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Title
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PRATICHE EXTRAGIUDIZIALI DI AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA: LA «LIBERAZIONE DALLA MORTE» A FAENZA TRA '500 E '700
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Creator
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Alessandra Parisini
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Date Issued
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1988-04-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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23
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issue
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67 (1)
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page start
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147
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page end
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168
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
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Rights
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Quaderni storici © 1988 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230921075824/https://www.jstor.org/stable/43778068?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoyNCwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjU3NX19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A1942bae8b38bb54da6edb3613880703e
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Subject
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surveillance
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discipline
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non-discursive practices
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extracted text
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PRATICHE EXTRAGIUDIZIALI
DI AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA: LA «LIBERAZIONE DALLA MÒRTE» A FAENZA TRA '500 E '700
1. Un grande crocefisso sostenuto da un sacerdote apriva la processione che nel mattino del 29 Agosto 1703 si svolgeva nella piazza principale di Faenza L Seguivano i confratelli della locale confraternita della morte vestiti di una cappa nera con il volto coperto da un cappuccio; per ultimi i due priori della compagnia tra i quali camminava un uomo - il bandito Giuseppe Fagnoli -con una corona di lauro in testa.
La processione si era avviata nella chiesa della compagnia, dopo che il Fagnoli insieme a tutti i confratelli aveva ricevuto la comunione dalle mani del cappellano. Compiuto un giro lungo i due lati principali della piazza il corteo ritornò alla chiesa, dove «dette lorazion del santo [...] e ringraziati i confratelli a uno a uno» 2 il bandito venne liberato e fu posto termine alla funzione. Era la conclusione di una vicenda cominciata proprio nel 1703 con la seguente supplica presentata da Fagnoli alla compagnia di S. Giovanni Decollato detta della morte: «Giuseppe Fagnoli da Faenza [...] gli espone trovarsi da vinti anni essole dalla patria per l'Homicidio seguito nella persona di Francesco Bologne-ri per cui fu bandito di galera e ciò seguì in età di anni 15. Hora, desideroso di ripatriare, ricorre alla somma bontà delle signorie vostre supplicandole genuflesso a farlo godere della grazia di liberazione della persona suddetta in occasione della festività del Glorioso S. Giovanni Decollato» 3.
Suppliche come questa pervenivano in gran numero alla compagnia e facevano riferimento ad un privilegio che essa aveva ottenuto nel 1582: quello di scegliere ogni anno un condannato a morte o alla galera da liberare nel giorno della festa del suo patrono S. Giovanni Decollato 4.
Alla storia di questo privilegio, alle condizioni cui era legata la sua efficacia, alle dinamiche sociali che esso metteva in moto,
QUADERNI STORICI 67 / a. XXIII, n. 1, aprile 1988
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Alessandra Parisini
con particolare riferimento alla situazione faentina, è dedicata questa ricerca.
La confraternita della morte aveva con l’amministrazione di giustizia un rapporto molto stretto che non si limitava al solo privilegio di grazia. Tra i suoi vari compiti infatti vi era quello di confortare i condannati a morte, di gestire le carceri laicali della città e di assistere i carcerati.
Fondata in data imprecisata, intorno alla prima metà del '500, la compagnia di S. Giovanni Decollato svolse la sua attività nella città di Faenza fino alla fine del '700. Si trattava di una piccola compagnia di giustizia caratterizzata da una molteplicità di interventi assistenziali: oltre al conforto dei condannati a morte essa si occupava della assistenza materiale e spirituale ai carcerati, e in particolare del mantenimento di quelli poveri che non potevano pagarsi il vitto; stessa assistenza materiale veniva prodigata ai poveri della città.
A queste prime incombenze si aggiunsero, ben presto, nuove attività. Così nel 1638 venne fondata una spezieria che riforniva gli ospedali e elargiva gratuitamente i medicinali ai poveri; verso la metà dello stesso secolo si ebbe la creazione di un ricovero per fanciulli abbandonati 5.
La compagnia svolgeva inoltre una vera e propria attività di gestione delle carceri laicali della città. L’origine di questo importante compito che contribuì a rendere più complesso il rapporto della confraternita con l’amministrazione della giustizia è ancora incerta e confusa: in un primo tempo, intorno al 1584, la compagnia ebbe riguardo alle carceri un certo diritto, di origine imprecisata, consistente nella riscossione di denari dalle mercedi dei carcerieri o barigelli 6. Successivamente - nel 1592 - essa stipulò un regolare contratto col Vescovo De Grassi con cui ottenne la proprietà delle prigioni, e la potestà di scegliere il carceriere 7. Quello della nomina dei custodi era un diritto estremamente importante perché consentiva di incamerare una parte delle entrate che questi traevano dalla loro attività; inoltre permetteva di scegliere ed eventualmente ricusare colui che, una volta incaricato, avrebbe materialmente regolato e diretto la vita all’interno del carcere.
Evidentemente era molto importante che gli uomini impiegati in tale officio di custode riconoscessero l’autorità e i privilegi acquisiti dalla compagnia; per questo motivo, ed anche per impedire eventuali abusi nei confronti dei carcerati, i confratelli si preoccuparono ben presto di formulare particolari capitoli (cioè regole) da imporre ai custodi 8.
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Il contratto col Vescovo De' Grassi rientrava a pieno in una particolare linea d'azione, inerente il campo carcerario, stabilita dalla Santa Sede. Proprio nel 1592 Clemente Vili con una Bolla aveva soppresso l’ufficio della prefettura dei custodi delle carceri dello Stato Pontificio, ordinando ai vescovi di ogni città di concederlo a quelle confraternite - le quali venivano investite di una vera e propria funzione pubblica - che essi ritenevano più consone 9. A ciò il pontefice fu spinto dalla constatazione delle pessime condizioni in cui versavano i carcerati, e dai buoni ri-sul tati che sortiva l'impegno caritativo delle confraternite verso i prigionieri10. Tale impegno era contraddistinto da una particolare caratteristica: le confraternite infatti non si limitavano a prestare la sola assistenza materiale, ma erano in grado di attuare - mediante una vera e propria opera di catechizzazione -quella "correzione", e "purificazione" del carcerato insita nella particolare concezione del carcere (inteso non solo come custodia preventiva) in vigore nello Stato Pontificio.
Il privilegio di liberazione di cui la compagnia faentina godette per circa due secoli era comune a diversi tipi di confraternite - come la confraternita della "Pietà dei Carcerati” di Roma, il cui compito principale era l'assistenza materiale e spirituale ai prigionieri11 - ma particolarmente diffuso fra le compagnie di giustizia. Tra queste ultime esso veniva frequentemente trasmesso mediante processi di aggregazione alla più importante e prestigiosa consorella romana: la confraternita di S. Giovanni Decollato della Nazion Fiorentina. Mediante questi legami consociativi venivano trasmessi i privilegi che ad essa appartenevano; inoltre non era infrequente che alcune compagnie dello stesso tipo, la cui evoluzione si specchiava in quella romana, prendessero «spunto dai suoi privilegi per reclamarne di analoghi» 12. Tutto questo funzionava senza difficoltà all’interno dello Stato Pontificio, talvolta però il privilegio poteva seguire di molto l’aggregazione spirituale. È il caso della confraternita bolognese di Santa Maria della Morte, la quale ottenne il privilegio nel 1576 tramite un Breve emanato direttamente da Papa Gregorio XIII; il privilegio seguiva dunque di 13 anni l’aggregazione avvenuta nel 1563 13. Inizialmente il Breve prevedeva che la compagnia designasse il liberando unicamente la sera prima della Festa di S. Giovanni Decollato - giorno deputato per la liberazione -, successivamente lo stesso Gregorio XIII con un nuovo Breve concesse la facoltà di poter chiedere la grazia in qualsiasi giorno dell’anno, così da non porre alcun limite alle scelte dei confratel-
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li 14. Nel 1577 si ebbe quindi la prima liberazione, relativa a una donna, tale «Lisabetta da Casale rea di infanticidio per avere suffocato il parto» 15.
Diverso il caso di Perugia: in un libro di giustiziati e oblati, della locale confraternita, per quanto riguarda le liberazioni si fa riferimento ad un privilegio di origine incerta ma di data molto antica 16.
A Faenza l’acquisizione del privilegio rientrò a pieno all’interno di quella rete di scambi e comunione di indulgenze, e privilegi attivata dall'aggregazione. Nel 1583 i confratelli si presentarono al vescovo per inoltrare la prima richiesta di liberazione, e gli esposero che «mediante l’aggregazione della lor compagnia alla confraternita della morte della Nazion Fiorentina in Roma fatta li 7 Agosto 1582 godeva di tutti i privilegi e gli indulti [...] tra gli altri il privilegio di dimandare la libertà di un reo di morte o di galera» 17.
Nonostante l’evidente importanza del privilegio - o forse proprio per questo - il suo funzionamento risulta esser stato incerto e sussultorio, con lunghe pause e con ripetute modifiche delle norme che ne regolavano l’applicazione. Ci troviamo, qui, di fronte alla prima e più importante caratteristica che distingue un privilegio da un diritto. Da parte della compagnia c’era ovviamente un forte interesse a usufruirne regolarmente: ma da parte del Potere Sovrano si tendeva a renderlo aleatorio, a non garantirne l’efficacia. Ad ogni pontificato la questione poteva, teoricamente, essere riaperta e il privilegio essere rimesso in discussione: Pio V, per esempio, con un Motu Proprio del 1568 pose una restrizione notevole escludendo dalla grazia di liberazione i rei di assassinio 18. In generale con il passare degli anni e il moltiplicarsi della concessione del privilegio furono poste nuove restrizioni, anche per il timore di un indebolimento del potere sovrano 19, fino a che si giunse con Pio VII ad una sua totale abolizione 20.
Di fatto più che dagli interventi papali il privilegio trasse la propria incertezza ed aleatorietà dal fatto di poter essere, in qualsiasi momento, sospeso o intralciato dalle autorità, e ciò era possibile ai diversi livelli della gerarchia dell’amministrazione giudiziaria: dai gradi più alti ai più bassi, dal centro alla periferia.
Anche a Faenza l’esecuzione del privilegio non fu regolare, e più volte i Legati o i presidenti della provincia, a volte i governatori, respinsero le istanze di grazia impedendo di fatto la libe-
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razione del reo prescelto dalla compagnia. Per questo i confratelli furono spesso costretti a rivolgersi - per ottenere riconferme e rinnovazioni del privilegio - a Roma, nel tentativo di aggirare i poteri locali mediante il diretto ricorso al potere centrale. Dall’esame del "Libro per i liberati dalla Morte” 21 - un registro in cui sono raccolte le istanze di liberazione presentate dai confratelli tra il 1585 e il 1634 - si evidenziano notevoli lacune: per un periodo di una quindicina di anni (1621-1626) non si trovano istanze e non è documentata alcuna concessione di grazia. Dal 1626 al 1655 le liberazioni furono soltanto sette 22.
Queste discontinuità non sono Punico segno delle difficoltà incontrate dalla compagnia nel veder riconosciuto il proprio privilegio, infatti - specie negli ultimi anni - le trattative si fecero sempre più lunghe e complesse, e più frequente divenne l'intervento arbitrale della Sacra Consulta Romana 23.
Nella seconda metà del '600 non troviamo più alcuna notizia di liberazioni e nemmeno memoriali, istanze o verbali di riunioni, quasi che la compagnia avesse rinunciato al privilegio. Fu, però, proprio in questi anni di apparente stasi che i confratelli si organizzarono e presero provvedimenti per ristabilire il rispetto della facoltà di liberazione, di cui godettero nuovamente nel corso del '700. Nel 1648 per esempio la compagnia scrisse al Papa per ottenere una riconferma del privilegio 24, e Innocenzo X concesse la rinnovazione 25.
La prima vera riconferma si era avuta nel 1601 - anche questa volta a seguito di una richiesta dei confratelli - tramite un Breve emanato da Clemente Vili26. Il Breve ribadiva il privilegio di liberare un reo condannato alla pena capitale o di galera, tramite l'approvazione dei Governatori o dei Rettori della provincia ponendo però alcune restrizioni: escludendo cioè dal godimento della grazia i criminali condannati per reati di Lesa Maestà, falsificazione di moneta o di lettera apostolica, assassinio e sacrilegio 27.
Negli anni successivi i confratelli più volte cercarono riconferme, e nel 1758 chiesero, alla compagnia romana della Morte, copia dei documenti di aggregazione dai quali si poteva evincere la trasmissione del privilegio 28.
Non furono soltanto le negazioni del privilegio a preoccupare la compagnia, ma anche le notevoli restrizioni ad esso poste. Come abbiamo visto, già Clemente Vili aveva fatto divieto di concedere la liberazione ai colpevoli di omicidio. Dal 1602, inoltre, divenne fondamentale per i rei aver ottenuto la «pace»:
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si trattava di una dichiarazione certificante l’avvenuto perdono della parte offesa 29. Evidentemente le autorità ritenevano, questa, una garanzia necessaria per concedere le grazie, non volendo che le liberazioni dessero atto a nuove vendette o disordini, e si trasformassero in una fonte di perturbazione dell’ordine pubblico.
Nei documenti del 1626 troviamo registrate due nuove svantaggiose restrizioni imposte dalla Sacra Consulta: al reo veniva fatta pagare una certa somma di denaro come "garanzia", e lo si sottoponeva all obbligo di presentarsi alle autorità ogni qualvolta queste volessero convocarlo. Inoltre veniva posta anche la «riserva dell’esilio dal luogo del delitto ad arbitrio di essa Consulta» 30. Conseguentemente divennero sempre più frequenti le proteste dei confratelli, e le richieste di diminuzione o eliminazione delle "sigortà" in danaro, specialmente per i rei molto poveri. Un caso simile si verificò nel 1626, quando la compagnia chiese di poter fare grazia libera come altre volte era stata fatta «senza limitazione alcuna dei suoi privilegi»31. In un documento del ’600 troviamo registrato addirittura un piccolo tentativo di corruzione, operato da un deputato incaricato di ottenere la grazia per un reo; egli nella sua relazione scrive «et per facilitarsi la correlazione mi trovo d’haver promesso una dozena d’anguille sfumate» specificando che «se è il liberando in istato di mandarli che io non lo conosco li poterà inviare a suo piacere, s’anco no li comprarò io qua, et soddisfarò il promesso et aggiungerò questo altro poco di carità all’opera fatta» 32.
Ritardi, negazioni delle grazie, richieste di rinnovo del privilegio, e la presenza di deputati inviati a Roma, Ravenna e Bologna, con il compito di seguire l’iter delle istanze di liberazione sono tutti sintomi di un rapporto complesso e a volte difficoltoso tra compagnia e autorità ecclesiastiche 33.
Alla radice di questa difficoltà si trova evidentemente il rapporto che il potere centrale vuole istituire con chi, in suo nome, erogava un pur limitato flusso di grazie. Ma esiste pure un altro rapporto che è quello che si veniva a creare tra la compagnia e chi del suo privilegio tentava di avvalersi per ottenere la grazia. Anche qui, almeno per quanto riguarda l’iter seguito dalle compagnie per ottenere l’esecuzione del privilegio, non vi sono modelli generali prescritti dalle autorità. Ci si ritrova di fronte ad una incertezza della codificazione formale ed è necessario quindi analizzare lo svolgimento concreto dei casi di liberazione dalla morte.
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La confraternita romana della Pietà dei Carcerati istruiva una pratica detta: «Pubblicum Gratiae Instrumentum». All’inizio veniva posto il Summarium lurium della confraternita con il quale si esponevano i privilegi per condurre lecitamente la liberazione. Seguivano i nomi di alcuni condannati con la relativa pena, «di questi uno solo veniva scelto per il quale si faceva istanza presso il Papa» 34.
Le informazioni relative al procedimento in uso presso la confraternita bolognese si possono trarre da una serie di documenti contenuti in alcune relazioni di liberazione. Nel resoconto relativo aH'anno 1741 troviamo diversi atti inerenti l’iter seguito 35. Il primo documento è un avviso - proveniente dalla Curia del Torrone - indirizzato all’economo dell’opera dei carcerati, opera fondata e gestita dalla stessa confraternita per assistere i prigionieri 36. Il capo notaro della Curia informava che nella congregazione criminale, svoltasi la mattina, si era discussa la causa di un certo Tassinari - conclusasi con una sentenza capitale - e pregava l’economo di avvisare il Priore della Arciconfraterni ta della morte perché provvedesse a convocare la conforteria. La confraternita invece di organizzare il conforto compilò un’istanza, indirizzata al Legato, per ottenere la liberazione del condannato: il documento si apriva con una sorta di "Summarium lurium’’ in cui venivano elencati i Brevi concedenti il privilegio.
C’è in questa istanza bolognese una spiccata attenzione per la procedura burocratica: i confratelli continuamente si preoccupano di citare o fare riferimento agli atti ufficiali, ai rescritti, contenuti nei libri dell’archivio della Curia del Torrone. Così riguardo al Breve di Gregorio XIII - citato in principio dell’atto - si sente l’esigenza di specificare che esso si trova registrato in un libro (di cui si forniscono segnatura e pagina) conservato nell’archivio della Curia 37. L’istanza prosegue elencando tutti i graziati dal 1631 al 1718, naturalmente accanto ai nomi dei rei troviamo i "riscontri”, cioè le date e l’ordine con cui questi appaiono nelle apposite vacchette dei graziati in possesso della Curia. L’ultima liberazione registrata in questo atto risale al 1718, dopo di che - viene detto - fino al 1741 non si trovarono più condannati a morte «per i quali l’Arciconfraternita predetta potesse aver luogo a presentarsi per godere gli effetti della facoltà concessali» 38.
L’istanza prosegue accennando in poche scarne righe il caso del liberando Tassinari. Non si trova, a differenza di quanto avverrà nelle istanze faentine, alcuna narrazione particolareggiata
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dei fatti o commenti dei confratelli, né tantomeno viene operato un tentativo di revisione del processo.
All'istanza segue un rescritto con cui il Vescovo accordava la liberazione, da esso apprendiamo che a Bologna il privilegio comportava una modifica degli atti processuali: vi era infatti l’uso di registrare l'istanza della compagnia negli atti del processo, oltre che nel libro dei graziati conservato presso la Curia Criminale 39.
Per quanto riguarda il caso faentino l’iter prendeva il via dalle suppliche che pervenivano alla compagnia: queste erano dei veri e propri memoriali redatti dai rei o dalle loro famiglie, contenenti la richiesta di accedere alla liberazione e la descrizione, solitamente molto particolareggiata, del loro caso con l’indicazione del reato commesso e della pena comminata 40.
Periodicamente i confratelli si riunivano nel loro oratorio per leggere e vagliare i memoriali e, mediante una votazione, sceglievano il condannato di cui poi avrebbero richiesto la liberazione.
Conferma della pratica seguita la possiamo trovare nel verbale della riunione in cui si discusse proprio il caso del Fagnoli. Infatti - come negli anni precedenti - anche nel 1703 le suppliche furono numerose e Fagnoli si trovò a dover competere, per ottenere la liberazione, con altri rei. Nel verbale citato troviamo scritto: «Del mese di luglio 1703 si ragunò la compagnia dove lette alcune suppliche, i memoriali dei banditi che dimandavano [...] la grazia della liberazione dal Bando, in virtù dei nostri Privilegi dopo matura riflessione fu per partito eletto a godere detta grazia Giuseppe Fagnoli da Faenza condannato per 5 anni di galera» 41. In cosa consistesse «la matura riflessione» e quali fossero le ragioni di questa scelta non viene spiegato. Sappiamo però che talvolta la compagnia affidava al proprio avvocato il compito di verificaie i memoriali redatti dai rei, per accertarne la veridicità. Così avvenne nel 1639 quando i confratelli decisero di sostenere un caso - si trattava di un reo che dichiarava di aver commesso un omicidio in una rissa accidentale - solo a condizione che «Giò Evangelista Viavani avvocato della compagnia prendesse vera informazione delle scritture necessarie alla verità [...] e quando poi si fosse trovato puro et accidentale come è stato proposto, che facesse mandato [. . .] per ottenerne la liberazione» 42.
Sul piano formale ultimo atto dell’iter era l'istanza redatta dai confratelli, con cui si richiedeva alle autorità competenti la
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liberazione del condannato prescelto. I documenti dei primi anni risultano abbastanza simili e spesso si aprono con la seguente formula: «Gli uomini della compagnia della morte di Faenza supplicano V.S. illustrissima si degni fare Gratia libera a ...» 43. Segue l’esposizione dettagliata del caso del reo - molto spesso si trattava di una trascrizione dei memoriali - e la richiesta di «farli cassar la detta sentenza contro di lui, et commettere, et per detto conto non sia più molestato acciò eh essi uomini secondo il solito in virtù delti loro privilegi possino offerire [il reo] all'altar di S. Giovanni il dì della festa della decollatione di detto santo, nella procissione et altre solite loro cerimonie e questo senza altra spesa amore Dei» 44. In alcuni atti la formula iniziale si allarga e la descrizione dei privilegi si fa più dettagliata e precisa, più simile al Summarium lurium descritto dal Paglia per la confraternita romana 45.
Quasi tutte le prime istanze sono indirizzate al Presidente di Romagna 46, ma non era infrequente che a concedere la liberazione fossero, in alcuni casi, altre autorità: a volte il legato altre volte il governatore. Le istanze così compilate venivano presentate alle autorità che, una volta vagliato il caso, esprimevano il loro assenso mediante un rescritto positivo apposto nelle stesse istanze: alla fine dell’atto 47. Nel caso di Fagnoli la confraternita deputò due confratelli perché mostrassero le suppliche al Cardinale legato Durazzo, e ottenessero il rescritto favorevole 48. Accadde però che «il reo fu assoluto da Monsignor Renzi governatore della città» 49; sappiamo inoltre che la grazia fu libera, cioè non fu fatta spendere alcuna somma al reo nel «decreto [.. .] per esser pover huomo come anche per esser stato lungo tempo lontano dalla patria» 50.
Una volta che l’ordine di liberazione era stato notificato alla compagnia e alle autorità cittadine veniva svolta una vera e propria cerimonia. Paglia a questo proposito fa notare, per il caso romano, che una volta avvenuta la cerimonia di liberazione: «La confraternita che, come tale aveva preso sotto la protezione il liberato esercitando l’autorità di un corpo giuridico, emanava un pubblico attestato della avvenuta liberazione» 51. Di un simile documento - in cui sostanzialmente si avvertiva della liberazione e si ordinava di non molestare il reo per la stessa condanna da cui era stato graziato - si trovano esemplari nella documentazione della confraternita faentina 52. Copia del relasso consegnato al Fagnoli si trova ancora tra le carte della compagnia: «D’ordine deH’Illmo e Revmo Governatore di Faenza legato di
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Romagna non si molesti Giuseppe Fagnoli da Faenza per il Bando di galera di 5 anni che pativa in questo tribunale sin dall’anno 1684 perché è stato graziato da sua Eminenza [. ..] in vigore del Privilegio Pontificio di Clemente Vili che si compete alla compagnia [...] come appare decreto nel fine di detto processo» 53. Esiste però una differenza sostanziale con il caso descritto dal Paglia, poiché a Faenza ad emettere il documento era l’autorità concedente la grazia e non la compagnia che godeva del privilegio. La confraternita faentina evidentemente non aveva nessuna autorità o potere simile a quello esercitato dalla compagnia romana.
2. Nel lungo processo avviato dalle compagnie per ottenere la liberazione il momento che risulta più "oscuro” è quello della scelta dei graziati. Nei verbali delle riunioni faentine i confratelli registrano le decisioni prese ma tacciono regolarmente i motivi ispiratori che li portavano a scegliere un reo piuttosto che un altro. Conseguentemente risulta piuttosto difficile ricostruire i rapporti e le relazioni che intercorrevano tra i rei, le loro famiglie e la compagnia. Inoltre poiché nessuna regola era chiaramente fissata dalla confraternita per la scelta dei liberandi, per ricostruire la fisionomia dei graziati si deve esaminare la serie dei casi reali.
Ciò è possibile poiché le istanze di liberazione della compagnia faentina sono molto particolareggiate.
La casistica concreta dei graziati mostra che le poche norme generali emanate dalle autorità statali a riguardo, non venivano sempre osservate; per esempio nonostante il divieto previsto dalla Bolla di Clemente Vili, molte delle liberazioni effettuate riguardavano proprio i casi di omicidio. Dunque non è tanto la tipologia astratta del crimine che interessa la confraternita o le autorità che le delegano il privilegio, ma piuttosto la caratterizzazione concreta del criminale: le suppliche mettono infatti in evidenza determinati tratti individuali sui quali si fa leva per argomentare l’opportunità di concedere la grazia. Il libro per i liberati dalla Morte, che raccoglie tutte le istanze fino al 1634, fornisce in questo senso notevoli indicazioni e permette di comprendere le circostanze, le condizioni in cui si verificavano i diversi reati, i motivi che erano alla base di tali atti e il valore che essi assumevano nella mentalità dei confratelli. I casi descritti sono relativi a rei solitamente definiti molto poveri, quasi tutti condannati per assassinio o per furto 54.
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Un gruppo di istanze riguarda i reati di lieve entità e gli errori di giudizio: vengono qui presentati i casi di persone esiliate o carcerate per reati non commessi o per piccoli furti talvolta aggravati da sparatorie in cui però nessuno rimase ferito o ucciso.
Vi sono poi alcuni casi che registrano e rivelano esplicitamente le difficoltà degli indiziati - date soprattutto particolari condizioni di povertà - a difendersi dalle accuse mosse loro dal fisco. Ne abbiamo un esempio in una istanza del '600: è il caso di un reo, imputato per omicidio, che si dichiara non colpevole; i confratelli nel documento fanno presente che i suoi coimputati si sono potuti difendere tanto che una parte*- è stata assoluta l’altra admessa alla supplica, nondimeno lui atterrito dalla potenza del fisco e sua povertà ricorse nel bando e condannazione» 55.
Molto peculiari sono i casi di omicidi commessi da giovanissimi, la cui liberazione è di solito particolarmente caldeggiata e sostenuta dalla compagnia. I confratelli nelle loro istanze sottolineano ed evidenziano con enfasi l’età giovanile, l’involontarietà degli atti commessi dai ragazzi, come nel caso di tal Bernardo, del cui delitto viene detto che fu «improvviso et tra li putti di pochissimo giudizio, non avhendo mai avuto pensiero di commettere tal delitto» 56.
Una serie di istanze sono relative a uxoricidi: si tratta solitamente di omicidi commessi per vendicare infedeltà coniugali e proteggere il proprio onore. Fu questo il caso di Giovanni Galan-ci il quale ammazzò la moglie con un falcione poiché essa «aveva cattiva vita et pubblicamente con un Giacomo Carboncino da Faenza, [...] e il pover huomo non potè mai né con minacce né con castighi correggere la moglie» 57.
Le liberazioni effettuate sembrano riferirsi a persone estremamente povere - spesso provenienti dal contado - la cui povertà a volte veniva attestata da dichiarazioni sottoscritte dai rettori delle parrocchie di appartenenza. Purtroppo sulla veridicità di tali dichiarazioni e sulle reali condizioni dei graziati non è possibile compiere nessuna verifica: in questo senso un riscontro con gli atti processuali potrebbe fornire importanti indicazioni ma data la dispersione dell’archivio criminale, esso risulta impossibile.
Dall’analisi dei documenti si può rilevare invece un particolare atteggiamento dei confratelli, i quali in più occasioni si adoperarono per "rivedere” il processo. Essi infatti nelle loro istanze confutavano - là dove erano in grado di farlo - le accuse mosse al reo durante il processo, contestando spesso le affermazioni del
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fisco. Due sono i casi in cui questa tendenza viene maggiormente evidenziata. Piuttosto singolare è quello del liberando del 1590. Si tratta del giovane Antonio Marchetti che nel 1586 venne citato dinanzi al governatore per l’omicidio del cugino. Marchetti avendo la consapevolezza di essere innocente si presentò spontaneamente, così come ricordano i confratelli nella loro istanza «et per purgarsi da simile imputazione si costituì spontaneamente prigione» 58. Per uno strano caso proprio in seguito a questa costituzione Antonio si trovò coinvolto in un evento, che gli procurò la condanna a morte: «essendo poi con altri camerati condotto a Ravenna la prima notte furono lasciati nella rocca di Russo, dove tutti fuggirono, onde fu bandito in pena della vita, e confiscazione dei beni». Ben lungi dal limitarsi a riportare il fatto i confratelli passano a spiegare le motivazioni - creando così una attenuante -di tale fuga che compromise il reo in modo tanto grave: «E poiché il povero giovane [fu] spronato dai compagni a servirsi della comodità del fuggire, et a rimettersi in libertà, senza considerare, che il prendere la via della fuga dava inditio che egli fosse reo e colpevole della morte del cugino, della quale n era innocentissimo fu condannato come si è detto in pena capitale». I confratelli passano poi a descrivere le circostanze in cui si svolse il reato, con il preciso intento di dimostrare l’innocenza di Antonio che, come risulta dal racconto, è la vera vittima; mentre il cugino fu ucciso per errore: «perché veramente tal omicidio fu commesso da certi che correvano dietro l’oratore Antonio et nel sparar gli archibugi contra la persona sua per mera disgratia investirono il cugino». Così i confratelli per un caso talmente particolare e vista l’età giovanile, l’estrema povertà, la pace ottenuta dagli offesi, dopo aver chiarito l’innocenza del reo e le motivazioni del suo gesto disperato pregano si conceda la grazia, fornendoci inoltre un’importante informazione sulla vita dell’esiliato: «attinta la vita cristiana che egli ha tenuto e tiene dove egli è stato quietamente vivendo, et confessandosi et comunicandosi spesso come ne può mostrar fide» 59. Per inciso va ricordato che la vita condotta in esilio era condizione molto importante per ottenere la liberazione: il non praticare e non associarsi a gruppi di banditi, il frequentare la chiesa erano, evidentemente, garanzie per accedere alla grazia. I confratelli concludono l'istanza illustrando le condizioni disastrose in cui versa la famiglia di Antonio: «il padre è vecchio et gravissimo di famiglia inutile et che non possiede cosa alcuna, et il quale ha estremo bisogno del aiuto del figliuolo per governo e sostegno della sua povera famiglia» 60.
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Il caso più significativo ed esemplare di questa tendenza a rivedere alcuni processi è quello riguardante un ragazzo liberato nel 1611. Nell’istanza relativa viene detto che si tratta di «un caso puro digno di compassione di un putto di tredici anni» 61. Il ragazzo, tal Giovanni, si trovava inquisito e «chiamato in bando» nella corte del governatore di Faenza col pretesto che in una rissa «puerile con un altro putto [...] li tirassi un sasso, et lo cogliesse nella panza dove ristasse con grande infiammazione ma però senza pericolo come mi consta per relazione del medico, e non apparì che sia stato ditto Gioanni se non per relazione di putti di minore età [...] essendo Giò Maria di lì a due giorni morto il fisco pretende sia morto per detta percossa, il che pare impossibile che per percossa d’un putto dibole sia morto, ma più presto per altro accidente» 62.
I confratelli, come si vede, tendono anche in questo caso a ristabilire la verità dei fatti opponendosi alla tesi sostenuta dal fisco, e ciò sia basandosi sulla relazione del medico, sia mettendo in luce che a sostegno della accusa vi è solo la testimonianza - da non considerare probante - di altri putti addirittura di età minore.
Nulla che possa facilitare l’accettazione del caso presso le autorità viene tralasciato, così gli uomini della compagnia supplicano la grazia in nome della «Compassione di questo povero figliolino putto», sottolineando inoltre che egli «va alla scola et è di speranza di bona riuscita» 63.
C’è dunque un profilo del condannato ideale per la grazia, che è più o meno di questo genere: povero, giovane con carichi di famiglia, violento solo eccezionalmente, dedito a pratiche pie dopo il delitto, a volte vittima di errore giudiziario. Si tratta di un personaggio palesemente agli antipodi del criminale incallito, capace di calamitare la compassione piuttosto che la avversione collettiva.
In base alla sola analisi delle istanze è difficile rilevare a pieno le dinamiche sociali relative all’esecuzione del privilegio. Anche a fronte di una laconicità documentaria riguardante la composizione sociale della compagnia - a questo proposito sappiamo soltanto che la confraternita nel '700 era composta da nobili, mentre ignoriamo quasi completamente la sua composizione nei secoli precedenti 64 - risulta problematico individuare l’esistenza di rapporti di parentela tra confratelli e liberandi, o eventuali pressioni di deternìinati gruppi sociali.
Un solo caso tra tutti quelli raccolti nel Libro per i liberati
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dalla Morte liporta una indicazione emblematica a questo proposito. Si tratta di una istanza - purtroppo senza data e senza rescritto, il che ci impedisce di sapere se la liberazione fu eseguita o meno - in cui viene fatta richiesta di grazia per un giovanissimo, tal Bernardo, di soli tredici anni che in una rissa ferì alla spalla un coetaneo, il quale morì dopo quindici giorni. Bernardo vantava una parentela importante che nel documento viene chiaramente esplicitata: esso era infatti il figlio dell'esecutore di corte della città 65. Si possono facilmente immaginare il tipo di sollecitazioni che la compagnia ricevette in questo caso; gli stessi confratelli dovettero sicuramente considerare il "lustro” che tale liberazione avrebbe procurato.
3. Le disamine dei memoriali, le istanze di liberazione, le richieste per ottenere riconferma della facoltà di liberazione erano tutti momenti di un lungo processo alla conclusione del quale -una volta ottenuta la grazia - si procedeva ad una pubblica cerimonia di liberazione del reo. Tale cerimonia era il momento di massima celebrazione dell'importanza della compagnia; era l'occasione in cui il privilegio veniva manifestato all'esterno, reso pubblicamente visibile.
Non meraviglia quindi che la documentazione faentina sulla cerimonia sia molto ampia: nei libri dei partiti, in un arco di tempo che va dal 1640 fino al 1749, troviamo relazioni in cui viene descritta, a volte in modo minuzioso, la «Funzione del Bandito» 66. Per quanto riguarda le liberazioni precedenti non vi sono delle vere e proprie relazioni che descrivano le funzioni pubbliche; da un documento del 1611 però apprendiamo che già a questa data tali cerimonie avvenivano. Si tratta di una istanza nella quale i confratelli supplicano le autorità perché «quel putto sia loro dato, consegnato, relassato per presentarlo processio-nalmente nel loro oratorio» 67.
Le relazioni dei vari anni descrivono funzioni spesso differenti, e registrano una serie di progressivi cambiamenti. Nel 1741 i confratelli redassero un particolare resoconto della cerimonia di liberazione, questa relazione - non più inserita nei verbali delle congregazioni - costituiva un vero e proprio libro a sé, e acquisiva un particolare valore attestando l'importanza che si annetteva alla cerimonia.
Il resoconto - intitolato «Rellazione della Funzione del Bandito» 68 - è un documento preciso e minuzioso che testimonia la stabile codificazione cui la cerimonia è ormai giunta: in sostanza
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esso descrive un modello che sarà la base per tutte le funzioni future. Gli uomini della compagnia si radunavano nell'oratorio verso mezzogiorno e una volta indossate «le cappe e pacienzie e capuzi e coperte le loro facie [incamminavano] la loro processione con bellissimo ordine». A questo ordine veniva data grande importanza, i confratelli si disponevano «nel loro luogo di precedenza a tenore della loro dignità ed uffici dei quali venivano condecorati in detta compagnia». Guidava la processione il sagrestano che portava «la croce con il christo solito a prelevarsi nelle funcioni de' condannati alla morte», al suo fianco due servienti in cappa e con torce accese; chiudeva il corteo il cappellano. La processione, cui i confratelli partecipavano con i cappucci abbassati, attraversava la piazza e giungeva sino alle carceri. I due priori e il cappellano entravano nella prigione, «ed ivi riconosciuto il bandito graciatosi, venne questo estratto dalle carceri da un numero competente di sbirri ristretto tra ferri, e catene in figura di attuai condannato, al medemo precedeva il capitano Gaetano Dal Moro Barigello di detta Piazza in habito di galla con lo schioppo in mano»; tutti si accodavano alla processione, la quale riprendeva il cammino e riattraversando la piazza si dirigeva verso la chiesa. Giunti in prossimità di questa, il Barigello levava i ferri al reo e lo consegnava ai due priori, i quali ponendolo tra loro lo conducevano sino all'altare e lo facevano inginocchiare su uno sgabello davanti all'immagine di S. Giovanni Decollato. Il cappellano vestiva il reo di un abito bianco e gli poneva una corona di «lauro reggio con foglie dorate in capo, ed un crocefisso nelle mani in atto di presentarlo a detto Santo». Intanto veniva celebrata la messa e si somministrava la comunione a tutti i presenti. Quindi la processione ripartiva verso la piazza «col sopradeto ordine con li capuzi però alzati e facce scoperte». I confratelli cantando il Te Deum Laudamus e altri salmi compivano un ben ordinato giro intorno alla piazza per poi dirigersi nuovamente verso la chiesa, mentre le campane della torre suonavano in segno di giubilo e allegrezza. Si portavano poi nell'ora torio ove il priore spirituale faceva un discorso di «corecione e d'emenda al condannato graciato», il quale ascoltava il discorso in ginocchio, poi, spogliatosi dell'abito bianco, egli rendeva grazie ai confratelli e se ne partiva "allegramente" 69.
La cerimonia descritta è piuttosto complessa e comprende nel suo svolgimento tre diversi momenti processionali con significati simbolici diversi. Vi è all'inizio della funzione, nella prima processione (dalla chiesa al carcere), un'allusione, un rimando
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all'altra grande cerimonia di cui i confratelli erano protagonisti: quella relativa alle esecuzioni dei condannati a morte, uguale è il crocefisso posto in testa al corteo, uguale anche l'incedere (mesto) dei confratelli con il volto coperto dal cappuccio.
Nella processione di ritorno (dalle carceri alla chiesa) il condannato svolge un ruolo tutto particolare. Egli infatti prende parte al corteo ancora incatenato, circondato da sbirri e preceduto dal bargello in abito di gala, con il fucile in mano quasi si volesse qui alludere al momento della sua cattura. Questo dato sembrerebbe confermato anche dal passo della relazione in cui del reo si dice «ristretto da ferri e catene in figura di attuai condannato» 70. L'allusione serve ad evocare - e non a caso proprio durante la cerimonia di liberazione - la presenza e l’autorità della giustizia e del potere sovrano.
Tutto ciò prelude alla vera e propria liberazione che avviene solo davanti alla chiesa allorché il condannato è fisicamente liberato dalle catene ad opera del bargello, e consegnato al priore della compagnia. Ma la liberazione è anche liberazione spirituale procurata dai confratelli mediante la messa e la comunione, cui il reo partecipa con veste bianca e corona di lauro in capo. A questo punto si procede alla nuova grande processione che si svolge nella piazza, cui i confratelli partecipano con i cappucci alzati: è questa la processione in cui si celebra la liberazione avvenuta, e insieme si esalta l’importanza della compagnia che ha reso possibile tale avvenimento 71.
Anche per la confraternita bolognese si conservano relazioni di cerimonie di liberazione svolte nel corso del '700 72. Alcuni giorni prima che la cerimonia avesse luogo l’invitatore - uno dei confratelli - consegnava a tutti i membri della compagnia degli appositi inviti detti «polizze» 73. Questo sistema di con vocazione era una prassi abituale e necessaria data la complessa struttura della confraternita e l’alto numero di uomini che la componevano.
Il resoconto della cerimonia di liberazione del 1741 74 si apre con l’esposizione deH’itinerario che la compagnia percorreva per recarsi alle carceri. Segue la precisa e minuziosa descrizione dell’ordine con cui la processione si svolgeva: avanti a tutti «l’invitatore di questa arciconfraternita vestito col solito suo abito delle funzioni, sostenendo il consueto bastone alto con l’insegna sopra dell’Arciconfraternita», seguivano due confratelli con torce tinte di nero. Dopo di loro veniva lo stendardo della compagnia poi altri «Arciconfrati in ordine di processione», infine il priore,
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gli ufficiali e il cappellano. Torce accese, salmi cantati dai confratelli, e il tono mesto con cui si procedeva verso le carceri completavano un apparato e una disposizione sicuramente fastosi e di grande effetto, che risultano però molto distanti dalla forza espressiva e dalla forma teatrale delle più simboliche cerimonie faentine. Mancano, in questi rituali bolognesi, quelle scansioni simboliche, quelle figurazioni allusive alle diverse presenze e ai diversi interventi della autorità di giustizia e del potere sovrano. Anche i tempi e i modi della consegna del graziato alla compagnia differiscono notevolmente: non solo o non tanto dal punto di vista della "forma", ma dei significati trasmessi, o meno, attraverso questo passaggio. A Faenza la consegna avveniva pubblicamente davanti alla chiesa della compagnia mediante la liberazione da "ferri" e "catene" operata dal bargello, la cui presenza durante la cerimonia serviva a evocare la forza repressiva della giustizia. A Bologna il passaggio avveniva invece all'interno del palazzo ove erano situate le carceri e solo dopo la regolare presentazione dell'ordine di consegna, secondo la già accennata tendenza al rigoroso rispetto delle procedure mostrata dalla compagnia.
Così nella relazione del 1741 si legge: «Giunti alle carceri ed aperti li rastrelli con la porta però delle carceri, chiusa, dentro questi entrò il signor priore con il suo assistente, dal quale fu detto al custode delle carceri che si era venuto per ricevere il condannato; stante lordine di consegnarlo, che se li presentò, il quale letto che l'ebbe, detto custode, aperse la porta delle carceri, e chiamato il condannato, lo rilasciò libero al signor Priore» 75. Il condannato vestito di bianco con una corona di lauro in testa e una torcia bianca accesa prese parte alla processione stando «da se solo», dietro di lui lo stendardo della compagnia, seguito dagli ufficiali e dal priore. Il corteo si snodava con un lunghissimo percorso fino alla chiesa di S. Giovanni Decollato; dopo la celebrazione della messa, la processione si riformava e si dirigeva nuovamente verso il centro della città dove aveva preso avvio.
La relazione si chiude registrando esplicitamente il tipo di "risonanza" e di "seguito" che la cerimonia aveva nella città: «dopo di che tutti restarono in libertà e restò compiuta questa liberazione, mentre depostasi dal liberato la veste dello Spedale questo andò a suo piacere; dopo aver ricevuto dallo Spedale in questa mattina il pranzo trattenutolo ivi per sfuggire la moltitudine del popolo» 76.
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Nelle relazioni faentine non viene mai citata la presenza di pubblico ma è certo che una tale cerimonia doveva esercitare una forte attrazione. Conferma indiretta dell’interesse suscitato da questi rituali ci viene da una lettera inviata da un reo alla compagnia. Nel suo memoriale Paolo Paganelli, condannato per omicidio accidentale, prega i confratelli di non farlo partecipare alla cerimonia pubblica di liberazione, spiegando che «una tal pubblicità sarebbe di sommo disonore dell’oratore a motivo delle persone con le quali attesa la di lui professione è costretto a trattare, a cui non avrebbe più il coraggio di presentarsi con grave suo danno» e li supplica di esentarlo da «detta pubblicità onde possa egli seguitare a presentarsi con coraggio al di lui padrone» 77. I confratelli dopo un’assemblea decisero che il graziato «si dovesse sottomettere alla pubblica funzione» 78; è chiaro che il carattere pubblico rappresenta uno degli elementi costitutivi della cerimonia, senza di esso la liberazione del reo perderebbe una parte della sua importanza. Abbiamo visto infatti come ogni momento processionale del rituale abbia, almeno qui a Faenza, dei particolari significati simbolici che vengono trasmessi a tutta la comunità.
Va ricordato che un carattere di esemplarità, di spettacolo era presente anche nelle esecuzioni dei condannati a morte: il sistema giudiziario di Ancien Régime considerava la punizione come una vendetta, con la conseguente assegnazione di pene gravi e sanguinose, ed attribuiva ad essa un carattere esemplare ma soprattutto terrorizzante. Così l’amministrazione della giustizia e l’esecuzione delle sentenze capitali acquisivano un alto grado di spettacolarità.
Tra le cerimonie di liberazione e quelle delle esecuzioni capitali vi sono dei legami molto stretti. Forse non è un caso che la relazione in cui i confratelli descrivono la cerimonia abbia come titolo «Rellazione della Funzione del Bandito»; generalmente "funzione” ha il senso di "rituale" ma con questo termine si intendeva pure il rito della esecuzione capitale. Anche letteralmente sembra qui indicarsi un apparentamento, una traslazione di significati da una cerimonia all'altra. Oltre a una similitudine di elementi formali, che abbiamo già descritto, in entrambe le cerimonie vi è una particolare presenza e manifestazione del potere che però prenderà due direzioni diametralmente opposte.
L’esecuzione capitale, massima manifestazione del potere, è in rapporto alla vittima marchiante; Foucault fa notare che il supplizio «è destinato, sia per la cicatrice che lascia sul corpo,
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sia per la risonanza da cui è accompagnato, a rendere infame la vittima» 79, inoltre esso «non riconcilia; traccia intorno o meglio sul corpo stesso del condannato dei segni che non devono cancellarsi; la memoria degli uomini in ogni caso, serberà il ricordo dell'esposizione al palo della gogna, della tortura, della sofferenza dovutamente constatata» 80. Si può dire che l'esecuzione è «un rituale organizzato per il marchio delle vittime e la manifestazione del potere che punisce» 81. ‘
La cerimonia di liberazione, in cui le autorità concedono il perdono, è invece proprio una cerimonia di riconciliazione, in un certo senso di ricomposizione sociale. Al reo si concede la possibilità di tornare nella società, nel gruppo di appartenenza. Si solennizza questo ritorno con una cerimonia in cui è l'autorità giudiziaria che pubblicamente, almeno nel caso faentino, mostra il diritto di perdonare e l'atto del perdono, così come viene ribadito nella seconda parte della Funzione (sbirro che libera il prigioniero).
Per la compagnia il privilegio, nonostante le sue incertezze, costituiva la fonte di un grande prestigio. Tra tutte le pratiche nate in ambito extra-giudiziale fornite dalla confraternita all'amministrazione di giustizia, - e che spesso finivano per influire o intersecare i percorsi giudiziari veri e propri - la liberazione dei rei era quella che permetteva, mediante la cerimonia pubblica, di solennizzare e esaltare davanti agli occhi dei rei e della comunità il proprio ruolo e la propria importanza.
Alessandra Parisini
NOTE AL TESTO
1 Archivio Opere Pie df Faenza (d’ora in poi AOPF), Compagnia di San Giovanni Decollato (d'ora in poi CSGD), Istrumenti Diversi 1534-1716, n. 155, p. 177. L’archivio della compagnia è diviso in tre fondi diversi. Due si trovano all’Archivio di Stato di Faenza (d’ora in poi ASF). Cfr. G. Rabotti, Inventario generale dei fondi degli archivi di stato di Ravenna e Faenza, Bologna 1979, pp. 91-92, 96. L’altro fondo, conservato presso le Opere Pie Raggruppate di Faenza (AOPF), fa parte di un archivio molto ampio ove sono conservati fondi delle Opere Pie, dell’Ente Comunale di Assistenza e della Congregazione di Carità. Questo archivio è stato recentemente trasferito presso l’ASF, ove è depositato l’inventario a cura di Sergio Nepoti.
2 AOPF, CSGD, Istrumenti Diversi, 1534-1716, n. 155, p. 177v.
3 Ibid., p. 164.
4 Cfr. AOPF, CSGD, Istrumenti Diversi 1534-1716, n. 155, p. 241, anno 1583. Del privilegio parla lungamente Regoli computista della Compagnia che redasse una breve storia della stessa contenuta nella Cronologia dei Patrimoni. Cfr. AOPF, CSGD, Cronologia dei Patrimoni 1796, n. 163, p. 8.
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5 Cfr. Regoli, Cronologia cit., G. Donati, La Congregazione di Carità di Faenza 1515-1856, Faenza 1958.
6 Cfr. AOPF, CSGD, Libro di entrate 1584-1592, n. 165, pp. Ir, 2r e 4v.
7 AOPF, Relazioni e Memorie, M. Bosi, Memorie storico economiche della Amministrazione di benefìcienza della città di Faenza, 1850, volume manoscritto, p. 258.
8 AOPF, CSGD, Partiti 1738-1756, congregazione del 31.12.1742, n. 146. I partiti sono rigorosamente in ordine cronologico. Questa congregazione segue quella del 29.8.1741 e precede quella del 16.4.1742. È evidente che si tratta di un errore di citazione, probabilmente la congregazione si svolse o il 31.12.1741 o il 31.1.1742. «Capitoli da servarsi dal custode delle Carceri della Curia Secolare di questa città della regione della Venerabile Compagnia della Morte di Faenza».
9 Cfr. V. Paglia, La Pietà dei Carcerati. Confraternite e società a Roma nei secoli XVI-XVII, Roma 1980, p. 84.
10 Ibid., pp. 84-85.
11 Cfr. Paglia, La Pietà cit.
12 A. Prosperi, Il sangue e Fantina. Ricerche sulle Compagnie di Giustizia in Italia, in «Quaderni Storici», 51 (1982), p. 966.
13 Cfr. Biblioteca Universitaria di Bologna (d’ora in poi BUB), Ms 3933 CAPS XCVI, n. 41, anno 1576, ma anche Ms n° 83, pezzo 4°: «Narrativa di quanto è stato operato dalli signori deH'Arciconfraternita di S. Maria della Morte per la liberazione dall’ultimo supplizio à cui era stato condannato Giuseppe Tassinari da Bertino-ro in Vigore de’ Privilegi che gode detta Arciconfraternita e della solenne funzione fattasi da suddetti signori in tale congiuntura nel presente anno 1741».
14 BUB, Ms n° 83, pezzo 4°.
15 Cfr. BUB, Ms 3933 CAPS XCVI, n. 41, anno 1577.
16 Archivio di Stato di Perugia (ASP), Ex Compagnia di Carità Confraternita dei SS. Andrea e Bernardino della Giustizia. 3) Giustiziati ed oblati alla croce 1525-1826, passim. Si tratta di una liberazione eseguita il 25 dicembre 1548 in cui il privilegio viene definito come una consuetudine in uso già da diverso tempo: «essendo questo dì detto il Venerdì Santo secondo il solito lodevole costume condonato».
17 Regou, Cronologia cit., p. 2.
18 Paglia, La Pietà cit., p. 201, nota 197.
19 Prosperi, Il sangue cit., p. 981.
20 Cfr. Paglia, La Pietà cit., p. 201, nota 197.
21 Cfr. AOPF, CSGD, Libro per i liberati 1585-1635, n. 150.
22 Ibid., le liberazioni furono effettuate negli anni 1626, 1627, 1628, 1634, 1639, 1640, 1643.
23 Cfr. AOPF, CSGD, Libro per i liberati cit., p. 62; lettera da Roma del 13 ottobre 1605.
24 AOPF, CSGD, Istrumenti Diversi 1534-1716, n. 155, p. 243.
25 Ibid. Cfr. Regou, Cronologia cit.
26 AOPF, CSGD, Statuti, Privilegi, Atti Ufficiali, Inventari 1567-1798, n. 137, 2° Breve di Clemente Vili (1601), confermante il diritto di liberazione dei banditi.
27 Ibid.
28 AOPF, CSGD, Partiti 1738-1765, n. 146, congregazione del 7.6.1758.
29 AOPF, CSGD, Libro per i liberati cit., 21.8.1603, p. 54.
30 Ibid., p. 84.
31 Ibid., p. 86.
32 AOPF, CSGD, Istrumenti Diversi 1534-1716, n. 155, p. 150.
33 Paglia, La Pietà cit., p. 202.
34 Ibid. La procedura proseguiva con la notificazione della grazia alla cancelleria criminale, e la cerimonia di liberazione.
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35 Cfr. BUB, Ms n° 83 cit.
36 Cfr. M. Fanti, La Confraternita di S. Maria della Morte e la conforteria dei condannati in Bologna nei secoli XIV e XV, in «Quaderni del centro di ricerca e di studio sul movimento dei disciplinati», n. 20, Perugia 1978. Fanti spiega che verso la fine del secolo XIV l’attività della confraternita si allargò all'assistenza verso i carcerati. Fu così che oltre all'attività dell'ospedale e della conforteria venne fondata l’«Opera Pia dei Carcerati». Nel 1592 quando Clemente Vili soppresse le prefetture delle carceri dello Stato Ecclesiastico, l’Arcivescovo coadiutore di Bologna Pa-leotti assegnò la prefettura delle carceri alla stessa confraternita della morte.
37 Cfr. BUB, Ms n° 83 cit., cc. 2r, 2v. Il documento non è numerato, per esigenze di citazione ho provveduto a numerarlo segnando le carte con l'indicazione di recto e verso abbreviate r e v.
38 Ibid., c. 4r.
39 Ibid., c. 5r.
40 Cfr. AOPF, CSGD, Libro per i liberati cit., ma anche AOPF, CSGD, Istrumenti Diversi 1534-1716, n. 155.
41 AOPF, CSGD, Istrumenti Diversi 1534-1716, n. 155, 30 agosto 1703, p. 177. Verbali come questi sono presenti in buon numero anche all'interno dei Libri dei Partiti.
42 AOPF, CSGD, Partiti 1630-1654, n. 138; congregazione del 27.6.1639, p. 20.
43 AOPF, CSGD, Libro per i liberati cit., 28.8.1587, p. 12.
44 Ibid. (
45 Cfr. Ibid., congregazione del 28.7.1588, p. 16.
46 Conferma che l'autorità concedente la liberazione fosse, almeno nei primi anni, proprio il Presidente la abbiamo anche da alcuni documenti ove troviamo scritto: «Gli huomini della Compagnia della morte [...] sono soliti ogni anno per la festa di S. Giovanni Decollato impetrar dalli rettori della Provintia di Romagna la liberazione di un condannato capitalmente», in AOPF, CSGD, Libro per i liberati cit., 28.7.1588, p. 16.
47 Ibid.
48 AOPF, CSGD, Istrumenti Diversi 1534-1716, n. 155, 30.8.1703, p. 177.
49 Ibid., p. 177v.
50 Ibid., p. 177r.
51 Paglia, La Pietà cit., p. 203.
52 Cfr. AOPF, CSGD, Libro per i liberati cit., p. 57.
53 AOPF, CSGD, Istrumenti Diversi 1534-1716, n. 155, 28.8.1703; il relasso si trova in un foglio sciolto, numerato nel verso (179) e posto tra le pp. 177-78.
54 Cfr. AOPF, CSGD, Libro per i liberati cit.
55 Ibid., p. 48, agosto 1600; caso di Vincenzo De’ Benedetti.
56 Ibid., p. 78.
57 Ibid., p. 73.
58 Ibid., pp. 24 ss.
59 Ibid.
60 Ibid., p. 24v.
61 Ibid., pp. 75 ss.
62 Ibid.
63 Ibid.
64 Cfr. Regoli, Cronologia cit., p. 2. Non esistono elenchi ufficiali di confratelli cui fare riferimento (si ha notizia di un primo elenco cinquecentesco che però è andato disperso), qualche nome si trova nei verbali dei Partiti, ma spesso privo di titolo. Solo nei Partiti della seconda metà del '600 troviamo accanto ai nomi dei confratelli i titoli: solitamente si tratta di cavalieri, dottori, canonici o capitani.
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65 Cfr. AOPF, CSGD, Libro per i liberati cit., p. 78.
66 Cfr. AOPF, CSGD, Partiti. Le relazioni di liberazione sono contenute nell’intera serie dei libri dei Partiti. La prima relazione è del 1640 e si trova in: Partiti 1630-1654, n. 138; congregazione del 20. 5.1640, p. 38v.
67 AOPF, CSGD, Libro per i liberati cit., pp. 75 ss.
68 AOPF, CSGD, Statuti, Privilegi, Atti Ufficiali, Inventari 1567-1798, n. 137, 4°: «Rellazione della Funzione del Bandito».
69 Ibid.
70 Ibid.
71 A questo proposito cfr. Prosperi, Il sangue cit., p. 981.
72 Cfr. BUB, Ms n° 83, pezzo 4°; ma anche Ms n° 231 Miscellanea, pezzo 10°: «Due Memoriali dell'Arciconfraternita della Morte dati in tempi diversi agl'Emi-nenti Cardinali Alberoni e Doria Zagati con li quali ottennero la liberazione di due condannati a Morte. Con infine la Descrizione della funzione fatta in tale congiuntura».
73 Cfr. BUB, Ms n° 83, pezzo 4°, c. 5v.
74 Ibid., c. 6r.
75 Ibid., c. 6v.
76 Ibid., c. 8v.
77 AOPF, CSGD, Partiti 1779-1794, n. 148. La supplica di Paganelli si trova in un foglio non numerato tra le pp. 76-77.
78 Ibid., 14.5.1784, p. 77.
79 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino 1976, p. 37.
80 Ibid., p. 38.
81 Ibid.