LA CITTÀ DEI VIVI E LA CITTÀ DEI MORTI. RELIQUIE, DONI E SEPOLTURE NELL'ALTO MEDIOEVO

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Title
LA CITTÀ DEI VIVI E LA CITTÀ DEI MORTI. RELIQUIE, DONI E SEPOLTURE NELL'ALTO MEDIOEVO
Creator
Luigi Canetti
Date Issued
1999-04-01
Is Part Of
Quaderni Storici
volume
34
issue
100 (1)
page start
207
page end
236
Publisher
Società editrice Il Mulino S.p.A.
Language
ita
Format
pdf
Relation
Storia della follia nell'età classica, Italy, Rizzoli, 1963
Rights
Quaderni storici © 1999 Società editrice Il Mulino S.p.A.
Source
https://web.archive.org/web/20230921080619/https://www.jstor.org/stable/43779898?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoyNSwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjYwMH19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A6e74b23a9b179f25f848a50e74b391d4
Subject
exclusion (of individuals and groups)
surveillance
disicpline
biopower
extracted text
LA CITTÀ DEI VIVI E LA CITTÀ DEI MORTI. RELIQUIE, DONI E SEPOLTURE NELL’ALTO MEDIOEVO
Preliminari
1. I morti, come categoria sociale irreversibilmente disgiunta da quella dei viventi (e non più membri e titolari di un peculiare status di esistenza), e la conseguente nascita della morte come entità fantasmatica funzionale alla produzione dell’immaginario sociale di un aldilà concepito secondo la logica cumulativo-retributi-va originatasi dalla rottura di quell’ordine simbolico che aveva sempre regolato l’economia della reciprocità coi trapassati, sono il prodotto di quel processo bimillenario di acculturazione cristiana dell’Occidente, di cui i secoli di passaggio tra Antichità e Medioevo (III-Vili) hanno posto le fondamenta. Il concetto di immortalità è pertanto inscindibilmente connesso, in senso storico-antropologico, alla progressiva estradizione e segregazione dei morti dalla città, e alla rottura dello scambio simbolico con essi \ Come attraverso la reclusione dei folli nei primi secoli dell’età moderna si è istituita nella rappresentazione sociale rubricata autoritativamente come pazzia una linea di demarcazione efficace tra normalità e alienazione mentale2, così una stessa logica disgiuntiva ha dispiegato una grandiosa strategia di esilio sociale dei morti. E a quegli stessi morti una casta politico-sacerdotale, dispensatrice del destino ultimo degli individui, avocando a sé il diritto esclusivo di mediazione e il conseguente potere d’intercessione (letteralmente, il «mettersi in mezzo», il frapporsi tra i vivi e i morti, che è poi la condizione di quei morti particolari, i santi, di cui proprio la chiesa cattolica, a partire dal III-IV secolo, sancisce stato, identità e prerogative), ha conferito un privilegio ignoto all’ordine primitivo, quello, appunto, dell’immortalità 3.
Se è vero, come ha scritto di recente Jean-Michel Sallmann, che «il santo non muore mai»4, ciò non va inteso semplicemente come banale corollario empirico della progressiva definizione teologica dello statuto ultraterreno di quei morti eccezionali, bensì, e
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assai più radicalmente, come evidenza del fatto che egli non è mai definitivamente sottratto al circuito dello scambio simbolico, come avrebbe invece contestualmente iniziato a verificarsi, e soprattutto a esigersi, per i cadaveri comuni. Come ha scritto Jean Baudrillard, «l’emergere della sopravvivenza si può quindi analizzare come l’operazione fondamentale della nascita del potere. [...] Spezzare l’unione dei morti e dei vivi, infrangere lo scambio della vita e della morte, districare la vita dalla morte [...], ecco il primissimo punto di emergenza del controllo sociale»5. E dunque la realtà della morte (della nostra morte) a nascere dalla fede nella resurrezione - ovvero, dalla proiezione immaginaria della sopravvivenza nell’aldilà, all’instaurarsi della logica disgiuntiva che ci ha sottratto per sempre alla comunione simbolica coi morti - ben più di quanto quella stessa fede abbia potuto originarsi, secondo un’ovvia ma improponibile deduzione psicologistica, dalla paura ancestrale e universale della morte6.
2. A partire da una precedente ricerca, e in vista di un eventuale tentativo futuro di sintesi, ho provato a riformulare e ad inquadrare la questione non già delle «origini» bensì della progressiva espansione e diffusione del culto dei santi e delle reliquie nella cristianità tardoantica nel problema più generale (e squisitamente storico-antropologico) dello statuto culturale del cadavere nell’arco dei secoli di passaggio tra Antichità e Medioevo7. E dunque anche di proporre un ripensamento del problema cruciale della virtus attribuita alle reliquie come un aspetto della più generale vitalità e multiforme presenza dei morti nelle società del primo Medioevo, mediata dall’effettiva sussistenza e dal rapporto socialmente istituito e perciò ritualmente e culturalmente mediato con i loro cadaveri, concepiti, questi - è bene ricordarlo alla nostra bassa sensibilità antropologica ormai totalmente biomedicalizzata -, non già come oggetti ma, appunto, come presenze reali delle persone cui erano associati, viventi in uno status esistenziale diverso e non sempre irreversibile8. Uno status che, a partire dall’antica condizione generale e fondamentalmente indistinta dei trapassati, venne via via articolandosi in forme differenziate ed anche privilegiate 9, sino alla loro radicale e definitiva separazione ontologica e correlativa oggettivazione concettuale, generatrice di una ridislocazione sociale e topografica, nel pensiero e nella legislazione a partire dalla prima età carolingia. E questo, infatti, il periodo identificato da importanti studi recenti come quello che vide la messa a punto del sistema funerario-cemeteriale che si sarebbe imposto all’Occidente cristiano, senza grandi fratture sostanziali, sino a tutto



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il XVIII secolo 10. Vorrei anzi qui suggerire l’ipotesi che proprio il grande processo di separazione dai morti e la correlativa neutralizzazione teologica, scientifica e canonistica che portò nell’arco di mezzo millennio (III-Vili secolo) alla desacralizzazione dei cadaveri (sia quelli dei comuni cristiani sia quelli riconducibili alla categoria dei resti martiriali, che entrarono stabilmente nel cimitero annesso alla chiesa del villaggio o, trionfalmente, nel recinto/sa-crario della città episcopale) e all’esclusiva maitrise ecclesiastica del rapporto con l’aldilà, abbia rappresentato nella storia culturale dell’Occidente un passo fondamentale nel grande processo di oggettivazione del mondo delle cose e della costituzione della soggettività moderna n. Quel grande processo disgiuntivo fu tutt’uno con il graduale superamento dell’antica eteronomia del dono, forma sintetica a priori dei rapporti sociali premoderni di cui lo scambio simbolico coi morti rappresentava in un certo senso il paradigma metonimico, a favore dell’autodeterminazione del nómos, della téchne e del mercato 12 : la generale mercificazione del reale che ha condotto infine l’Occidente contemporaneo alla rottura del legame sociale (la dimensione olistica di cui parla Louis Dumont) e all’esasperazione di un paradossale individualismo utilitaristico, non rappresenta, forse, che l’aspetto più macroscopico di quella grande dinamica separativa 13. E la conseguente rimozione attuale dei morti e della morte dall’agenda delle preoccupazioni sociali quotidiane costituisce allora qualcosa di più di un sintomo o di un semplice epifenomeno (a ciò, mi pare, lo riducevano Ariès e, con lui, tutti i nostalgici del vecchio ordine della «mort apprivoisée»), lasciandosi invece configurare come il luogo emblematico in cui s’iscrive l’impotenza semantica della tarda modernità verso il proprio passato, e in cui si scorge la fine di ogni residua illusione proiettiva del mito ottocentesco di civilizzazione 14.
1. Reliquie e cadaveri. Tra eredità delle «vieilles croyances» e «change and continuity» di una società e dei suoi simboli
1. Nel suo celebre Contributo a uno studio sulla rappresentazione collettiva della morte (1907), Robert Hertz, il geniale antropologo del primo Novecento, aveva osservato che «l’esistenza stessa di un culto delle reliquie presuppone il concetto che tra la collettività dei vivi e quella dei morti non vi sia un’assoluta soluzione di continuità» 15. Un’affermazione di portata generale, anche, direi, nel suo implicito corollario secondo cui non si dà propriamente culto delle reliquie, che è cosa comunque diversa e irriducibile a una



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qualsiasi forma di generica sindrome feticistico-melanconica del-T«oggetto assente» 16, in una società, come quella occidentale moderna, che ha ormai sostanzialmente consumato quella soluzione. Un’affermazione, inoltre, che non sembra facilmente opinabile, malgrado l’implicito riferimento al contesto indonesiano di un’indagine che pur sottende evidenti ambizioni comparatistiche 17. E anche ammesso che la circolazione del Contributo al di fuori della cerchia specialistica degli etnologi non sia stata in realtà così scarsa come attestano le citazioni dirette, non mi sembra che le riflessioni di Hertz abbiano ricevuto finora dagli storici del cristianesimo, e in particolare dai medievisti, tutta la considerazione che esse potrebbero meritare per lo studio di quel contesto di credenze escatologico-funerarie, in rapporto al quale può trovare un’adeguata collocazione un fenomeno come il culto dei santi18.
Le riflessioni che svolgerò in questa sede, tese soprattutto ad animare una possibile discussione, sono tutte ancorate all’ipotesi che il culto cristiano delle reliquie abbia rappresentato una grande formazione culturale di compromesso 19, sulla cui elaborazione, quantomeno nel lungo periodo, avrebbe pesato considerevolmente la risposta reattiva della religiosità tradizionale di fronte all’interruzione dello scambio simbolico arcaico con la società dei morti20. Frattura largamente determinata dalle profonde e lunghe ripercussioni del dogma paolino dell’eternità differita (esito della frustrazione dell’attesa parusìaca e della corrispettiva apologetica del ritardo), qual è sotteso alla speranza escatologica di resurrezione dei morti21. Una eternità intesa vieppiù come equivalente generale, nell’ordine contabile del valore, dei comportamenti in rapporto ai quali si veniva ora a determinare la nuova economia della retribuzione salvifica22.
2. Scontata ormai l’attribuzione al grande repertorio delle polemiche storiografiche tardopositivistiche (Religionsgeschichtliche Schule) ogni residua ipotesi di continuità o successione diretta tra culto eroico e culto mattinale23, e d’altra parte ammessa senza imbarazzi l’impossibilità di non rilevarne analogie morfologico-fun-zionali e persino continuità di lunghissimo periodo sul piano del vissuto cultuale e terapeutico (basti rinviare al millenario persistere dell’antico rituale d’incubazione24), la natura sincretistica di questo grande nucleo di credenze e comportamenti relativi al mondo dei morti è largamente comprovata dalla straordinaria fortuna e lunga diffusione così in Occidente come in Oriente almeno a partire dal IV secolo, della prassi di sepoltura ad sanctos, con quanto essa avrebbe significato proprio nei termini di un vigoroso retag-



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gio e manifesta continuità di alcuni fra i capisaldi della cultura funeraria precristiana25. Si pensi, innanzitutto, alla solidarietà quasi simbiotica tra condizioni concrete di sepoltura dei resti mortali (integri o parcellizzati che fossero) e stato effettivo del morto nel-l’«aldilà»: un’idea, come già ben intesero Henri Leclercq e Franz Cumont, riconiugata ma non certo abolita nel lessico cristiano della corporeità, laddove il riposo inviolato del defunto «nel ventre della terra» diveniva, nella fede dei credenti, grandi teologi compresi, e nonostante ciò che potè sostenere Agostino nel De cura prò mortuis, implicita condizione essenziale per la futura resurrezione, come in anni recenti ha potuto documentare, sulla base della lettura sinottica di svariate tipologie di fonti greche e latine collocabili fra il III e il VII secolo, un’importante ricerca di Yvette Duval26. Si ponga mente, ancora, alla vischiosa e millenaria continuità delle pratiche necromantiche, altra spìa, al di là di una loro precoce e significativa demonizzazione, dell’ostinato persistere della credenza in una qualche forma di vitalità dei cadaveri e in una loro solidarietà con le «anime» dei defunti27.
Quella solidarietà, nella forma di una stretta associazione funzionale tra inviolabilità della tomba e del corpo del morto e stato effettivo di quest’ultimo nel nuovo spazio-tempo sociale che gli compete, ovvero, in altri termini, la riconiugazione dell’antica quies nel nuovo lessico cristianizzato di una requies che, suffragata ora e ritualmente sancita nelle forme ortodosse della preghiera ecclesiale d’intercessione, si fa premessa della futura resurrezione, sembra ancora attestata nelle fonti di età carolingia. Ma a questo proposito si deve appunto osservare come, dalla fine dell’VIII secolo, l’idea di una protezione diretta del santo nei riguardi dei corpi sepolti accanto alla sua memoria ceda progressivamente il passo all’affermarsi del valore di redenzione della preghiera liturgica celebrata dai chierici a beneficio delle anime dei defunti28. In una grande ricerca consacrata all’efficacia memoriale di sepolture e liste episcopali dell’Italia superiore dalle origini al X secolo, Jean-Charles Picard aveva potuto concludere che proprio a partire dagli inizi dell’età carolingia la salvezza del defunto non fosse più garantita dalla sepoltura in prossimità della reliquia, o meglio, che l’efficacia della sepoltura ad sanctos avesse ormai mutato di significato: decisiva appare da quel momento la mediazione liturgica che si traduce nel ruolo d’intercessione esercitato dai chierici (chierici secolari nel mondo cittadino italico, contrariamente ai monaci prevalenti in area franco-tedesca), in modo tale che il ruolo del santo si sdoppia e si ripete in quello dell’officiante, specialista della preghiera di suffragio diretta al santo, che a sua volta intercede pres-



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so Dio29. L’individuo verrà dunque salvato soprattutto grazie al moltiplicarsi delle orazioni recitate a suo favore in forme vieppiù codificate e ritualizzate, nel quadro di una nuova coscienza penitenziale che coinvolge il significato stesso della preghiera per i morti30. Dunque, anche in tal caso, si registra il passaggio da un rapporto di scambio simbolico diretto (mediato dai corpi sepolti) tra vivi e morti, a una relazione più astratta e spirituale filtrata dall’organismo ecclesiastico e dalla dottrina del corpo mistico, base teologica del potere d’intercessione dei santi31; dalla prassi dello scambio diretto dei doni a quella, figlia della nuova economia paolina della retribuzione soterica, fondata sull’idea di riscatto dei peccati attraverso Vaccumulazione dei meriti32. Anche se, a giudicare dal peso ancor decisivo delle reti dei rapporti parentali e corporativi nei meccanismi pur sempre ricodificati d’intercessione liturgica, si ha la netta impressione che, trasferiti e cristallizzati su di un piano di affermata concettualizzazione ecclesiologica su basi escatologiche - supporto ideologico decisivo a garantire e distribuire secondo nuovi criteri sociologici il premio salvifico -, continuassero a persistere nell’implicito delle coscienze e dei comportamenti gli antichi vincoli di reciprocità simbolica tra vivi e morti, mediati e garantiti dallo scambio circolare dei doni tra i nuovi ovvero ridefiniti gruppi sociali e nuclei di potere territoriale 33.
2. Reliquie, cimiteri e sepolture
1. Se è vero, come ha scritto Robert Markus a proposito del IV secolo, che «portando i martiri nella città, il cristianesimo riportava i morti tra i viventi»34, si dovrà pur tener conto che la desacralizzazione del cadavere da ciò implicata e promossa (cioè a dire, la sua reificazione in corpo senza vita, sia pur in attesa di una futura e definitiva ricomposizione trasfigurata35) potè avvenire proprio e soltanto in virtù della separazione radicale, sul piano escatologico e teologico-antropologico, che si affermava appunto con il cristianesimo, tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Iniziava così la progressiva interruzione dello scambio simbolico arcaico tra due segmenti della società (quasi «classi di età», per dirla con Hertz e Van Gennep), che soltanto ora divenivano appunto due mondi ontologicamente differenziati e non più comunicanti se non attraverso quei pochi canali normativamente previsti dalla chiesa stessa e in ogni caso da essa gestiti: tale, come si è detto, fu soprattutto l’instabile compromesso cristallizzatosi fra IV e V secolo, pur tra infinite discussioni e motivi polemici periodicamente ride-



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statisi in momenti di grande ridefinizione ecclesiologica e dunque anche escatologica della cristianità (il IX, l’XI-XII e il XVI secolo) 36, nel culto delle reliquie dei santi, mentre furono sempre più emarginati tutti quei fenomeni mantico-visionari che registravano l’oggettiva presenza e proclamavano la continua e inaccettabile interferenza diretta (ovvero non mediata dalla gerarchia ecclesiastica, sola interfaccia autorizzata tra i due mondi, quale unica depositaria legittima della paràdosi cristologica nella gestione della nuova economia soterica) tra il tempo-spazio dei defunti e quello dei viventi 37. Ecco, allora, la diffusione e la grande sistematizzazione canonistica e rituale dei gesti e dei segni autorizzati di mediazione liturgico-sacramentale della salvezza (penitenza, viatico, estrema unzione, liturgia funebre e celebrazioni periodiche di suffragio, memento al canone della messa e svariate preghiere d’interecessio-ne, confraternite prò defunctis, libri memoriales e libri vitae, ecc.), e dei luoghi tempi e soggetti (monaci, in primo luogo, ma anche chierici secolari) deputati alla mediazione istituzionale fra il mondo dei morti e quello dei viventi che si apprestavano a raggiungerli, e che attraverso il meccanismo circolare dei doni e dei suffragi potevano pur sempre acquietarne le richieste salvaguardando altresì le basi della memoria familiare radicatasi sulle tombe degli antenati, riflesso topografico - appena obliterato dall’erezione di una cappella funeraria - delle vecchie reti di solidarietà familiare, che invano la pastorale cristiana si sforzava di eradicare o quantomeno di riassorbire e subordinare al nuovo vincolo battesimale38. Quella separazione, quel rapporto esclusivamente spirituale e collettivamente mediato dalla realtà mistico-sacramentale deWEcclesia e non più dalle reti socio-biologiche di parentela, che erano stati autorevolmente sanciti e prescritti nel De cura di Agostino, proprio a causa delle profonde associazioni topografico-memoriali tradizionalmente radicate nei luoghi di sepoltura familiare, e in virtù della persistente attribuzione di una qualche forma di vitalità a cadaveri più e meno privilegiati (santi, biaiothànatoi, ataphoi, ecc.), avrebbero richiesto più di un millennio per radicarsi nelle abitudini mentali e nella pratica dei cristiani. Fu il grande processo, ormai ben conosciuto non soltanto nelle sue linee generali, concepito ed attuato dalla razionalità teologico-ecclesiastica - e poi via via dai suoi eredi secolarizzati ovvero dai succedanei campioni più e meno illuminati della razionalità scientifica, tecnologica ed economica -, di addomesticamento della cultura folklorica, cioè a dire, in ultima istanza, di obliterazione e snaturamento delle forme di razionalità alternativa e, in primis, della logica del dono e dello scambio simbolico, che era a quelle sottesa 39.



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In età carolingia, quando, a livello teologico e normativo, la separazione tra i vivi e i morti e la chiarificazione delle basi dello statuto antropologico-escatologico di questi ultimi era ormai per sempre acquisita all’Occidente cristiano nei termini di una loro collocazione nello stato di anime separate in attesa della ricomposizione finale40, ed ogni forma di indebita ovvero immediata commistione e interferenza tra i due piani di realtà fu sempre più fermamente repressa, si registrava, e pour cause, anche l’awenuta obliterazione della remora arcaica della contaminazione ovvero della sacertà dei cadaveri comuni (non privilegiati). Anche se persisteranno ancora vivissime e per molti secoli le credenze ancestrali relative alla potenza infausta dei cadaveri assimilabili alla categoria dei biaiothdnatoi (impiccati, suicidi, e in genere tutti coloro che subivano una morte violenta), il cui destino intermedio e irrisolto appare per molti versi tipologicamente assimilabile a quello ortodosso (o meglio, ortopratico) dei cadaveri santificati dei martiri cristiani41, l’ingresso dei morti ordinari nelle città, già attestato sporadicamente in tutta l’area mediterranea a partire dal V-VI secolo42, e la relativa normalizzazione prevista in ambiente rurale per i cimiteri annessi alle chiese battesimali dalla legislazione (ancor più che dalla prassi effettiva) della piena età carolingia43, insomma, tutto il convergere verso la città dei viventi e il fondersi con essa delle aree e degli spazi riservati ai morti rappresenta un’evidente proiezione territoriale di quel processo avviatosi nel IV secolo con la progressiva valorizzazione urbanistica delle aree sepolcrali decontaminate (ovvero, cristianamente, santificate) dal sangue «innocente» dei martiri. Come ha scritto Cécile Tréffort, se fu precoce in ambiente urbano, pur tra non poche e comprensibili resistenze44, «le mouvement de rapprochement entre les morts et les vivants trouve sa première manifestation généralisée à la campagne» 45.
La desacralizzazione del cadavere, cioè a dire l’obliterazione della sua dynamis contaminante e perciò anche delle sue temute virtualità di medium con il mondo dei morti, fu dunque in certo senso favorita dallo spostamento metonìmico di tali energie - rese fauste e perciò in qualche misura controllabili e definibili dalla legittimazione ecclesiastica del culto prestato nelle debite forme - su alcuni cadaveri privilegiati, la cui nuova figura sacrale (indipendentemente da ciò che i semplici fedeli avrebbero potuto percepire e invero realmente recepirono: le forme di vischiosa continuità di prassi e categorie arcaiche di cui sopra ho parlato mi paiono sin troppo eloquenti a riguardo) andava ora peculiarmente intesa nei termini cristomimetici di memoria e testimonianza, e non più in



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quelli ancestrali di potenza oggettiva e perciò intrinsecamente efficace e contaminante. La sacralità partecipata della reliquia rimandava infatti alla fonte (cristologica, in ultima istanza) della dynamis del santo46: si trattò dunque di una sorta di concessione tattica alla religiosità tradizionale (e non «popolare»), che la pastorale postnicena sollecitò par contrecoup - come ebbe a dire il Pietri -, ovvero accettò come ineludibile compromesso, alla rigida cristologia del mediatore unico impostasi definitivamente al subordinazio-nismo ariano? 47 Oppure la potenza della reliquia era un semplice surrogato o un succedaneo delle potenze intermedie, in un cristianesimo impregnato di pesanti eredità neoplatoniche, o comunque costretto a fare i conti con quella sorta di teismo polimorfico della visione tardo-pagana del mundus, come sembrano suggerire le ultime proposte di Peter Brown? 48 Ovvero, infine, e senza escludere il valore euristico di tali ipotesi tenendo conto dell’opportuno invito di Van Uytfanghe a evitare monocausalismi di sorta49, si trattò in sostanza di un compromesso strategico concretatosi nella concessione di una peculiare (ossimorica) forma di eternità anticipata - la potenza attuale del santo presente nella reliquia -, che veniva oggettivamente a ricoprire, integrandola di nuovi contenuti, una structure d’accueil che si evidenzia nel permanere di concezioni arcaiche della potenza dei morti dietro la patina di un’escatologia troppo razionale quale doveva apparire dagli scritti di un Agostino?
Questo processo di ridislocazione della sacralità negativa dei cadaveri comuni verso la santità ovvero la sacralità positiva dei resti martiriali (e l’ulteriore estensione e concentrazione metonìmica di essa verso la potenza della reliquia nell’ortoprassi cultuale, a beneficio di ogni categoria di santi in quanto tendenzialmente assimilabile al paradigma fondativo della testimonianza cruenta50), sintomo e causa allo stesso tempo di una corrispondente deconta-minazione/reificazione dei cadaveri e della correlativa ridefinizione degli spazi liminali e relazionali tra i vivi e i morti, fu un percorso tutto sommato abbastanza rapido se commisurato ai tempi lunghi di transizione epocale delle culture. Potremmo paragonarlo a quel ben noto paradosso della storia del cristianesimo antico, in virtù del quale la croce, in quanto emblema suppliziale, carico, per così dire, di quell’alone di sacralità/impurità sotteso a tutto ciò che in qualche modo si collegava alle esecuzioni capitali (dal sangue dei condannati agli strumenti di tortura, dei quali è noto l’utilizzo ma-gico-terapeutico ancora in età moderna51 ), tardò non poco a venir ammessa al novero dei simboli sacri, ma, una volta accolto, diventò il più sacro di tutti52. Allo stesso modo i corpi martirizzati,



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dopo non lieve resistenza all’ammissione nella città in quanto pur sempre cadaveri, e soprattutto in quanto cadaveri peculiarmente potenti e contaminanti di uomini giustiziati, una volta infranto il vincolo disgiuntivo (a un tempo esclusivo e inclusivo) della loro sacralità, divennero il fulcro della devozione e del culto cristiano altomedievale, disinnescando per contraccolpo l’immanente sacralità (e dunque favorendo l’oggettivazione) dei resti mortali comuni 53.
In anni recenti Florence Dupont e Carlo Ginzburg, muovendo da differenti presupposti e itinerari ma giungendo a risultati simili, si sono soffermati sul rituale romano della consecratio imperiale per mezzo del funus imaginarium (rogo dell’immagine, successivo all’incinerazione del cadavere), già studiato da Elias Bickerman in un famoso saggio del 1929 54. Ginzburg, tra l’altro, ne lascia intendere il possibile parallelismo, sul piano dell’analogia funzionale, con il rituale di doppia sepoltura analizzato da Robert Hertz55. Varrebbe forse la pena di chiedersi se anche la elevatio dei martiri (anteriormente al secolo XII vero e proprio rituale di santificazione, sancita dal convergere di vox populi e autorità episcopale), e dunque la loro analoga sottrazione alla sorte dei cadaveri comuni, non debba situarsi in un rapporto di continuità morfologico-ritua-le, o quantomeno di analogia sul piano funzionale (pressioni analoghe che producono, in circostanze diverse, risultati simili o convergenti), con il vecchio rito della consecratio imperiale. Con l’espressione seconde esequie, ovvero doppia sepoltura, Hertz intendeva, propriamente, la «traslazione delle ossa purificate dal luogo di deposito temporaneo in un sepolcro definitivo di carattere collettivo» 56. Esiste allora una relazione analogica, se non forse un rapporto, più o meno diretto, di filiazione o comunque di relazione storica, tra la prassi rituale della doppia sepoltura - attestata in Europa, almeno nei casi di re, principi e prelati, sino al pieno Rinascimento57 - e la riesumazione, allo scadere del primo anniversario, dei corpi dei morti in odore di santità in vista di una traslazione formale? 58 E risaputo che la santità di costoro, nell’immaginario dei credenti, sarebbe stata principalmente attestata dal mantenimento di un’integrità corporea che ne sanciva la radicale estraneità rispetto al destino di putrefazione riservato ai comuni mortali59. Tale integrità non prefigura semplicemente un destino di futura beatitudine, ma attesta già, nell’Zw et nunc, l’immediato raggiungimento - senza passare dunque attraverso la fase contami-nante/espiatoria dello stato di morte, coincidente appunto con il tempo di decomposizione corporea, fissato ritualmente in dodici mesi - di quella pienezza ontologica di perfezione che i semplici



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battezzati avrebbero conseguito soltanto dopo un penoso transito per una lunga fase «decontaminante» (lo stato interinale che fu poi lentamente assorbito nella dottrina medievale del Purgatorio), e in ogni caso all’indomani della risurrezione finale dei corpi in occasione del Giudizio 60.
D’altra parte, la crescente spiritualizzazione ovvero la nuova istanza (astratta dagli antichi vincoli di solidarietà socio-biologica) di mediazione liturgico-sacramentale, che dal VII-Vili secolo doveva regolare sempre più il rapporto triangolare con il mondo dei trapassati, così sottratti al circuito primario dello scambio simbolico gestito direttamente in ambito parentale, non potè che innescare un progressivo depotenziamento dell’oggettivo valore memoriale (legato all’arcaica efficacia sacrale) del luogo di conservazione dei resti mortali e dello stesso corpo del morto, sempre più reificato in cadavere; un valore memoriale che verrà ora soggettivamente preso in carico dall’efficacia esclusiva della preghiera liturgica. Tutto ciò non poteva che influire pesantemente sulla stessa relazione topografica tra i vivi e i morti, e favorire così il conseguente, tendenziale processo di avvicinamento e integrazione fra i cimiteri e i centri abitati, quale ormai ampiamente attestato in età carolingia61.
2. In uno studio pubblicato quasi vent’anni or sono, e sfuggito, mi pare, all’attenzione generale dei cristianisti, Patrick J. Geary avanzò l’ipotesi dell’esistenza di un legame storico tra l’affermazione definitiva, nell’Occidente dell’VIII secolo, dell’uso di trasferire e riesumare i resti dei corpi santi e l’abbandono delle pratiche fu-nerario-cemeteriali caratteristiche della Reihengràberzivilisation, le tombe allineate della civiltà merovingia62, che prevedevano an-ch’esse, tra le altre cose, il rispetto dell’intangibilità dei sepolcri e dei corpi degli antenati. Quel rapporto non dovrebbe ovviamente venire inteso nel senso di una causalità diretta e monodirezionale ma come espressione morfologico-sistematica o, se si vuole, evidenza sintomatica e indiziaria di un’evoluzione strutturale e ben documentabile delle comuni rappresentazioni circa il rapporto fra società dei vivi e società dei morti63.
Innanzi tutto, si possono rilevare le forti somiglianze emergenti da un confronto del trattamento altomedievale delle reliquie (che erano pur sempre corpi di persone morte ovvero parti di esse) con quello generalmente riservato ai morti nella Reihengràberzivilisa-tion, cioè a dire, in primo luogo, in quel mondo franco-merovingio che più tardi, con l’espansione continentale della dinastia dei Pipìnidi, avrebbe improntato di sé l’intera civiltà dell’Europa lati-



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no-germanica. In quella cultura, come del resto in molteplici testimonianze pagane e cristiane provenienti dal Mediterraneo tar-doantico (si pensi ancora alla sepoltura ad sanctos), è agevole rintracciare una radicata consapevolezza del persistere della personalità del morto, incentrata essenzialmente sul luogo di sepoltura, unitamente al diritto del morto alla proprietà, indicato dai beni con lui sepolti, nonché i segni di un qualche culto persistente presso la tomba 64. Pratiche correnti, come Fuso dei corredi funerari, le offerte di cibo e il rispetto della sacralità e inviolabilità della tomba e dei corpi ivi sepolti, prefiguravano elementi essenziali riservati in piena età medievale a una particolare categoria di morti, i santi, che nel primo Medioevo poteva virtualmente includere tutti i membri dell’alto clero, vescovi e abati, oggetto di un culto peculiare nelle rispettive comunità, e unici, del resto, a continuare a venir sepolti con i loro abiti e con le insegne del loro ufficio 65. Anche se la chiesa non ha mai promulgato norme ufficiali di esplicito divieto di sepolture abbigliate e di corredi tombali, è un fatto difficilmente oppugnabile, benché da leggersi nei singoli casi con estrema cautela e nella consapevolezza delle possibili interferenze culturali e spazio-temporali (gli oggetti di corredo, di per sé, non sono più ritenuti dall’archeologia indice significativo di appartenenza etnica o religiosa 66), che la progressiva recessione di quest’uso nel corso dell’VIII secolo segni il passo al grande processo di acculturazione cristiano-mediterranea dei popoli germanici67. Inoltre, le tombe dei santi prelati, come quelle dei fondatori delle dinastie aristocratiche germaniche, diverranno, come già era stato nel caso dei martiri, i centri intorno ai quali molti fedeli cercheranno sepoltura, oltre che uno dei principali luoghi decisionali, per il tramite di interventi onirici e taumaturgici di vario tipo, per la vita delle rispettive famihae religiose 68. Infine, ed è la cosa più rilevante per il nostro discorso, il periodo in cui in Occidente si diffuse sino a normalizzarsi la pratica di riesumare e trasferire le reliquie corporali è quello stesso Vili secolo che registrò l’abbandono definitivo dei vecchi cimiteri allineati, con tutto quanto vi era sotteso in termini di riassetto e gestione istituzionale degli spazi dei vivi e dei morti; ed è pure la fase in cui caddero in disuso le antiche necropoli extraurbane di Roma, quando i papi, spinti altresì da una serie di contestuali motivazioni di natura urbanistica e strategico-difensiva, inziarono a trasferire le reliquie martiriali dagli antichi santuari cemeteriali verso le chiese costruite all’interno della città 69.
Il confronto fra le due tradizioni consente poi a Geary di formulare l’ipotesi decisiva che il culto delle reliquie costituisse la



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prosecuzione, sul piano implicito dei gesti e delle azioni rituali, non di un sistema articolato di credenze ufficiali (o comunque di espressioni esplicite della coscienza escatologica riflessa) intorno allo status dei morti, bensì di una sorta di riconoscimento di fatto del posto dei morti nella società non molto lontano da quello sotteso ai costumi funerari della Reihengràberzivilisation 70. Ciò non vuol dire, ovviamente, che il significato esplicito delle tombe dei personaggi venerati come santi, e soprattutto della funzione inter-cessoria riconosciuta loro nella tradizione cristiana, non abbia conosciuto soluzioni di continuità fra il secolo di Clodoveo e quello di Carlomagno. Anzi, proprio la prassi di suddividere e trasferire le reliquie dei santi e le forme peculiari assunte dal loro culto, conobbero significative variazioni per l’influsso decisivo dei costumi romano-mediterranei e della pastorale cristiana. Allo stesso modo, il significato esplicito delle sepolture episcopali con le insegne dell’ufficio non era certo identico a quello delle sepolture con corredo dell’aristocrazia franco-merovingia: se in questo caso le tombe dovevano rimanere inviolate, i cadaveri dei vescovi venivano invece riesumati durante le cerimonie solenni di traslazione, con tutto ciò che quei riti potevano e dovevano significare in termini di riverbero e legittimazione simbolica sull’autorità non sempre indiscussa dei presuli che orchestravano la santificazione dei predecessori. Se è vero però che la vitalità di una tradizione dev’essere in primo luogo commisurata sulla sua capacità di adattarsi, modificandosi, a nuovi contesti culturali71, allora le profonde analogie sin qui rilevate tra i due momenti potranno difficilmente intendersi quali residui o sopravvivenze magico-folkloriche in seno all’organismo della costituenda cristianità medievale, e nemmeno dovrebbero ritenersi coincidenze casuali solo a causa della diversificazione dei loro significati espliciti. Quelle forti somiglianze sono invece una cruciale testimonianza della profonda «cultural conti-nuity in thè role of thè dead as members of a separate but stili important segment of society»72.
Ora, anche al di là dell’importanza che si voglia o meno attribuire al contesto pur decisivo dell’VIII secolo, l’idea di una relazione o comunque di una comune evoluzione, partecipe di uno stesso grande processo di trasformazione culturale, fra le pratiche funerario-cemeteriali e il culto delle reliquie, apre una pista d’indagine che merita di venire percorsa più a fondo anche per altri periodi storici. E in ogni caso dovrebbe apparire piuttosto ovvio seguire, per l’alto Medioevo, la traccia suggerita da Geary, solo che si consideri quanto sia stato decisivo in età tardoantica lo sviluppo del culto martiriale non soltanto in ordine al riassetto della



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topografia cemeteriale dei grandi e piccoli centri abitati ma anche (e per ciò stesso) all’integrale ridefinizione urbanistica degli spazi civici in tutto l’orbe cristiano-mediterraneo, premessa indispensabile al costituirsi, sempre intorno all’VIII secolo, dei rinnovati poli funzionali (in senso urbico-sacrale) della futura città medievale73.
3. Quando, in piena età carolingia, si diffuse capillarmente la prassi di riesumare, frammentare e traslare le reliquie martiriali, un uso del resto prescritto quale norma vincolante per la consacrazione degli altari e variamente promosso da stirpi aristocratiche, dinastie regie, sedi episcopali e centri monastici quale valido strumento di legittimazione simbolica dei nuovi poteri ridefinitisi proprio anche grazie a una riproposizione del mito ecclesiologico della fondazione apostolica garantita dal tramite storico-sacrale della presenza dei corpi santi74, era ormai di fatto ampiamente superata l’antica remora alla violazione sepolcrale75.
Tuttavia, parallelamente al diffondersi della pratica di inumare i cadaveri dei fedeli ordinari a ridosso o addirittura all’interno delle chiese, si assiste al progressivo e poi sempre più sistematico intervento delle autorità ecclesiastiche (canoni penitenziali, decreti conciliari, capitula episcoporum, trattatistica ecclesiologica e pastorale), che avrà il suo culmine tra IX e X secolo, per sradicare almeno in parte la funzione cemeteriale impostasi ormai di fatto anche all’interno degli edifici di culto, riservandola in sostanza ai soli membri del clero, specie di grado prelatizio, e in ogni caso ai monaci vissuti e defunti presso il cenobio d’appartenenza, con l’eccezione significativa dei membri laici delle famtltae fondatrici ovvero benefattrici dei monasteri, retti spesso e volentieri dagli stessi rampolli della nobiltà. Al di là delle numerose sfumature e divergenze che è dato rilevare tra le varie prese di posizione a questo riguardo negli scritti dei grandi teologi carolingi (Teodulfo d’Orléans, Giona d’Orléans, Incmaro di Reims, Incmaro di Laon), tale atteggiamento, in genere avversato dai laici, mirava da un lato a tutelare le neonate prerogative funerarie e sepolcrali delle pievi o comunque delle pubbliche chiese battesimali di titolo parrocchiale (queste ultime diffuse soprattutto in area franco-gallica) a fronte del persistente privilegio che numerose cappelle private di fondazione nobiliare continuavano ad arrogarsi nel seppellire al proprio interno i membri defunti della stirpe fondatrice, fungendo in tal modo da mausolei familiari e da autentici poli di agglutinazione della memoria dinastica; una funzione, questa, che in progresso di tempo sarebbe stata sempre più rilevata da grandi e piccoli monasteri rurali, non necessariamente d’istituzione privata. Insomma, si



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trattava di una posta molto importante - anche per le cospicue implicazioni economiche connesse alla riscossione dei donativi e, ben presto, dei veri e propri diritti connessi alla sepoltura in terra consacrata - nella grande lotta condotta contro il dominium dei laici, o per dir meglio, contro il grande ma inesorabile processo di privatizzazione delle strutture e dei patrimoni ecclesiastici, tradottosi molto concretamente nei termini di un effettivo patrocinio sui luoghi di culto e sepoltura dei fedeli. (Di qui la tanto spesso affermata ed ora vieppiù ribadita necessità di consacrazione preliminare dei luoghi di culto, e non più soltanto dell’altare, ciò che ormai doveva intendersi come implicita interdizione di una pregressa ovvero auspicata destinazione funeraria degli spazi sacri in quanto luoghi di celebrazione eucaristica.) D’altra parte, quel tentativo segna il passo al più generale sforzo di razionalizzazione degli ambiti rispettivi del sacro (ora, appunto, più strettamente connesso al luogo del sacrificio eucaristico) e della morte, e dunque, di delimitazione anche topografica degli spazi riservati ad uso sepolcrale76. Questi ultimi, peculiarmente sacralizzati attraverso un rito di benedizione attestato per la prima volta agli inizi del secolo X, diverranno tali in virtù di una specifica attribuzione ecclesiastica e non più per l’eventuale presenza di una reliquia che fungesse da polo di attrazione delle tombe.
Il cimitero, così rigorosamente definito, si appresta dunque a configurarsi come la più evidente trascrizione topografica, proiettata nei destini dell’aldilà, dello spazio giuridico della comunità dei battezzati che fa capo alla chiesa locale, una funzione che trovò ben presto il proprio corrispettivo, sorta di necessario contrappeso e garanzia di validità, nelle sanzioni che si vennero formalizzando a danno dei reprobi (suicidi, scomunicati, ecc.), ai quali, proprio attraverso la privazione di sepoltura (o una forma infamante di abbandono del cadavere), si negherà per sempre l’appartenenza alla comunità cristiana. L’immagine esclusiva della comunità degli eletti venne pertanto diffusa tra i fedeli anche attraverso la nuova gestione ecclesiastica degli spazi cemeteriali, che potevano sin d’ora visualizzarne la più rigida demarcazione. Insomma, ridefinendo e regolando gli spazi dei morti, la chiesa potè tanto meglio controllare e articolare, imponendo il proprio ruolo esclusivo di mediazione salvifica, anche quelli dei vivi77.
Di qui l’utilizzo della norma vincolante di sepoltura ecclesiastica - e della minaccia della sua privazione - come strumento di pressione sociale contro le pretese dei laici potenti di sottrarsi alla rete egemonica che il diritto canonico e la legge del principe andavano dispiegando sull’intera cristianità anche attraverso il con-



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trollo dei cimiteri e la gestione dei connessi benefici patrimoniali. Una gestione foriera di pesanti e annosi conflitti anche all’interno della gerarchia (diritti parrocchiali vs. privilegi abbaziali, fino alla grande querelle duecentesca tra i vescovi e i conventi degli ordini mendicanti) e di accese dispute dottrinali intorno alla natura simoniaca dell’esazione dei diritti di sepoltura. Citazioni bibliche e patristiche furono le armi impiegate a labile suffragio di tradizioni assai radicate: pur nello sforzo costante di proiettare le memorine degli antenati nell’alveo rassicurante delle proverbiali sepolture dei patriarchi di Genesi XXIII, esse faticheranno non poco a conciliare le istanze evangeliche di «gratuità» con le inedite contraddizioni e i dilemmi sollevati dall’incipiente economia monetaria dei centri urbani78.
4. L’accresciuto interesse portato in età carolingia al mondo dei morti e alle forme di sepoltura trova pertanto un’importante giustificazione anche nel significato latamente economico che essi dovevano rivestire nell’ambito dei ridefiniti rapporti sociali e giurisdizionali e delle nuove realtà insediative di un tempo storico singolarmente animato da inediti propositi di sistematica progettualità istituzionale, che coinvolgevano virtualmente tutti i campi dell’esistenza umana. Ma quel sottinteso economico non deve intendersi semplicemente nell’accezione più ovvia e superficiale, quale si rileva appunto dai numerosi conflitti giurisdizionali per garantirsi i diritti di sepoltura, bensì in quell’assai più profonda figura di relazione che si esprimeva nel dono, modalità strutturalmente primaria dei rapporti sociali, direi quasi vera e propria forma sintetica a priori di essi, e che trovava nelle relazioni di scambio tra i vivi e i morti una sorta di paradigma espressivo dei meccanismi di reciprocità79. Proprio in quest’ambito privilegiato dello scambio simbolico, già dalla fine del VII ma soprattutto nel corso dell’VIII secolo, si venne registrando una modificazione decisiva, preludio all’instaurazione di una «nouvelle economie funéraire» 80. Già sopra ho fatto cenno alla scomparsa dell’abitudine generalizzata dei depositi e dei corredi funerari che si registrò in quel periodo, in rapporto (complesso e indiretto quanto si voglia, ma pur sempre innegabile, quantomeno a giudicare dagli esiti effettivi e dalle linee generali dei programmi che ne animarono la messa in campo) alla lenta diffusione e penetrazione del cristianesimo tra le popolazioni europee affacciatesi più di recente all’ambito di civilizzazione ellenistico-mediterranea per il tramite decisivo dell’acculturazione missionaria e del correlativo impianto di una capillare organizzazione ecclesiastica su basi monastico-episcopali. È appe-



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na il caso di ricordare che dietro la prassi del deposito funerario, espressione di una forma privilegiata di relazione tra i vivi e i morti, a sua volta principale garante della continuità e dell’identità dei gruppi sociali e familiari e degli individui che per il tramite di tale uso iscrivevano così la propria traccia nelle basi topografiche della memoria, si configura tutto il complesso equilibrio di sistemi sociali che appunto nella relazione e nello scambio continuo con gli antenati trovavano uno degli assi portanti della propria identità culturale81. Lo scambio simbolico tra i vivi e i morti - tale, in ultima istanza, lo sfondo rituale a cui ricondurre il senso ultimo di suppellettili e depositi funerari quand’anche i beni siano distrutti dopo la morte, e di tutto il sistema dei segni e dei gesti atti ad assicurarsi la protezione degli antenati -, garante ultimo dell’equilibrio della continuità sociale infranto dall’irrompere della morte, si configura in realtà come una sorta di contro-prestazione suprema, cioè a dire una forma di occasionale o periodico antidoto richiesto appunto a ristabilire l’equilibrio infranto dall’unilateralità della sottrazione della vita, che doveva trovare una forma di compensazione equivalente e riparatrice in tecniche di dispendio codificate dalla tradizione82. Il progressivo sradicamento o comunque il tentativo di obliterazione di un’ancestrale abitudine funeraria tradiva così a fior di pelle tutti i rischi sottesi e conseguenti alla compromissione degli equilibri profondi su cui si reggeva un intero sistema culturale. La risposta, storicamente, si venne focalizzando nei termini, ben riassunti di recente dalla Tréffort, dell’instau-rarsi di un nuovo equilibrio economico intorno al cruciale ambito funerario: una relazione non più diretta, bensì triadica, cioè mediata dalle forme esclusive di intercessione liturgica e clericale, che si venne a instaurare tra i vivi e i morti attraverso la ridislocazione simbolica dei beni di corredo funerario, convertiti ora in elemosine e in doni prò anima ai monasteri, e destinati pertanto ai vivi e ai bisognosi. La nuova economia funeraria, che non prevede la possibilità che i morti possano fruire direttamente di quei beni, esprimendo a sua volta profondi mutamenti in corso nel sistema economico e sociale83, si traduce pertanto in un più articolato sistema di scambi incentrato sul commercio di terre e preghiere, sulle celebrazioni eucaristiche e sui pasti dei poveri84. Tutto ciò, secondo la Tréffort, sarebbe avvenuto per l’influsso decisivo di una spiritualità ascetica recata sul continente dai monaci missionari irlandesi e insulari già a partire dal VII secolo, una spiritualità animata da istanze caritativo-assistenziali ignote al mondo germanico e nutrita da una severa coscienza penitenziale che sfociò in un’inedita privatizzazione di massa della salvezza in virtù dell’ac-



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cresciuta coscienza dei peccati, che fondava pertanto la necessità della preghiera prò remedio animae^. Si accentuava così ulteriormente l’interesse per Véschaton dell’immediato post mortem a discapito della tensione apocalittica verso i destini ultimi dell’umanità dopo il Giudizio. Sullo sfondo, andava ridefinendosi quella teologia dell’intercessione che, già affermatasi nei suoi pilastri sin dal III secolo col decisivo contributo di Origene, venne ora istituzionalizzata dalla chiesa cristiana e potè dispiegarsi compiutamente nelle nuove forme della liturgia funeraria 86.
Privatizzazione della morte: cioè a dire, ancora una volta, e in termini sociologici, sottrazione delle strategie memoriali fondate sullo scambio simbolico diretto con i morti alla gestione della cerchia familiare e presa in carico esclusiva di esse da parte del clero nelle forme ritualizzate della preghiera liturgica regolarmente assicurata e del culto prestato nelle debite forme pubbliche. L’intermediazione ecclesiastica per il tramite del meccanismo circolare doni prò anima/preghiere d’interecessione prò defunctis/riscatto dei peccati, coinvolgendo non solo i donatori e le loro famiglie ma anche i bisognosi che dovevano beneficiare delle rendite e delle offerte da quelli devolute ai monasteri per la redenzione delle colpe dei propri morti, complicava ulteriormente, in proiezione escatologica, le relazioni contabili tra i gruppi sociali coinvolti. I poveri, in particolare, diventavano i nuovi intermediari e intercessori sia dei defunti sia dei donatori, per non parlare del processo, egregiamente approfondito dagli studi della Scuola di Mùnster, in virtù del quale numerosi monasteri, specie quelli appartenenti al denso reticolo cluniancense, si venivano configurando per ciò stesso come fulcro sociologico, topografico e patrimoniale della memoria dinastica dei lignaggi aristocratici dell’Europa del Mille, sacralizzandone prerogative e aspirazioni egemoniche proprio attraverso i complessi rituali della commemorazione liturgica degli antenati87.
Va detto però, anche per attenuare i rischi sottesi a una spiegazione fondata su meccanismi troppo diretti di causalità, che la penitenzializzazione della morte e del morire, per certi versi già iscritta nella deriva platonizzante dell’escatologia cristiana a partire dal III secolo, presupponeva in ultima istanza, contribuendo a sua volta a rafforzarla, l’instaurarsi di una concezione cumulativo-re-tributiva del rapporto con l’aldilà, esito della separazione radicale tra i vivi e i morti introdotta dalla rivelazione neotestamentaria, e in particolare dalla teologia paolina 88. D’altra parte, la coscienza del peccato da scontare, ovvero del cumulo di virtù e di meriti di cui beneficiare nell’aldilà, rimandava pur sempre all’inaugurazione cristiana della logica retributiva, che spezzava il circuito dello



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scambio simbolico proprio a partire dal rapporto con i morti, istituendo nel premio della vita eterna (immortalità dei risorti) l’equivalente generale dei valori che avrebbero definito il campo della nuova economia salvifica. Si avviava così quel lento processo che negli ultimi secoli del Medioevo condurrà all’imponente formalizzazione quantitativa, in termini rigorosamente tariffari, della relazione contabile con l’aldilà89. Era dunque il principio astratto di equivalenza del valore - estraneo alla concretezza e alla soggettivazione assoluta degli schemi relazionali che nei mondi premoderni avevano sempre regolato l’economia della reciprocità coi trapassati 90 così come ogni forma di relazione sociale in quanto improntata alla logica mutuale e vincolante del dono - a fondamento del nuovo criterio di convertibilità tra beni materiali e beni spirituali che regolava la prassi triadica del dono-preghiera per i morti, inauguratasi nell’VIII secolo. E non va poi dimenticato - ma su questo punto avrò occasione di ritornare in un prossimo lavoro -che il principio, di matrice teologica cristiana, dell’equivalente generale che identifica il valore nella salvezza ultraterrena ovvero nell’eternità differita, è quello stesso che sta alla base della moderna economia monetaria e capitalistica, dove il principio escatologico del valore è stato secolarizzato nello scopo senza fine della crescita della ricchezza, e in cui vige la stessa logica cumulativa della retribuzione e del rendimento differito nonché il principio della convertibilità dei beni nel valore di scambio espresso in moneta 91.
3. Note conclusive: la rivoluzione inavvertita dell'VIII secolo
L’archeologia rivela dunque la persistenza, sino al VII-Vili secolo, di molte pratiche funerarie tradizionali, come quella dei corredi funerari e delle tombe-mausoleo dei nuclei familiari aristocratici, che proprio allora cominciano a recedere o ad assumere una veste cristianizzata. Dall’età carolingia la chiesa inizia a regolamentare sistematicamente la pratica delle inumazioni comuni e a preoccuparsi di una legislazione peculiarmente cemeteriale che delimiti e fissi gli spazi sociali dei vivi e dei morti, iscrivendo sul territorio pubblico occupato dalle sepolture (atrium) gli spazi sociali e giuridici di esclusione e di inclusione dalla comunità che fa capo alla chiesa battesimale, parallelamente alla più rigorosa definizione (ovvero preclusione) degli ambiti di interferenza tra aldiquà e aldilà (denuncia delle credenze relative agli spettri; nascita di una letteratura visionaria che inizia a delineare i grandi quadri della geo-



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grafia dell’aldilà) e alla progressiva desacralizzazione dei corpi dei morti, reificati in cadaveri (condanna delle «superstizioni» legate ai cadaveri nei libri Penitenziali, sino a Burcardo e oltre)92. Questi entrano stabilmente o comunque si avvicinano al luogo sacro dell’edificio ecclesiastico e, nel caso di morti speciali (santi), iniziano a frammentarsi senza che l’autorità ecclesiastica intervenga più a condannare tale pratica, com’era invece accaduto in passato.
Tutta la legislazione, nell’area del costituendo impero dei Franchi, documenta l’allargarsi del fossato politico-sociale e il consolidarsi della frattura sacrale tra chierici e laici nonché, più in generale, tra potentiores e debiliores93; allo stesso tempo, e pour cause, si impone una più chiara e netta distinzione tra mondo dei vivi e mondo dei morti, proprio mentre il distacco tra clero e fedeli si accentua e si esprime nella nuova gestualità liturgica, ben oltre l’ambito funerario 94. Le raccolte canonistico-penitenziali e la trattatistica teologico-pastorale documentano il grande sforzo di relegare le indebite interferenze tra i due piani di realtà nella sfera delle credenze eterodosse, proponendo e imponendo l’esclusività del ruolo intermediario del clero. Tutto questo mentre, nel quadro di una svolta sostanziale delle pratiche funerario-cemeteriali, il venir meno della tradizionale riluttanza occidentale alla violazione dei sepolcri e alla frammentazione dei corpi santi tradiva un mutamento radicale nel rapporto con il cadavere, veicolo ed espressione a un tempo di un ridisegnarsi della mappa confinaria tra società dei vivi e società dei morti. Si dovrà in ogni caso prestar molta attenzione alle differenze micro e macro-regionali (area franco-germanica, area romano-italica, oriente mediterraneo, ecc.) e all’eventuale intersecarsi e sovrapporsi di usi, credenze e tradizioni, ciascuna altresì dotata di proprie cronologie e sociologie specifiche: è auspicabile che la ricerca su questi temi possa orientarsi verso l’elaborazione di una sorta di cronòtopo cultuale, dotarsi insomma di un modello - e magari di un suo eventuale supporto cartografico - su scala europea, dei luoghi e dei tempi di attestazione, diffusione ed elaborazione delle credenze relative al mondo dei morti.
Con la frattura definitiva tra latino e lingue romanze si apriva in quei decenni la grande cesura nel sistema di comunicazione linguistico e culturale tra chierici e laici, tra letterati e illetterati95. Si accentuava inoltre, in quello stesso periodo, rendendosi forse irreversibile, il grande divario tra Oriente e Occidente a proposito del culto delle immagini, e, più in generale riguardo ai tramiti del sacro 96: a Bisanzio, fallito il grande tentativo dei sovrani iconoclasti di restaurare un paradigma costantiniano della basileia terrena senza il tramite figurale dell’icona e l’interfaccia carismatica dello



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Holy man, veniva riaffermandosi, col supporto di una vigorosa risistemazione teologica, un modello dionisiano fondato sull’idea di partecipazione ovvero di processione della sostanza divina dall’alto verso il basso della scala ontologica, senza luoghi astrattamente privilegiati della sua epifanìa97. Da questo punto di vista si può dire che la propensione pur non esclusiva per l’immagine cultuale rappresentava in primo luogo una scelta di continuità rispetto alla cultura poliade tardoantica, mentre in Occidente si andava focalizzando un meccanismo di mediazione istituzionale diretta del sacro, garantita dalla gestione monastico-vescovile del culto delle reliquie, frammenti-semiofori privilegiati di una ben circoscritta reificazione dell’invisibile98.
Il secolo Vili segnò dunque, per l’Occidente cristiano, un momento decisivo di cristallizzazione dell’ordine dell’immaginario, ovvero, in termini hegeliani, del principio di oggettivazione del reale e dell’altro da sé, in quanto associato e complementare al dissolversi dell’economia della reversibilità simbolica sottesa all’ordine premoderno ". La separazione radicale tra il quaggiù e l’aldilà, che l’evento unico dell’incarnazione eristica aveva ribadito proprio attraverso la momentanea e irripetibile unione perfetta delle due nature, si verrà sempre più configurando come garanzia ultima e intimamente contradditoria del potere esclusivo di mediazione di coloro che, definendola, si faranno i soli interpreti autorizzati della volontà salvifica dell’Onnipotente. Di quella decisiva rottura fu premessa e conseguenza, come suo inaugurale paradigma metonìmico, la più radicale e primordiale fra tutte le separazioni, quella, già adombrata nel dualismo cosmico - non ancora antropologico - dell’Antica Alleanza, fra mondo dei vivi e mondo dei morti 10°.
Luigi Canetti
Università di Bologna
Note al testo
1 Cfr. J. Baudrillard, Léchange symbolique et la mort, Paris 1976 (trad. it. Lo scambio simbolico e la morte, Milano 1979, pp. 140 ss.).
2 Cfr. M. Foucault, Histoire de la folle à l’àge classique, Paris 1961; J.-M. Fritz, Le discours du fou au Moyen Age, XIIe-XIIIe siede, Paris 1992.
3 Cfr. Baudrillard, Lo scambio simbolico cit., pp. 144-147; M. Gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Torino 1992, sull’ambiguità costitutiva della funzione mediatrice (la pretesa cioè di voler rendere struttura permamente ciò che è stato l’irripetibile evento della mediazione eristica), «che sta al centro di tutta la storia della Chiesa». Ma si veda già il grande studio di R. Hertz, Contributo a uno studio sulla rappresentazione collettiva della morte [1907], nella nuova versione italiana contenuta in Id., La



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preminenza della destra e alta saggi, Torino 1994, pp. 53-136; e inoltre E. Canetti, Masse und Macht, Hamburg 1960 (trad. it. Massa e potere, Milano 1981, pp. 273-336). Si veda ora, più in generale, il penetrante saggio di Z. Bauman, Il teatro dell'immortalità. Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Bologna 1995.
4 J.-M. Sallmann, Santi barocchi. Modelli di santità, pratiche devozionali e comportamenti religiosi nel regno di Napoli dal 1540 al 1750, Lecce 1996, p. 419.
5 Baudrillard, Lo scambio simbolico cit., p. 142; ma sono idee già adombrate in E. Canetti, Potere e sopravvivenza, Milano 1974, pp. 11-35.
6 Cfr. S. Quinzio, La croce e il nulla, Milano 1984, p. 16.
7 Cfr. L. Canetti, Reliquie, martirio e anatomia: culto dei santi e pratiche dissettorie tra Antichità e Medioevo, in Le cadavre: anthropologie, archeologie, imaginaire social (Actes du colloque «Micrologus», Lyon, 28-30 octobre 1996), «Micrologus. Nature, Sciences and Medieval Societies», 7 (1999), pp. 73-113, e in versione più ampia, con il titolo Culto dei santi e dissezione dei morti tra antichità e Medioevo, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», 34 (1998), in stampa.
8 Cfr. ibid.
9 Cfr. L'inhumation privilegié du IVe au VIIIe siècles en Occident (Actes du colloque de Créteil, mars 1984), a cura di Y. Duval e J.-Ch. Picard, Paris 1986; À révéiller les morts. La mort au quotidien dans l'Occident médiéval, a cura di D.A. Bidon e C. Tréffort, Lyon 1993; Archeologie du cimetiere chrétien (Actes du 2e colloque «A.R.C.H.E.A.», Orléans, 29 septembre-1 octobre 1994), textes réunis par H. Galinié, E. Zadora-Rio, Orléans 1996.
10 Cfr. ora C. Tréffort, LÉglise carolingienne et la mort. Christianisme rites funéraires et pratique commemoratives, Lyon 1996, con amplia bibliografia; utili rassegne sulle ricerche di particolare interesse italiano sono state fornite da C. La Rocca, Morte e società. Studi recenti sulle necropoli altomedievali, in «Quaderni medievali», 26 (1988), pp. 236-245; S. Gelichi, Introduzione all'archeologia medievale. Storia e ricerca in Italia, Roma 1997, pp. 157-169; M. Brogiolo e S. Gelichi, La città nell'alto medioevo italiano. Archeologia e storia, Roma-Bari 1998, pp. 95-101; una buona panoramica di respiro europeo viene poi offerta alla voce «Cimitero», curata da M. delle Rose per VEnciclopedia dell'Arte Medievale, 4, Roma 1993, pp. 770-785.
11 Cfr. ancora il grande libro di E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Torino 1948 (nella nuova rist. a cura di C. Cases), ivi 1997; e inoltre M. Douglas e B. Ischerwood, Il mondo delle cose. Oggetti, valori, consumo, Bologna 1984; J. Godbout e A. Caillé, Lo spirito del dono, Torino 1993, pp. 165-212. Sul processo di oggettivazione cfr. ancora I. Meyerson, Psicologia storica. Le funzioni psicologiche e le opere, prefazione di J.-P Vernant, Pisa 1989, pp. 33-64.
12 Cfr. Baudrillard, Lo scambio simbolico cit., pp. 144-158; PJ. Geary, Exchange and Interaction between thè Living and thè Dead in Early Medieval Society [1986], ora in Id., Living with thè Dead in thè Middle Ages, Ithaca-London 1994, pp. 77-92. Sulla teorica maussiana del dono come fondamento dei paradigmi della sociabilità premoderna (e non solo), e in polemica con i modelli funzionaUstico-utilitaristici e distici, si vedano i fondamentali saggi di Alain Caillé, ora raccolti in Id., Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Torino 1998; e ancora, Godbout e Caillé, Lo spirito del dono cit., senza prescindere, ovviamente, dai grandi classici dell’antropologia economica (Marcel Mauss, Karl Polanyi, Marshall Sahlins); mi richiamo qui, inoltre, alle posizioni enunciate da Marcel Gauchet nel suo penetrante saggio II disincanto del mondo cit., pp. 102-103.
13 Cfr. L. Dumont, Homo aequalis, 1. Genesi e trionfo dell'ideologia economica, Milano 1984; Id., Saggi sull'individualismo. Una prospettiva antropologica sull'ideologia moderna, Milano 1993; G. Lipovetsky, L'èra del vuoto. Saggi sull'individualismo contemporaneo, Milano 1995, pp. 191-243; A. Caillé, Critica della ragione utilitaria, Torino 1991.
14 Cfr. Bauman, Il teatro dell'immortalità cit., pp. 173-213.
15 Cito dalla p. 79 della nuova versione it. del saggio (cit. supra, nota 3).
16 Cfr. G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino 1993), pp. 5-70; affronto, tra l’altro, questo problema nel mio studio, in via di completamento, «Pignora salutis». Soteriologia cristiana e forme elementari dello scambio.
17 Sul valore e i limiti della comparazione in sede di analisi storica mi richiamo alle classiche posizioni teoriche espresse da M. Bloch, Per una storia comparata delle società



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europee [1928], nuova versione it. in Id., Storici e storia, Torino 1997, pp. 105-137 (si veda anche ivi, pp. 97-104, il breve e lucidissimo saggio del 1930, dal titolo Comparazione).
18 Non lo ricorda nemmeno Patrick Geary, forse il più «hertziano» tra i medievisti che finora ho citato; una menzione incidentale, ma che ne coglie l’importanza del ruolo di capostipite nell’aver individuato «thè deep symbolic connections between thè activities of thè living and thè state of thè deceased», ritrovo invece nell’importante ricerca di ES. Pax-ton, Christianizing Death. The Creation of a Ritual Process in Early Medieval Europe, Itha-ca-London 1990, p. 6, nota 11.
19 Assumo per estrapolazione il concetto da C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino 1989, spec. pp. 276 ss., che ha studiato il progressivo formarsi del mito e della credenza nella stregoneria come formazione culturale di compromesso tra cultura clericale e cultura folklorica, nella diversa e complessa articolazione e intersezione delle cronologie specifiche dei processi culturali che le sottendono.
20 Mi si consenta di far notare che l’avverbio «considerevolmente» non significa affatto «univocamente»: vorrei qui semplicemente rimarcare, da un punto di vista complementare a quello espresso da M. Van Uytfanghe (L'essor du culte des saints et la question de l’eschatologie, in Les fonctions des saints dans le monde Occidental, IIIe-XIIIe siècle, Rome 1991, pp. 97-107), l’importanza dell’escatologia e, più in generale, del patrimonio di credenze relative al mondo dei morti come imprescindibile «structure d’accueil», come direbbe Jacques Fontaine evocando Marrou, rispetto all’indubbia novità rappresentata dal culto cristiano dei santi.
21 Cfr. I Tess. iv, 13-18; Phil. i, 21-25; I Cor. xv. Una sintetica ma illuminante presentazione critica dei temi salienti dell’escatologia paolina è fornita ora da E.P Sanders, San Paolo, Genova 1997, pp. 35-43. I capisaldi dell’escatologia cristiana, sullo sfondo della matrice ebraica, sono esposti brillantemente da P.-A. Bernheim e G. Stavridès, Paradiso, Paradisi, Torino 1994, pp. 57-169.
22 Cfr. U. Galimberti, Il corpo, Milano 1983, pp. 38-40; da ultimo, si veda il bel libro di C.W. Bynum, The Resurrection of thè Body in Western Christianity (200-1336), New York 1995; si può ora vedere anche la versione it. a cura di M. Ranchetti della celebre tesi di J. Taubes, Escatologia occidentale, Milano 1997, pp. 86-107. Sulla metaforizzazione economica del lessico della salvezza e le sue implicazioni rinvio, oltre che all’importante ricerca di G. Todeschini, Il prezzo della salvezza. Lessici medievali del pensiero economico, Roma 1995, pp. 117-161, al mio prossimo «Pignora salutis» (v. nota 16).
23 Mi limito a ricordare il classico H. Delehaye, Les légendes hagiographiques, Bruxelles 1927 (rist. anast. 1973), pp. 140-201, e la recente messa a punto di M. Van Uytfan ghe, L'origine, l'essor et les fonctions du culte des saints. Quelques repère pour un débat rouvert, in «Cassiodorus. Rivista di studi sulla tarda antichità», 2 (1996), pp. 143-196, in part. 179-188.
24 Cfr. P.-A. Sigal, L'homme et le miracle dans la France médiévale (XIe-XIIe siècle), Paris 1985, pp. 134 ss.; A. Rousselle, Croire et guérir. La foi en Gaule dans l'antiquité tardive, Paris 1990, pp. 77 ss.; C. Lavarra, Maghi, santi e medici. Interazioni culturali nella Gallia merovingia, Galatina 1994, pp. 59 ss.; L. Canetti, L'invenzione della memoria. Il culto e l'immagine di Domenico nella storia dei primi frati Predicatori, Spoleto 1996, p. 485.
25 Si pensi inoltre alla tenace continuità delle lamentazioni funebri (kopetos/planctus), pur stigmatizzate dagli autori cristiani, come segno ulteriore di persistenza del variegato sistema di compromesso «pagano-cristiano» relativamente all’ambito funerario (cfr. ancora E. de Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Torino 1975, pp. 325 ss.).
26 Cfr. Y. Duval, Auprés des saints corps et àme. L'inhumation «ad sanctos» dans la chrétienté d'Orient et d'Occident du IIIeau VIP siècle, Paris 1988; ma cfr. già H. Leclercq, Ad sanctos, in Dict. d'Archéol. Chrétienne et de Liturgie, 1/1, Paris 1924, coll. 479-509, e E Cumont, Récherches sur le symbolisme funeraire des Romains, Paris 1942, pp. 380 ss.; Id., Lux perpetua, Paris 1949, pp. 339-340 e passim', cfr. inoltre P.-A. Février, La tombe chrétienne et l'au-delà, in Le temps chrétien de la fin de l'Antiquité au Moyen àge (IIIe-XIIIe siècle), Paris 1984, pp. 163-183; Id., La mort chrétienne, in Segni e riti nella chiesa altomedievale occidentale, Spoleto 1987 (Settimane di studio, XXXIII), II, pp. 881-942, in part. 911 ss.
27 Sintesi, fonti e bibliografia sono ora facilmente reperibili in due ottime raccolte antologiche: (Origene, Eustazio, Gregorio di Nissa), La maga di Endor, a cura di M. Simo-



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netti, Firenze 1989; Arcana Mundi, I. Magia, miracoli, demonologia, a cura di G. Luck, Milano 1997, pp. 299-303 e passim-, valide suggestioni si traggono inoltre dal recente saggio di P. Lombardi, Il filosofo e la strega. La ragione e il mondo magico, Milano 1997. Tornerò su questo tema in un prossimo studio, dove prenderò in esame i discorsi intorno alla necromanzia come aspetto della controversia anti-idolatrica in ordine alla polemica sul culto delle reliquie nel cristianesimo antico.
28 Cfr. Tréffort, LÉglise carolingienne cit., pp. 131 ss. e 180-181, dove FA. si mostra critica verso l’ipotesi della Duval, Auprès des saints cit., pp. Ili ss. (invero ben più cauta e interlocutoria di quanto non intenda la Tréffort, che mi pare travisarne i suggerimenti), secondo la quale rimonterebbero all’età carolingia le prime testimoninze di sepoltura di reliquie insieme ad alcuni defunti, ciò che in realtà rappresenterebbe una più antica abitudine di carattere talismanico; si veda ora anche G J.C. Snoek, Medieval Piety from Relics to Eucharist. A Process of Mutual Interaction, Leyden 1995, pp. 106-130. Sugli sviluppi della preghiera liturgica prò defunctis in relazione agli sviluppi dell’escatologia e del culto dei santi rinvio al bel libro di M. McLaughlin, Consorting with Saints. Prayer for thè Dead in Early Medieval France, Ithaca-London 1994, pp. 24 ss. e in part. 30 ss. (con rassegna analitica e sistematica dell’anteriore bibliografia).
29 Cfr. J.-Ch. Picard, Le souvenir des évèques. Sépultures, listes épiscopales et culte des évèques dans l’Italie du Nord des origines au Xe siècles, Rome 1988, pp. 728 ss.
30 Sugli sviluppi in senso penitenziale si veda ora l’incisivo saggio di P. Brown, Vers la naissance du Purgatoire. Amnistie et pénitence dans le christianisme Occidental de lAntiquité tardive au Haut Moyen Age, in «Annales HSS», 52 (1997), 6, pp. 1247-1261.
31 Cfr. Ch. Pietri, «Communio Sanctorum», in «Les Quatres Fleuves», 25-26 (1988), pp. 63-116; Id., Lévolution du culte des saints aux premiers siècles chrétiens: du témoin à l'intercesseur, in Les fonctions des saints cit., pp. 15-36.
32 Per questi temi mi permetto di rinviare ancora al mio prossimo saggio «Pignora salutis».
33 Si veda ad esempio il celebre «Manuale» di Dhuoda (843), laddove la nobildonna carolingia chiede ai figli d’inserire il suo nome nelle liste genealogiche e di pregare per lei in cambio dell’eredità (cfr. Liber manualis Dhuodane quem ad filium suum transmisit Wil-helmum, Vili, 13, 14, a cura di P. Riché, in «Sources Chrétiennes» 225, Paris 1975, pp. 318, 320; e le fini osservazioni di Geary, Living with thè Dead cit., pp. 79-80). In quegli stessi anni, illustri prelati dell’Italia centro-settentrionale ponevano a condizione del proprio lascito testamentario ai chierici della cattedrale la recita delle preghiere d’intercessione prò remedio animae-. mi piace ricordare qui a titolo d’esempio il testamento del vescovo Guibo-do di Parma, del luglio 892 (ed. U. Benassi, Codice diplomatico parmense, I. Secolo vnn, Parma 1910, n. XXV, pp. 67-70), per cui rinvio alle belle analisi di V. Fumagalli, Il regno italico, Torino 1978, pp. 113-114, e Picard, Le souvenir des evèques cit., pp. 378-380). Si pensi, infine, ai ben noti libri memoriales dei grandi monasteri germanici, strumento e suggestivo documento della prassi liturgica della preghiera d’intercessione per i nobili defunti del luogo, cui i monaci erano spesso imparentati quali membri della famiglia fondatrice del cenobio (v. infra, nota 38).
34 R. Markus, La fine della cristianità antica, Roma 1996, p. 175; in tema di familia-rizzazione della città cristiana con i morti rimane importante il saggio di G. Dagron, Le christianisme dans la ville byzantine, in «Dumbarton Oaks Papers», 31 (1977), pp. 3-25.
35 Su questi temi si veda ora Bynum, The Resurrection of thè Body cit. Ancora in un autore come Isidoro di Siviglia (560-636), sul limitare della cultura tardoantica, non sembra pienamente risolto in senso univoco e tendenzialmente oggettivistico l’ambiguo rapporto tra morto e cadavere, poiché il primo è detto «funus» soltanto nell’esito pacificato della sua eventuale sepoltura, mentre rimane - sostanzialisticamente - un semplice e instabile «cada-ver» solo nel caso in cui giaccia insepolto: «Omnis autem mortuus aut funus est, aut cada-ver. Funus est, si sepeliatur. Et dictum funus a funibus accensis, quos ante feretrum papyris cera circumdatis ferebant. Cadaver autem est, si insepultum iacet. Nam cadaver nominatum a cadendo, quia iam stare non potest. [...]» {Isidori Hispal. ep. Etymologiarum libri XX, XI, II, 35, ed. W.M. Lindsay, Oxford 1911, t. Il, pp. 25-26, corsivo mio: dove pure si noterà l’ambivalenza di quello stare, che forse non andrà inteso semplicemente come «reggersi in piedi» ma altresì come «rimanere stabile», e che dunque poteva comprendere in sé un richiamo all’antico timore per gli spiriti vaganti intorno ai cadaveri degli àtaphoi: cfr. su ciò



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la fondamentale chiarificazione teologica, pur disattesa ancora per secoli dalle credenze comuni, contenuta nel cap. 56 del De anima di Tertulliano (c. 210).
36 Cfr. M. Van Uytfanghe, Le culte des saints et l'hagiographie face à l'écriture: les avatars d’une relation ambigue, in Santi e demoni nell'alto Medioevo occidentale (secoli V-XI), Spoleto 1989 (Settimane di studio, XXXVI), I, pp. 155-202; E Cardini, Reliquie e pellegrinaggi, ibid., II, pp. 981-1035; A. Angenendt, Heilige und Reliquien. Die Geschichte ihres Kultes vom friìhen Christentum bis zur Gegenwart, Mùnchen 1994, pp. 215-260.
37 Cfr. V. Zangara, «Exeuntes de corpore». Discussioni sulle apparizioni dei morti in epoca agostiniana, Firenze 1990 (fondam.); J.-Cl. Schmitt, Les revenants. Les vivants et les morts dans la société médiévale, Paris 1994 (trad. it., Spiriti e fantasmi nella soàetà medievale, Roma-Bari 1995); Cl. Carozzi, Le voyage de l'àme dans l'au-delà d'après la littérature latine (Ve-XIIIe siede), Rome 1994; Immagini dell'Aldilà, a cura di S.M. Bariilari, Roma 1998.
38 Cfr. P. Geary, Exchange and Interaction between thè Living and thè Dead in Early Medieval Society [1986], ora in Id., Living with thè Dead cit., pp. 77-92; McLaughlin, Consorting with Saints cit., pp. 102-177; R. Le Jean, Eamille et pouvoir dans le monde frane (VIIe-Xe siede). Essai d'anthropologie sociale, Paris 1995, pp. 35-38, 45-52; Tréffort, L'É-glise carolingienne cit., pp. 65-116; da ultimo, l’importante tesi diM. Lauwers, La mémoire des ancètres, le soud des morts. Morts, rites et société au Moyen Àge (Diocèse de Liège, XIe-XIIIe siècles), Paris 1997, pp. 69-100, 148-171 e passim-, ovvio, s’intende, il debito rinvio ai fondamentali lavori ivi citati della Scuola di Miinster (A. Angenendt, O.G. Oexle, K. Schmid, I. Wollasch).
39 Rinvio per tutto questo alle considerazioni e indicazioni contenute nelle pagine preliminari, e agli sviluppi di questo tema contenuti nel mio prossimo «Pignora salutis».
40 Messa a punto della questione nella tesi monumentale di Chr. Trottmann, La Vision béatifique. Des disputes scolastique à sa définition par Benoit XII, Rome 1995, in part. pp. 29-114 («L'héritage de dix siècles de réflexion tbéologique»).
41 Cfr. il mio Reliquie, martirio e anatomia cit. ( = Culto dei santi e dissezione dei morti), § 2. ..............
42 Si veda, da ultimo, anche per i copiosi rinvii all’anteriore letteratura sul tema, Bro-giolo e Gelichi, La dttà nell'alto medioevo italiano cit., pp. 95-101; e inoltre, dello stesso Gelichi, la recente Introduzione all'archeologia medievale, pp. 159-164.
43 Cfr. C. Violante, Le strutture organizzative della cura d'anime nelle campagne dell'Italia centro-settentrionale (secoli V-X), ora in Id., Ricerche sulle istituzioni ecclesiastiche dell'Italia centro-settentrionale nel Medioevo, Palermo 1986, pp. 183-204; A. Settìa, Pievi, cappelle e popolamento nell'alto medioevo, in Id., Chiese strade e fortezze nell'Italia medievale, Roma 1991, pp. 10-17; J.M.H. Smith, Religion and lay sodety, in The New Cambridge Medieval History, II, Cambridge 1995, pp. 654-678, in part. 672 ss.; Tréffort, L'église carolingienne cit., pp. 143-163.
44 Segnali molto significativi in questa direzione emergono ad esempio dal canone 18 del Concilio di Braga del 561 («Item placuit, ut corpora defunctorum nullo modo intra basilicam sanctorum sepeliantur, sed si necesse est, de foris circa murum baselicae usque adeo non abhorret. Nam si firmissimum hoc brebilegium usque nunc retinent civitates, ut nullo modo intra ambitus murorum cuiuslibet defuncti corpus humetur, quanto magis hoc venerabilium martyrum debet reverentia obtinere»: J. Vivès et al. (a cura di), Concilios visi-goticos e hispano-romanos, Madrid 1963, p. 75) o ancora, cent’anni dopo, nella Vita di san Vaast di Arras di Giona di Bobbio (c. 645): «Quibus file respondebit, saepius eum [Vaast] audire dicentem, quod nullus intra muros civitatis sepeliri debuisset, quia omnis civitas lo-cus debet esse vivorum, non mortuorum» (Vita s. Vedasti episcopi Atrebatensis auctore Iona [BHL 8501], § 9, ed. B. Krusch in MGH, Scriptores rerum merovingicarum, III, Hannove-rae 1896, p. 424 = Scriptores rerum germanicarum in usum scbolarum ex MGH separatim editi, 37, Hannoverae et Lipsiae 1905, p. 317, secondo diversa lezione).
45 Tréffort, L'Église carolingienne cit., p. 137. Il processo di avvicinamento tra città dei vivi e città dei morti è riscontrabile sia nei casi di zone prediali circa moenia già destinate a necropoli sia in quelli di tombe isolate ovvero di chiese e cappelle erette al di sopra di antichi mausolei familiari o nei pressi di piccoli cimiteri di campagna, spesso collegati o addirittura nel cuore di un centro abitato, luoghi d’asilo privilegiati e segno d’appartenenza esclusiva alla comunità ecclesiale mediante la cellula parrocchiale.



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46 Su questo aspetto si veda ora l’importante ricerca di E Heim, «Virtus». Idéologie politique et croyances religieuses au IVe siede, Bern-Frankfurt/M.-New York-Paris 1991.
47 Cfr. Ch. Pietri, Saints et démons: l’héritage da l’hagiographie antique, in Santi e demoni cit., pp. 17-90, in part. 74-82; Id., L'évolution du culte des saints aux premiers sièdes chrétiens: du témoin à l'intercesseur, in Les fonctions des saints cit., pp. 15-36.
48 Cfr. P. Brown, La formazione dell'Europa cristiana. Universalismo e diversità (200-1000 d.C.), Roma-Bari 1995, pp. 117-136; Id., Il sacro e l'autorità. La cristianizzazione del mondo romano antico, Roma 1996, pp. 3-31.
49 Vedi supra, nota 23.
50 Cfr. H. Delehaye, Sanctus. Essai sur le culte des saints dans l'Antiquité, Bruxelles 1927, pp. 109-121; G. Penco, Medioevo monastico, Roma 1988, pp. 387-410.
51 Riflessioni e indicazioni in proposito nel mio Reliquie, martino, anatomia = Culto dei santi e dissezione dei morti, § 2 («Chirurgo e carnefice, criminali e santi»); cfr. inoltre E. Cantarella, I supplizi capitali in Greda e a Roma, Milano 1991, pp. 171-210, in part. 190 ss.
52 Cfr. Cardini, Reliquie e pellegrinaggi cit., p. 1006.
53 Sulla doppia valenza (inclusiva ed esclusiva) del «sacro», non riducibile alla sua proverbiale «ambivalenza», mi richiamo alle considerazioni di G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino 1995, pp. 79-127, e in part. 83-89.
54 Cfr. E. Bickerman, Die ròmische Kaiserapotheose, in «Archiv fiir Religionswissen-schaft», 27 (1929), pp. 1-34; E Dupont, L'autre corps de l'empereur-dieu, in Corps des dieux, a cura di Ch. Malamoud e J.-P. Vernant, Paris 1986 = «Le temps de la réflexion», VII (1986), pp. 231-252; C. Ginzburg, Représentation: le mot, l'idée, la chose, in «Annales ESC», 46 (1991), 6, pp. 1219-1234 (ora in Id., Occhiacd di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Milano 1998, pp. 82-99).
55 «Le immagini imperiali di cera e le effigie reali, che portavano a compimento la morte degli imperatori in quanto processo sociale, equivalevano, su un piano diverso, alle mummie o agli scheletri» (Ginzburg, Représentation cit., p. 85 della rist. in versione it.).
56 Cfr. Hertz, Contributo cit., p. 79; si noti, d’altra parte, che in alcune delle società etnologiche studiate da Hertz gli «uomini-medicina», al pari degli asceti e dei bambini, venivano immediatamente sepolti: dal momento che già in questa vita si erano resi in qualche modo estranei alla società terrena (o, nel caso dei fanciulli, non erano ancora ritualmente entrati a farne parte), i loro cadaveri non necessitavano di particolari precauzioni e dispositivi rituali per garantirne l’accesso pacificato nel mondo dei morti, ovvero la liberazione dal contagio funesto dello stato di morte (cfr. ibid., p. 135, nota 333).
57 Cfr. E.A.R. Brown, Death and thè Human Body in thè Later Middle Ages. The Legi-slation of Boniface Vili on thè Division of thè Corpse, in «Viator», 12 (1981), pp. 221-270; C. Bertelli, Il corpo del re. Sacralità del potere nell'Europa medievale e moderna, Firenze 1990, pp. 30-35 e passim-, A. Paravicini Bagliani, Medicina e scienze della natura alla corte dei papi nel Duecento, Spoleto 1991, pp. 269-279, 336-337; A. Carlino, La fabbrica del corpo. Libri e dissezione nel Rinascimento, Torino 1994, pp. 214-219.
58 Cfr. D. Owen Hughes, Riti di passaggio nell'Occidente medievale, in Storia d'Europa, III. Il Medioevo, Torino 1994, pp. 985-1037, in part. 1030.
59 Cfr. A. Vauchez, La saintété en Occident aux derniers siècles du Moyen Age, Rome 1981, pp. 499-507; M. Bouvier, De l'incorruptibilité des corps saints, in J. Gélis e O. Redon (a cura di), Les miracles miroirs des corps, Paris 1983, pp. 191-221; A. Angenendt, Der "ganze' und ‘unverweste' Leib: Eine Leitidee der Reliquienverehrung bei Gregor von Tours und Beda Venerabilis, in H. Morder (a cura di), Aus Archiven und Bibliotheken: Festschrift fùr Raymond Kottje, Frankfurt 1992, pp. 33-50; G. Lenhoff, The Notion of Tn-corrupted Relics' in Early Russian Culture, in B. Gasparov e O. Raevsky-Hughes (a cura di), Christianity and thè Eastern Slavs, I: Slavic Cultures in thè Middle Ages, Berkeley-Los Angeles 1993, pp. 252-275; E. Morini, La Chiesa ortodossa. Storia, disciplina, culto, Bologna 1996, pp. 401-417.
60 Sulla relazione tra «stato di morte» dei primitivi e Purgatorio cristiano, non presa in considerazione da Jacques Le Goff, segnalo le pionieristiche riflessioni di Hertz, Contributo cit., pp. 100 e spec. 133-134, nota 322: «L’idea di Purgatorio non è altro, infatti, che la trasposizione in linguaggio etico della nozione di un periodo preparatorio che precede la liberazione finale. Le sofferenze dell’anima durante il periodo intermedio appaiono dapprima come la conseguenza dello stato transitorio in cui essa si trova. In uno stadio



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successivo dell’evoluzione religiosa, esse sono concepite come il proseguimento della necessaria espiazione dei peccati commessi durante l’esistenza terrena».
61 Si pensi soltanto ai casi eclatanti di impianti insediativo-abitativi all’interno degli stessi atria (cfr. Tréffort, LEglise carolingienne cit., pp. 151 ss.).
62 Cfr. B. Young, Paganisme, christianisation et rites funéraires mérovingiens, in «Archeologie medievale», 7 (1977), pp. 5-81 (rimane il lavoro fondam.); A. Dierkens, Cimetiè-res mérovingiens et histoire du haut Moyen àge. Chronologie - Société - Réligion, in Acta Historica Bruxellensia, IV, Histoire et méthode, Bruxelles 1981, pp. 15-70; per altre indicazioni sui cimiteri del VI-Vili secolo vedi supra, nota 9.
63 Cfr. Geary, The Use of Archaeological Sources for Religious and Cultural History, in Id., Living with thè Dead cit., pp. 30-45, in part. 43, che qui di seguito parafraso quasi alla lettera.
64 «Le reliquie erano a tutti gli effetti detentrici di diritti di possesso, ricevevano donazioni ed erano riconosciute come proprietarie delle chiese in cui erano state sepolte. Erano a capo della famiglia delle rispettive istituzioni religiose ed erano ritenute responsabili della salvaguardia degli interessi della comunità. Per contro, ciascuna familia doveva loro venerazione, offerte e un costante servizio di culto» (ivi, p. 42, mia trad.).
65 Geary rinvia qui, ovviamente, ai noti lavori di Oexle, Schmid e J.-Ch. Picard; cfr. anche Tréffort, L'Église carolingienne cit., pp. 181 ss. Non è certo un caso che gli unici depositi funerari sia pur a carattere simbolico, mantenutisi sino all’età carolingia e oltre, siano quelli che contrassegnavano l’ufficio sacerdotale (calici e patene) e abbaziale (croce, simbolo del tau), poiché proprio il clero (e l’alto clero in particolare), e non più i nuclei familiari o figure di particolare rilevanza sacrale (re, fondatori di stirpi aristocratiche, ecc.) avrebbe dovuto rimanere l’esclusivo mediatore privilegiato con l’aldilà, sia direttamente sia per il tramite dei santi (al cui novero essi stessi un giorno sarebbero virtualmente appartenuti): e se l’agiografia merovingia (da cui rileva il tipo dello Adelsheilige studiato da Karl Bosl e Friederich Prinz) si sforzava di diffondere modelli ascetici di morte santa e di sobria pietà funeraria (cfr. M. Van Uytfanghe, Stylisation biblique et condition humaine dans l’hagiographie mérovingienne [600-750], Bruxelles 1987, pp. 228-246), ciò probabilmente doveva accadere proprio perché, di fatto, le cose andavano in senso contrario alle aspettative dei teologi che ne ispiravano le concezioni: del resto, quegli stessi prelati che avrebbero dovuto diffondere per il tramite della pastorale e dell’esempio personale anche i nuovi modelli della morte e sepoltura cristiane, erano spesso i primi a disattenderli, compresi com’erano dalla forza dei vincoli dinastici e delle tradizioni ancestrali delle familiae aristocratiche di cui erano rampolli.
66 Cfr. La Rocca, Morte e società cit., pp. 237-239; E. James, I Franchi, Genova 1998, pp. 92-97, 112-120; e vedi supra, nota 62.
67 È vero che le non poche esortazioni e indicazioni in tal senso (e.g. i modelli agiografici di morte santa), miravano essenzialmente a combattere l’eccessivo sfarzo di funerali e sepolture, ed erano pertanto sostenute da motivazioni prettamente ascetico-caritative (umiltà, semplicità, rinuncia dinnanzi alla morte delle ricchezze mondane: cfr. Tréffort, LÉglise carolingienne cit., pp. 72-77, 179-182), dal momento che, come insegnava Agostino, rimaneva pur sempre irrilevante il trattamento e la stessa sepoltura del cadavere in ordine alla futura resurrezione dei corpi (la cura mortuorum ridondava a beneficio esclusivo dei viventi, e in ogni caso la preghiera d’intercessione prò defunctis doveva passare per le forme codificate e mediate dall’assemblea liturgica). Ma il clero, nello sforzo di sradicare quelle antiche abitudini, era ben consapevole che un’eccessiva focalizzazione della pietà funeraria intorno alle tombe di famiglia (con tutti i riti e i gesti incentrati in ultima istanza sull’idea ancestrale di una persistente vitalità sui generis del morto, che trovava espressione in una peculiare sensibilità del cadavere, e con quello che essi realmente significavano nei termini di un’implicita riaffermazione e periodica ricognizione degli antichi legami di solidarietà dinastica e cetuale intorno al «luogo elegante e privato» di sepoltura: cfr. P. Brown, Il culto dei santi. Origine e diffusione di una nuova religiosità, Torino 1983, pp. 37-74), poteva pur sempre rappresentare un rischio insidioso e sottilmente dilacerante rispetto ai nuovi vincoli di solidarietà comunitaria in seno alla realtà sacramentale della chiesa.
68 Anche se dal IX secolo la chiesa disciplina e restringe sempre più al clero e ai nobili il diritto di sepoltura all’interno delle chiese (cfr. infra, nel testo). B. Effros (Beyond cemetery walls: early medieval funerary topography and Christian salvation, in «Early Medieval Europe», 6 [1997], 1, pp. 1-23) ha opportunamente rilevato come «The Church itself



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had an active interest in mantaining thè rite of grave goods fot thè promotion of thè status of saints, church leaders, and church benefactors» (p. 5, nota 17); si veda anche Ead., Simbolic Expressions of Sanctity: Gertrude of Nivelles in thè Context of Merovingian Mortua-ry Customs, in «Viator», 27 (1996), pp. 1-10.
69 Cfr. J. McCulloh, From Antiquity to thè Middle Ages: Continuity and Change in Papal Relic Policy from thè 6th to thè 8th Century, in E von Dassmann, K.S. Frank (hrsg), Pietas. Festschrift fùr Bernhard Kotting, Mùnster 1980, pp. 313-324; V. Saxer, L'utilisation par la liturgie de l'espace urhain et suhurhain: l'exemple de Rome dans l'antiquité et le haut moyen age, in Actes du XIe Congrès International d'archeologie chrétienne (1986), Rome 1989, II, pp. 932-936, 1020-1023; L. Pani Ermini, Santuario e città, in Santi e demoni cit., Il, pp. 837-877, in part. 865 ss.; Ph. Pergola, Le catacombe romane. Storia e topografia, Roma 1997, pp. 103-105; altre indicazioni e una rassegna critica sul classico tema dei due mores in fatto di frammentazione e traslazione dei corpi santi nel mio Reliquie, martirio e anatomia = Culto dei santi e dissezione dei morti, §§ 1.4 e 3.3-4.
70 Cfr. Hertz, Contributo cit., p. 79.
71 Mi richiamo qui in primo luogo alle linee metodologiche che J.-Cl. Schmitt ha espresso in Religione, folklore e società nell'Occidente medievale, Roma-Bari 1988, pp. 1-49, e nel successivo Vne histoire religieuse du Moyen Age est-elle possible? Jalons pour une anthropologie historique du christianisme medieval, in F. Lepori e F. Santi (a cura di), Il mestiere di storico del Medioevo, Spoleto 1994, pp. 73-83.
72 Geary, Living with thè Dead cit., p. 44.
73 Cfr. A.M. Orselli, Coscienza e immagini della città nelle fonti tra V e IX secolo, in Early Medieval Towns in Western Mediterranean, Mantova 1996, pp. 9-16; Brogiolo-Geli chi, La città nell'alto medioevo cit., pp. 161-162 (con ricca bibliografia).
74 Cfr. A.M. Orselli, E immaginario religioso della città medievale, Ravenna 1985, pp. 309-327 e passim-, Picard, Les souvenir des evèques cit., pp. 357-385; P. Tomea, Tradizione apostolica e coscienza cittadina a Milano nel medioevo. La leggenda di san Barnaba, Milano 1993, pp. 320-440; e il mio «Gloriosa Civitas». Culto dei santi e società cittadina a Piacenza nel medioevo, Bologna 1993, pp. 19-54; ho inoltre potuto illustrare un altro caso emblematico nel saggio Culti e dedicazioni nel territorio parmense: il dossier bercetano dei santi Mo-deranno e Abbondio (sec. VIII-X), in R Greci (a cura di), Itinerari, poteri, religiosità in Emilia occidentale nel Medioevo, II, Bologna 1999 (in corso di stampa).
75 Cfr. D. Bullogh, Burlai, Community, and Belief in thè Early Medieval West, in Ideal and Reality in Frankish and Anglo-Saxon Society: Studies Presented to J.M. Wallace-Hadrill, a cura di P Wormald, D. Bullogh e R. Collins, Oxford 1983, pp. 177-201; Février, La mort chrétienne cit., pp. 923 ss.; Bynum, The Resurrection of thè Body cit., pp. 204 ss.
76 Sulla problematica eucaristica in relazione all’ambito funerario e al culto delle reliquie si veda ora l’importante ricerca di Snoek, Medieval Piety cit., pp. 175-226 e passim; si tengano però sempre presenti i fondamentali saggi di Marta Cristiani (non citati da Snoek, che del resto ignora sistematicamente la bibliografia italiana), ora riuniti in Ead., Tempo rituale e tempo storico. Comunione cristiana e sacrificio, Spoleto 1997.
77 Per questo tema cruciale si veda ora anche Effros, Beyond cemetery walls cit., in part. pp. 11 ss.
7® Cfr. M. Lauwers, La sépulture des patriarches (Genèse, 23). Modèles scripturaires et pratiques sociales dans l'Occident médiéval au du bon usage d'un récit de fondation, in «Studi medievali», 37 (1996), 2, pp. 519-549, in part. 531 ss.
79 Rimane di importanza capitale M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, Torino 1965, pp. 153-292, uno dei capolavori assoluti di teoria sociale tout court pubblicati in questo secolo (cfr. ora Caillé, Il terzo paradigma, pp. 19 ss. e passim); con estrema cautela si potrà consultare in proposito anche G. Bataille, Il dispendio, nuova ed., a cura di E. Pulcini, Roma 1997; fra i più recenti sviluppi della tematica maussiana, trascelgo, per l’apertura di nuovi orizzonti ermeneutici e la rottura salutare di pregiudizi e miopie disciplinari, M. Sah-lins, L'economia dell'età della pietra, Milano 1980, pp. 155 ss., 189 ss.; Baudrillard, Lo scambio simbolico cit., pp. 137-158; Godbout-Caillé, Lo spirito del dono cit., pp. 131-212; tra i pochi e significativi saggi di «applicazione» medievale della teoria sociologica del dono segnalo quelli di A. Gurevic, Le origini del feudalesimo, Roma-Bari 1982, pp. 59-77; Id., Le categorie della cultura medievale, Torino 1983, pp. 227-249; piuttosto deludente, invece,



La città dei vivi e la città dei morti
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mi è sempre parso, da questo punto di vista, il contributo di R. Michalowski, Le don d'amitié dans la société carolingienne et les «Translationes sanctorum», in Hagiographie, cul-tures et sociétés (IVe-XIIe siede), Paris 1981, pp. 399-416; di gran lunga più stimolanti, da un punto di vista teorico e metodologico, sono gli approcci di Patrick Geary nei suoi Ex-changing and Interaction (cit. supra, nota 38), e Sacred Commodities: thè Circulation of Medieval Relics, in Id., Living with thè Dead cit., pp. 194-218; segnalo infine su questi temi le acute osservazioni di G. Petralìa, A proposito dell"immortalità di «Maometto e Carloma-gno» (o di Costantino), inz«Storica», I (1995), 1, pp. 37-87, in part. 45 ss.
80 Cfr. Tréffort, L'Eglise carolingienne cit., pp. 183-184.
81 Oltre al più volte citato Hertz, e alle ormai classiche ricerche di Maurice Halb-wachs sui quadri sociali e topografici della memoria, segnalo su questi temi l’eccellente studio di J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino 1997; nonché, per un ambito più specifico ma non meno stimolante, la ricerca di P. Geary, La mémoire et l'oubli à la fin du premier millénaire, Paris 1996.
82 Cfr. nota 79.
83 Cfr., già in questo senso, Guerriers et paysans (1973) di G. Duby (trad. it. Le origini dell'economia europea. Guerrieri e contadini nel Medioevo, Roma-Bari 1975, pp. 69-70): il cristianesimo, ponendo fine alla prassi dei depositi funerari e avocando alla chiesa la «parte del morto», avrebbe indirettamente contribuito al lento ma inarrestabile sviluppo economico europeo.
84 Su questo punto decisivo si veda ora anche Lauwers, La mémoire des ancétres cit., pp. 172-204 («Les échanges et les morts»)-, sull’«effetto d’infiltrazione e di diffusione dell’economia ontologica» (legata in ultima istanza all’articolazione del rapporto fra il quaggiù e l’aldilà) in seno all’«economia reale che governa l’organizzazione degli esseri e il loro modo di abitare nel mondo», ha scritto pagine penetranti, proprio in riferimento all’Europa feudale cristiana, M. Gauchet, Il disincanto del mondo cit., pp. 112 ss.
85 In questo senso mi paiono muoversi anche gli studi di Paxton, Christianizing Death cit., pp. 92 ss., e della McLaughlin, Consorting with Saints cit., pp. 178 ss.
86 Cfr. da ultimo Van Uytfanghe, L'origine, l'essor cit., pp. 159-160: è certo opportuno ricordare che «... la concezione di una solidarietà tra i cristiani defunti - dopo la loro morte individuale e prima della resurrezione - con i loro fratelli di quaggiù, costituisce una novità di rilievo rispetto al Nuovo Testamento» (p. 160), ma va pur detto che si tratta di una solidarietà che presuppone l’awenuta separazione nel destino escatologico immediato tra morti ordinari e morti privilegiati (che in Origene, sulla scorta di Clemente Alessandrino, non sono più soltanto i martiri ma tutti i giusti, che beneficiano dell’ammissione diretta al Paradiso); diversamente non sarebbe nemmeno concepibile una teologia specifica dell’intercessione come quella di Origene, che sconta, appunto, una divaricazione, sia pur non definitiva, dei rispettivi destini ultraterreni. Storicamente, sarà la chiesa ad assicurarsi la gestione di questa divaricazione, facendosi mediatrice delle sue profonde implicazioni sociologiche.
87 Cfr. supra, nota 38.
88 Cfr. supra, nota 21
89 Cfr. J. Chiffoleau, La comptabilitè de l'au-delà. Les hommes, la mort et la religion dans la région d'Avignon à la fin du Moyen Age (vers 1320 - vers 1480), Rome 1980.
90 Cfr. l’importante raccolta di saggi a cura di G. Gnoli e J.-P. Vernant, La mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge-Paris 1982.
91 Mi richiamo qui soprattutto agli enunciati di Baudrillard ne Lo scambio simbolico e la morte, più volte citato; questi temi saranno approfonditi nel mio prossimo saggio «Pignora salutis». Sul grande processo occidentale di oggettivazione del valore attraverso gli sviluppi dell’economia monetaria si è soffermato in anni recenti, discutendo la celebre Phi-losophie des Geldes di Georg Simmel (1900), anche l’importante libro di S. Moscovici, La machine à faire des dieux. Sociologie et psychologie, Paris 1988, pp. 338 ss. (trad. it. La fabbrica degli dèi. Saggio sulle passioni individuali e collettive, Bologna 1991, pp. 393 ss.).
92 Cfr. J.-Cl. Schmitt, Les superstitions, in Histoire de la France religieuse, I. Des dieux de la Gaule à la papauté d'Avignon, a cura di J. Le Goff e R Rémond, Paris 1988, pp. 417-551, in part. 467-475 (trad. it., Medioevo «superstizioso», Roma-Bari 1992, pp. 67-76); Id., Les revenants cit., pp. 25-49.
93 Cfr. K. Bosl, «Potens» e «pauper» [1963], trad. it. in O. Capitani (a cura di), La concezione della povertà nel Medio Evo, Bologna 1974, pp. 95-151.

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94 Cfr. G. Tabacco, Il cristianesimo latino altomedievale, in Storia del Cristianesimo, I, Roma-Bari 1997, pp. 20-21; rimangono importanti i contributi raccolti in Culto cristiano, politica imperiale carolingia, Todi 1979 (in particolare i saggi di C. Vogel, G. Arnaldi e M. Cristiani); un rinnovato approccio alla gestualità liturgica carolingia è quello saggiato da J.-Cl. Schmitt, La raison des gestes dans l’Occident médiéval, Paris 1990, pp. 93 ss., 121 ss.
95 Su questo punto si veda ora l’importante ricerca di M. Banniard, Viva voce. Com-munication écrite et communication orale du IVe au IXe siècle en Occident latin, Paris 1992; ricca di spunti e suggestioni è la recente raccolta di saggi di B. Stock, La voce del testo. Sull'uso del passato, Roma 1996.
96 Cfr. A.M. Orselli, Di alcuni modi e tramiti della comunicazione col sacro, in Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda antichità e alto medioevo, Spoleto 1998 (Settimane di studio, XLV), pp. 903-943.
97 Una buona rassegna critico-biliografica su questo tema cruciale è ora offerta nella sintesi di M. Gallina, Ortodossia ed eterodossia, in Storia del Cristianesimo, pp. 156-179.
98 Si pensi ad esempio a quanto affermano i Libri Carolini intorno alla sostanziale differenza ontologica e, conseguentemente, alla diversa destinazione cultuale, tra immagine e reliquia: cfr. P. Brown, Una crisi dei secoli oscuri: aspetti della controversia iconoclastica, in Id., La società e il sacro nella tarda antichità, Torino 1988, pp. 208-255, in part. 211-216; P. Geary, Furta sacra. Thefts of Relics in thè Central Middle Ages, Princeton 1978, pp. 36-37; suggestioni feconde sul possibile rapporto di contiguità e successione storica tra reliquie, icone e altri oggetti metonìmici (riconducibili all’antica categoria degli eidòla) e immagine ritrattistica sono state di recente avanzate da Ginzburg, Occhiacci di legno cit., pp. 90-95; sulle reliquie come oggetti semiofori, veicoli del rapporto con l’invisibile, si veda il fondam. saggio di K. Pomian, «Collezione», in Enciclopedia Einaudi, 3 (1978), pp. 330-364, in part. 338-39.
99 Cfr. Godbout-Caillé, Lo spirito del dono cit., pp. 159-160.
100 «In Dio si interrompe lo scambio simbolico, non più la reversibilità dei doni, ma il dono senza contro-dono, che è poi la forma e l’essenza del potere, anche se l’eufemismo del linguaggio religioso ne parla in termini di “grazia”. La prima articolazione di questa logica disgiuntiva e perciò “diabolica” che percorre la religione biblica è nella contrapposizione tra la vita e la morte» (Galimberti, Il corpo cit., pp. 36-37).