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Title
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RIVOLUZIONE FRANCESE, GIACOBINISMO, LEGITTIMAZIONE VIOLENTA E COMUNITARIA
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Creator
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Paolo Viola
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Date Issued
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1997-08-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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32
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issue
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95 (2)
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page start
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539
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page end
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555
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
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Rights
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Quaderni storici © 1997 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230921074854/https://www.jstor.org/stable/43779077?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoyMSwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjUwMH19&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A403d7571c70f8ab136c2d77fd8b2ae56
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Subject
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surveillance
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discipline
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power
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extracted text
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RIVOLUZIONE FRANCESE, GIACOBINISMO, LEGITTIMAZIONE VIOLENTA E COMUNITARIA
Nessuno dubita che la Rivoluzione francese ponga le basi generali della legittimazione politica nella nostra società contemporanea. Come unanimemente si osserva, gli esempi anglosassoni non avevano avuto infatti l’universalismo che per abitudine si attribuisce al modello francese; ed è dunque da quest’ultimo che si è soliti partire. Non è certo mia intenzione contestare questa, che mi sembra un’owietà: certamente - non sarò io a negarlo - la forma liberal-democratica di rapporto fra chi governa e chi è governato trae la sua applicabilità generale dalla Rivoluzione francese.
Vorrei qui però sottolineare un aspetto ulteriore: la legittimazione politica contemporanea affonda in Francia radici non solo della sua universalità, ma anche della sua profondità e della sua complessità. Al confronto con le esperienze precedenti di governo della legge, il modello francese, apparentemente così rigido e dottrinario1, si dimostra più flessibile, perfino di quello britannico, e per questo del resto alla lunga vincente. Perderà alcuni eccessi di formalismo nel rapporto fra cittadino e stato, e si imporrà invece per il suo contenuto radicalmente innovatore di sintesi fra libertà e uguaglianza.
I caratteri di rigidità, che sarei propenso a considerare più caduchi, finirono ben presto coll’intralciare il funzionamento lineare delle istituzioni repubblicane, facendo propendere costantemente il costituzionalismo francese verso la sua precedente matrice monarchica2. La legittimazione politica nel modello rivoluzionario francese aveva infatti una contraddizione fondamentale, dovuto ai costituenti e particolarmente a Sieyès: la sovranità apparteneva a tutto il popolo; ma la esercitavano solo quei cittadini che, singolarmente presi, davano garanzie di saperla esercitare, e che inevitabilmente finivano coll’esercitarla a proprio vantaggio3. Comunque alla rigidità formale si affiancava da subito una flessibilità sostanziale, poiché fin dall’inizio della rivoluzione era presente un correttivo nascosto, in quanto non teorizzato: il potere rivoluzionario è legit-
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timo non solo perché legalmente esercitato dal popolo, ma anche perché rappresenta il meglio di ciò che il popolo collettivamente sa e vuole.
Il modello rivoluzionario francese si proponeva cioè di legittimare non solo la libertà come criterio attuale di legittimazione politica, ma anche l’uguaglianza come scopo da raggiungere, come fine ultimo della legittimità, nel riequilibrio della sfera dei diritti con la loro materialità e concretezza. L’uguaglianza infatti non è mera parità di fronte alla legge, ma «nei diritti»: en droits, come recita la dichiarazione dell’89, all’art. 1. I cittadini sono tutti uguali di fronte alla legge e il potere è legittimo se emana da ciascuno di loro, sempre che lo sappiano esercitare: e questo è il primo livello di legittimazione politica, quello ufficiale, legale e viziato di formalismo e di universalismo astratto. Ma i cittadini sono anche uguali nei diritti concreti, che esercitano come possono e sostenendosi collettivamente. E il potere è legittimo anche in quanto garantisce questa parità di diritti, se esprime questa tensione collettiva per ciò che realmente produce, nella materialità delle situazioni concrete. Il modello rivoluzionario francese intende certo applicarsi a tutto il genere umano, ma allo stesso tempo si dimostra capace di dare voce a livelli molto profondi e tradizionali di legittimazione.
Un recente libro di Michele Battini mi suggerisce alcuni spunti per queste riflessioni. L’autore vi affronta con notevole profondità gli esiti autoritari delle forme di legittimazione sopravvissute alla Rivoluzione francese, o, come egli ritiene, ad essa successivamente contrapposte. Il fallimento novecentesco della democrazia non deriva per lui dall’eccesso di democrazia totalitaria del giacobinismo, come per tutta una tradizione di pensiero ormai consolidata, da Hannah Arendt a Francois Furet. Deriva invece, come per Ster-nhell, da un miscuglio velenoso di comunitarismo e di autoritarismo, in cui tradizionalismo cattolico e anarco-sindacalismo trovano uguale spazio. Tale miscuglio discende a suo avviso dalla forza delle risposte, sia reazionarie che progressiste, ai valori della liberal-democrazia fondata sulla rivoluzione4. Come si vede siamo così all’opposto della «democrazia totalitaria» La rivoluzione francese non avrebbe sbagliato perché produttrice di troppa democrazia astratta, livellatrice e violenta, ma di troppo poca democrazia concreta, in quanto, non abbastanza capace di affrontare la complessità del sociale, avrebbe lasciato spazio ad una virulenta controffensiva comunitarista.
Mi propongo di suggerire che proprio la ricchezza e complessità della rivoluzione francese: la legittimazione del potere cercata non solo nella legge, ma anche nelle espressioni dirette della so-
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cietà civile, abbiano dato adito alle controffensive autoritarie. Grazie in particolare al giacobinismo, la rivoluzione disponeva di una legittimità sociale, oltre che legale-istituzionale. Eppure proprio questa ricchezza ha creato secondo me un aspetto di vulnerabilità della democrazia moderna. Il mio sforzo è quindi non solo di confutare Arendt-Furet, ma di integrare il ragionamento Sternhell-Bat-tini con la tradizionale riflessione di Lefebvre e Soboul sul contributo popolare al governo della rivoluzione5. A mio parere non solo non è l’eccesso di democrazia astratta ad aver creato la deriva «totalitaria», ma non bastano le incongruenze sociali della rivoluzione a spiegare la forte reazione autoritaria. Occorre studiare la legittimazione concreta della politica egualitaria operata dalla rivoluzione per capire forza e debolezze del sistema politico di legittimazione creato dalla rivoluzione.
Vorrei dunque dal punto di vista cronologico fare un passo indietro rispetto al libro di Battini, che parla di risposte alla rivoluzione, e cominciare a riflettere sulle possibili radici giacobine delle reazioni comunitarie da lui studiate. Dietro ad una prima legittimità rivoluzionaria, quella istituzionale, o legale, infatti a mio parere ne fanno capolino altre due: la legittimità violenta e quella veicolata dalla comunità tradizionale. Queste altre due forme di legittimità vengono sicuramente dal passato e possono anche essere etichettate come «resistenze alla rivoluzione». Ciò non toglie però che dalla rivoluzione stessa vengano accolte e traggano nuova linfa ed energia. La sacralità della violenza e della comunità, o della comunità violenta, esisteva da prima. Ma la rivoluzione non potè, non seppe - non volle? - sostituirla interamente con il governo della legge, e diede a quell’antico protagonista un contenuto culturalmente rinnovato.
Tali ambiguità, di una legittimazione mista di vecchio e di nuovo, sono rafforzate secondo me dai meccanismi e dai tempi di formazione e di espressione di due elementi in gran parte originali, o almeno rivestiti proprio dalla rivoluzione francese di un abito teorico nuovo: la volontà generale, e la felicità comune-, una legittimità che ha a che fare coi processi di formazione dell’opinione la prima e di determinazione dei bisogni la seconda.
Strettamente unite fra di loro, volontà e felicità formano un sistema concettuale molto più stringente e più forte di quello basato sul semplice consenso, e di per sé non necessario alla determinazione della legittimità; infatti assente dal modello anglosassone, e non sopravvissuto alla Rivoluzione stessa. Il consenso basta alla legittimazione democratica delle istituzioni attraverso i meccanismi di legge. Volontà generale e felicità comune danno invece a quelle
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istituzioni una sacralità in più e le costringono a dialogare con la violenza di parti, ognuna delle quali pretende di esprimere il tutto.
Tutte e tre le legittimazioni che ho indicato: la legge, la violenza e la comunità, hanno insomma in comune l’ambizione di esprimere per intero questo sistema fatto di istituzioni, di volontà e di felicità. Converrà esaminarle rapidamente in successione.
1. Ad un primo livello di analisi, come è ovvio, la Rivoluzione fonda la legittimazione politica sulla sovranità popolare rappresentata da autorità legalmente elette. Diversamente che nella tradizione britannica, tuttavia, la nozione originale rousseauiana di volontà generale congiunge fin dall’89 la sovranità costituente con le autorità costituite. In un certo senso la volontà generale si interpone dunque fra la cittadinanza e la politica. Il popolo sovrano possiede tante singole volontà quanti sono i cittadini che lo compongono. Se queste volontà non si influenzano né si inquinano a vicenda in «raggruppamenti parziali del sovrano», illegittime espressioni di egoismi particolari; esse produrranno immancabilmente una volontà generale unica, capace di corrispondere alla felicità comune.
Tuttavia la formazione di questa volontà crea, come vedremo, molti più problemi di quanti ne risolva. Il sovrano produce politica rappresentando non interessi e maggioranze, ma una presunta unanimità, ovviamente impossibile da mantenere e quindi foriera di continue ambiguità e in definitiva di una grande variabilità di esiti. Secondo questa dottrina, ogni cittadino concorre per la sua parte alla formazione della volontà generale sovrana, che a sua volta «costituisce» le istituzioni politiche. Questo significa che le istituzioni non rappresentano i cittadini (tanto meno i loro interessi) ma la loro «volontà» collettiva e unica. Tale nozione permette di passare dal plurale al singolare, giacché il sovrano deve essere singolare, mentre i cittadini sono per definizione plurali. Questo passaggio attraverso la volontà generale rappresenta una caratteristica gravida di problemi che sono alla base delle ambiguità a cui accennavo. Infatti, come si forma la volontà generale? e come potrebbe eventualmente esprimersi in maniera alternativa? in una maniera dunque anti-istituzionale, o addirittura illegale? La tradizione britannica non si è posta questo problema. La politica esprime secondo quel modello una pluralità di punti di vista e non una unicità della volontà. Gli eletti rappresentano gli elettori e i loro interessi; non la loro presunta volontà unica e collettiva.
Nella Rivoluzione francese il momento fondatore di questa forma principale di legittimazione politica è quello in cui gli Stati
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Generali si autoproclamano Assemblea nazionale costituente, il 17 giugno del 1789. In quel preciso momento la loro autorevolezza si ribalta. Anziché derivare dalla volontà del Re di consultare i suoi sudditi sul problema del riordino fiscale, l’autorità dell’Assemblea comincia da quell’istante a derivare dalla volontà popolare, che si è espressa attraverso rappresentanti liberamente eletti. La sovranità che così si fonda è allora una sovranità costituente, che stabilisce il livello principale della legittimità: quello delle istituzioni politiche.
E chiaro che si crea a questo punto una distanza fra elezione e rappresentanza6. L’eletto non rappresenta la volontà dell’elettore, ma la volontà generale; non interessi particolari, ma l’interesse generale. Il vescovo è eletto, così come il giudice. Nessuno dei due esprime un rapporto con l’elettore, ma è invece strumento della volontà generale: per altro in settori, come la religione e la giustizia, in cui l’interesse dell’elettorato non deve entrare. Il dibattito dell’estate ’89 sulla rappresentanza nazionale che deve sostituire il vincolo di mandato dà una veste teorica importantissima a questo argomento. Il deputato da questo momento non risponde più ai suoi elettori, ma concorre a formare, insieme con i suoi colleghi, la volontà generale. Ecco un punto molto importante del pensiero costituzionale della Rivoluzione francese: i raggruppamenti parziali del sovrano sono illegittimi, perché i potenti vi influenzerebbero i cittadini, produrrebbero ineguaglianza, e da quel momento la formazione della volontà generale risulterebbe intralciata. L’unico raggruppamento legittimato ad esprimere la volontà generale è invece l’Assemblea nazionale. La volontà quindi non è anteriore alla rappresentanza, ma suo prodotto. L’elezione non designa i rappresentanti della sovranità, ma è lo strumento atto a selezionare i membri del sovrano abilitati ad elaborare la volontà comune in nome del popolo. Come dire che la volontà aleggia sul popolo sovrano, il quale non la può né la sa esprimere direttamente. Per esprimerla, per elaborarla deve designare la rappresentanza nazionale legittimata dalla legge a farlo.
Tuttavia tale volontà generale non è poi così astratta e metafìsica, e non è vero, come per Rousseau, che scaturisce da sé purché non venga intralciata. Deve invece essere formata, attraverso il dibattito politico in assemblea. Secondo il pensiero e la pratica che allora si instaura, il luogo legittimo di formazione è l’Assemblea nazionale. Tuttavia un elemento di dualismo si instaura immediatamente. Le elezioni avvengono in doppio grado: i cittadini «attivi», quelli che hanno una capacità contributiva, scelgono gli «elettori» che, in assemblea, sceglieranno il deputato. Alla base dell’edifìcio istituzionale della «monarchia repubblicana» francese ci sono
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dunque le tante «assemblee di elettori» che secondo la costituzione dovrebbero sciogliersi dopo aver eletto il deputato, ma di fatto restano in carica per tanti altri adempimenti: la nomina e il controllo delle cariche municipali e di polizia, la designazione di quelle di giustizia o religiose.
Queste assemblee degli elettori, istanze di base dell’edificio istituzionale, diventano quindi sedi di dibattito politico stabile. C’è così fin dall’inizio un germe di dualismo istituzionale foriero di complicazioni gravi. La volontà generale si forma nell’Assemblea nazionale, ma si è già precedentemente formata in sede locale nelle «assemblee di elettori» che hanno designato i deputati. Col degenerare della situazione politica, soprattutto con lo scoppio della guerra e la proclamazione della «Patria in pericolo», le assemblee di elettori - le «sezioni» nelle città - diventano «permanenti» quindi rivali ufficiali della Assemblea nazionale: luoghi di formazione a monte di quella volontà generale che l’Assemblea è chiamata ad esprimere a valle e su scala nazionale.
Così pochi mesi dopo, fin dall’autunno 1792, per la Convenzione si torna a parlare di vincolo di mandato, con un vistoso passo indietro rispetto ai dibattiti dell’89. E infatti dalla base delle sezioni i deputati verranno apostrofati come «mandatari». Tuttavia non si ripristina il legame fra l’eletto e i bisogni della comunità da lui rappresentata, bensì quello fra l’eletto e il frammento di volontà generale dell’assemblea che lo ha scelto: la «porzione di sovrano», si dice: non il «raggruppamento parziale», che sarebbe illegittimo. D meccanismo di formazione della volontà generale si sposta verso la base, si democraticizza, tornando all’assemblea di quartiere, ormai aperta a chiunque voglia partecipare. E là dove si forma la volontà generale e si individua la felicità comune, là risiede la sovranità legittima.
H «mandatario» non dovrebbe più elaborare la volontà generale. Deve solo esprimerla. Non rappresenta il suo quartiere, ma la volontà generale così come essa è emersa nell’assemblea che lo ha designato, e che dovrebbe essere la stessa dovunque altrove. Si aggrava quindi il dualismo istituzionale relativo alla legittimità, e si apre un gioco in cui vincerà chi saprà usare entrambi i registri, quello della sezione e quello dell’Assemblea, per legittimare a vicenda, nelle due sedi, la propria supremazia. Come si sa, a prevalere in questa complicata partita saranno i giacobini. I quali però faranno molto di più: abbandoneranno il livello istituzionale e andranno - cercherò di dimostrarlo - più a fondo nel meccanismo di formazione della volontà generale, affrontando le ambiguità della violenza e del vincolo comunitario.
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2. Fin qui tutto molto noto, e abbastanza ovvio. C’è però il secondo livello, più profondo e sotterraneo: quello della violenza collettiva; e su questo converrà soffermarsi a riflettere. Mentre la Rivoluzione stabilisce le basi di una cultura liberaldemocratica, allo stesso tempo riconosce e legittima anche una sovranità diretta e violenta, che si esprime attraverso la giornata insurrezionale, per definizione illegale, ma paradossalmente legittima purché eccezionale, durante la quale in qualche modo la folla violenta «rappresenta» il popolo intero7. Questo tipo di legittimità ha un ruolo in un certo senso di supplenza: se le istituzioni dello stato non fanno il loro dovere, la volontà generale, indignata dall’infedeltà dei suoi magistrati, fluisce seguendo altre vie, più dirette e eccezionali. Si potrebbe dire che fa quello che in precedenza faceva il Re: avoca a sé la soluzione di questioni importanti, politiche o giudiziarie, intralciate dalla disfunzione istituzionale8. Sono stato sempre molto impressionato dai riconoscimenti ottenuti da questa sovranità violenta. E ben noto l’intervento in Assemblea di Barnave in occasione del linciaggio di due importanti politici dell’Ancien Régime: Foulon e Bertier. I due malcapitati erano stati presi dalla folla e massacrati con un apparato di ritualità degno del supplizio barocco studiato da Foucault9. La guardia nazionale a cavallo aveva lasciato fare, se pure non aveva partecipato al linciaggio. E Barnave, uomo di legge, politico moderato, grande ingegno capace di un’analisi estremamente sottile - forse la più sottile fra tutte - dei meccanismi della Rivoluzione, si alzò in aula per dire: «ma questo sangue versato era così puro che si debba rimpiangere che sia stato sparso?». Quasi subito Barnave si pentì amaramente di aver pronunciato queste incredibili parole. Le attribuì al clima di intimidazione. Ma il giovane deputato di Grenoble era tutt’altro che un codardo, e avrebbe ben presto pagato con la vita la sua fermezza.
Del resto abbiamo varie prove che non era la violenza diretta e illegale in sé a provocare lo sdegno dei politici rivoluzionari, ma l’eventuale violenza ingiusta. Solo di fronte al linciaggio di un innocente l’Assemblea nazionale reagì votando la «legge marziale», che autorizzava la guardia nazionale a disperdere con le armi gli attruppamenti sediziosi. Finché il popolo si faceva giustizia dei «grandi colpevoli» che sfuggivano ai rigori della legge, non c’era altro che una legittima avocazione del sovrano «diritto di punire». Quando invece, mossa da tensioni sociali, da rabbia per il carovita, la folla scendeva in piazza a commettere riprovevoli eccessi contro vittime incolpevoli, solo allora l’Assemblea ricorreva al proprio potere legislativo per dotarsi degli strumenti necessari a ripristinare l’ordine. Lo poteva fare perché non riconosceva in quei casi alla folla la le-
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gittimità data dall’interesse generale. Non credo che si possa minimizzare la portata di questi episodi ricorrendo semplicemente alla congiuntura rivoluzionaria che imponeva cautela con la folla rivoluzionaria e i suoi leaders. Posso citare al riguardo due episodi che mi sembrano rilevanti.
H primo: il 6 ottobre 1789, dopo la manifestazione violentissima che aveva visto l’assedio della reggia di Versailles da parte della folla inferocita, provocato la morte di un paio di guardie del re, messo la regina in certissimo rischio di vita, e in pericolo lo stesso re, un corteo ufficiale riporta la famiglia reale a Parigi. Si tratta di una vera e propria entrée royale, dotata di tutto il suo fasto cerimoniale. La carrozza reale è preceduta e seguita dalle massime autorità dello stato. Un’autorevole delegazione dell’Assemblea sfila ufficialmente al seguito, concedendo l’ufficialità rituale, la legittimazione politica - potremmo dire - alla manifestazione. Si tratta di una cerimonia di riconciliazione, di unità nazionale. I vinti e i vincitori si ricompongono in uno stesso corteo che riporta ufficialmente i due sovrani, il vecchio sovrano e il nuovo, il Re e l’Assemblea, nella capitale: una unità cerimoniale che rispecchia visivamente appunto la ricomposizione della «volontà generale», ponendo finalmente termine - nelle intenzioni - alla rivoluzione. Ebbene il corteo è aperto dalle teste mozzate e issate sulle picche delle guardie del corpo del re, linciate il giorno prima dalla folla. Non mi risulta che siano state sollevate autorevoli proteste contro la composizione del corteo: H popolo, «sempre buono, sempre giusto» - per riprendere una fraseologia normalmente usata, e che riecheggia gli attributi sacrali del monarca - stanco di essere tradito da istituzioni infedeli, si era «levato» - altra espressione generalmente ammessa - per ristabilire personalmente la propria autorità. La «volontà generale» si era espressa questa volta in maniera diretta e violenta, anziché farsi mediare dalle istituzioni rappresentative.
L’Assemblea - si potrebbe obiettare - era ostaggio del vero vincitore della giornata rivoluzionaria, che era il popolo di Parigi. H secondo episodio credo possa rispondere a questa obiezione. Nel febbraio 1793 scoppia a Parigi una sommossa contro il carovita. Questa rivolta è, ovviamente, in parte spontanea e in parte diretta. Probabilmente, dietro le quinte c’è un settore del club giacobino; cosa che del resto non stupisce nessuno. Infatti i giacobini, minoritari alla Convenzione, stanno in quelle settimane estendendo la loro influenza nelle «sezioni» parigine - cioè in quelle assemblee permanenti che hanno di fatto assunto il potere nella capitale - e di lì a quattro mesi porteranno a buon fine il loro colpo di stato.
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Ebbene, all’indomani di quella sommossa, Robespierre, deluso dalla mancata politicizzazione della mobilitazione popolare dichiara che il popolo non deve «abbassarsi a raccogliere vili mercanzie», ma «levarsi per abbattere i tiranni». La sovranità diretta e violenta non va bene in favore della protesta sociale, quindi di interessi di una parte contro l’altra, sia pure dei poveri contro i ricchi, ma va bene invece per atterrare il presunto nemico comune, colui che insidia la libertà. La violenza non va bene, non è legittimata ad esprimere volontà generale neppure per il capo dell’opposizione, che potrebbe trarre solo vantaggi dalla protesta sociale, e che infatti la sta organizzando, a meno che non si rivolga contro un nemico in certo senso esterno al popolo: la piccola porzione di «tiranni», di «grandi colpevoli», di complottatori collegati con le potenze straniere. La sovranità diretta ripristina la «volontà generale» tradita dalle istituzioni politiche, o da forze politiche che osano opporsi alla «felicità comune», e che così facendo si mettono fuori dalla legittimità. La volontà generale e la felicità comune hanno il pregio di essere evidenti, e altrettanto evidenti sono i suoi nemici, colpevoli di «lesa maestà». Nulla di strano dunque che il nuovo sovrano debba «levarsi» per punire coloro che gli resistono, così come faceva il monarca, ogni volta che le istituzioni dello stato non funzionavano.
«Levarsi»: c’è una simbologia dietro a questo verbo. In antico regime il re «dormiva» finché non veniva consacrato. Era la chiesa a svegliarlo. Gli arcivescovi incaricati della cerimonia dell’unzione andavano a bussare alla sua porta e lo svegliavano. H re si alzava, veniva rivestito con l’apposita tunica cerimoniale e veniva unto. In questo modo uno dei due poteri sui quali transitava l’investitura divina - quello ecclesiastico - legittimava l’altro - quello temporale - e ne ricavava la promessa di protezione. D’altra parte ai tempi d’oro della monarchia assoluta ogni mattina il re si levava, come il sole, e al suo levarsi assisteva un ristretto gruppo di privilegiati cortigiani. Levandosi ogni giorno, il re riprendeva in mano la sovranità, la volontà politica, l’autorità suprema dopo la pausa notturna. Il risultato di quest’alba era la visibilità, la trasparenza della volontà politica. In quanto si leva, in quanto passa dal sonno alla veglia, il sovrano è in grado di incarnare l’evidenza della volontà. Analogamente, quando il re è costretto ad esercitare direttamente il potere legislativo, cosa che non fa fino in fondo se non in maniera eccezionale, cioè quando si decide ad imporre personalmente la registrazione di una legge, allora si corica sul «letto di giustizia», per ordinare l’esecuzione della sua volontà. I cuscini cerimoniali sui quali il sovrano si distende indicano appunto che il corso normale
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delle istituzioni ha subito un intralcio grave, che la sovranità è stata messa in sonno, e che è necessario un suo risveglio per ripristinare la legalità. La volontà legittimante delle istituzioni politiche è infatti visibile e trasparente in quanto «si leva».
Altrettanto fa il popolo in rivoluzione. Anzi la rivoluzione stessa non è altro che questo: il fatto che il popolo, costretto da circostanze del tutto eccezionali, si leva per ripristinare una legittimità violata. Perfino Burke ammette questa caratteristica della rivoluzione, limitatamente al caso britannico. Per lui la rivoluzione è stata in Inghilterra un male necessario. La sua critica rispetto al caso francese comincia dopo la piega che la rivoluzione prende, soprattutto con la semiprigionia imposta al re in ottobre 1789. In casi del tutto particolari, il popolo avrebbe anche diritto di «levarsi». Così - Burke lo aveva riconosciuto - recentemente in America. Il fatto è che in Francia non ricorreva questa necessità, e comunque questa pretesa rivoluzione popolare era in realtà diretta da un gruppo dirigente di affaristi. Ma di per sé il fatto di «levarsi» era un principio riconosciuto alla sovranità. Che altro modo avrebbe il sovrano per imporre la sua volontà, per legittimare quindi la politica?
Il problema deriva però dal fatto che a levarsi non è mai ovviamente tutto il popolo ma solo una parte di esso, una piccola parte, che si prende in carico l’enorme maggioranza di silenziosi e di rassegnati. Quella parte che insorge è dunque la parte migliore, che si autolegittima, per ragioni morali, a rappresentare l’intera nazione, e quindi la sua «volontà generale». Ora, come si sa, la «parte migliore» è concetto vecchio e radicato in antico regime. Viene da lontano, dal diritto canonico, e indica il fatto che il popolo si lascia «naturalmente» rappresentare dalla sua parte più autorevole, socialmente, moralmente, politicamente: la più radicata nel suo ruolo dirigente. La rivoluzione improvvisamente ribalta questa tradizione, in un certo modo riassumendola. La parte migliore diventa la parte violenta, quella capace di farsi carico di rappresentare direttamente la volontà generale. La sanior pars si faceva carico, quando necessario, se consultata, di fornire al monarca auxilium et consilium. La folla violenta si fa carico in rivoluzione di assumere la suprema responsabilità di salvare il paese, abbattendone i nemici. In antico regime la sanior pars era legittimata non dal re, ma dalla sua visibilità naturale, dalla sua posizione alla testa del popolo. Era in qualche modo una legittimità latente chiamata quasi a rivaleggiare con quella del re. In rivoluzione avviene in un certo senso lo stesso. Il re diventa il popolo, il quale si esprime però attraverso due legittimità diverse: quella istituzionale dell’Assemblea, e quella
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eccezionale della folla rivoluzionaria. In un certo senso il popolo sovrano ha due saniores partes\ una legale e una naturale. Tutti si augurano che quella legale possa e sappia governare, ma ha sul collo il fiato di quella naturale, di quella folla violenta sempre in grado di riassumere in proprio la responsabilità della felicità comune.
Naturalmente non si crea l’unanimità intorno al diritto della santo? pars violenta di rappresentare il popolo sovrano, e di procedere per le spicce alla punizione dei «grandi colpevoli», rei di «lesa maestà» nei confronti del popolo. Anzi è forte il travaglio dei deputati, alcuni dei quali - forse molti - non accettano affatto questo nuovo tipo di avocazione. Timothy Tackett, che sta studiando il percorso politico e intellettuale dei deputati della Costituente10, è del parere che i processi di formazione dello spirito rivoluzionario dei rappresentanti agli stati generali, chiamati improvvisamente a dirigere la rivoluzione, siano estremamente vari. Tuttavia la tendenza a giustificare la violenza non in quanto ineluttabile, ma in quanto legittima, c’è ed è forte, soprattutto in quelli che poi saranno i giacobini, che tendono ad accettare senza infingimenti la molteplicità dei livelli della legittimazione rivoluzionaria.
3. C’è poi, ritengo, anche un terzo livello di analisi: la Rivoluzione fonda forme di rappresentanza impropria, sia temporanea che permanente, addirittura ai margini della legalità, della sua stessa legalità: una rappresentanza non dei cittadini attraverso autorità costituite, ma delle comunità, più o meno volontarie, attraverso club o «federazioni», o comunque «raggruppamenti parziali del sovrano», come si soleva dire: aggregati totalmente contrastanti col principio della volontà generale.
Anche in questo caso si stabilisce un rapporto di rappresentanza attraverso una particolare forma di sanior pars. Un raggruppamento parziale del sovrano, che non dovrebbe esistere affatto, si arroga invece il diritto di parlare in nome del popolo intero. Il fatto è che questo raggruppamento non viene normalmente pensato come volontario o di categoria, e quindi come parte politica o sociale contrapposta ad altre; piuttosto invece come una sineddoche su base locale: una parte per il tutto. E non si tratta di una parte fra parti diverse, bensì tutte uguali e intercambiabili. H movimento delle federazioni del 1790 ha proprio questo aspetto: la nazione si forma e si aggrega unendo comunità ugualmente carateriz-zate, nel coro generale di aggregazioni identiche. Ogni paese, ogni quartiere, unanime al suo interno, e concorde con gli altri paesi e quartieri, concorre a formare il sentimento corale dell’appartenenza
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nazionale11. L’unità della nazione non si crea tanto dall’alto, attorno alle istituzioni politiche, quanto soprattutto dal basso, a partire dalle comunità capaci di esprimere tutte la stessa volontà, in maniera corale e ripetitiva. La concordia delle comunità costituisce la conferma che la volontà generale dell’Assemblea è davvero generale: che da ogni parte del paese emerge la stessa volontà, quella poi espressa dalle istituzioni politiche.
E se questo non succede: se emergono volontà diverse? Qui troviamo il discrimine fra il movimento positivamente connotato delle federazioni del 1790 e il «federalismo» criminalizzato nel 1793, che altrimenti sarebbero molto simili, perché entrambi espressione di una volontà generale fondata su spontanea iniziativa delle parti. E estraneo alla rivoluzione francese il liberalismo dei pochi valori costituzionali condivisi e del largo spazio lasciato alla contrattazione politica; le è molto più connaturato invece il comunitarismo dell’enormità dei valori condivisi e del margine assai ristretto lasciato all’articolazione della diversità12. Nel 1790 gli immensi valori condivisi permettevano di isolare gli spazi di dissenso e di produrre una politica tollerante. Tre anni dopo i valori condivisi erano ancora più grandi, ma non erano più veramente condivisi, e il dissenso aveva preso piede. E se crescono insieme sia la necessità di condividere che quella di rompere, lo sbocco autoritario diventa inevitabile.
Se (1790) dalle comunità emerge convergenza su di uno stesso progetto di formazione della nazionalità, si ha il rito dell’accordo descritto dalla triade dell’89: la Nazione, il Re, la Legge: la Nazione esprime una volontà, la stessa in ogni sua parte; il Re la ratifica; la Legge la impone. Se invece (1793) emerge eccessiva divergenza, allora la volontà generale si lacera e le istituzioni sono incapaci di funzionare: la Nazione va in troppe direzioni e la Legge non può più operare. Perché il circuito della legittimità rivoluzionaria funzioni, è necessario che l’alto e il basso, la Legge e la Nazione, lo stato e le parti si accordino, che si sostengano a vicenda e si esprimano insieme, ma soprattutto che dal basso, dalla Nazione, emerga una volontà univoca. Il progetto della politica rivoluzionaria non è il sogno «totalitario» di coartare nel profondo la volontà di ciascuno, semmai quello autoritario di far emergere la coralità. Voglio dire che manca alla rivoluzione francese un pensiero sulla centralità dello stato, capace di plasmare la società, di «nazionalizzare» le masse rendendole uniformi. C’è invece la volontà di esprimere identità dal basso, da ciascuna delle parti di cui la società si compone. Il correttivo al «federalismo», cioè alla divergenza da parte di settori della base, non va applicato dall’alto (se non con mezzi
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militari al momento drammatico della resa dei conti finale); piuttosto invece dal basso, da parte dei club o delle istituzioni locali, capaci di contrastare la divergenza. Voglio dire questo: che la rivoluzione francese non si propone di eliminare dall’alto l’opposizione, la pluralità, con la forza e la legittimità dello stato; ma dal basso e dafi’alto insieme, con la legittimità della parte sana delle comunità naturali e della sua rappresentanza nazionale.
Per questo la crisi federalista del 1793 è degenerata in guerra civile. Finché le comunità locali hanno trovato la capacità di composizione delle divergenze, la possibilità quindi di esprimere assemblee di elettori, autorità municipali e dipartimentali, club «patriottici» politicamente omogenei, nessuna frattura è stata irrimediabile. H problema è diventato invece dirompente quando la volontà generale ha cominciato a non potersi più formare a livello locale, quando le autorità municipali hanno cominciato a rivendicare autonomia dai club affiliati ai giacobini di Parigi13. La novità è del ’93, quando la guerra impone la necessità dell’unità nazionale. Due anni prima le divergenze non erano minori, semmai maggiori. Fra monarchici e repubblicani la distanza politica era assai più rilevante che fra girondini e giacobini. Ma nel ’91 si ammetteva ancora che le parti delegassero alla rappresentanza nazionale la formazione della volontà generale. Due anni dopo la mobilitazione imponeva una sorta di democratizzazione della volontà generale: la sua formazione in sede locale. In questo modo la rendeva più fragile ed incontrollabile. La esponeva alla perdita della capacità di mediazione normalmente offerta dalla politica.
Un esempio può essere fornito dalla federazione monarchica di Jalès, nel 1790, in un sud-est lacerato da contrasti religiosi e politici. Un intero pezzo di società meridionale: paesi, sindaci, guardie nazionali, si schierano contro la rivoluzione. H contrasto è violento, le infiltrazioni controrivoluzionarie, al servizio di potenze straniere che si stanno attivamente mobilitando per scatenare la guerra sono evidenti. Di lì a poco il re, simbolo dell’unità nazionale, sarà aiutato - o indotto - a tradire il suo paese e a tentare la fuga all’estero. Eppure la legittimazione politica funzionava ancora, e i dirigenti, locali e nazionali, riuscivano ad isolare il fenomeno e ad escluderlo dal circuito della formazione della volontà generale. Due anni dopo il pericolo ha democratizzato il meccanismo della legittimazione. Contrasti molto più insignificanti di quelli di Jalès diventano dirompenti, e tali da delegittimare le autorità municipali agli occhi dei club patriottici, e viceversa. Così per esempio accade a Marsiglia fin dalla primavera 1793, dove un gruppo dirigente locale giacobino, certamente brutale e maldestro, ma in fondo null’altro
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che espressione radicata della realtà locale, provoca una reazione stizzita da parte delle istituzioni cittadine, del resto tradizionalmente appoggiate dagli stessi ambienti giacobini. Tale contrasto non riesce più a trovare una sede di composizione, nel contesto generale di degradazione del confronto politico, e degenera come ben si sa nell’adesione di Marsiglia - una delle roccaforti del radicalismo rivoluzionario - al fronte «federalista», e in definitiva addirittura controrivoluzionario. A Jalès un grande movimento di popolo controrivoluzionario era stato isolato perché il patrimonio di valori condivisi era imponente e maestoso. A Marsiglia un modesto scontro di gruppi dirigenti scatenava una crisi insanabile perché i valori condivisi erano cresciuti parallelamente al dissenso fino ad erodere le capacità mediatrici della politica, verso soluzioni autoritarie, da una parte e dall’altra.
Lo spostamento verso il basso del meccanismo di formazione della volontà generale, quindi la difficoltà di mediare i contrasti, perdura anche dopo la fine della fase più tragica dell’emergenza. Ogni collegamento su base regionale fra club giacobini viene tacciato di «federalismo». Non credo quindi che questo fallimento della mediazione politica si possa definire transitorio e puro e semplice prodotto delle circostanze. Piuttosto corrisponde ad un progressivo allargamento di stampo autoritario dei valori condivisi che obbligatoriamente caratterizzano la convivenza politica. Non ci si limita più a richiedere a tutti il rispetto della legge, come nell’89-90, ma si esige un’adesione aggiuntiva di grande valenza emotiva: quella espressa dall’«unità della repubblica», o dalla «fraternità». Questi valori fortemente comunitari sono per lo più imposti in maniera sacrale e rituale: l’unità «o la morte», si aggiunge assai spesso.
La mia impressione è che i valori comunitari emergano prevalentemente dal basso, nell’universo giacobino. Il diritto di petizione è un segnale forte di questa emergenza. Le comunità (anche gruppi di cittadini senza legame comunitario, semplici firmatari di un testo, ma per lo più comunque membri di un’istanza di base) possono dialogare col potere legislativo. Hanno diritto ad essere ascoltate, ad essere ricevute in delegazione; a volte ad essere ammesse «agli onori della seduta». Sono dunque degli interlocutori ufficialmente riconosciuti da parte del potere legislativo. La pratica di questo diritto di petizione è corrente. Ad ogni seduta della Convenzione, o quasi, sono ammesse delegazioni di istanze di base, che intervengono ufficialmente, apostrofando i deputati col titolo di «mandatari del popolo sovrano». La base e il vertice dell’edifìcio politico si legittimano in questo modo a vicenda. La Convenzione
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trae conferme del proprio ruolo rappresentativo dal fatto che riceve le visite del popolo sovrano e le comunità di cui il sovrano si compone vengono legittimate dalla sede in cui sono ammesse a parlare.
Una considerazione unifica tutti e tre questi livelli della complessità richiesta dalla legittimazione politica in rivoluzione: la legge, la violenza e la comunità. In ciascuno di questi livelli spicca la natura rapida del tempo. Nulla è consolidato dal consenso. Nessuna legittimazione può vantare antichità. La legge è appena fatta; la violenza esplode dal semplice buon diritto di «opporre resistenza all’oppressione»; la comunità, unico soggetto dotato di passato, si ridefinisce secondo criteri del tutto nuovi. In questo la rivoluzione deriva da un aspetto del pensiero religioso utopico: la sua legittimità discende dal suo buon diritto a portare la giustizia sulla terra, e non, come inizialmente pareva all’epoca della convocazione degli Stati, dal suo ritorno ad istituti venerandi e desueti. Quella particolare variante di pensiero whig che era rappresentata in Francia dal punto di vista dei magistrati dei parlamenti, secondo la quale un istituto è politicamente legittimo in quanto antico - «antico quanto la monarchia», soleva dire il parlamento di se stesso - viene totalmente e radicalmente confutata. La rivoluzione crede nella sua legittimazione a creare canali di funzionamento della sovranità, più radicalmente ancora della stessa monarchia assoluta, la quale traeva il proprio diritto di governare, come ben si sa, non dalla storia, ma dalla volontà divina. Almeno la monarchia, oltre che divina, era anche antica. La rivoluzione era «divina» e basta. In questo senso - Quinet aveva ragione - assomigliava ad una riforma religiosa e derivava la sua legittimità dal pensiero utopico riformato14.
Abbiamo in antico regime due legittimità rivali: quella di diritto divino (chiamiamola tory) e quella derivante dalla tradizione (chiamiamola whig). Il re deriva la sua legittimità dalla consacrazione, i parlamenti dalla storia. Il re può innovare, i parlamenti no. Il consenso è di per sé più fragile della monarchia, e deve farsi legittimare dalla storia. In questo senso la rivoluzione è paradossalmente tory\ non cerca l’antichità del consenso, non apprezza la tradizione, non conosce sedimentazione. Cerca invece l’intensità del consenso attraverso il rapporto con le comunità che la legittimano e di cui rispetta la violenza. Le sue leggi devono venire a patti con la gestione diretta della condivisione dei valori. L’antichità dell’istituzione lascia il posto, col crollo del principio monarchico, alla ceri-monialità stratificata del consenso. L’Assemblea nazionale, poi la Convenzione, sono legittime non in quanto antiche (tutto è nuovo
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in rivoluzione), bensì in quanto costituite da gradi successivi di legittimità che fanno convergere al centro le volontà particolari, contribuendo a formare quella generale. Per parte sua, la comunità violenta esprime direttamente la propria sovranità. Le istituzioni politiche dovranno frequentemente inchinarsi, e comunque mediare, dare legittimazione all’azione diretta, e riceverla dalla sovranità popolare immediata.
Paolo Viola
Istituto di studi storici Facoltà di Scienze Politiche Università di Palermo
Note al testo
1 In proposito le celebri opinioni di H. Taine, e di tanti altri prima e dopo di lui, sono ora in qualche modo confluite nella «revisione» della storiografìa sulla rivoluzione francese, operata in primo luogo da F. Furet, per il quale è l’eccesso di democrazia giacobina a produrre la gracilità della tradizione rivoluzionaria francese, e la gracilità della sinistra in generale. In proposito, di Furet si può leggere, fra l’altro (con A. Liniers e Ph. Raynaud), Terro-risme et démocratie, Paris 1985. L’articolo Taine di M. Ozouf, in F. Furet e M. Ozouf, Dictionnaire critique de la Revolution frangaise, Paris 1989, non contiene invece alcuna presa di posizione decisiva in tal senso.
2 Sulle difficoltà dell’evoluzione costituzionale francese, cfr. P. Rosenvallon, La monarchie impossible. Les Chartes de 1814 et de 1830, Paris 1994. Cfr. anche l’agile sintesi di M. Morabito, Le chef de l’État en France, Paris 1996.
3 Roberto Martucci valuta nel complesso assai positivamente il complesso di garanzie fornite dall’evoluzione dei sistemi di legittimazione all’origine della rivoluzione: cfr. R. Mar-tucci, Proprietari o contribuenti? Diritti politici, elettorato ed eleggibilità nel dibattito istituzionale francese da Necker a Mounier. Ottobre 1788-settembre 1789, in «Storia del diritto e teoria politica», Il (1989), (Giuffrè 1991).
4 Cfr. M. Battini, L'ordine della gerarchia. I contributi reazionari e progressisti alle crisi della democrazia in Francia. 1789-1914, Torino 1996. Credo che l’analisi di Battini sia profondamente debitrice al lavoro di Z. Sternhell (Nascita dell'ideologia fascista, Milano 1993), dal quale trae l’idea, centrale nel suo libro, secondo la quale il fascismo prenderebbe origine proprio in Francia, dove è stato sconfìtto. Credo che Battini valuti eccessivamente l’influenza di Nolte su Sternhell, e ne diminuisca quindi l’originalità.
5 Penso in particolare al lavoro di Soboul sulla pratica sociale e politica dei sanculotti parigini, nella seconda parte della sua thèse del 1958 (Paris), poi ripubblicata da sola ma con lo stesso titolo dell’opera complessiva: A. Soboul, Les sans-culottes parisiens en l'an IL Mouvement populaire et gouvemement révolutionnaire, (1793-1794), Paris 1968.
6 Lo studio più recente sul primo pensiero costituzionale della Rivoluzione francese è: F. Furet, R. Halévi, La Monarchie républicaine, Paris 1996. Cfr. anche M. Gauchet, La Revolution des pouvoirs, Paris 1995.
7 Su questa paradossale rappresentanza, cfr. C. Lucas, The Crowd and Politics between Ancien Regime and Revolution in France, in «Journal of Modem History», (1988), pp. 421-57.
8 Ho studiato questo fluire diretto della sovranità violenta in: P. Viola, Il trono vuoto. La transizione della sovranità nella Rivoluzione francese, Torino 1989.
9 Le motivazioni del supplizio sono connesse, come è noto, al reato di «lesa maestà». La rivoluzione sostituisce questo concetto con la «lesa nazione». In entrambi i casi si tratta di reati non assimilabili coll’«alto tradimento» della tradizione britannica, ma di imputazioni con altissimo valore rituale. Ovviamente cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino 1976.
10 T. Tackett, Becoming Revolutionnary, Princeton 1996.
11 Ho dedicato a questo argomento una parte di: P. Viola, La crisi dell'Antico regime. Politica e antipolitica nella Francia della Rivoluzione, Roma 1993.
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12 È estremamente interessante a questo proposito l’intervento sulla Rivoluzione francese di un comunitarista come Michael Walzer, il cui sguardo si appunta sul momento più sensibile della crisi di identità collettiva: quello del processo al Re. Cfr. M. Walzer, Regicide and Revolution. Speeches at thè Trial of Louis XVI, Cambridge 1974. Devo alcune delle considerazioni qui sviluppate agli stimoli forniti dal lavoro di seminario su liberalismo e comunitarismo dei colleghi del Dipartimento di politica diritto e società dell’Università di Palermo.
13 Per una lettura originale del cosiddetto federalismo nella rivoluzione francese, cfr. A. De Francesco, Il governo senza testa, Napoli 1992.
14 Per una discussione delle radici protestanti del pensiero utopico, cfr. M. Miegge, Il sogno del Re di Babilonia, Milano 1995.