, che come oltre l'Oceano si poteva trovare il rimedio, così vi dovesse avere origine anche il male; dall'altra, ad un’elaborazione ormai compiuta del topos dell’indio come altro. Nessuno avrebbe pensato, nel 1494, ad attribuire ai pochi indios portati da Colombo come curiosità al re di Spagna l’origine del nuovo male che infuriava in Europa. Trent’anni dopo, l’indio è l’altro, sulla sua natura si sono consumati fiumi di inchiostro, si sono svolti giochi assai importanti politicamente e culturalmente. Non è un caso che Fernandez de Oviedo sia stato uno dei più crudeli macellai che la storia ricordi, stigmatizzato con parole di fuoco da Las Casas; che sia stato fautore della tesi che gli indios fossero utili solo come schiavi, e quindi assai propenso a delinearne i costumi con parzialità. In qualche modo, perché si potesse con un minimo di credibilità culturale compiere un’operazione di questo tipo, occorreva che fosse stato perfezionato uno stereotipo, che il selvaggio scoperto da Colombo fosse divenuto il mistero che metteva in crisi l’ipotesi dell’evangelizzazione universale, che (per dirla con le parole dello stesso Guicciardini) la Scoperta avesse dato «qualche anzie-tà» agli interpreti della Sacra Scrittura21 e la Conquista avesse delineato a sufficienza l’immagine dell’indio come altro22.
Attribuire ai selvaggi delle Americhe l’origine della sifilide non rappresenta certo un’operazione neutra: vuol dire cercare l'origine di un male di questo tipo, cioè di un male legato alla lussuria, il più lontano possibile da sé, nell’altro assoluto, in colui che non ha mai conosciuto il Cristianesimo; corrisponde ad una proiezione estrema: il morbo viene rigettato sul non umano, sul totalmente alieno. L’attribuzione della sua origine ad un popolo che è fuori dalla Rivelazione di Cristo contribuisce anche ad attenuare e a sdrammatizzare i dibattiti sulla colpa e la punizione divina, cui la teoria endogena della sifilide come solo frutto della lussuria lasciava invece ampio spazio. È ovvio quindi il valore rassicurante di questa proiezione del morbo sul mito del selvaggio lussurioso, com'è ovvio che le tappe stesse di questo processo di alienazione fossero lunghe, tali da non poter essere tra le prime risposte alla calamità epidemica.
C’è una diretta analogia tra l’atteggiamento di chi definì
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subito il morbo come mal francese e di chi più tardi ne ricercò le origini nel Nuovo Mondo, come sembra intuire Guicciardini, quando sottolinea che chi attribuiva il morbo ai francesi lo faceva per caricare sulle loro spalle le colpe delle sciagure italiane. Tutti i testi più antichi collegano effettivamente il morbo alla discesa dei francesi, e solo più tardi questa proiezione muta direzione. È come se ad una proiezione ormai vulgata, che attribuiva al nemico sceso in Italia la colpa del male nuovo ed oscuro, che i predicatori gettavano sulla lussuria e i medici sulle stelle o sulle inondazioni, ne sia stata sostituita, da parte di ambienti dotti ed ecclesiastici, un'altra deviata su capri espiatori più utili, gli indios e gli ebrei. Il quadro complessivo diviene così più omogeneo: l’altro, esterno o interno che sia, è contrapposto alla società cristiana e al suo ordine, rappresentando simbolicamente, nella malattia, il disordine, nemico di ogni regola e di ogni gerarchia.
Ma perché gli indios, ma perché le Americhe? Una risposta a questo interrogativo tenterà di darla, a più di due secoli di distanza, il più autorevole sostenitore settecentesco della tesi americana, Astruc, che sostiene che la sifilide nelle Indie era endemica, e quindi provocata da cause interne e non da contagio, come invece nell'Europa occidentale e nel resto del mondo. Questo poneva il problema della sua causa: la spiegazione di ima punizione divina per la lussuria degli indios non può più soddisfare un medico del secolo XVIII; se causa interna dev’esserci, deve essere una causa naturale, e Astruc la individua, appoggiandosi sulle testimonianze di Oviedo e sulle suggestioni della Bibbia e di Plinio, nell'effetto combinato delle fortissime mestruazioni delle donne e del clima particolarmente torrido. Riappare qui il vecchio topos che attribuisce conseguenze gravissime al coito con donne mestruate, solo che in questo caso non si hanno concepimenti mostruosi o figli lebbrosi, ma malattie veneree23. L'attribuzione di questo effetto particolare al clima torrido dà una coloritura scientifica al vecchio stereotipo. Solo che, in questo modo, da sostenitore assoluto dell'essere la sifilide un male esterno, generatosi nelle Americhe, Astruc giunge a riammettere la possibilità di un'endemia originaria della sifilide in zone torride e dai costumi dissipati. Il clima temperato dell'Europa, se non i suoi costumi, l'avrebbero dunque preservata dal male, senza il viaggio di Colombo e il contagio dei suoi marinai.
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Se l’indio è l’altro esterno, la società cristiana conosceva anche un altro interno, con un suo ruolo ben definito, al contrario di quello ancora indeterminato degli abitanti delle Indie: era l’ebreo24. Da secoli l’ebreo era stato il testimone del futuro avvento del Regno, lo specchio rovesciato del cristiano, l’opposto in virtù del quale questi poteva definirsi. Poi era cominciata la politica di eliminazione progressiva di questo altro, gli si era chiesta la conversione, l’assimilazione. Gli si era imposto di non essere più altro o di scomparire: nello stesso anno in cui Colombo era sbarcato nelle Indie, in Spagna gli ebrei erano stati convertiti a forza o scacciati. Ed è in Italia, alle porte di Roma, che questi ebrei si fermano brevemente, senza poter entrare in città; decimati, nella nuova diaspora, dalle epidemie che, nonostante le precauzioni delle autorità, si estenderanno presto all’intera città. Siamo nel 1492, come ci riferisce il Chronicon di Giovanni Nau-clero: «Durante il loro cammino trentamila degli ebrei cacciati dalla Spagna morirono di peste»25; e ancora: «La peste penetrò in città e moltissimi morirono contagiati dalla peste portata dai detti Marrani», scrive nel suo Diario Stefano Infessura, descrivendoci sotto l’anno 1493 le tendopoli degli ebrei fermi sulla via Appia 20.
Questi i fatti assolutamente scarni, come sono riportati nelle cronache: il passaggio di masse di uomini in fuga, decimati dalle malattie (il termine pestis assume qui un significato totalmente generico, anche se forse non privo di sfumature simboliche: pestis iudaeorum, pestis marrana). Ma su questi fatti, che pure avevano colpito la fantasia dei contemporanei, fu costruito qualche cosa di diverso: i morbi che decimavano gli ebrei accampati alle porte di Roma furono reinterpretati diversamente, e questo proprio perché a passare davanti alle porte di Roma erano stati i figli d’Israele. Presto, l'epidemia che decimava gli ebrei e che si era estesa alla città di Roma si identificò con la sifilide. Scrive Paolo Giovio, riferendo la cosa come se si trattasse di un’opinione generale: «Ci fu chi credeva che questo morbo provenisse dal nuovo mondo scoperto ad occidente e che fosse stato portato in Italia e nel resto del mondo dagli ebrei cacciati in quel momento dalla Spagna, nel loro errare; e questo nel tempo in cui Carlo percorreva vincitore tutta l’Italia»27, dove gli ebrei hanno un ruolo prevalentemente di tramite, dove cioè le due tesi, quella dell’origine americana e quella dell’origine marrana della sifilide, vengono a fondersi. Stesso ruolo riconosce agli ebrei Leone Africano, descrivendoci il percorso del morbo nel Nord Africa:
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«Di questa malattia gli abitanti dell’Africa non conoscevano neppure il nome prima del tempo in cui il re di Spagna, Ferdinando, cacciò tutti gli ebrei dalla Spagna»28. Nel loro passaggio in Africa, donne ebree avrebbero trasmesso il morbo alla popolazione che, da allora, avrebbe attribuito alla sifilide il nome di male spagnolo. In questo testo, interessante anche perché proveniente da un uomo che aveva avuto un iter analogo a quello degli ebrei di cui parla (nato a Granada, convertito al cristianesimo, passa in Africa da dove torna mussulmano), si deduce tra l’altro che il riferimento alla Spagna, almeno per le popolazioni del Maghreb, riguardava più gli ebrei cacciati dalla Spagna che gli spagnoli veri e propri.
Ma la testimonianza che lega la sifilide agli ebrei non in base a coincidenze di fatti, di tempo o di luogo, ma in base ad una connessione interna dei due termini ebreo e morbo gallico, è quella di un cronista ecclesiastico, Sigismondo de’ Conti da Foligno, che scrive contemporaneamente ai fatti e comunque prima del 1512:
Mentre i francesi si trovavano a Napoli, una malattia terribile scoppiò in Italia, [. . .] e questa malattia, sebbene fosse detta morbo gallico dai francesi, non derivò da loro, ma dai marrani che erano stati cacciati dalla Spagna e che Ferdinando aveva accolto a Napoli. Infatti, gli ebrei, per quanto si astengano dalla carne di porco, sono soggetti alla lebbra più di tutti gli altri popoli, ed è questa la causa per cui, secondo l'autorevolissimo Cornelio Tacito, furono cacciati dall’Egitto. E ancor meglio la Sacra Scrittura, a cui non si può non prestar fede, precisa che la lebbra era stata un indizio rilevatore di un'ancor più turpe incontinenza: infatti cominciava a manifestarsi nei genitali29.
Due sono le cacciate degli ebrei che il cronista ricorda in questo testo. La prima è quella di cui parla la Sacra Scrittura, l’Esodo. Sigismondo de’ Conti si rifà qui esplicitamente ad un excursus di Tacito in margine alla guerra giudaica30, dove egli riecheggiava una tendenza storiografica nata nell’Egitto ellenistico e alimentata dall’antigiudaismo alessandrino, secondo cui gli ebrei cacciati dall’Egitto non sarebbero stati che egiziani lebbrosi, espulsi per questo dal loro paese. Nel testo del cronista c’è un parallelismo esplicito tra la cacciata degli ebrei dall’Egitto e quella dei Marrani (ma in realtà ebrei) dalla Spagna: come gli ebrei cacciati dall’Egitto portarono con loro la lebbra, così i loro discendenti in Occidente, cacciati dalla Spagna, portarono la sifilide al resto dell’Europa. Poco importa che Sigismondo de’ Conti non si curi poi di spiegare come mai gli ebrei, prima della
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cacciata, non avessero contagiato il resto della Spagna, ché il livello della sua spiegazione è un altro. Particolarmente illuminante a chiarirlo è il confronto tra le implicazioni contenute nel testo di Tacito e quelle contenute nel testo del cronista rispetto al tabù ebraico del maiale. Infatti, lo storico latino scrive: «essi si astengono dal maiale in ricordo della lebbra che li aveva un tempo contaminati e alla quale questo animale è soggetto»31. Il rapporto tra lebbra ed ebrei è dunque in Tacito, come nella tradizione che egli riecheggia, un rapporto episodico, remoto nel tempo, non necessariamente ripetibile. L'astensione dal maiale è motivata dal ricordo ignominioso della lebbra che li aveva fatti cacciare dall’Egitto: il maiale infatti era considerato un animale soggetto alla lebbra32. Pur mantenendo i termini maiale, lebbra ed ebreo del testo tacitiano, Sigismondo de’ Conti ne modifica i rapporti interni. Poco importa che il maiale sia effettivamente soggetto alla lebbra; esso è comunque, anche nella cultura cristiana, carico di ambiguità. Gli ebrei si astengono dalla carne di maiale, ma inutilmente, perché sono per natura soggetti alla lebbra, il che rende permanente il rapporto tra ebrei e lebbra. La ripugnanza per la carne di maiale non solo non diminuisce, ma accentua l’impurità dell’ebreo: è proprio perché è impuro per natura che tanto più si deve astenere dalla carne di maiale. La vera connessione è quella tra ebreo e impurità, e il maiale serve a catalizzarla, anche in quanto codificato simbolo di lussuria. Se anche astenendosi dal maiale gli ebrei restano più degli altri soggetti alla lebbra13, la ragione è che essi sono sessualmente intemperanti. La spiegazione del rapporto tra ebreo e lebbra è data dunque da questo quarto termine introdotto sulla base della Sacra Scrittura: la lussuria. Di qui alla sifilide, il passo è breve a livello simbolico, anche se insuperabile nella realtà: ruota tutto intorno allo stereotipo dell’ebreo infetto. Come l’ebreo errante, anche l’ebreo infetto attraversa il nostro passato, ma è ancora più antico di quello: come abbiamo visto, ne ritroviamo le prime tracce nelle deformazioni dell’Esodo operate in età ellenistica. Ebrei e lebbra restano strettamente congiunti anche nel medioevo cristiano: i lebbrosi, come in altre leggende gli ebrei, avvelenano i pozzi secondo le accuse che nella Francia del 1321 danno luogo ad un’ampia persecuzione di lebbrosi. In una tragica in-terscambiabilità di termini e di ruoli, lebbrosi ed ebrei sono considerati responsabili della peste del 1348 e sterminati nei pogrom che accompagnarono il cammino della Morte Nera.
L’infezione fisica e quella morale sono dunque strettamente
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unite nella lebbra come nell’ebreo, più soggetto alla lebbra, più soggetto al peccato della carne. La lebbra è infatti, nella cultura e nell’immaginario del tempo, strettamente connessa con il peccato, in particolare con la lussuria. Ancora una volta, il collegamento con il maiale appare qui rilevante. Nel simbolismo ecclesiastico, il maiale rappresentava insieme la gola e la lussuria: il tema della judensau, presente nell’arte tedesca in un arco plurisecolare, che va dal XIII al XVIII secolo34, proponeva agli occhi di tutti i fedeli il più stretto dei collegamenti tra l'ebreo e questo simbolo di lussuria: l’ebreo succhia le mammelle di una scrofa.
La lebbra assume nel medioevo una valenza simbolica fortissima, è il segno del peccato, è il morbo più temuto, diviene la metafora stessa del Male. Il complesso rituale di separazione dal mondo del lebbroso, con una sorta di seppellimento simbolico, ben rappresenta l’alienazione totale cui si vorrebbe costringere il lebbroso, lontano dalla comunità dei cristiani. La fortissima valenza simbolica della lebbra e lo stretto legame che letteratura, tradizione ecclesiastica e immaginario popolare stringono tra lebbra e lussuria non si esauriscono contemporaneamente alla quasi totale scomparsa del male, nel XV secolo35. Quando appare la sifilide, male del sesso, male legato al coito, la sua carica simbolica e metaforica è quasi nulla, quasi la società cristiana avesse esaurito, simbolizzandola nella lebbra, tutta la sua sessuo-fobia, quasi avesse utilizzato fino all’estremo tutte le sue capacità metaforizzanti: la lebbra, anche se scomparsa, resta l’ombra oscura del male, ne esaurisce le possibilità simboliche; la sifilide, legata agli amplessi ben reali delle prostitute rinascimentali, non assume mai la valenza simbolica di un male come la lebbra, punizione di amplessi sognati e temuti.
Ne abbiamo un importante riscontro nel fatto incontestabile della povertà della sua iconografia e della sua dipendenza da quella della lebbra. Tralasciamo le immagini che rivelano i segni della lebbra, su cui generazioni di critici e di medici hanno discusso, la cui sintomatologia è stata variamente interpretata; tralasciamo i deformi pitocchi dell’arte fiamminga, i lebbrosi riconoscibili nei quadri di Breughel e di Griinewald. Fermiamoci alla simbologia del lebbroso, al tipo del lebbroso quale è stato dipinto consapevolmente, dalle raffigurazioni del lebbroso guarito da Cristo a quelle di Giobbe: siamo di fronte agli stessi moduli iconografici che saranno utilizzati per rappresentare il sifilitico, dalla celebre incisione di Dùrer del 1496, all’immagine tratta
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dall'opera di Griinpeck, dove i malati, due donne, coperte di pustole, invocano inginocchiate la protezione della Vergine36. L'iconografia della sifilide s’incanala così senza novità rilevanti nei solchi già collaudati di quella della lebbra, con la particolare caratteristica di essere rappresentata solo dalle incisioni che accompagnano le opere mediche: la pittura vera e propria non è stimolata in alcun modo dal nuovo morbo. L'assenza di un'iconografia originale della sifilide, la sua dipendenza dai moduli della lebbra, sembrano confermare che il posto della prima nella simbologia del male resta sempre occupato dal morbo del Male per eccellenza, cioè dalla lebbra. Anche i santi protettori dell'una ricalcano quelli dell'altra: in particolare San Giobbe, il Giobbe biblico trasformato in santo, già protettore dei lebbrosi, che assurge ora a protettore dei sifilitici.
Tra lebbra e sifilide si fa in effetti una gran confusione, e non solo da parte di quei medici che, sostenitori dell'antichità del morbo gallico, tentano di identificarlo con la lebbra o con altre malattie affini; ma soprattutto attraverso il permanere di alcuni topoi tipici della mitologia della lebbra. Si ha così una sorta di mitigazione del troppo duro adattamento mentale che avrebbe richiesto l'affrontare senza mediazioni di alcun tipo un morbo del tutto nuovo. Così, mentre l’idea che la malattia fosse una novità permetteva grossi passi avanti alla scienza medica con l'elaborazione dell'idea di contagio a territori meno definiti ma altrettanto importanti, restano attaccate permanenze di stereotipi e mentalità che hanno in gran parte al loro centro la lebbra.
Consideriamo, perché sono altri importanti indizi, quelle che Astruc, dall'alto della scienza medica del XVIII secolo, chiama fabulae sull'origine della sifilide. Tra queste, Astruc include anche le tesi che collegavano la malattia alle influenze astrologiche o all'umidità del clima, tutte legate ad una particolare fase della scienza rinascimentale. Ma quelle che ci interessano qui sono le fabulae contenute in opere più tarde, e legate ormai all'idea di contagio come mezzo di trasmissione del male, che hanno il suggello di nomi insospettabili, tra i più grandi della cultura del tempo37. Alcune di queste riguardano direttamente il rapporto tra lebbra e sifilide. Per Giovanni Mainardi, che scrive nel 1525, l'origine della sifilide andrebbe ricercata nell'unione di una prostituta spagnola con un lebbroso: la prostituta avrebbe poi infettato molti dei soldati di Carlo Vili. La fabula è attribuita da Mainardi alla «antiquior sententia et maioribus fulta testimo-niis»38. Simile è la storia riferita da Pietro Andrea Mattioli, che
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parla di coito con donne lebbrose ed è altrettanto vago sulle sue fonti («nonnulli memoria prodiderunt»)39. Dall’amplesso tra un lebbroso francese ed una prostituta, a sua volta affetta da bubboni venerei, fa derivare la sifilide Paracelso 4°. Per Brasavola, che scrive verso il 1551, l’origine del male sarebbe da attribuire ad una prostituta affetta da ascesso uterino41. Per Falloppio, che scrive nel 1560, la sifilide ha un’origine manufatta: è stata originata dal veleno che i soldati spagnoli avrebbero messo nei pozzi durante la guerra di Napoli42. Manca qui il ricordo diretto della lebbra, ma lo stereotipo dei pozzi avvelenati è di per sé collegato ad ebrei e lebbrosi. Il riferimento si precisa nella rielaborazione fattane da Andrea Cesalpino, nel 1601, per cui ad essere avvelenati non sono più i pozzi, bensì il vino, ma con il sangue di lebbrosi43. Un altro gruppo di favole collega la sifilide all’antropofagia e alla bestialità: così, Leonardo Fioravanti, nei suoi Capricci medicinali, attribuisce l’origine della malattia al fatto che, durante la guerra tra Angiò e Aragona, nel 1456, gli eserciti si sarebbero, senza saperlo, cibati di carne umana44; un racconto analogo è riportato da Francesco Bacone45. Infine, Giovan Battista van Helmont narra una storia onirica di bestialità46.
Tre sono quindi i nuclei intorno a cui si organizzano queste fabulae: il rapporto tra lebbra e sifilide, la sifilide manufatta, bestialità ed antropofagia. In realtà i legami tra questi nuclei sono poi strettissimi, si tratta di vere e proprie variazioni su un unico tema: la malattia, la sifilide, viene fatta derivare da un rapporto mostruoso, sia sessuale, sia trasposto nell’antropofagia. Come un rapporto disordinato, mostruoso, genera mostri e lebbrosi, così il mostruoso e disordinato rapporto tra lebbrosi e prostitute, o fra bestie e uomini, genera sifilide. Anche l’ingestione di carne umana può essere considerata una forma di rapporto disgregatore e generatore di mostruosità; c’è qui, inoltre, il ricordo dell’antropofagia dei Caraibi, a cui Bacone collegava esplicitamente l’origine della sifilide nelle Americhe. A sua volta, la stessa sessualità del lebbroso, all’origine della sifilide, è di per sé mostruosa, non è un eccesso puro e semplice, un andare oltre il segno, ma è il segno stesso della mostruosità47. Altro elemento comune a queste fabulae è che in esse la malattia nasce da un singolo, irripetibile atto che, una volta compiuto, mette in essere un meccanismo inarrestabile di cui tutta la società dovrà pagare le conseguenze. Il rapporto tra la malattia e l’atto che la fonda è posto in un tempo storico (di qui la necessità delle testimonianze), ma in realtà è acronico. Queste fabulae infatti non sono in
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grado di spiegare la realtà, ma soltanto di rifondarla, e perciò sono dei veri e propri miti, sia che chi le riferisce le abbia desunte realmente da una tradizione orale o scritta, sia che le abbia inventate a tavolino. Il mito è semplicemente sprofondato in un tempo storico, in un tentativo di oggettivazione e di falsa precisione, ma questo non cambia la sua natura di mito. Questa mitopoiesi sulla sifilide non fa che riproporre meccanismi già utilizzati per la lebbra e, almeno in parte, per le calamità, anche se nuovi tempi e nuove esigenze ne impediscono la piena utilizzazione: la sifilide è stampata sulla lebbra, vi è appiattita sopra, in un processo di duplicazione in cui il nuovo si fonda sul vecchio, sullo scontato, sul previsto, ma poi ne riproduce i tratti.
Chi scrive questi miti sa bene che lebbra e sifilide non sono la stessa cosa, ma il rapporto genetico che cerca di fondare non è altro che la riproduzione di un doppio. Per far ciò, è necessario utilizzare quello che sembra comunque l'elemento di diffusione più semplice e immediato, la prostituta, con tutte le sue implicazioni e le sue valenze. Ne è un esempio la storia della prostituta infetta, ulteriore sdoppiamento tra lebbra, sifilide e un non meglio precisato bubbone venereo, che ben rappresenta il marciume interno della donna, vecchio topos misogino. Nella maggior parte di queste favole, inoltre, il sesso femminile viene rappresentato come puro ricettacolo della mostruosità, della malattia. Nell'atto creativo che mette in essere la sifilide, il linguaggio è quello aristotelico della generazione: la donna, mero vaso, concepisce il morbo come si concepisce un figlio, un figlio mostruoso. Il racconto di van Helmont è emblematico di un processo mito-poietico ancora in atto. Il fantasma diurno, la visione intellettuale del giumento infetto è reinserita nel reale storico (l’assedio di Napoli), ed è reinterpretata alla luce del vecchio schema del rapporto sessuale mostruoso e generatore di mostri. E c’è in più un’accentuazione del ruolo della punizione divina, sottaciuto nelle altre varianti, che di per sé il riferimento alla lebbra ne è carico.
In che modo tutte queste variazioni dello stesso mito trovano spazio, pur se uno spazio mediato dalla distanza del racconto attribuito ad altri («nonnulli prodiderunt») nelle opere dei più importanti scienziati di questo periodo? Innanzi tutto perdendo senso per significare, trasformandosi in spiegazione, in curiosità, in nugae o, all’estremo, in sogni, relitti tutti di un linguaggio destrutturato. In secondo luogo, come potente rassicurazione, persistenza di motivi conosciuti, ancoramento al noto, anche se si
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tratta di un noto assolutamente mitico. Ancora una volta, la sifilide cede il passo, in queste favole dei dotti, alla lebbra, e al suo costante, persistente, fortissimo valore simbolico.
Tarde rispetto al periodo preso qui in esame, queste favole (ma non è una favola anche il poema di Fracastoro sul pastore Sifilo?) ci mostrano che il rapporto tra lebbra e sifilide è un rapporto complesso, che resta affidato al piano del simbolico, e che non si può in alcun modo ridurre alla semplice confusione dei sintomi delle due malattie, che pure si è in alcuni momenti verificata. Ben distinte prestissimo dai medici, con due destini totalmente diversi, le due malattie si intrecciano tuttavia in quei territori di nessuno che sono la rappresentazione mentale: simbolismo ed iconografia ne sono una prova. La lebbra, che aveva in qualche modo usurpato, anticipandola, la valenza simbolica della sifilide, pur essendo ormai quasi scomparsa alla fine del Quattrocento, continua a condizionare, attraverso assimilazioni e contatti stereotipici, il modo in cui viene concepita e sentita la sifilide. E così quando, nel terzo decennio del Cinquecento, il morbo si attenuava e perdeva la sua virulenza, già era stato esorcizzato nella mente dei suoi contemporanei.
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Università di Roma
NOTE AL TESTO
1 La più famosa raccolta cinquecentesca di testi sulla sifilide è quella di L. Luisini, De morbo gallico omnia quae extant. . . apud omnes medicos cuiuscum-que nationis . . ., Venezia, G. Ziletti, 1566-67, ripubblicata, a cura di H. Boerhaave, a Leida nel 1728 con il titolo di Aphrodisiacus sive de lue venerea . . . L’opera del Luisini è stata continuata da C. G. Gruner, con VAphrodisiacus sive de lue venerea (Jena, 1789) e con il De morbo gallico scriptores medici et historici. . . (Jena, 1793). Importante la raccolta di testi di A. Corradi, Nuovi documenti per la storia delle malattie veneree in Italia dalla fine del Quattrocento alla metà del Cinquecento (Milano 1884). Nel 1924, K. Sudhoff ha curato, nella collana Monumenta medica diretta da H. E. Sigerist, l’edizione in facsimile di dieci incunaboli, Zehn Syphilisdrucke aus den Jahren 1495-1498 (Milano, 1924).
2 «Quem nullo medicis usitato nomine exprimere possum», in Gruner, Aphrodisiacus cit., p. 54.
3 Cronica di Bologna, detta Cronica Bianchina, sotto Tanno 1496, in Corradi, cit., p. 58. E ugualmente, nella Cronaca di Friano degli Ubaldini (ibid., p. 59): «et e’ dito male se apichava chome fa el uischio per manzare e per beuere e per usare charnalmente».
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4 Cfr. S. Sontag, Malattia come metafora, Torino 1979.
5 Sulla lebbra e le sue valenze, si veda S. N. Brody, The disease of thè Soul, Ithaca-Londra 1974.
6 Di «una strania et oribile malatia la quale non era archognessuta da medicho alchuno» parla la Cronica di Friano degli Ubaldini (in Corradi, cit., p. 59); di «una fiera malattia non più sentita» parlano i frammenti degli Annali di Sicilia (ibid., p. 61); di «una specie di malattia non più nominata, quanto per ricordo di viventi, ne più sentita da i passati» parlano i Castigatissimi Annali di Agostino Giustiniani (ibid., p. 77), ma gli esempi sono innumerevoli.
7 «Quae quidem ambiguitas nominum, et de re ipsa quoque dissensio multos suspicari fecit novam hanc esse luem numquam a veteribus visam, atque ideo a nullo medico vel graeco, vel arabo inter alia morborum genera tactam. Ego sicuti neque illis assentior, qui varias huic morbo indidere appellationes haud quaquam eius naturae congruentes, ita ubi considero eadem natura praeditos homines, sub eodem coelo natos, sub eisdem syderibus educatos, eisdem etiam semper fuisse morbis obnoxios cogor existimare, neque mihi potest in captum mentis pervenire natam hanc repente labem nostram ita infecisse aetatem, ut nullam superiorem. Quod si quis aliter quam ego sentiat quid tandem hoc esse dixerit aut quam deorum vindictam: nam si causae naturales inspiciantur, millies post mundi initia eaedem extitere. Quare similem morbum ex causis similibus etiam superioribus aetatibus contigisse parati sumus ostendere» (N. Leoniceno, Libellus de Epidemia, quam vulgo morbum Gallicum vocant (1497), in Sudhoff, op. di., p. 124).
8 Sui percorsi attraverso cui la coscienza europea accettò il nuovo mondo si veda J. Lafaye, Quotzalcòatl et Guadalupe. La formation de la conscience nationale au Mexique, Paris 1974, e T. Todorov, La conquète de l’Amérique. La question de Tautre, Paris 1982.
9 Leoniceno demolisce sistematicamente le identificazioni che erano state tentate della sifilide con l’elefantiasi (cioè con la lebbra), con il lichen, l’asaphati, il fuoco persico. Su questi problemi, cfr. D. Mugnai Carrai, Fra causalità astrologica e causalità naturale. Gli interventi di Nicolò Leoniceno e della sua scuola sul morbo gallico, in Physis, 21 (1979), pp. 37-54. L’identificazione con la lebbra era, comunque, la più diffusa. Ecco quanto scriveva Pietro Mainardi: «Apparet manifeste» che il morbo gallico «sit species leprae . . . Quia sicut homo est species animalis, ita morbus Gallicus est species leprae. . . . hic morbus gallicus et lepra communicant in signis, et causis et in definitione» (De morbo gallico, in Luisini, op. cit., cc. 390-391). La scuola stessa di Leoniceno si schiera a favore della tesi della novità del morbo: così Giovanni Mainardi, che tenta di risolvere la contraddizione tra il fatto che il morbo fosse nuovo e il fatto che si trasmettesse per contagio: «Sed dixerit forte quispiam: si hic morbus nonnisi per concubitus contagium generatur, quo pacto primum novus coepit? videntur enim duo haec invicem repugnare, quod scilicet novus sit, et quod per solum contagium innascitur. Si enim novus est, coepit primo, nec prius erat, a quo posset per contagium deri vari. Si per contagium coepit, non potest novus esse, quia necessario in eo fuit, quo est per contagium derivatus». Una delle possibili risposte del Mainardi a tale contraddizione, è quella dell'origine della sifilide nel Nuovo Mondo, dove sarebbe stata endemica. (Epistola II ad Michelem Sanctan* nam, (1525), in Luisini, op. cit., cc. 605-606). Anche Antonio Musa Brasavola, uno
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dei principali allievi del Leoniceno, sosteneva, nel suo De morbo gallico (1555), la novità della sifilide: «Dicamus ergo, morbum Gallicum esse novum morbum, ab aliquo non descriptum, nedum cognitum, nisi nostris bis temporibus», sostenendo anche teoricamente la possibilità di nuove malattie: «Posse vero et nonnumquam novos fieri morbos, planissimum esto si quis historicos legerit authores. Nam morbos novos genitos esse plerumque testantur qui neque prius fuerant, neque excogitati» (in Luisini, op. cit., c. 671).
10 Su questo santo (Maiano, Mevenno, Maino, tra i suoi nomi) cfr. Acta Sanctorum, lunii t. IV, pp. 100 ss. Vissuto nel sesto secolo, avrebbe fondato un monastero in Bretagna, dove si recavano pellegrini malati di scabbia. Infatti con le sue preghiere avrebbe fatto sgorgare una fonte miracolosa, che avrebbe avuto appunto il potere di sanare la scabbia. Tra i suoi miracoli, avrebbe guarito una donna affetta da lebbra. G. Torrella scrive che l’identificazione del nuovo morbo con il male di S. Mento, o di S. Semento, avvenne ad opera degli spagnoli (De dolore in pudendagra dialogus, in Luisini, op. cit., c. 502).
11 A. Castiglioni, Storia della medicina, Milano 1936, p. 405.
12 L’idea della punizione divina è, evidentemente, presente in tutti o quasi i testi medici, anche se spesso si tratta solo di un ossequio formale. Abbiamo visto la disinvoltura con cui la liquida Leoniceno; ancora più decise sono le posizioni di Brasavola: «Aliqui huius morbi causam in Deum referunt, qui hunc miserit morbum, quoniam vult homines luxuriae peccatum evitare: propterea ejuscemodi discrimina in coitu imposuit, unde nonnulli hunc morbum divinum appellarunt . . . Dicunt igitur hoc esse divinum judicium, quod de luxuria ulciscitur. Verumtamen ejusmodi ratio in unoquoque morbo esse potest, qui a luxuria dependet, et qui ob illam oritur, propterea onmes erunt divini. Et cur si Deus in luxuriam invectus est, in foeneratores invectus non est, in grassatores, in latrones, in blasphemas, in homicidas, qui saeviora mala perpetrant, quam qui coitu utuntur, quam si solutus cum soluta jungatur? Nam Venerem exercere unicuique naturale est . . . Die insuper, pueri quibus contigit in alvo materno affectus Gallicus, quod mali perpetrarunt, et qua luxuria sunt usi? Cum Hippocrate igitur . . . dicamus, non magis sacrum esse hunc morbum quam alii sint» (in Luisini, op. cit., c. 672). Ecco quanto scrive, due secoli dopo, Jean Astruc di coloro che sostenevano, da un punto di vista medico e non religioso, l’origine endogena del morbo: «Objiciunt luem veneream sponte oriri ex venere vulvivaga et pandemia, quoties scilicet mulier etiam sana cum plurimis viris, qui ipsi quoque sani sint, promiscue concumbit. Inde nempe semina diversa misceri in utero, ibi prò innata partium heterogeneitate, loci calore et uligine fermentari, putrescere, corrumpi et in virosum liquamen converti, contagli venerei haud dissimile; imo vero piane idem quod venereum contagium; unde inferunt luem veneream non antiquam modo, sed mundo fere coaevam esse ...» (De morbis venereis, Venezia 1760 (ma la prima ed. è del 1738), p. 8).
13 Pietro Martire d’Anghiera, De Orbe Novo (la prima ed. è del 1500), in Gruner, op. cit., p. 116.
14 «Los de aquesta Isla Espannola son todos bubosos, i corno los Espannoles dormian con las Indias, hincherouse luego de Bubas, enfermedad pegajosisima, i que atormentar con recios dolores. . . . Pagaron à los Indios este mal de Bubas en Viruelas, dolencia que no tenian ellos, in que mato infinitos. A si corno vino el mal de las Indias, vino el remedio, que tambien es otra ragon para creer que
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trajo de allu orrigen, de cuio genere ai grandisimos Montes» (Francisco López de Gómara, Historia generai de las Indias (I ed., Saragozza 1552), in Gruner, op. cit., pp. 129-130).
15 Scrive Roderigo Diaz de Isla, nel suo Tractado contra el mal serpentino que vulgarmente en Espana es lamado bubas, scritto mezzo secolo dopo gli avvenimenti che narra, nel 1539: «In Hispaniis morbus visus est 1493, Barcinonae, quae primum infecta, et sic deinceps Europa cum reliquo orbe universo, cuius partes hodie innotuerunt. Originem traxit in Insula Hispaniola, quod satis longa certaque experientia compertum. Cum enim a Christophoro Colono Thalassarcha, reperta et detecta esset, militibus cum incolis conuersantibus, quod adfectus contagiosus esset, facile communicatus est, et quam citissime in exercitu grassabatur. ... Et cum eodem tempore, quo Colonus stolarcha appulerat, Reges Catholici Barcinonae degerent, quibus itineris rationem reddebat, nuperque adeo reperta denarrabat, mox tota urbs eodem corripi coepit, latissime se diffondente. . . sed quia incognitus hactenus valdeque formidabilis videretur, ieiunia, religiosae devotiones aliae et elemosynae institutae sunt, ut Deus illos a tali morbo tueretur», dove c’è il ricordo dell’epidemia di Barcellona del 1493, ormai identificata con un’epidemia di sifilide e ricondotta proprio a quei marinai di Colombo che l’autore aveva curato al loro ritorno in Spagna (in Gruner, op. cit., pp. 162-163).
16 D. Thiene, Sulla storia de’ mali venerei, lettere, Venezia 1836, pp. 35 ss.
17 «Tot ducunt uxores, quot libuerit, in promiscuum coeunt, nulla sanguinis ratione habita, cum matre filius, et frater cum sorore coeunt, libidinem passim exercent instar brutorum animalium» (Amerigo Vespucci, in Gruner, op. cit., p. 117).
18 Gonzalo FernAndez de Oviedo, Historia generai y naturai de las Indias Occidentales, in Gruner, op. cit., p. 133. La trad. italiana che Gruner cita è quella pubblicata da Ramusio.
19 Id., Ibid., p. 132.
20 F. Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di C. Panigada, Bari 1929, I, pp. 204-205.
21 Id., ibid., II, p. 132.
22 Cfr. J. Lafaye, op. cit., pp. 51-77 (L’Indien, problème spiritaci) e T. Todorov, op. cit..
23 Dopo aver citato Plinio il Vecchio ed aver fatto riferimento ai tabù ebraici nei confronti delle donne mestruate, Astruc conclude che l’origine della sifilide nelle Indie ben si può ascrivere all’effetto combinato di questi due fattori: le violente mestruazioni delle donne e il clima torrido: «Multis ergo et gravissimis morbis indigenae Insulae Haiti affici ohm debuerunt, ubi nemo a menstruatis mulieribus se continebat; ubi viri libidine impotentes in venerem obviam belluarum ritu agebantur; ubi mulieres, quae impudicissimae erant, viros promiscue admittebant ... // ... imo eosdem et plures et impudentius provocabant menstruationis tempore, cum tunc incalescente utero libidine magis insanirent, pecudum more. Quid igitur mirum varia, heterogenea, acria multorum virorum semina una confusa, cum acerrimo et virulento menstruo sanguine mixta, intra uterum aestuantem et olidum spurcissimarum mulierum coercita, mora, heteroge-neitate, calore loci brevi computruisse, ac prima morbi venerei seminia constituis-se, quae in alios, si qui forsan continentiores erant, contagione dimanavere?». J. Astruc, op. cit., p. 64. Nel passo citato l’accento è, come si vede, ben spostato
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sulla colpa: nelle Indie, la sifilide ha origine non da contagio, ma dal disordine sessuale e dalla libidine femminile. Gli accenti sono gli stessi delle tesi endogene sull'origine della malattia, che lo stesso Astruc confutava, in favore dell'ipotesi del contagio. Sul topos dei concepimenti mostruosi e di figli lebbrosi da parte di donne mestruate cfr. O. Niccoli, «Menstruum quasi monstruum»: parti mostruosi e tabù mestruale nel ’500, in «Quaderni Storici», 44, 1980, pp. 402-428.
24 Scrive T. Todorov, op. cit., p. 54: «Toute l’histoire de la découverte de fAmérique, premier épisode de la conquéte, est frappée de cette ambiguité; l'altérité humaine est à la fois révélée et refusée. L’année 1492 symbolise déjà, dans l’histoire d'Espagne, ce doublé mouvement: en cette méme année le pays répudie son Autre intérieur en remportant la victoire sur les Maures dans l’ultime bataille de Granade et en for?ant les juifs à quitter son territoire; et il découvre l’Autre extérieur, toute cette Amérique qui deviendra latine».
25 «In itinere abeuntium [Iudaeorum ex Hispania] triginta millia pestis absumsit». (J. Naucler, Chronicon, in Gruner, op. cit., p. 38).
26 «Pestis invasit urbem, mortuique sunt quamplurimi ex peste et contagione dictorum Marranorum . . .» (S. Infessura, Diarium urbis Romae, in Gruner, op. cit., p. 38).
27 «Fuere, qui crederent, id malum ab novo orbe, ad occidentem reperto, initium duxisse, et ab ludaeis, sub id tempus tota Hispania pulsis, in Italiam ceterasque regiones vario eorum errore delatum sub id tempus, quo Carolus passim victor Italiam percucurrit» (P. Giovio, Historia sui temporis, in Gruner, op. cit., p. 125).
28 «Huius mali ne nomen quidem ipsis Africanis ante ea tempora notimi fuit, quam Hispaniarum rex, Ferdinandus, ludaeos omnes ex Hispania profligasset. Qui ubi iam in patriam rediissent, coeperunt miseri quidam ac sceleratissimi Aethiopes cum illorum mulieribus habere commercium ac sic tandem velut per manus pestis haec per totam se sparsit regionem. . . Id autem sibi verissime atque indubitate persuaserunt, ex Hispania ad illos transmigrasse; quamobrem et illi morbo ab Hispania malum Hispanicum, ne nomine destitueretur, indiderunt». (G. Leone Africano, De totius Africae descriptione, in Gruner, op. cit., p. 125). Leone detto l’Africano, uno dei più importanti geografi del Cinquecento, fu fatto prigioniero dai corsari cristiani e donato come schiavo a Leone X, che lo protesse e lo fece convertire al cristianesimo. Dopo la morte del pontefice, tornò a Tunisi, riconvertendosi all’islamismo.
29 «Dum Galli Neapoli essent, perniciosa lues in Italia exorta est . . . // . . . quae lues, licet a Gallis gallica diceretur, non tamen a Gallis sed a Marranis, quos ab Hispania pulsos Ferdinandus senior Neapoli exceperat, emanavit. ludaeo-rum enim gens quamvis porco abstineat, prae ceteris nationibus obnoxia leprae est, ob quam Cornelius Tacitus gravissimus auctor eam Aegypto pulsam fuisse tradit. Sed maior Sacris Literis adhibenda est fides: turpioris autem intemperan-tiae esse indicio fuit, quod a genitalibus membris incipiebat» (Sigismondo de' Conti da Foligno, Le storie de’ suoi tempi dal 1475 al 1510, II, Roma 1883, pp. 271-272).
30 Tacit., Hist., V, 1 ss.
31 Tacit., Hist., V, 4. 3: «Sue abstinent merito cladis, qua ipsos scabies quondam turpaverat, cui id animai obnoxium». Che nel suo excursus antigiudaico in margine alla fase finale della guerra giudaica (70 d.C.) Tacito dipenda, direttamente o indirettamente, dalla tradizione antigiudaica alessandrina è indiscuti-
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bile, ma più difficile è precisarne la fonte (Apione? Lisimaco?). Tutto ciò che sappiamo di questa tradizione antigiudaica ellenistica deriva in ultima istanza dal Contra Apionem di Giuseppe Flavio (I. 219-11.32). In particolare, conosciamo attraverso Giuseppe Flavio la tesi sostenuta per primo da Manetone secondo cui gli ebrei sarebbero stati dei lebbrosi scacciati dall’Egitto.
32 All’astensione dalla carne di maiale da parte degli ebrei Plutarco dedica una delle Quaestiones conviviales (IV.5), dal titolo significativo: «È per venerazione per il porco o per avversione che gli ebrei si astengono dal mangiarlo?». Uno degli interlocutori, Lamprias, sostiene che gli ebrei hanno proscritto la carne di maiale per timore della lebbra e della scabbia, considerate da loro malattie contagiose capaci di infettare anche il maiale.
33 La carne di maiale non sembra essere considerata causa di lebbra nella tradizione medica medioevale. Nel capitolo dedicato alla lebbra del suo De natura et proprietatibus omnium rerum (XIII sec.), che è una vera e propria silloge delle opinioni medioevali sulle modalità di trasmissione della lebbra, Bartolomeo Anglico fa riferimento alla carne di maiale, ma solo se guasta, al pari di altri alimenti, come il vino o altri generi di carne: «Aliquando accidit ex cibis corruptis et corruptioni oboedientibus ut ex carne porcina . . . infecta et superseminata et vino impuro et corrupto» (Kòln, Johann Koelhoff, 1481, f. 132v).
34 Cfr. I. Shachar, The Judensau. A medieval anti-jewish motif and its history, London 1974. Questo motivo, documentato in sculture, pitture, incisioni, è collegato iconograficamente con il tema dell'uccisione rituale di bambini, e mostra nelle sue elaborazioni più tarde variazioni che raffigurano l’ebreo che non solo prende il latte da una scrofa, ma si nutre dei suoi escrementi. Al rilievo raffigurante questo motivo nella cattedrale di Wittenberg si riferisce Lutero in imo dei suoi più violenti libelli antigiudaici, Schem Hamphoras. Di un'ebrea che avrebbe dato alla luce due porcellini parla il Wunderzeitung, poemetto composto nel 1574 dal poeta satirico Johaim Fischart. Si tratta di una ripresa di una storia analoga di Sebastian Brant (Von der wuderbaren Su zu Landser jm Suntgaw des Jahrs 1496), che però collega la scrofa, animale repellente e impuro, ai turchi e non agli ebrei (su cui, cfr. F. Saxl, Illustrated pamphlets of thè Reformation, Lectures I, London 1957, p. 259).
35 Sul rapporto tra lebbra, sifilide e segregazione, cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano 1976, pp. 1-19.
36 Cfr. Brody, op. cit., p. 56. L’immagine di cui si parla nel testo, illustrazione del trattato di Joseph Grùnpeck, è riprodotta in K. Sudhoff, op. cit., p. 71. Alcune annotazioni affrettate sull’iconografia della sifilide si possono reperire in M. Morel, Essai critique sur la syphilis en Espagne au temps de la Renaissance, Bourg 1936, pp. 200 ss.
37 J. Astruc, op. cit., pp. 46 ss: «Sed ubi primum melius innotuit morbi natura, et contagionis ratio, necesse fuit causas alias comminisci, quae morbo istiusmodi producendo aptiores viderentur. Inde ortae variae et multiplices fabulae, prout quisque ad commiscendum fuit solertior et ingeniosior» (pp. 47-48).
38 «Haec est antiquior sententia et majoribus fulta testimoniis qui coepisse hunc morbum per id tempus dicunt, quo Carolus Francorum rex expeditionem Italicam parabat: «coepisse autem in Valentia Hispaniae Tarraconensis insigni civitate a nobili quodam scorto, cujus noctem elephantiosus quidam ex equestri
L'insorgere della sifilide (1494-1530)
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ordine miles quinquaginta aureis emit, et cum ad mulieris concubitum frequens juventus accurreret, intra paucos dies supra quadrigentos infectos, e quorum numero nonnulli Carolum Italiam petentem sequuti, praeter alia, quae adhuc vigent, importata mala, et hoc addiderunt. . . Quae historia si vera sit, ut ego non invitus credo, . . .». (G. Mainardi, Epistola ad Michaelem Sanctannam, II, in Luisini, op. cit., c. 606).
39 «Nonnulli morbum Gallos, cum per montem Salvium iter facerent, a foeminis leprosis per coitum primitus contraxisse. . . memoriae prodiderunt» (Pietro Andrea Mattioli, De morbo gallico opusculum (1530), in Luisini, op. cit., c. 247).
40 Per Paracelso la sifilide derivava «Ex coitu nimirum Leprosi Galli cum scorto impudenti, Bubonibus venereis laborante, quod deinde Scortum contagio omnes infecit, qui postea in eius amplexu venerunt, atque sic ex Lepra et Bubone venereo Gallica ista lues orta, per contagium totum perreptavit Orbem, quema-dmodum ex Equi et Asinae coitu Mulorum genus extitit» (Chirurgia magna, Strasburgo 1573, p. 97; la prima ed. risale al 1536).
41 «In Gallorum castris 1495 scortum aderat nobilissimum ac pulcherrimum, in uteri ore putrefactum gerens abscessum. Viri, qui cum illa coibant, adjuvante etiam humiditate ac putredine, dum membra virilia per uteri collum perfricabant, ob loci etiam putredinem in eorum virilibus membris pravam quandam affectio-nem contrahebant, qua exulcerabantur. . . . Haec lues unum primo infecit hominem, postea duos et tres et centum, quia illa erat publica meretrix et pulcherrima; et ut procax est natura humana in coitum, multae mulieres, cum his vitiatis viris coeuntes, lue ista infectae sunt, quam deinde aliis viris sunt impartitae ut denique lues per totam Italiam sparsa sit et per Gallias et brevibus per universam Europam». (Antonio Musa Brasavola, De morbo gallico in Lur-sini, op. cit., cc. 671-672).
42 «Ispani calidissimi atque cauti milites, qui gladiis hostes, dolis et arte offendunt. . . cum ipsi essent pauci, Gallorum vero numerus propemodum infinitus, nocte egrediebantur relinquentes propria praesidia et puteos venenabant. Nec satis hoc erat, Italos Pistores in exercitu adverso degentes pretio corruperunt, qui gypsum pani admiscebant. Tertio, cum vim contagiosi affectus cognovissent, ob annonae caritatem gentem inutilem propellentes, clam scorta, et ea quidem formosissima, ab urbe expulerunt. Galli. .. libentissime luxuriarunt cum eis infrenes iuvenes et ita passim totus exercitus infectus» (G. Falloppio, De morbo gallico tractatus (1560), in Luisini, op. cit., c. 762).
43 «Aliam historiam habeo veriorem ab iismet traditam qui interfuerunt ex milite Aretino qui in eo bello militabat cum Hispanis. Is referebat, Oppidum in monte Vesuvio, quod Summa dicitur, ubi copia est vini generosi, quod Graecum appellatur, clam noctu ab Hispanis derelictum, obsidentibus Gallis, sed vino infecto admixto sanguine, quem extraxerant ex iis qui in Hospitali Sancti Lazari laborabant. Ingressos igitur Gallos, atque eo vino expletos coepisse laborare comparentibus saevissimis symptomatis, elephantiasim referentibus». (Andrea Ce-salpino, Speculum artis medicae Hippocraticum . . ., Francoforte, 1605, p. 239).
44 «Essendo una gran guerra tra Spagnuoli e Francesi nel detto regno, la qual fu longhissima oltra modo, et per la longhezza della guerra, cominciaron’ a mancar le vettovaglie, et maxime le carni; di modo, che quei vivandieri, che andavano appresso il campo, così dell’una, come dell'altra parte, per cavar denari,
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cominciarono secretamente a torre la carne di quei corpi morti, et con essa fare certe vivande... di modo tale, che gli eserciti dell’una, et dell’altra parte, havendo tanto tempo mangiato carne humana, si cominciarono a corrumpere di tal sorte, che non vi restò pure un'huomo che non fosse tutto pieno di brogge et di doglie. . .» (Leonardo Fioravanti, De capricci medicinali, Venezia 1564, f. 51r-51v.).
45 «Galli. . . referunt fuisse in Neapolitana obsidione improbos mercatores, qui carnem hominum recens occisorum in Mauritania vasis conditam, loco thynnorum divenderent; atque tam foedo et gravi nutrimento adscribi hujus morbi originem. Neque a vero abludit; constat enim Canibalos ad Occidentem vesci carne humana; eaque India, primum detecta cum esset, plurimum laboravit hoc morbo» (Francesco Bacone, Sylva Sylvarum sive historia naturalis .. ., Amsterdam 1648, pp. 17-18).
46 G. B. van Helmont, parlando di un sant’uomo soggetto a visioni, racconta che «sibi in visione intellectuali visum jumentum quod bene difflueret ulcere foetido, quem morbum .. . Galli vero le farcin vocant. . . Quapropter se suspicari dixit quod in obsidione Neapolitana (qua primum dira haec lues emersit) nefando aliquis peccato congressum cum ejusmodi jumento habuisset.. . Potuitque ideo suum fermentum (permittente Deo vindice), in humanam familiam naturaliter transplantasse». (Tumulus pestis, in Opera omnia, Francoforte, 1682, pp. 221-222).
47 Dice al re Marco il lebbroso Yvain, nel Tristan di Béroul (w. 1166-1171): «Veez: j’ai ci compaignon cent. / Yseut nos done, s’ert comune. / Poior fin dame n’ot mais ime. / Sire, en nos a si grant ardor. / Soz ciel n’a dame qui un jor / Peùst soufrir nostre convers».