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Title
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RITORNO A SPEENHAMLAND. DISCUTENDO LA LEGGE INGLESE SUI POVERI (1795-1834)
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Creator
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Raffaele Romanelli
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Date Issued
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1983-08-01
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Is Part Of
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Quaderni Storici
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volume
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18
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issue
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53 (2)
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page start
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625
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page end
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678
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
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Rights
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Quaderni storici © 1983 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230921084856/https://www.jstor.org/stable/43777171?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoyNiwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjYyNX19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Ada9cf5becd96e8af36e9ffbebed9d40a
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Subject
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surveillance
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discipline
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biopower
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panopticon
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extracted text
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RITORNO A SPEENHAMLAND. DISCUTENDO LA LEGGE INGLESE SUI POVERI (1795-1834)
Il 5 maggio 1795 i magistrati della contea del Berkshire si riunirono al Pelikan Inn di Speenhamland insieme ad alcuni altri notabili del luogo per discutere le politiche assistenziali da seguire in quella difficile stagione in cui i prezzi erano alle stelle. Scartata la proposta di imporre un «salario minimo legale», i venti magistrati decisero invece di fissare il reddito minimo che ciascun lavoratore avrebbe dovuto ricevere «sia dal lavoro suo e della famiglia, sia dal sussidio» commisurandone l'entità al prezzo del grano sul mercato secondo ima speciale «scala mobile», nonché al numero dei componenti della famiglia1.
Per molto tempo quella decisione ha goduto di pessima fama. La prassi di elargire dei sussidi di integrazione salariale su fondi parrocchiali (allowances in aid of wages), che da Speenhamland si sarebbe diffusa in tutto il paese, avrebbe avuto conseguenze così gravi da travolgere infine Finterò sistema. «Qualsiasi autorità consultiamo sulle Poor Laws inglesi del diciannovesimo secolo arriviamo alle medesime conclusioni: ___ questo l'esordio di un celebre articolo che quelle conclusioni contesta — la vecchia legge demoralizzava la classe lavoratrice, incoraggiava la crescita della popolazione, abbassava i salari, riduceva le rendite, distrug geva la piccola proprietà e danneggiava i contribuenti; quanto più soccorreva la povertà tanto più l'incrementava, e il problema di creare un sistema efficiente di assistenza pubblica fu infine risolto con la riforma ‘severa ma salutare' del 1834. Gli storici sono così unanimi sia nell'incriminazione che nella sentenza che noi possiamo rinunciare al piacere di citare ‘versetto e capitolo'» 2.
In prima istanza il giudizio sommario è veridico: per molto tempo la storiografia ha accolto e riproposto una condanna d’opinione che collega Speenhamland e l'allowance a molte delle trasformazioni che sconvolsero la scena rurale inglese tra Sette e
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Ottocento; in campo demografico (il sostegno al reddito familiare avrebbe facilitato una crescita incontrollata della popolazione); economico (il diffuso pauperismo e il malessere della proprietà sarebbero stati accentuati dal crollo dei salari da un lato — indotto dal loro appiattimento sul livello minimo del salario garantito —, e dall’aumento vertiginoso delle spese, e dunque delle imposte, dall'altro lato, con conseguente depressione di investimenti e profitti, nonché, tramite i livelli d'affitto, delle stesse rendite); e infine di psicologia sociale (ché l'assistenza su base parrocchiale avrebbe frenato la mobilità del lavoro e dunque l'iniziativa, mentre separando la remunerazione dalla produttività avrebbe depresso l'efficienza e il morale stesso dei lavoratori, accentuandone lo stato di subordinazione collettiva e gli atteggiamenti rivendicativi: un passaggio tipico dalla deferenza paternalistica alla contrapposizione di classe).
Si tratta come si vede di giudizi che hanno notevole rilievo per la connotazione di fenomeni tipici di un'intera fase di trapasso epocale, e che nei nostri decenni risultano poi di evidente attualità, e politica e storiografica: è certamente attuale la discussione sugli effetti economico-culturali di misure di protezionismo sociale, ed è attuale, nel campo degli studi storici, ima problematica imperniata su fatti demografici, sociali, di psicologia collettiva. E poiché la ricerca storica non a caso ritorna con crescente interesse su questi temi, è dunque lecito chiederle oggi una verifica del vecchio giudizio, un controllo sul passato utile eventualmente a reimpostare la discussione sul presente.
1. Revisionismo
Una confutazione netta ed esplicita del vecchio anatema lanciato contro Speenhamland è già agli atti, ed anzi rischia di essere già ortodossìa, almeno dal 1963, da quando cioè Marc Blaug, passati rapidamente in rassegna i maggiori capi di imputazione addebitati aH'allowance, ne denunciò l'inconsistenza logica e l'infondatezza documentaria. L'anno seguente lo stesso Blaug ritornò sull'argomento, questa volta contestando il più corposo atto d'accusa mosso contro l'allowance, il Report della commissione d'inchiesta del 1832-34, sulla base delle stesse sue fonti3.
A questi studi Blaug non ha dato alcun seguito, ma sulla sua scìa, e a distanza di tempo, altri di cui ora diremo hanno combattuto la stessa battaglia. Ciò che colpisce leggendo quei
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testi è la natura delle argomentazioni. Le principali hanno carattere teorico. Poiché un sussidio dovrebbe diminuire l'offerta di lavoro, dice ad esempio Blaug, ne consegue che i salari dovrebbero aumentare, e non potrebbero crollare insieme all'offerta di lavoro, come vuole la tradizione avversa all'allowance. Se poi i salari sono al di sotto d'un livello minimo di sussistenza — come era probabile che fosse nei distretti rurali nei quali si praticava l'integrazione — i sussidi innanzi tutto reintegrano carenze nutritive, aumentando la capacità produttiva e quindi i salari. A questo tipo d'argomentazione, che segnala l'insostenibilità teorica degli effetti attribuiti all’allowance, si è attenuto in modo ancor più stringente D. McCloskey anni più tardi, anch'egli sostenendo che l’assistenza non poteva contemporaneamente ridurre i salari e l’offerta di lavoro4. Per analizzare l’andamento dell’offerta di lavoro, McCloskey ipotizza costante la domanda, il che può fare generalizzando l’ipotesi per la quale i coltivatori, sui quali ricadeva la tassa, non avessero a risentire dell’accresciuto carico fiscale perché ne scaricavano il peso sul fattore fisso ottenendo riduzioni di fitto dai proprietari. L'effetto del sussidio sull'offerta doveva variare a seconda che si trattasse di sostegno al salario oppure al reddito: nel primo caso avrebbe provocato un aumento dell’offerta di lavoro, con caduta di salari, nel secondo una diminuzione dell’offerta e un’ascesa dei salari, ma mai le due cose insieme; ed è questo che preme all'autore di segnalare, più dell'ipotesi, cautamente formulata sulla base della «fragile» documentazione esistente, che quello concesso a Speenhamland operasse come sussidio al reddito, non al salario.
In queste confutazioni il riscontro statìstico a volte accompagna e integra la deduzione logica. Che la diffusione del sistema Speenhamland non abbia inciso sul crescente volume della spesa assistenziale è ad esempio affermato da Blaug dapprima notando, per sovrapposizione di curve statistiche, che l'andamento della spesa è assolutamente sincrono all’andamento del prezzo del grano (erano dunque forti le tasse quando erano alti i profitti degli agricoltori, e la curva dipende dall’andamento dei raccolti, senza alcun effetto moltiplicatore da parte deH’allowance), e poi mostrando che l’andamento dei salari aggregati delle contee dove era applicato il sistema non differiscono da quelli delle contee dove il sistema non era adottato, anche se in queste ultime la spesa era in genere più elevata, cosa che deve essere attribuita al più basso livello dei salari, una condizione questa che è dunque causa della spesa più elevata, e non effetto.
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Se la confutazione ora logica ora statistica di Blaug investe un po’ tutti i capi di imputazione levati contro l’allowance — dagli effetti stimolanti sul trend demografico a quelli depressivi sul livello degli affitti, sulla sorte della yeomanry, suH’efficienza dei lavoratori — a negare l’effetto moltiplicatore che l’allowance avrebbe avuto sulla spesa assistenziale si è dedicato tempo dopo un altro storico dell'economia, D.A. Baugh, che ha studiato la spesa pro-capite di tre contee agricole del sud-ovest (Sussex, Essex e Kent) ponderandola però sul prezzo del grano. Ha potuto così concludere che non si registrarono aumenti reali di spesa tra il 1790 e il 1814, mentre l’aumento che seguì al 1813 cessò dopo il 1820. Dunque «non c’è segno alcuno di effetti economici cumulativi della politica d’assistenza durante gli anni della guerra: il suo costo reale non era crescente, e non vi fu una progressiva sostituzione dell’assistenza ai salari»5. E mentre per la prima fase l’andamento della spesa va collegato al prezzo del grano, l’aumento successivo al 1813 va attribuito alla crescita di una disoccupazione strutturale, non alla rincorsa dei prezzi da parte dei salari sovvenzionati. «In sintesi, conclude Baugh6, i dati statistici non confortano in alcun modo l’opinione secondo la quale l’impulso del sistema Speenhamland ebbe un qualche effetto sulle dinamiche della spesa assistenziale del dopoguerra».
Simili verifiche teorico-statistiche sono state compiute anche sull’altro principale versante delle imputazioni levate contro la vecchia poor law, quello demografico. Qui del resto la confutazione si collega al complesso dibattito sulla validità delle affermazioni malthusiane, nonché sulle capacità della demografia storica di raggiungere conclusioni sicure sulle cause dell’aumento della popolazione, e più in particolare richiama il dibattito già apertosi negli anni Venti del Novecento in Inghilterra, quando l’istituzione degli assegni familiari aveva chiamato in causa l’antico precedente 7. L’argomento è stato ripreso nel 1969 da James P. Huzel, che ha innanzi tutto ricostruito, sulla base di proiezioni di dati censuari, i mutamenti dei tassi di fertilità su base nazionale ed ha quindi rilevato un declino risalente agli anni Venti dell’Ottocento, in nessun modo imputabile all’abolizione dell’allowance del 1834. Ha poi messo a confronto i comportamenti demografici di due parrocchie tipo che avevano sperimentato politiche assistenziali opposte, concludendone: «1. che l’assunto di Malthus e dei commissari governativi del primo Ottocento, secondo il quale le leggi sui poveri, e in particolare l’allowance System, minando i checks preventivi erano una delle principali cause dell’aumento della
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popolazione, è fondamentale errato, e 2. che l'allowance non aveva l’effetto di elevare i tassi di natalità e di nuzialità ma semmai di ridurre la mortalità infantile, anche se non in misura tale da influenzare il tasso generale di mortalità o da influire in modo apprezzabile sul tasso di crescita della popolazione»8. Potendo utilizzare i dati nel frattempo forniti dal Cambridge Group, lo stesso Huzel è di recente tornato sull’argomento e, di nuovo mettendo a confronto parrocchie nelle quali secondo testimonianze del tempo furono adottate politiche assistenziali differenti, oppure l’uso dell’allowance fu interrotto ad una data certa, ha nuovamente smentito 1’esistenza di una qualsiasi correlazione di tipo malthusiano tra assistenza e tassi di natalità9.
Anche Huzel, così come tutti gli autori fin qui citati — le cui ricerche costituiscono le più esplicite sfide (e le uniche di tipo quantitativo) lanciate al tradizionale pregiudizio avverso all’allo-wance — anche Huzel dunque conclude ricordando l’assunto con cui Blaug ha «riaperto il caso», e cioè che Speenhamland e l’allowance, come ogni altro provvedimento assistenziale del tempo non possono essere considerati agenti del pauperismo ma costituiscono una risposta ad esso. Di che natura sia questa risposta, quali effetti a sua volta abbia prodotto sul corpo sociale e sul fenomeno della «povertà», i nostri autori non dicono né si propongono di dire. Il loro scopo è essenzialmente polemico: smentire un nesso causale che l’opinione tradizionale ha affermato tra due ordini di fattori (da un lato l’allowance, dall’altro l’andamento globale della spesa, la dinamica dei salari, il comportamento demografico e quello economico dei lavoratori). Il procedimento è dunque quello della «prova negativa» 10 e consiste nel negare ora la plausibilità teorica ora la fondatezza documentaria di una correlazione positiva tra due serie di fenomeni statisticamente rilevati.
L’obiezione che lo storico può muovere al demografo o all’economista riguarda appunto la teoria e il documento, e la loro pertinenza. Egli può domandarsi se non sia del tutto anacronistico ipotizzare nelle campagne inglesi di fine Settecento una reattività di comportamenti demografici ed economici conforme alla teoria, tanto da farne elemento di verifiche (come nel rapporto tra offerta di lavoro e livello dei salari), e se comunque la realtà sociale di quell’epoca possa sopportare l’uniformizzazione-omolo-gazione imposta dalla riduzione statistica senza risultarne del tutto snaturata. Sarebbero a nostro avviso obiezioni «forti» e dalle vaste implicazioni: perciò ci pare comunque notevole che non
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abbiamo ostacolato la buona accoglienza fatta dalla storiografia alle tesi «revisionistiche», e in particolare agli scritti di Blaug. Al quale è stato sì rimproverato di assumere, scorrettamente, che «l’allowance System fosse la vecchia poor law» — cioè di ignorare l'inestricabile intreccio che lega quella pratica assistenziale alle molte altre di cui era fatta la legge — e quindi, assunto un angolo visuale così ristretto, di «arrivare a troppe conclusioni con troppo pochi dati»n; oppure di non cogliere la differenza tra parrocchie «chiuse» e parrocchie «aperte», nelle quali i termini del problema erano antitetici12, o addirittura di ignorare gli stessi antecedenti della polemica13. Ma si è trattato di obiezioni blande e rare, mosse da studiosi che erano perfettamente d'accordo con l'assunto revisionistico di Blaug.
Prima di impiegale troppe energie nella disamina delle argomentazioni revisionistiche va detto infatti che la loro immediata credibilità non appare tanto dovuta all'interna coerenza, e meno che mai alla novità della documentazione addotta, quanto all’atmosfera favorevole in cui esse cadono; un'atmosfera nella quale la diffidenza per i drastici giudizi negativi espressi nell'Ottocento sulle politiche assistenziali d'antico regime nasce dallo stretto parallelismo che viene stabilito tra quelle politiche e la moderna legislazione sociale 14. Seguendo la storia della questione si ha anzi l'impressione che una svolta netta del giudizio avvenga tra gli anni Venti e gli anni Trenta del nostro secolo, in corrispondenza dell’affermarsi dello «stato assistenziale», e quasi indipendentemente dal procedere della ricerca15.
La ricerca storica, forse a sua volta risentendo di quel mutamento di certezze, si dà allo scavo documentario all'incirca nello stesso torno di tempo. Mentre Clapham invita gli studi economici al «dettaglio», nel nostro campo diventerà quasi una costante affermare che «per capire la legge sui poveri è necessario concentrarsi sull'amministrazione più che sulla legislazione» 16. Col tempo, ci si è perciò trovati di fronte a una serie nutrita di ricerche monografiche alle quali manca una sintesi o un chiaro punto di riferimento, e dalle quali emerge un altro tipo di revisionismo — lo direi storiografico-documentario, anziché teorico-statistico — che si mostra disarmato d'ogni preconcetto e riparte dagli interrogativi apparentemente più ingenui circa il funzionamento del vecchio sistema, il trapasso dal vecchio al nuovo, il dibattito relativo.
Che vuol dire la parola «Speenhamland» nella storia inglese, si è domandato ad esempio Mark Neuman17? E, riandando ai
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testi, innanzi tutto si è accorto che la decisione del 1795 ha ben poco spazio nel dibattito del tempo. Fu citata da Young e descritta da Eden alla fine del secolo, ma poi del tutto dimenticata per decenni, anche quando infuriava la polemica contro l'assistenza prestata ai lavoratori abili; e ciò per il semplice motivo che la pratica di integrare occasionalmente i salari era usuale in congiunture difficili, e tale rimase dopo il '95, senza che l'adozione di una speciale tabella dei prezzi (della quale peraltro non mancano antecedenti e varianti18) la facesse diventare sistematica e caratteristica di determinate zone e di determinati periodi. Il sondaggio compiuto da Neuman nel Berkshire mostra che perfino nella contea di Speenhamland moltissime parrocchie non adottarono mai la scale, ed altre l'applicarono saltuariamente e con diverse, determinanti variazioni. Il fatto è che l'allowance poteva essere indicata dai magistrati come una delle misure da adottare accanto a numerose altre; non solo, ma «esisteva solo un tenue nesso tra le decisioni e raccomandazioni della magistratura e la pratica assistenziale della parrocchia» 19. Osservazione questa da tenere ben presente parlando del funzionamento complessivo della legge e del ruolo svoltovi dai vari soggetti sociali implicati, e che comunque definitivamente mostra come non sia possibile parlare di «aree Speenhamland», o addirittura di un «effetto Speenhamland» sull'intera agricoltura inglese come fatto ben indiividuabile e localizzabile. La ricerca storico-documentaria — e principalmente quella a carattere locale — farebbe insomma venir meno i caratteri di sistematicità, estensione e durata che la tradizione attribuisce alla pratica dell'allowance20 e sulla base dei quali soltanto è possibile affermare come negare su piano statistico gli effetti perniciosi di quella politica21.
Dunque questo tipo di revisionismo prima ancora d'accettare o di respingere le generalizzazioni ereditate ne smantella i presupposti. È un procedimento applicabile, ed applicato, a pressoché tutte le questioni che s'agitano attorno al tema della poor law, come a quelle riguardanti le workhouses o il settlement, gli altri due istituti che definiscono il sistema.
La legge del 1601, infatti, al momento di stabilire che per «mettere all lavoro» i poveri gli esponenti della parrocchia investiti dell'incarico (il churchwarden e gli overseers) potevano esigere l'apposita tassa e disporre del ricavato, da un lato aveva definito la base locale del sistema (e dunque anche vincolato l'assistenza alla residenza, secondo le antiche norme contro il vagabondaggio poi fissate nell'Act of Settlement and Removai del
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1662), dall’altro, invece, autorizzando gli amministratori a «erigere, costruire, impiantare in luoghi d’abitazione adatti e convenienti, posti in teme comuni o incolte [...] acconce dimore per i suddetti poveri impotenti, e altresì a ricoverarli, anche in più d’una famiglia, in un cottage o in una house» appositamente approntato 22, aveva con ciò posto le basi d’una distinzione di fondo che tra i tanti possibili modi di «mettere al lavoro» i poveri sarebbe stata più tardi fatta, quella tra soccorso «esterno» (out-door relief, come era l’allowance) e soccorso «interno» (indoor relief, ovvero l’internamento nelle poorhouses o nelle work-houses).
Ora appunto alla fine del Settecento e poi nei primi decenni dell’Ottocento, allorché a quanto pare di Speenhamland si era quasi persa memoria, sembra invece che si parlasse molto oltre che della legge in generale, in particolare delle workhouses 23, per la loro palese inadeguatezza a risolvere il problema del pauperismo, nonché per il carattere anonimo, tendenzialmente irreversibile, promiscuo e degradante che la segregazione vi assumeva in netto contrasto, sembrava, con lo spirito originario della legge. E la medesima ostilità manifestatasi allora per le vecchie workhouses, polemicamente chiamate «generai mixed workhouses», dopo avere ispirato la riforma del ’34 avrebbe poi condannato la workhouse riformata di dickensiana memoria.
Ma ecco che lo storico d’oggi — fatto proprio l’orrore dicken-siano per l’istituzione segregante, ma fors’anche turbato dalla complessità novecentesca del tema — comincia col porre allo stesso sistema riformato le sue ingenue, esplosive domande (del tipo: «How cruel was thè Victorian Poor Law?»24) oppure, voltosi allo studio d’archivio, si accorge che «i dati non confermano i facili stereotipi della mitologia della poor law»25. Quanto al periodo precedente la riforma, a ben pensarci lo storico deve ammettere di non sapere nemmeno bene cosa si debba intendere per workhouse, essendo la casistica così varia per ciò che riguarda le dimensioni, le finalità, il criterio di gestione, il tipo di popolazione internata. Del tutto particolari sono ad esempio da considerarsi quei casi nei quali erano stati costruiti edifici speciali di certe dimensioni, con sistemi di direzione politica e di management appositi sulla base di unioni tra parrocchie autorizzate da appositi atti del Parlamento. In questi casi forse la workhouse incarnava in pieno l’universo reclusorio, l’istituzione, mentre «la poorhouse parrocchiale quale era esistita dal XVI al XIX secolo all’inizio non aveva nulla dell’istituzione. Consisteva
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generalmente di un cottage, o di più cottages, usati indifferentemente come domicilio gratuito per qualche pensionato della parrocchia, come ricovero occasionale per invalidi e malati, come rifugio temporaneo di girovaghi o di poveri in attesa di esser tradotti in altre parrocchie» ^ Colonie penali, ospizi per invalidi, ospedali, case di lavoro, deterrente alternativo all’assistenza esterna: le workhouses potevano essere varie cose, e le stesse autorità del tempo «raramente avevano chiara la distinzione tra questi usi disparati della workhouse, e invariabilmente cercavano di combinarne più d’uno, o tutti insieme»27.
Tali erano i già confusi propositi, le direttive superiori. Una volta poi appurato che «gli scopi di una casa erano spesso tanto effimeri quanto lo era la rotazione annuale degli agenti parrocchiali» M, ciascuno di essi amministrandola a suo modo, in base ai suoi interessi o alle sue concezioni sociali, si comprende la difficoltà, per lo storico d’oggi, di affidarsi agli stereotipi d’un tempo. Gli inquirenti del 1834 non ebbero difficoltà a sostenere le loro tesi con gli esempi estremi del lassismo più degradante e del più formativo rigore; allo storico di oggi «la documentazione conservata negli archivi locali suggerisce che la vita aH’interno delle workhouses non era sempre così severa come si potrebbe supporre»29: alla casa si faceva ricorso solo in caso di effettiva necessità, ospitando allora anche semplici disoccupati, ma occasionalmente, e con frequente ricambio.
La ricerca tende insomma a suggerirci l’immagine d’ima così accentuata varietà di situazioni da sconsigliare ogni generalizzazione. Alla stessa conclusione dovremmo probabilmente arrivare se sottoponessimo alla verifica della ricerca un altro dei punti fermi consegnatici dalla tradizione: che la vecchia poor law, vincolando l’assistenza alla residenza, fosse d’ostacolo alla circolazione della forza lavoro e quindi contribuisse aH’impoverimento della popolazione rurale. In un notissimo passo della Ricchezza delle Nazioni si legge che «la grande diseguaglianza nel prezzo del lavoro che in Inghilterra di frequente troviamo in posti non molto distanti uno dall’altro è probabilmente dovuta agli ostacoli che la legge sul settlement pone a un lavoratore che voglia trasferire il suo lavoro da una parrocchia a un’altra f...]»30. La conseguente ripulsa della legge «divenne canone ortodosso dell’economia politica, e i suoi discepoli, da Pitt o Crumpe fino a J.R. McCulloch, sottolinearono le conseguenze negative degli ostacoli posti alla libera circolazione del lavoro, affermando perfino in alcuni casi che fosse questa la causa principale della povertà»31.
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Che il difetto principale delle poor laws fosse nel fatto che «incatenavano la circolazione del lavoro», Pitt lo sostenne con forza in Parlamento32, e Malthus, proponendo nel Saggio la totale abolizione della legge, affermava che così «il mercato del lavoro sarebbe libero, e verrebbero rimossi quegli ostacoli che allo stato attuale impediscono spesso per lungo tempo che il prezzo salga con la domanda»33. Non occorre insistere: l'opinione giunge pressoché immutata fino a noi, forte soprattutto della sua plausibilità teorica M.
Ora, nessuno nega che in mancanza di meccanismi di compensazione inter-comunali un sistema d'assistenza locale — anzi strettamente locale, se si tiene presente quanto fossero mediamente piccole le oltre quindicimila parrocchie dell’Inghilterra e del Galles — sia oggettivamente d'ostacolo ad una facile circolazione della mano d’opera. Piuttosto, la ricerca offre più d’un elemento per mettere in dubbio che fosse questo un problema reale nelle campagne inglesi del tempo le quali, se soffrivano dell'aumentata pressione demografica, non erano però raggiunte dalla domanda di forza lavoro proveniente dal settore industriale, e ciò per il duplice motivo che lo sviluppo agricolo comportò ima espansione e non una contrazione della forza-lavoro rurale, mentre la domanda aggiuntiva di mano d'opera industriale era soddisfatta dall’incremento naturale. È un quadro, questo, che può considerarsi ormai definito in sede storiografica35, e che peraltro ci è confermato se guardiamo all'esito fallimentare di un tentativo, fatto per iniziativa di Henry Ashworth, l'industriale tessile del Lancashire, di attuare le apposite «migration clauses» previste dalla legge di riforma della poor law aprendo a Leeds e a Manchester degli uffici che avrebbero dovuto organizzare l'immigrazione di contadini dalle contee povere del Sud36.
Tutto ciò detto sulla oggettiva mancanza d'una spinta profonda e vitale alla mobilità della mano d'opera a cui il settlement fosse di serio ostacolo, la ricerca consente poi ad altri di aggiungere che «quando c'era una costante domanda di lavoro, almeno in tempo di prosperità, le leggi sul settlement potevano divenire lettera morta» 37, per le molte possibilità di evaderle o d'aggirarle. Basti citare l'uso, del tutto legittimo, di muoversi con un certificato che comprovasse l'obbligo all'assistenza da parte della parrocchia d'origine, così ottenendo in caso di bisogno un aiuto non dovuto da un'altra parrocchia che poi si sarebbe rivalsa sulla prima. I costi della traduzione e del relativo contenzioso tra parrocchie erano d'altronde così elevati, che spesso si preferiva la
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semplice disapplicazione della legge o un atteggiamento tollerante che era, sì, proprio dell’epoca, ma forse anche funzionale alle esigenze complessive del sistema. È quanto ha sostenuto J. S. Taylor, che ha visto nell’elasticità propria del sistema, nella sua capacità di adattarsi ad esigenze determinate, e nelle varie condizioni fissate dalle leggi per ottenere la residenza un meccanismo capace di regolare — e quindi anche di stimolare______i movimenti della manodapera specializzata più dotata d’iniziativa38.
Come nel caso dell’allowance o della workhouse, anche di fronte al problema del settlement — questioni da affrontare in modo diverso, ma che insieme costituiscono la questione delle poor laws — ecco dunque che lo storico tende a spingere fino alle estreme conseguenze il «sospetto per la facile generalizzazione» che da decenni sostiene la sua acribìa documentaria e la sua pretesa neutralità. Fino alle estreme conseguenze: ché le già raggiunte consapevolezze di quanto frammentario, disomogeneo, asistematico sia il «sistema» elisabettiano, di come dunque sia vano per definirlo ricorrere alle leggi — quegli Acts che ora recepiscono, razionalizzano pratiche correnti in singole località o meri orientamenti d'opinione, ora hanno valore concessivo, autorizzano cioè a determinati atti, dei quali non sappiamo l’effettiva applicazione39; di come dunque la storia della poor law si dissolva nella storia del governo locale, d’un governo locale che com'è noto particolarmente nell’epoca che ci interessa, nel secolo e mezzo che segue la Restaurazione, quasi non conosce poteri centrati; tutto ciò ha condotto gli storici a un progressivo ingrandimento di scala che ormai ha varcato la decisiva soglia dell’archivio parrocchiale, quasi punto di non ritorno che rischia di far perdere — anche operativamente — il nesso tra generale e particolare: se Asa Briggs, presentando una collezione di saggi alla quale abbiamo già attinto invoca una comprensione generale costruita sì a partire «dal dettaglio», ma «dal dettaglio locale o regionale — il dettaglio dell’esperienza — invece che usando il dettaglio di seconda mano per illustrare delle preposizioni già date» 4°, più avanti nel medesimo volume J. S. Taylor osserva che una volta raggiunte le fonti locali «la massa e la dislocazione del materiale scoraggiano chi tende alla sintesi, mentre gli storici locali si sentono difficilmente competenti per generalizzare sulla base di una parrocchia o di una contea» 41.
Dove conduce tutto ciò? Che indicazioni dobbiamo infine
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trarre da tanto revisionismo? Abbiamo visto che contro la demonizzazione del fenomeno Speenhamland — una palese forzatura generalizzante — studiosi come Blaug o come Huzel concludono le loro ricerche quantitative con un buon senso su cui avrebbe convenuto qualsiasi magistrato rurale dell'epoca (magari seduto al Pelikan Inn di Speenhamland) : una assistenza diffusa e onerosa non era causa del pauperismo ma conseguenza, le cause dovendosi cercare nel complesso delle vicende d'allora. E come l'analisi quantitativa, così poco convincente quando isola variabili nella realtà non isolabili, è poi incapace di formalizzare la rete più complessa di interdipendenze alle quali rinvia, qualcosa di simile accade all'analisi documentaria quando ci richiama all'estrema varietà dei fenomeni e dei casi, dei punti di vista e delle prospettive, fino a fare idealmente coincidere il quadro descritto con l'universalità stessa degli accadimenti, come in una mappa a scala uno a uno.
L'effetto può essere «sconfortante», osservava vent’anni fa Kitson Clark, a sua volta ricordando il lavoro intrapreso decenni avanti dalla scuola di Clapham: si può «distruggere un quadro esistente senza sostituirvi alcunché che possa esser visto nell'insieme, arrivando a una sorta di nominalismo storico con innumerevoli accidenti e nessun universale»42. Come molti revisionisti, anche Kitson Clark si augurava che da tanto lavoro di scavo potesse infine emergere «una nuova storia». Ma è da credere che l'augurio fosse meramente retorico; del resto, l'idea che un quadro generale convincente possa aversi dalla migliore conoscenza del particolare avrebbe ben scarsa dignità epistemologica, nulla ancora dicendoci circa i nessi da stabilire tra universale e particolare. Non esistendo d'altronde in storia alcuna «verità» da «scoprire» con procedimenti induttivi, né «verifiche» da compiere (la storiografia non è disciplina sperimentale), anche il revisionista evidentemente si piega sui fatti minuti e minimi, sul «dettaglio», per affermare, più spesso per negare, non fatti alla luce di fatti, ma opinioni alla luce di opinioni. E le opinioni dei revisionisti sono in primo luogo distruttive, come testimonia lo stesso Kitson Clark così proseguendo: «la revisione della storia non può aspettare che appaiano nuove generalizzazioni. Prima che esse appaiano, i risultati della ricerca dettagliata devono essere utilizzati, anche se il loro unico risultato è di distruggere». E allora: che cosa di preciso distruggiamo, e da quale punto di vista, quando capovolgiamo il vecchio giudizio su Speenhamland, o quando disperdiamo nel localismo più spinto ogni ipotesi com-
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plessiva sul funzionamento delle workhouses, del settlement, o della poor law in generale? Quali sono, in altre parole, lo spirito e la portata della revisione, posto che sono in gioco non appartate dispute accademiche ma i fondamenti stessi delle moderne analisi del sociale?
2. Universali
L'enunciazione di universali — ad esempio la specificazione delle caratteristiche durature e diffuse («strutturali») di una società — appartiene al campo delle astrazioni e delle deduzioni. Per lo storico che vi si confronta è dunque essenziale conoscere la natura delle osservazioni compiute nel passato e sul passato, e dei processi di sistematizzazione che vi si fondano. Ciò soprattutto al fine di evitare che quegli universali, considerati non più come astrazioni ma come dati osservati, si prestino a nuove, ormai inconsapevoli astrazioni.
Qualcosa del genere sembra che accada di frequente allorché la realtà sociale inglese è chiamata a rappresentare la forte «tipicità» dei processi che vi si svolsero in età moderna, particolarmente riguardo ai nessi che intercorrono tra la sfera dell'economico e la sfera del sociale. E se diventa a volte difficile capire dove, nella catena dei riferimenti, si liberi Castrazione inconsapevole», ciò forse è dovuto anche allo «stato delle fonti», riflesso a sua volta di alcune peculiarità del luogo e dell'epoca che in ultima analisi possono essere riassunte neH’acoentuato contrasto tra il carattere unificante-uniformante dei processi osservati e l’articolazione estremamente difforme ed eterogenea della società del tempo e delle sue istituzioni. Tale appunto da imporre forti astrazioni e deduzioni.
Il paese vanta sì un’antica organizzazione archivistica e un’adozione precoce della «statistica»; ma l’«assenza di stato», l’estrema articolazione della società civile, la vivacità dell’opinione ci consegnano non quadri uniformi e dati sintetici, ma flussi costanti di testimonianze, di progetti, di prese di posizione e di indagini particolari in genere sufficientemente pragmatici da essere utilizzati come «dati», ma anche sufficientemente ispirati da passione politica perché li si consideri «ideologia». Non è da oggi, del resto, che l’ombra degli studiosi chini sulle migliaia di pam-phlets conservati al British Museum si proietta sull’indagine sociale. È un filtro forse ineludibile, oltre il quale stanno gli
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archivi di quelle quindicimila parrocchie alle quali il revisionista approda per sfuggire all'imperio degli universali. Ma è pur sempre alla pamphlettistica d'allora, e ai suoi pezzi più fortunati che da pamphlets son poi diventati saggi e testi classici, e poi ancora ai testi letterari, alle polemiche giornalistiche, alle relazioni parlamentari e governative — in breve all'opinione del tempo — che noi dobbiamo gran parte delle categorie d’analisi del sociale: universali che solo facendo violenza al particolare che così marcatamente domina la scena inglese possono offrircene una lettura complessiva.
Della poor law, l’esercito dei pamphlettiers si impossessò fin dall'inizio, e tra le varie «ondate» di pamphlets contate dai Webb, l’ultima, quella decisiva, riguardava per l’appunto i profondi rivolgimenti della seconda metà del Settecento. Nel complesso gli scritti di quel periodo testimoniano di un crescente allarme per l’aumento della povertà e per la palese inadeguatezza dell’apparato assistenziale a farvi fronte nonostante il crescente dispendio e la maggiore “generosità” del sistema.
Sull'aumento della spesa — un tema che domina la pubblicistica del tempo — non abbiamo dati dettagliati e sicuri. Ma quand'anche si osservasse con i Webb che il due per cento del reddito nazionale che si sarebbe venuti allora a spendere per le poor rates è «un premium modesto contro una rivoluzione sociale»43, oppure, ponderando con Baugh le cifre monetarie complessive sui prezzi del grano, si mettesse in dubbio la gravità degli aumenti, resterebbe però il fatto che la spesa nominale totale aH'incirca raddoppiò tra il 1784 e il 1803, e tornò a raddoppiare nei quindici anni successivi. Tra il 1776 e il 1803 il numero delle workhouses sale di circa il 22%; eppure nel 1803 solo 1'8% degli assistiti è catalogato tra gli «stabilmente internati», e ormai oltre un milione di persone, 1'11,4% della popolazione dell'Inghilterra e del Galles, riceve una qualche forma di assistenza44.
Por mente alle cifre, e dunque alla dimensione, alla scala dei fenomeni, sarebbe essenziale per descrivere, sia con parole nostre o del tempo, i mutamenti allora osservati. Eppure sull'affollar si della scena sociale inglese di fine Settecento ancora oggi dobbiamo saper poco, se dopo tutto un ciclo di spiegazioni i demografi restituiscono il boom alla sua cruda evidenza di fatto originario 45. Incerto dunque era il nesso tra aumento della popolazione e aumento della povertà assistita. Qualcuno chiamava in causa il complesso delle riforme e dei mutamenti che avevano investito la antica poor law; mutamenti evidentemente volti a rispondere
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all’accresciuta domanda, ma nei quali pure si poteva leggere l’eco della maggiore «tolleranza» che accompagnava il declino delle concezioni mercantiliste del lavoro e l’ascesa di concezioni nuove, protoliberóstiche ^
Certo è che furono ad esempio semplificate le condizioni per ottenere un settlement, fu evitata la deportazione, fu concesso di ricorrere alla magistratura contro un rifiuto d’assistenza. L’opinione successiva si concentrò poi su di una norma del 1782, nota per il nome del proponente, il riformatore Thomas Gilbert (parliamo dunque del «Gilbert Act»), che favoriva l’unione tra parrocchie per la creazione di istituti destinati al mantenimento degli indigenti inabili al lavoro. Lo stesso atto esplicitamente autorizzava i magistrati e gli overseers delle parrocchie così unificate a trovare un lavoro salariato ai lavoratori sani e, in mancanza, ad assisterli a domicilio. Ecco dunque che veniva così ad essere «legalizzato» l’out-door relief in palese contrasto con un atto del 1723, che aveva invece autorizzato a negare ogni assistenza a chi si fosse rifiutato di entrare nella casa di lavoro. Tanto può dirsi «severa» la più antica delle due leggi — in seguito ricordata come il primo «workhouse test» —, quanto può dirsi «tollerante» la seconda — che «preparò la strada» a Speenhamland47: così si può simboleggiare l’evoluzione del secolo.
«Umanitarismo» dunque e aumento di spesa s’univano a una domanda d’assistenza crescente, e a comportamenti che sembravano inclini a sottrarsi sia all’antica deferenza sia ai moderni stimoli del mercato, dato che i poveri, mentre cominciavano a pretendere soccorso come un diritto, non sempre rispondevano poi agli stimoli economici. Quanti tra i con temporanei osservavano che oltre la soglia minima della sussistenza ogni aggiunta di reddito incoraggiava ozio e dissolutezza tra i lavoratori ne traevano magari conferma alle teorie mercantiliste dei bassi salari; ma anche chi, come Smith, sosteneva invece i vantaggi di una remunerazione liberale si soffermava poi a descrivere, come una eccezione, l’andamento abnorme della curva dell’offerta di lavoro: al crescere della domanda, e dunque dei salari, diminuiva l’offerta, e dunque la produzione48.
Se possono dirsi, tutti questi, elementi d’una rete assai complessa di mutamenti, poche cose come l’equazione malthusiana potevano decifrarla di colpo: più che improduttiva, l’assistenza era nociva. Ci doveva essere un motivo se la spesa assistenziale crescente, lungi dal diminuire la povertà e la degradazione dei poveri, le vedeva accrescersi, e la soluzione per tutti più vantag-
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giosa era quella d'abolire del tutto ogni forma di assistenza pubblica, di quella almeno che sfuggiva al controllo dei singoli. Già espressa in precedenza da altri autori, come Chalmers o Townsend, la tesii del carattere «artificiale» del pauperismo acquistava ora, con la pubblicazione d’uno dei più fortunati dei mille pamphlets del periodo — quello appunto del reverendo Malthus «sul principio della popolazione» — la fisionomia d’una completa proposta ideologica.
Non che Malthus si occupasse dei concreti meccanismi amministrativi che regolavano l’assistenza: valutò del resto in termini positivi la decisione presa dai magistrati a Speenhamland49. Il suo pamphlet, d’altra parte, non ebbe risonanza immediata e la validità delle sue affermazioni fu poi a lungo contestata. Ma individuando una tendenza sociale obiettiva, una volta ammessa la quale ogni altro argomento veniva a cadere di fronte a un semplice «abolizionismo», la proposta malthusiana aveva il pregio di aderire immediatamente alla radicale rivoluzione culturale che andava compiendosi col rovesciamento dell’ordine mentale mercantilista in quello dell’individualismo utilitarista.
Il Saggio di Malthus si affiancò dunque alla Ricchezza delle dazioni nell’influenzare in modo determinante l’opinione del tempo, e come la maggior parte dei protagonisti del dibattito sulla poor lavv, da Eden a Young a Bentham, per non parlare di Nassau Senior, ragionavano di economia in termini smithiani, così gli economisti classici, anche se non concessero mai molto spazio all’argomento, su questo tema furono sempre genericamente malthusiani e «abolizionisti» da Ricardo a McCulloch, e più di loro, e in modo più schematico, lo furono poi i divulgatori della seconda generazione, come Jane Marcet o Harriet Marti-neau50.
Se Adam Smith aveva criticato la legge sui poveri per i suoi effetti deprimenti sul mercato del lavoro, quarant’anni dopo la Ricchezza delle Nazioni, la situazione era divenuta ancor più favorevole agli «abolizionisti», sia perché l’economia politica aveva fatto molta più strada come chiave di lettura dell’universo sociale del tempo, sia perché nella congiuntura del dopoguerra il problema del pauperismo era tornato a farsi molto acuto, mentre non c’era più il «pericolo francese» a frenare i fautori della «severità». L’attacco si fece più netto: nei Principi Ricardo affermava che le poor laws, poiché interferivano con la regolamentazione dei salari spontaneamente operata dal mercato, avrebbero progressivamente accresciuto il peso fiscale relativo fino a preci-
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pitare il paese nella miseria. Da che «l'abile mano del signor Malthus» ha fatto piena luce su questa tendenza, scriveva Ricardo, «ogni amico dei poveri deve ardentemente sperare che la legge sia abolita»: «nessun progetto di riforma che non abbia come obiettivo finale la sua abolizione merita la minima attenzione»51. E in quello stesso 1817 in cui uscivano i Principi di Ricardo, una commissione parlamentare nominata alla Camera dei Comuni illustrava tutti gli argomenti da addurre contro un sistema che «perpetuamente incoraggia ed aumenta il volume della miseria che avrebbe dovuto mitigare»52.
Ecco dunque uno dei più forti «universali» attorno ai quali tendono a unificarsi le critiche rivolte alla poor law, e dai quali deriva anche la tipizzazione di Speenhamland: l'«abolizionismo», queiratteggiamento che vede i mali sociali del tempo come degenerazione di un «ordine originario» che va ripristinato, appunto abolendo i fattori patogeni.
I caratteri di quell'ordine originario restano però da definire; se ad esempio lo concepiamo come un ordine storico, concreta trama di relazioni sociali nel tempo, l'abolizionismo suonerà come la denuncia di una degenerazione sopravvenuta, ed avrà carattere sostanzialmente conservatore; se al contrario lo definiamo come un ordine razionale-naturale, più spiccate potranno apparirci le sue valenze propositive e innovatrici. Ed entrambi gli atteggiamenti contribuirono a formare l’opinione critica verso la vecchia legge. Riguardo poi agli aspetti di quell'ordine ai quali prevalentemente ci si riferiva, va detto che in tutto il dibattito gli argomenti «morali» — che noi chiamiamo piuttosto sociali — e gli argomenti economici si intrecciarono inscindibilmente, ed anzi sui primi l'insistenza era senz'altro maggiore. Ma poiché, in virtù anche dello «stato delle fonti» di cui si diceva e della relativa catena delle astrazioni che ci pervengono, agli economisti, al loro pensiero e alle loro argomentazioni va riconosciuto un ruolo privilegiato e «tipico» nell'enunciazione degli universali del tempo, ecco che l'ordine in questione può esser visto sotto l'aspetto dell'economia, ed anzi come un ordine economico. Anzi, è da domandarsi se non sia questo il senso ultimo del nostro «universale».
Un argomento di chiara rilevanza economica è al centro delle critiche rivolte alle politiche assistenziali di fine Settecento, alle quali si imputava di avere degradato rindipendenza dei lavoratori principalmente in quanto l'assistenza fornita loro in modo massiccio e indiscriminato li avrebbe sottratti ai rapporti contrattua-
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li, retributivi sui quali si basavano la loro indipendenza e dignità e, nella procreazione come nel lavoro, avrebbe indebolito le loro capacità di comportamenti razionali. L'integrazione salariale, in altre parole, rendendo il salario indipendente dalla produzione avrebbe tolto ai lavoratori ogni stimolo a lavorare adeguatamente, a inseguire salari migliori e migliori condizioni di vita e infine a rispettare l’ordine sociale stesso. George Nicholls, eminente personaggio del sistema creato nel 1834, teorico riformatore e poi autorevolissimo storico della materia, spiega che con Tallowance, se «il ricco [...] pagò di più per ottenere un lavoro peggiore», i poveri «furono costretti a ricevere il compenso del loro lavoro in una forma che doveva risultare ripugnante ai loro sentimenti di indipendenza e di rispetto di sé»53. Le opinioni sembrano su questo punto concordi; basti per tutte quanto nel 1830 aveva scritto con grande pregnanza William Nassau Senior, coautore del Report del ’34 e quindi della legge di riforma: «Nel momento in cui il salario cessa di essere un bargain, nel momento in cui il lavoratore è pagato in base non al suo valore, ma ai suoi bisogni, egli non è più libero»54.
Suona, una simile frase, come viatico per la politica sociale di un secolo intero — volta sempre a garantire l’esercizio del bargain, individuale o collettivo a seconda delle opposte scuole — nonché per la sua concezione storica delle poor laws. Secondo quella concezione, essendo l’indipendenza del lavoro il fondamento della libertà, dipendere dall’assistenza è schiavitù — stigma per molto tempo incancellabile, se in molti paesi comporta la perdita del suffragio —, mentre l’abolizione di ciò che in quell’assistenza ha effetti più degradanti (l’integrazione salariale innanzi tutto, il salario assistenziale) è dare libertà. Ancora nel 1931 il già citato Beales plaudendo Senior e la riforma del ’34 esclamava: «quella legge doveva fare per il lavoratore inglese ciò che l’abolizione della schiavitù aveva fatto anni prima per i negri delle piantagioni»55.
Infatti della riforma del 1834 la storiografia esalta unanime non la discussa riorganizzazione del sistema ma l’indirizzo di politica assistenziale che avrebbe dovuto caratterizzarlo, e un punto fra tutti: la prevista abolizione dell’allowance e in generale di ogni soccorso «out-door». Una abolizione chiaramente presentata non come strumento tra i tanti di politica sociale, ma come inveramento trionfale di un universale, dell’«abolizionismo». E l’esaltazione è unanime; è vero che per gli «ottimisti», per i whigJiberali, la riforma fu un’operazione salutare, se pur doloro-
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sa, mentre per i «pessimisti» (i radical-socialisti e poi i marxisti) fu piuttosto una criminale efferatezza borghese; ma per tutti fu inevitabile e necessaria, e perciò positiva — quale che sia il giudizio da dare sui suoi sviluppi successivi — proprio in quanto abolizione di ciò che era ormai intollerabilmente rovinoso.
Ed ecco, a dimostrarlo, «l'effetto Speenhamland», un «totem», come lo dice Neuman56, successivamente innalzato per segnare il momento d'inizio dell'integrazione salariale, stigmatizzandone inoltre i caratteri sociali. Sarebbe stato il Report della commissione d'inchiesta del 1832-34 a datare al 1795 la pratica che s’intendeva abolire, e Nicholls poi a sottolineare il significato della «famosa» scale, un sistema «contrario agli imperativi della provvidenza [che] avrebbe aggravato i danni della carestia, neutralizzando col tempo le benedizioni dell'abbondanza»57. Così, partendo dal 34, e passando per Nicholls, e poi Toynbee58 e gli Hammonds — dove già Speenhamland si dilata a dismisura — quel giudizio storico arriva ai Webb e a Polanyi, che addirittura lo assume a pietra angolare della «grande trasformazione», e giunge fino a noi, che lo ritroviamo immutato nelle pagine di Hobsbawm e Rude, per i quali Speenhamland fu «una macina al collo di tutte le classi agricole dell'Inghilterra meridionale» che arrivò a far precipitare il capitalismo agrario in «follia generale» 59.
Descritto in questi termini e con questo rilievo, Speenhamland non è che l'enfasi fabiana e marxista — echeggiante a sua volta la pietas radicale del tempo, le denunce della tragedia popolare — del generale stigma abolizionista lanciato contro l'allowance. Una enfatizzazione che dà più netti tratti sociali alla polemica: a differenza di tante altre misure «umanitarie» di fine Settecento, infatti, la scale di Speenhamland è decisione d'un gruppo di magistrati di campagna, e perciò reca lo stampo tipico del paternalismo aristocratico60. Meglio d'altri episodi e provvedimenti consente dunque di descrivere la contrapposizione tra schiavitù e libertà come tra schiavitù d’antico regime e libertà moderna, tra egemonia aristocratica e egemonia liberal-borghese. Secondo una ulteriore generalizzazione, in alcuni autori la coppia 1795-1834 ricalca una più generale dicotomia sociologica e antropologica evocante due universi sociali contrapposti: quello, da un lato, del «mondo perduto», rurale e comunitario, dalle solidarietà interpersonali e dalle deferenze gerarchiche entro il quale si collocherebbe la schiavitù dell’assistenza che i giudici avrebbero cercato di tutelare a Speenhamland, e quello, dall’altro, del mondo nuovo, utilitaristico, razionale e mercantile che fonda la liber-
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tà dell’individuo e che i riformatori avrebbero imposto nel 1834.
Derivante da un filone concettuale del tutto estraneo agli studi storici sulla poor law — e del quale Polanyi si è fatto in quel campo solitario e inascoltato tramite61 — simile «radioaliz-zazione antropologica» della coppia 1795-1834 porta ai suoi estremi sviluppi una interpretazione universalizzante in chiave economica e ce ne mostra quindi tutti i problemi insoluti: primi fra tutti, per quanto qui ci interessa, quelli relativi ai rapporti fra fenomeni economici e fenomeni sociali, politici, culturali, e con essi la natura e collocazione storica dei processi di transizione, che anche Polanyi, forse tradendo una sua geniale intuizione sull’importanza dei ritmi del cambiamento, tende a concentrare nei tre decenni in questione.
Nelle pagine di Polanyi infatti ci pare che avvenga in modo esemplare quel processo di «astrazione inconsapevole» per il quale la subordinazione del sociale aH’economico, da criterio di lettura degli avvenimenti diviene esso stesso avvenimento, base documentaria e «prova» di ulteriori deduzioni. Non più invocati a rappresentare i termini di un processo per sua natura multiforme e complesso, Speenhamland e il 1834 ne diventano i principali agenti, provvedimenti entrambi imputabili politicamente e responsabili d’ima specifica violenza sociale: il primo per avere causato la travolgente degradazione delle masse rurali, il secondo (la «pur necessaria» abolizione dell’assistenza) per avere imposto la non meno catastrofica legge dell’economia.
Da questo tipo di interpretazione che assume come punto di vista l’oggetto della propria contestazione — la supremazia dell’economico sul sociale — sono lasciati in ombra proprio i rapporti tra economico e sociale. Se ad esempio le conseguenze «antieconomiche» (e quindi antisociali) di Speenhamland derivano dalla sua natura di provvedimento gerarchico-paternalistico, appartenente a un universo sociale «precontrattuale», se ne comprendono allora male i supposti effetti devastanti, i quali presumono una società già operante o disposta a operare come «società economica». Solo in una società nella quale i comportamenti dei singoli seguono logiche razionalmente contrattuali, si può infatti supporre che quelle logiche siano devastate daH’introduzione del «salario secondo il bisogno»: la successione di Senior — «quando il salario cessa di essere un bargain [...]» — si paleserebbe come una successione storica, e l’ordine originario da ripristinare come un ordine tradizionale. Tutto all’opposto è invece nella dicotomia tra modernità e tradizione, tanto che la decisione del ’34 è vista come
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evento traumatico che impone modelli di relazioni economicamente razionali a una società che vi era allora estranea innanzi tutto in quanto rurale-preindustriale. Perché, allora, in questo tipo di società un provvedimento assistenziale paternalistico avrebbe in sé tanta forza destrutturante?
Ambiguità e contraddizioni profonde certamente caratterizzavano la società (rurale inglese di fine Settecento. «Le leggi sui poveri dell’Inghilterra meridionale sono un tentativo di unire gli inconciliabili vantaggi della libertà e della schiavitù»: così scriveva Senior nel testo da noi già citato62. E due storici di oggi, Hobsbawm e Rudé, osservano che le classi dirigenti rurali volevano allora che la società «fosse capitalista e stabile, tradizionale e gerarchica; volevano [...] che fosse retta dal libero mercato universale auspicato dagli economisti liberali [...], ma solo fin dove piaceva a nobili, squires e fittavoli; sostenevano un’economia che implicava classi tra loro antagoniste, ma non volevano che essa distruggesse una società gerarchicamente ordinata» G. La difficoltà di interpretare l’intera vicenda delle poor laws in modo univoco, la stessa molteplicità di implicazioni che si possono attribuire all’«abolizionismo» per ciò che riguarda il suo carattere tradizionale o innovatore, i suoi punti di riferimento storici e dottrinari, il significato sociale della sua «politica economica», il grado e la direzione del proposto intervento sul corpo sociale, tutto ciò rifletterebbe dunque l’ambivalenza stessa del processo di transizione in atto tra Sette e Ottocento? 0 viceversa quell’ambivalenza ci è presentata come tale da una opinione programmaticamente parziale? La convivenza di schiavitù e di libertà, di ordine sociale e di moto economico, è infatti definita come «impossibile» — e dunque traumatica, perfino catastrofica, nel caso di Speenhamland — da una opinione, sociale e politica prima, storiografica poi, per successive derivazioni, fin dall’inizio impegnata ad «assolutizzare» un punto di vista, e a fornirne e a fabbricarne le prove documentarie. È dunque a quel processo iniziale che bisogna tornare.
3. Manipolazioni
Dunque all’origine della drastica condanna di Speenhamland è la commissione d’inchiesta del 1832-’34 e il Report che la conclude. Non che vi si dedicasse attenzione soverchia alla scale di Speenhamland, presentata anzi come un provvedimento già
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preannunciato da tante altre misure consimili e quindi facilmente sanzionato dall’opiniione e dalla stessa legislazione64. Questa «normalità» della scale si inseriva però in un quadro di sistematica, circostanziata condanna d’ogni forma di allowance, intesa in senso ampio come assistenza fornita a lavoratori salariati65, condanna che nemmeno basterebbe a fare del Report la definitiva credenziale storiografica di cui gode il giudizio abolizionista se non ci fosse l’estesa indagine che lo precede e soprattutto la sua natura di prima (inchiesta sociale moderna. Moderna ed autorevole, ma non perciò attendibile.
L’indagine sulla poor law fu tra le prime ad essere affidata a una commissione reale e non a ima normale commissione parlamentare, com’era nella prassi e come era avvenuto, sullo stesso tema, per le inchieste del 1817 e del 1824. Non, dunque, un’indagine condotta da parlamentari attraverso la convocazione di consulenti o l’invio di quesiti, ma la raccolta sistematica di dati attraverso l’opera di esperti — nel nostro caso sette commissari e 26 assistenti itineranti — da servire come «base scientifica» del processo legislativo; procedimento allora del tutto inconsueto e proprio a partire dal 1832 destinato a divenire usuale, specie nel campo della legislazione sociale. Un procedimento, ancora, che annuncia la prima estensione dell’intervento legislativo in materia sociale e anticipa, certo timidamente e non senza contrasti, la creazione degli apparati amministrativi appositi, ai quali presta la propria attrezzatura concettuale quel «movimento statistico» che secondo alcuni proprio negli anni Trenta avrebbe segnato il passaggio dall’analisi deduttiva dei fatti sociali al rilevamento quantitativo66.
Edwin Chadwick, il principale e il più zelante degli inquirenti e poi il sostenitore più convinto della riforma, avrebbe poi indicato quel lavoro come modello ottimale del nuovo processo legislativo, «basato su principi scientifici o economici», preceduto da «laboriose induzioni da una gran massa di fatti accuratamente esaminati»67. Ultimo segretario e in certo senso principale erede di Jeremy Bentham, Chadwick portava una voce dissonante nel gruppo dell’indagine proprio per il suo radicalismo «benthamita». Ma prima ancora che in quel gruppo entrasse Chadwick — dapprima come esperto per l’area di Londra, poi, non senza resistenze, come commissario effettivo — nella nomina stessa della commissione si era fatta sentire l’influenza, se non esplicitamente del benthamismo, certo dei circoli intellettuali filo-radicali che simpatizzavano col nuovo governo Whig.
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(Al
Governo esclusivo e aristocratico, quello presieduto da Grey, e che sarebbe risibile presentare come espressione di nuovi interessi borghesi e mercantili, ma che proprio al fine di un autentico conservatorismo sapeva far proprie alcune esigenze di rinnovamento e di riforma, di «improvement», e dunque accettare i suggerimenti degli intellettuali. Come quello di nominare una commissione di inchiesta reale — meno impegnativa, per il governo, di una commissione parlamentare — su di un tema annoso e scottante, ma non particolarmente urgente in quel momento e non assunto a party Symbol, com'era la riforma della poor law. Pare che il suggerimento sia venuto da Thomas H. Villiers, funzionario del governo e amico di J. S. Mill, che infatti Villiers raccomandò come commissario insieme a Nassau Senior. Mill non fu poi incluso nella commissione, ma i nomi di quattro dei sette membri iniziali furono proposti da Villiers e da Senior, che Fanno successivo vi fece entrare anche Chadwick, da lui conosciuto su presentazione di J. S. Mill.
Primo titolare della cattedra di Economia Politica a Oxford e uno tra i fondatori del Politicai Economy Club, Senior non considerava le verità dell'economia «fondate su fatti», e tantomeno su dati statistici, anche se ammetteva che «le loro illustrazioni» generalmente lo erano68. Per lui, come per molti dei riformatori che legarono il loro nome alla stagione delle inchieste e delle riforme sociali, le indagini non avevano propriamente finalità «induttive»; dovevano piuttosto «preparare la strada» alle riforme «illustrando» delle verità e convincendone l'opinione: una concezione condivisa da Chadwick senza che ne emergesse alcuna contraddizione col ribadito carattere «scientifico» della legislazione 69.
Si comprende allora se l'inchiesta sulle poor laws non ebbe lo scopo di indagare le cause del pauperismo, che si ritenevano già sufficientemente spiegate dalle teorie del fondo salari e della popolazione, e nemmeno tanto di documentare i danni provocati dall'applicazione estensiva dell'assistenza, quanto di affermarli ima volta per tutte in modo convincente. Tutto il lavoro degli inquirenti fu indirizzato a raccogliere, più che dati e documentazione, opinioni, punti di vista, storie singole di preteso valore esemplare, secondo schemi che ci ricordano la letteratura pamph-lettistica. Le domande rivolte agli intervistati erano in realtà delle affermazioni congegnate in modo tale da suggerire i nessi voluti, e alla fine «ciò che gli assistenti commissari riportarono dal loro tour fu per lo più un'abbondante collezione di particolari
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e di esempi di cattiva amministrazione nell’assistenza esterna agli abili; dettagli pittoreschi sulle pratiche di alcuni funzionari parrocchiali e divertenti aneddoti sulle loro bizzarrie»70. E poiché l'intento propagandistico era esplicito fin dall'inizio, essenziale divenne il gioco delle selezioni e della pubblicità data al materiale raccolto. Ecco allora che nel 1833, non ancora conclusa l'inchiesta, per preparare l’opinione pubblica vennero redatti degli «estratti d’informazione» e fatti circolare in 15.000 copie, mentre una volta pronto il Report finale ne furono distribuite nelle parrocchie 10.000 copie e altrettante ne furono subito vendute71.
Quel testo ebbe un grande successo. Sostenuto dai circoli benthamiti, dai due Mill, da una divulgatrice come Harriet Mar-tineau (che prontamente redasse un Poor Law and Pauperism Illustrated), fu al centro di una campagna volta a sostenerne in Parlamento le conclusioni e la relativa legge, che fu votata con rapidità inconsueta nel luglio del 1834. Ristampato nel 1885, nel 1894, nel 1905 e nel 1974 — questa vòlta in una edizione Penguin —, il Report è tanto più prezioso per lo storico quanto più preconcetti sono i suoi giudizi e inattendibile è il loro sostegno documentario. Eppure, per quanto abbia goduto di tanta notorietà e diffusione, con la massa delle risposte e delle relazioni costituisce una fonte ancora in gran parte da decifrare essendo accaduto che gli storici, da tempo consapevoli del carattere «manipolatorio» di quell’inchiesta — e usi a ripetere la frase di Tawney, che nel 1926 definì il Report «brillante, influente e terribilmente antistorico»72 — si siano dimostrati poco inclini a smontarne i procedimenti e a rivisitarne il ricco materiale per il semplice fatto che ne condividevano le conclusioni73.
Oggi a quel testo e a quel materiale sarebbe utile ritornare non certo perché, essendo le nostre conclusioni programmaticamente diverse, si vorrebbe giustificare il dissenso «smascherando» il carattere deduttivo delle argomentazioni d’allora. Nulla di tutto ciò. All’inchiesta sulla poor law, così come alle altre indagini «induttive» che resero «scientifica» la legislazione dell’epoca si dovrebbe tornare leggendovi il primo momento di un intervento sul sociale che in seguito si sarebbe sviluppato con crescente intensità amministrativa e più adeguata attrezzatura, ma intanto nacque come mera analisi e come tale fornì indicazioni dottrinarie e magari costituì categorie concettuali.
A quale politica sociale, innanzi tutto, volle «preparar la strada» l'inchiesta e l'abolizione che vi si proponeva? Scrive Poynter che il 1834 è figlio non della «rivoluzione abolizionista»
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ma della «controrivoluzione riformatrice» che da quella promanò 74. Come il più celebre «laissez-faire» che gli è parente prossimo l’aboliziionismo esprime un atteggiamento culturale, un'idea che ispirò scelte e progetti ma mai diventò, né avrebbe potuto diventare, politica applicata75. Non a caso, dunque, la commissione del 1817, ferma a enunciati abolizionisti, non produsse la concreta riforma della legge. Eppure, avrebbe poi scritto Nicholls ammettendo Tinsuccesso, «il seme non andò perduto. [...] Chi scrive ricorda bene di aver letto il rapporto poco dopo la pubblicazione, e pensa che esso gli abbia fatto capire per la prima volta gli effetti del sistema esistente, e gli abbia fatto nascere uno schietto desiderio di porre rimedio ai danni che vi erano descritti e della cui effettiva esistenza vedeva prove dovunque intorno a sé. Ad esaudire quell'anelito egli ha dedicato i migliori anni della sua vita [.. .]76. Anni che il Nicholls, che da ufficiale della Compagnia delle Indie Orientali fu chiamato nel 1820 a occuparsi della poor law a Southwell, nel Nottinghamshire, dedicò ad applicarvi i principi dottrinari appresi da quel rapporto. Pubblicizzati e portati ad esempio come pratica applicazione del principio della «less eligibility», gli esperimenti del Nottinghamshire furono tra le fonti più convincenti del Report dèi '34: ecco un bell'esempio di «circolarità» tra principi dottrinari e base documentaria77.
Il principio della «minor convenienza» — la less eligibility — nell'enunciazione del Report suona così: «che la condizione dei poveri [assistiti] sia in nessun caso preferibile a quella dei membri deH'infima classe di persone che si mantengono con i frutti del proprio lavoro»78. Solo a queste condizioni Nicholls aveva ammesso l'assistenza — sotto forma d'internamento nella poor house locale — ottenendo così sostanziali risparmi. Nella parrocchia di Bingham, a poche miglia di distanza da Southwell, un altro riformatore, il reverendo Robert Lowe, teorizzava intanto «il terrore di una workhouse ben disciplinata» come base di un «antipauper System». Lowe voleva che «la casa fosse guardata con spavento dalle classi lavoratrici e che l'onta di esservi ospitato passasse di padre in figlio»79. Terribile per «i viziosi» e gli abili al lavoro, la casa doveva essere ospitale con gli invalidi. A Bingham infatti — scrivono i Webb con non celato entusiasmo per tanta organizzazione — gli internati «trovavano una dimora pulita, un buon letto e tre pasti al giorno, con carne tre volte la settimana. Ma anche un rigore spaventoso nella classificazione, ordine, regolarità, pulizia, segregazione e disciplina»80.
Questi esperimenti del Nottinghamshire più della già ricor-
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data «severità» dima norma del 1723 sono la base del «workhou-se test» che ispirò la legge del 1834 e con il quale la tanto deprecata «generai mixed workhouse» avrebbe dovuto essere abolita per tramutarsi nel suo opposto, una «well regulated workhouse» capace di amministrare «scientificamente» i singoli casi. In quel modo i riformatori concretizzavano, traducendolo in un meccanismo, il principio abolizionista, che non metteva in discussione l'assistenza in assoluto, ma i criteri con i quali era somministrata. Infatti non soltanto era da tutti accettato che gli invalidi (vecchi, ciechi, malati di mente, etc.) fossero comunque assistiti — in istituti specializzati —, ma secondo le conclusioni a cui arrivava il Report la stessa assistenza ai lavoratori abili non doveva esser in sé considerata la causa di tutti i mali denunciati: se l'avessero creduto, scrivevano i relatori, non avrebbero esitato a proporre ima abolizione drastica; ma rifiutare ogni aiuto era «repugnante ai comuni sentimenti umani». Il danno sorgeva piuttosto laddove a essere assistita non era solo Yindigenza («la condizione di chi si trova nell'impossibilità di trovare lavoro, o di ottenere in compenso del proprio lavoro i mezzi per sopravvivere»), ma la povertà («la condizione di chi per raggiungere la mera sussistenza è costretto a ricorrere al lavoro»)81.
Il «draw thè line», il tracciar la linea tra le due condizioni diventa l'obiettivo di tutti i rimedi proposti, così come «discriminare!» era la parola d'ordine dei riformatori portati ad esempio. È un obiettivo ambizioso, che entra nel vivo dei rapporti sociali, da un lato subordinandoli a dei principi «economici» (una complessiva economicità di gestione che passa attraverso l'esercizio sistematico di scelte economicamente razionali tra internamento e mercato del lavoro), dall'altro sottoponendoli a un rigido controllo politico-amministrativo. La proposta concreta è infatti quella di costruire un sistema di case di lavoro ben organizzate che poi consenta di proibire del tutto ogni assistenza esterna agli abili, e quindi di sottoporre l'intero sistema alla direzione di un organo centrale, un Central Board, dotato di vasti poteri ispettivi, d'impulso e di controllo.
Se si pensa che il Report si deve alle penne di Senior e di Chadwick, poche altre collaborazioni possono meglio simboleggiare le due anime, quella «economica» e quella «benthamita», che convivono nel progetto. Anni più tardi, sia l'uno che l'altro se ne attribuirono per intero la paternità; è invece del tutto convincente rattribuzione alla quale è poi arrivato il più accura-
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to biografo di Chadwick, e per la quale all'economista toccò di incarnare l'anima «abolizionista» del Report, e quindi di redigere la pars destruens, nella quale si mostravano i danni derivanti dai sistema esistente, mentre al seguace di Bentham fu riservata la pars construens, che doveva indicare le strutture da proporre al posto delie antiche82.
Ma per l'appunto una simile giustapposizione di parti non dà conto dei nessi che tra di esse (intercorrono. È probabilmente la stessa distinzione che allargandosi a dismisura nell'interpretazione storiografica, nel corpus stesso dell'utilitarismo separa l'«armonia naturale» dall'«identificazione artificiale» degli interessi, e più in generale reconomico dall'istituzionale, e per la quale accade che la stessa legge del 1834 sia descritta come un momento d'affermazione del mercato autoregolato — a cui lo Stato presta semmai la sua forza83 — o invece come primo essenziale passo verso l'intervento sociale dello Stato, inaugurazione addirittura di un ciclo «collettivistico»84. Pur valide che siano le due interpretazioni prese separatamente, tornare a Speenhamland, al dibattito e alla riforma potrebbe servire a metterle meglio in collegamento tra di loro, e su questa base a mettere a fuoco i modelli sociali e i progetti politici che ispiravano abolizionisti e riformatori.
4. La comunità differente
L’integrazione assistenziale del salario andava abolita, a giudizio di Senior, perché nel momento in cui il salario cessava di essere un bargain il lavoratore non era più libero. Il workhouse test, d’altra parte, era inteso a ricondurre a una logica contrattuale il lavoratore disoccupato, spingendolo a esercitare responsabilmente una scelta razionale tra l’internamento e le condizioni poste dal mercato del lavoro. Si è già posto addietro l’interrogativo: in che misura i riferimenti a modelli economicocon-trattuali assumono valore innovativo, impositivo — che fa della riforma una violenza a una società non-razionale e non-contrat-tuale perché «tradizionale» — o rinviano invece a equilibri sociali tradizionali che moderne dinamiche hanno travolto?
Quest'ultima ipotesi acquisterebbe maggior peso se ci fermassimo a sottolineare un dato costante della polemica: la distinzione cioè tra «le poor laws» — intendendosi, come s'è detto, i numerosi provvedimenti «umanitari» del tardo Settecen-
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to — e i precedenti orientamenti e sistemi risalenti fino alla antica legge elisabettiana che in genere è assunta come termine di riferimento positivo. È a quelle leggi recenti che viene imputato di avere sciolto l’erogazione dell’assistenza da ogni condizione, di averla resa così automatica e pertanto di avere fatto scomparire nei comportamenti ogni calcolo delle convenienze così economiche come sociali e morali: di avere minato il bargain, e perciò la libertà del popolo inglese. E se rimane per noi indubitabile che la legge elisabettiana vada inquadrata entro una «cornice di repressione», per il rigido controllo sociale attuato da tutto il complesso delle norme sui poveri, sull’apprendistato, suirillegittimità, sulla residenza, etc.85, va tenuto anche presente che per l’opinione d’allora non sempre la «schiavitù» sta tutta dal lato di quella tradizione repressiva e l’«indipendenza» del lato dell’innovazione, come vorrebbe il nostro animo economico o sociologico.
«Fortunatamente per l’Inghilterra, aveva scritto Malthus nel Saggio, uno spirito di indipendenza rimane ancora nella gente di campagna. Le leggi sui poveri sono deliberatamente intese a sradicarlo. In parte hanno avuto successo, ma se il successo fosse stato completo, come ci si sarebbe potuti aspettare, le loro perniciose tendenze non sarebbero state così a lungo nascoste»86. Chiaramente, l'indipendenza è quella di cui gode tradizionalmente r«independent labourer»: non «il contadino» — se ciò per noi dovesse rinviare a un’economia seminaturale, estranea al mercato, ai suoi'valori e -rapporti — ma il piccolo proprietario, il fittavolo o l'artigianato, il commerciante o il salariato delle campagne che da tempo è aduso a misurare le sue possibilità di vita in termini contrattuali e monetari87. Ora appunto il sistema del 1601 garantiva un rigido controllo gerarchico della povertà, ma grazie alla sua originale struttura localistica aveva anche il pregio di modellarsi con grande aderenza al tessuto dei rapporti sociali comunitari, e forse di rappresentarvi un momento di congiunzione tra gerarchia sociale rigidamente strutturata e fondamento laico-contrattuale dei rapporti sociali.
Fin dall’origine infatti l’imposizione della poor rate introdusse un elemento di calcolo economico nell’erogazione dell’assistenza: il benefattore «cominciò a guardare i poveri con l’occhio non da cristiano ma da contribuente»88. Ma il calcolo economico non esclude atteggiamenti di benevolenza e di deferenza, soprattutto nella minuta trama delle relazioni sociali dove la conoscenza diretta dei singoli casi di indigenza offre il più sicuro crite-
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rio per valutare costi economici e ricavi sociali dell'assistenza. E uno degli elementi strutturali del sistema elisabettiano era per l'appunto la minima dimensione dell’unità assistenziale, la parrocchia, alla quale proprio la gestione della poor law dette il primo gracilissimo profilo amministrativo, facendone l’ordinamento basilare di tutto il governo locale inglese89: con la poor law una logica economico-amministrativa si era dunque calata nelle microcomunità rurali.
Il sistema elisabettiano areva perciò questa caratteristica rispetto ai coevi sistemi continentali, che mentre delegava il controllo sociale alle aggregazioni elementari della società civile, e dunque al reticolo dei rapporti interpersonali, nello stesso tempo imponeva ima gestione «economica» dell’assistenza. Si tratta di caratteri che forse andarono precisandosi in quella particolare fase della storia inglese, l’età della Restaurazione, nella quale più accentuata fu l’abdicazione del potere centrale e progressivamente si diffuse uno «spirito economico». Tawney ha suggerito anzi un nesso tra la debolezza del governo regio, l’irrobustimento dell ceto mercantile e la più marcata amministrazione utilitaristica della legge90. È però da dire che gli esperimenti di incorporazione urbana e di sfruttamento economico del lavoro dei reclusi, nei quali più esplicitamente si può individuare una logica mercantile-mercantilistica, non costituirono mai, con i loro fallimenti economici e sociali, un modello per l’opinione riformatrice dell’età industriale, che piuttosto si rivolgerà alle esperienze rurali e periferiche.
Autonomia della società civile e assenza dello stato vuol dire infatti, più ancora che potere della borghesia mercantile, ruolo egemonico delle aristocrazie di contea, e dunque del sistema di potere paternalistico entro il quale vive la sua «libertà» l’inde-pendent labourer. È questo l’orizzonte entro cui guardano abolizionisti e riformatori di primo Ottocento, non certo perché ignari dei problemi della società urbano-industriale, ma al contrario perché convinti che alla soluzione di quei problemi solo la società rurale possa portare un contributo utile. Se è vero che la società familistica e deferente del «mondo che abbiamo perduto» racchiude norme di comportamento e relazioni sociali ab immemorabile contrattuali e mercantili, o che solo nel modello paternalistico di mercato si realizza l’aperto scambio concorrenziale91, può darsi allora che non sia senza fondamenti se la società tradizionale inglese, con la «sua» poor law sembra offrire all’opinione progressista dell’Ottocento il modello di una in-
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tegrazione del cash-nexus entro un ordine sociale reso fortemente coeso da strutture di tipo gerarchico-paternalistico. E quand'anche l'insistita nostalgia del passato fosse mero espediente retorico, questo ci pare comunque il modello proposto dalla polemica contro le «degenerazioni» del tardo Settecento, e questo il modello che guida la vis propositiva dei riformatori.
I quali si dimostrano d'altronde pienamente consapevoli che di quelle degenerazioni non è responsabile soltanto questo o quel gruppo sociale — ad esempio i magistrati, come ora vedremo — ma una complessiva trasformazione che minaccia l'universo stesso dei rapporti sociali. Cosicché nelle varie campagne d'opinione o nelle enunciazioni delle diverse scuole si può rintracciare un obiettivo comune, l'obiettivo di ricondurre i fenomeni collettivi in atto entro le coordinate «individualizzanti» del tradizionale rapporto interpersonale dove razionalità economica e gerarchia sociale possano coincidere.
È singolare che, tra i tanti episodi che possono servire allo scopo, anche la riunione di Speenhamland ci testimoni di queste preoccupazioni. La guerra, l'ascesa dei prezzi, la cattiva invernata del 1795: ecco la congiuntura che alimenta, con il crescente pauperismo, quei trends collettivi dai quali soprattutto la società è minacciata. Cresce la povertà, e i salari non tengono dietro ai prezzi. Che fare? Limitarsi a elargire crescente assistenza significa minare rindipendenza dei poveri, e con l'indipendenza anche il legame che li unisce ai ricchi. Un popolo di assistiti è un popolo di dissipati, e di potenziali ribelli. Inutile dire che gli echi di Francia non consentono tolleranza su questo punto.
Si sarebbe potuto allora fissare d'autorità un minimo salariale obbligatorio. Un provvedimento del genere fu discusso infatti in Parlamento nel dicembre del 1795 su proposta di Samuel Whitbread, autorevole esponente del whiggismo. Ma allora, come più volte in seguito, la proposta fu respinta con argomentazioni che facevano appello ai principi economici di stampo liberista soprattutto per esaltare il valore sociale d'un tessuto di liberi rapporti contrattuali: anche la regolamentazione del salario, come la semplice assistenza, avrebbe minato l'indipendenza dei poveri, avrebbe incoraggiato in loro «indolenza e dissipazione», come disse Pitt92, minando nel contempo il potere di contrattazione delle classi dirigenti locali. Piuttosto, si stimolasse con esempi «morali» la consapevole iniziativa dei magistrati.
Non diversamente s'era argomentato mesi avanti a Speenhamland quando in prima istanza era stata respinta per l'ap-
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punto la proposta di fissare un minimo salariale obbligatorio93. Volendo fare appello alle capacità di reazione della società rurale, ma dovendo pure adottare misure d'emergenza, i magistrati del Berkshire scelsero una linea di compromesso: fissarono la famosa scale, e contemporaneamente emisero una serie di «raccomandazioni» a che fossero incrementate le usuali pratiche assdistenziali: l'aumento dei salari, la destinazione di qualche acro di terreno comunale alla coltura delle patate da parte dei poveri, la raccolta, in estate, di una dotazione di combustibile per l'inverno, etc.
Questo appello al senso di responsabilità degli amministratori parrocchiali dipinge il quadro generale entro cui va collocata la scale, provvedimento eccezionale imposto dai tempi, ma che non diversamente da tanti lavori pubblici in fasi recessive era inteso a ricondurre entro un quadro quanto più possibile contrattuale ima elargizione ohe altrimenti sarebbe stata puramente assistenziale. Secondo la testimonianza di Eden, i giudici di Speenhamland vollero dare una parvenza di retribuzione all'assistenza generalizzata che i tempi imponevano: «il lavoratore ne avrebbe ricevuto un qualche incoraggiamento, poiché ciò che egli avrebbe avuto sarebbe stato un pagamento per un lavoro. Lo avrebbe considerato come un diritto, e non come carità»94.
Si delinea insomma a Speenhamland un progetto sociale precisamente volto a contrastare quei fenomeni che più tardi la critica avrebbe addebitato alia scale. Non senza ragione, del resto: per quanto pensata come correttivo degli automatismi incombenti sulla dinamica sociale del tempo, la scale può avere operato di conserva con quelli, o ne può essere assunta a simbolo, proprio per il suo carattere universale e normativo. Ed è questo infatti il nocciolo del discorso abolizionista: la relazione dei Comuni del 1817 condannava l'aillowance perché «qualsiasi sistema d'assistenza fondato su norme impositive, dovendo essere spogliato d'ogni elemento di generosità, è senza benefici effetti: poiché non nasce da un impulso caritatevole, non crea sentimenti di gratitudine, e non raramente genera atteggiamenti e comportamenti volti a separare più che a unire gli interessi degli ordini più alti e più bassi della comunità» 95.
Dal punto di vista della tutela dei rapporti sociali, l’integrazione salariale poteva dunque essere proposta o avversata in base alle stesse considerazioni; ciò che contava era lo stabilire se un dato provvedimento favoriva una articolazione autonoma del rapporto interpersonale gerarchicamente ordinato o invece
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lo subordinava a logiche collettive, non più controllate dai singoli o dalla comunità: una discriminante che si rivela assai relativa, mutevole a seconda dei tempi e dei luoghi, dello stesso punto di vista adottato. Poteva darsi infatti che fosse un Tory Paternalist a considerare le poor laws di fine secolo come le più ingiuste delle «leggi agrarie» per l'onere che forzosamente addossavano alla proprietà terriera, ma che dallo stesso lato dello schieramento si giudicasse l'abolizionismo malthusiano come esempio pernicioso di radicalismo materialistico, «filiazione del sistema commerciale»96. Il reverendo Malthus, a sua volta, aveva sì chiesto l'abolizione d'ogni carità, ma per l'appunto solo di quella «obbligatoria», e non di quella privata, che al contrario della prima sa distinguere e discriminare97.
Sempre relativa e mutevole, la discriminante che qui si prende in considerazione attraversa i termini dell'altra, dottrinaria, tra l’economico e il sociale, giacché l'ordine normativo supe-rimposto che s'avversava poteva avere carattere istituzionale Cuna legge, un qualsiasi provvedimento coattivo che, dal punto di vista considerato, provenisse «dall'alto») ma anche economico (tipicamente, le aggressive esigenze del mercato), mentre l'autonoma dialettica delle relazioni sociali poteva essere tutelata sul terreno economico (difendendo la centralità del bargain, ad esempio) oltre che contro l’economia, com'è in tutta la legislazione sociale d’allora e di poi.
Una discriminante, ancora, che attraversa di netto gli schieramenti politici quando sono in ballo i grossi temi sociali del tempo. Si pensi aH'annosa questione della distribuzione delle terre. Tra il 1800 e il 1801 un innovatore come Arthur Young elabora un piano, integralmente sostitutivo dell'assistenza, basato sull’assegnazione ai poveri di piccoli appezzamenti di terreno, una delle forme più antiche di «set to work». Contemplata anche dal Report abolizionista del 1817 come da molte proposte antiabolizioniste giunte in Parlamento nel decennio successivo, l’assegnazione di terre sarebbe poi stata un cavallo di battaglia radicale: era prevista dal piano Owen del 1817 come nei Char-tist Land Pian di O’Connor, e ancora nel 1911 la prendono in considerazione gli Hammond (per i quali infatti Young, il sostenitore delle recinzioni, con il suo piano aveva dovuto «aprire gli occhi» sul malessere sociale delle campagne98. Ora Young aveva esaltato la frugalità, la previdenza, l’industriosità del singolo nel suo cottage e sulla sua terra contro l'imprevidenza, e perciò l’indolenza e l’insubordinazione, di chi dipende dalla parrocchia.
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Argomento, il suo, perfettamente malthusiano, senonché Malthus, a più riprese polemizzando col piano Young l'awersò non soltanto per i suoi possibili effetti demografici, ma, ciò che ora ci interessa, perché vi vedeva la negazione dell'elemento costitutivo della scena sociale inglese, cioè «resistenza di una classe di proprietari e di una classe di lavoratori», con i rapporti di scambio che li uniscono". Un antagonista di Malthus, John Wey-land, fu esplicito nel chiarire perché l'assegnazione di terre poteva minare l'ordine sociale. Una volta proprietari, i poveri avrebbero goduto di una indipendenza eccessiva, una «sussistenza che va d’accordo con 1’indolenza», che «rimuove la necessità della mutua dipendenza tra datore di lavoro e lavoratore, e che è tanto essenziale al buon ordine di ogni comunità» 10°. Per motivi non dissimili la Chiesa s'era un tempo pronunciata a favore delle recinzioni101: parimenti lontane dal mercato, l’economia delle terre comuni come quella seminaturale dei minifundia assistenziali contraddicevano la collocazione storica del «contadino» inglese, la cui indipendenza si fondava sullo stretto reticolo dello scambio economico e della subordinazione sociale.
Una società siffatta, nella quale l'esercizio della razionalità utilitaristica e mercantile doveva cementare, non scardinare, i fondamenti d'una «comunità deferente», avrebbe fornito il modello all'improvement vittoriano: disposto a ogni sforzo perché il progresso sorgente dalla produzione industriale non distruggesse gli stretti vincoli di dipendenza che tenevano insieme una nazione, per dirla con Palmerston, «in cui ogni classe della società accetta di buon grado la sorte ad essa assegnata dalla Provvidenza, mentre nel contempo ogni individuo di ogni classe tenta costantemente di salire la scala sociale» 102.
5. Meccanismi
Se si prendono in considerazione i meccanismi amministra-
tivi proposti dal Report del '34 non si ha certo l'impressione che lo scopo degli autori fosse di restituire autonomia alla dialettica
delle personali relazioni e dei poteri locali secondo l’ipotesi che si è fatta. Fulcro del progetto di Chadwick sembra, tutto all’opposto, il carattere programmaticamente impersonale del workhou-
se test103 e la centralizzazione del controllo e della direzione del
sistema; una palese sottrazione di potere alle articolazioni locali dell’assistenza che infatti il Report si sofferma lungamente a
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motivare, sviluppando l’altro e fondamentale aspetto della polemica contro le «degenerazioni» settecentesche del sistema, quello che riguardava i soggetti sociali implicati nella sua amministrazione.
Come si è visto, la denuncia dei gravi effetti dell’allowance e in genere delle misure concessive di fine Settecento non riguardava tanto la loro maggiore «generosità» — di per sé consona al nuovo spirito civile e alle nuove idee economiche — quanto il modo in cui l’assistenza era somministrata, senza condizioni, si diceva, senza contropartite né controlli. Sotto accusa erano perciò il preteso lassismo, lo scarso impegno delle autorità di controllo, i loro cedimenti di fronte alle rivendicazioni popolari, in genere la «maladministration» di cui soffriva l’intero sistema, e che era poi l’obiettivo medesimo del più generale attacco mosso da Bentham e dai benthamiti contro l’inefficienza e la corruzione della classe dirigente aristocratica. Gli stessi accenti troviamo infatti nelle pagine del Report, che anche in questo caso vale come manifesto ideologico rivelatore d’umori e di atteggiamenti più che come decalogo di realizzazioni politiche, visto tra l’altro che proprio i congegni amministrativi di maggior purezza benthamita — appunto la universalità e l’impersonalità del workhouse test e l’accentramento dei poteri — all’atto pratico non ebbero storia.
Mettono però in luce, quegli auspicati congegni, un nodo centrale del discorso riformatore. Se infatti i suoi riferimenti sociali erano nelle tradizioni — e qui pure lo confermerebbero i riferimenti al passato nella polemica contro gli «abusi» del presente 104 — non perciò i soggetti, le figure sociali, i ruoli e le funzioni del passato erano ritenuti idonei a incarnarli nel presente. In epoca di crescente «collettivizzazione» dei fenomeni sociali, la condizione necessaria a che quel sistema di controllo sociale «privo di stato» (ma non di mercato) potesse riprodursi, era l’esercizio continuo, attento e consapevole di un’opera di controllo e mediazione interpersonale dei rapporti e dei potenziali conflitti; 1’esistenza dunque di un «ceto medio» presente e attivo sul territorio, tanto più geloso della propria autonomia d’azione locale quanto più coerente, nel suo operare, con modelli comuni di comportamento.
Se di un simile «ceto egemone» la gentry delle campagne inglesi e le varie «middle classes» del paese sembrano costituire l’irripetibile prototipo, ciò è possibile anche nella misura in cui il loro potere conosce profondi adattamenti e risistemazioni.
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E appunto la riforma della legge sui poveri doveva essere uno di quelli.
Il tradizionale schema di gestione paternalistica della poor law era costituito da una sorta di autoamministrazione povera e approssimativa a livello di villaggio sovrastata da una autorità superiore esercitata sporadicamente e più per prestigio di status che per intervento amministrativo diretto. Della materia erano investite le «open vestries» — assemblee di tutti i contribuenti — e, su piano esecutivo, gli overseers, che venivano nominati dai magistrati di contea. Ma mentre il potere delle assemblee rimaneva giuridicamente mal definito 105, sempre nuove funzioni erano state attribuite agli overseers e, sopra di loro, ai magistra-tes, o justices of peace — investiti, oltre che della nomina degli overseers, di sempre maggiori poteri di indirizzo e controllo della loro politica, nonché di giudizio sui ricorsi, singolarmente o in collegio secondo i vari gradi di istanza.
Un potere strategico e crescente, quindi, quello dei magistrati, ma fino ad allora esercitato con strumenti prevalentemente carismatici. L’enorme distanza sociale che di norma separava il magistrato dagli overseers o dai contribuenti — e che molte volte gli rendeva «impossibile» la partecipazione alle loro rozze riunioni106 — era il segno più tangibile del suo potere; la sua assenza dagli affari della parrocchia era il segno della regale presenza della sua autorità, che le forme e le procedure rafforzavano, giacché il magistrato «ordinava» o «consigliava» la politica che gli overseers dovevano seguire, e ne poteva poi rovesciare le singole decisioni in sede giudiziale, così mostrando la sua benevolenza.
Si deve forse a questo tipo di potere se l’aumento vertiginoso deH’assistenza erogata in quei decenni fu poi attribuito con tanta insistenza agli atteggiamenti più umanitari, se non condiscendenti, dei magistrati, e in particolare dei cosiddetti «poor man’s J.P.s» — i giudici «amici del popolo» —, più che all’og-gettiva esplosione della domanda. Certo è che col mutare della situazione generale quegli atteggiamenti diventavano sempre più inadeguati; complicandosi e specializzandosi la funzione — d’impulso e giurisdizionale — il distacco del signore non era più strumento di controllo, ma più spesso assenza; fattasi più insistente e agguerrita la rivendicazione popolare, il gesto di clemenza non incontrava la corrispondente deferenza e diventava mero cedimento: accadeva, infatti, che i poveri, fattisi esperti di regole e di leggi, utilizzassero la prevista possibilità d’appellarsi
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a uno qualsiasi dei magistrati della contea e individuassero i più generosi, oppure ricattassero e minacciassero l’overseer le cui decisioni sapevano appellabili di fronte al «poor man’s J. P.».
Queste contrapposizioni «orizzontali» tra «poveri» e over-seers, e tra overseers e magistrati spezzavano in più punti la catena delle deferenze gerarchiche e spesso rivelavano contrasti di interessi tra gruppi sociali che subivano in modi diversi la congiuntura economica, nonché l'andamento delle poor rates. Ad esempio rimproverando ai magistrati la loro generosità, i contribuenti locali e gli overseers in molti casi rappresentavano gli interessi degli affittuari — sulle cui spalle ricadeva la tassa, che evidentemente seguiva l’andamento della spesa — contro i proprietari, ai quali si rimproverava di decidere la spesa in quanto giudici e di non pagare la tassa in quanto proprietari107.
Offrendo al lettore una accurata casistica di questi contrasti il Report non si schierava apertamente né con l’uno né con l’altro dei gruppi sociali interessati, né con i J. P. aristocratici, né con gli amministratori locali. Verso i primi aveva parole di velenosa denigrazione, redatte e documentate personalmente da Chadwick allo scopo di dimostrare che la bizzarria di certe loro scelte derivava «dagli errori circa la natura del pauperismo» che, assai diffusi al tempo della scale, sembravano ancora condivisi solo dai magistrati, nonché dalla «loro posizione sociale» che li faceva estranei al mondo degli assistiti e perciò incapaci di giudicare dei loro veri bisogni108. Non meno severo era però con gli amministratori delle workhouses, gli overseers, i vestrymen (cioè i contribuenti locali), descritti come personaggi rozzi e ignoranti, spesso venali e corrotti, comunque incapaci di qualsiasi «professionalità» o «scientificità» nel trattamento dei poveri.
«La documentazione dimostra — ne concludeva il Report — che sugli organi attuali non si può fare affidamento per la corretta esecuzione di qualsiasi principio generale d’amministrazione loro imposto più di quanto si possa contare oggi sull’applicazione volontaria dei regolamenti» 109. Veniva così proclamata una «crisi d’egemonia»; l’inadeguatezza cioè dell’intera classe dirigente locale a svolgere le sue tradizionali e tipiche funzioni di mediazione e di controllo nel nuovo contesto imposto dal pauperismo di massa. Di qui l'artificio di «spogliare le autorità locali di ogni potere discrezionale nell'amministrazione dell’assistenza» e la proposta che «gli stessi poteri di emanare norme e regolamenti oggi esercitati da più di 15.000 autorità non specia-
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lizzate e praticamente irresponsabili, soggette all’influenza di biechi interessi, siano concentrati nell'ufficio centrale di controllo, che avrebbe la massima responsabilità e la più estesa informazione» 110. A quest'organo «relativamente piccolo ed economico» sarebbero stati conferiti i poteri di procedere alla incorporation delle parrocchie, ove necessario alla costruzione di workhouses, o all'assegnazione di quelle esistenti a una determinata Union o a una data funzione specialistica. Nel giro di due anni, completata questa ristrutturazione, avrebbe dovuto essere emanato l’ordine di proibire ogni assistenza ai lavoratori abili, e particolarmente ogni pagamento in moneta111.
Così il Report. Sorta di proclama giacobino, che legittima le più truci letture del progettualismo benthamita in chiave panop-tica e totalitaria, oltre che «collettivista»112? Anche di fronte a letture così indirizzate, la ricerca avrebbe da esercitare i suoi revisionismi. E di fatto li esercita: tra le nuove «ortodossie» revisionistiche è da registrare la continuità delle politiche assistenziali seguite prima e dopo il 1834113. Il Central Board fu tutt’altro che dispotico, anche per le pressioni e i sospetti per anni agitatigli contro da una ostinata opposizione radical-tory, e fino al suo inglorioso scioglimento nel 1847 di diritto e di fatto avallò la mancata applicazione dei fondamentali principi assistenziali enunciati dal Report; principalmente, la proibizione dell’assistenza esterna e la connessa creazione del sistema di workhouses specializzate. Un sistema così rigido non era nemmeno da proporsi come strumento di gestione della disoccupazione congiunturale dei distretti industriali, dove l’ordine non fu nemmeno emanato formalmente. Non minori erano peraltro i problemi nei distretti rurali, dove l'idea stessa di una workhou-se specializzata su base di Unione e non parrocchiale contrastava con l'immagine e l’esperienza delle tradizionali workhouses o poorhouses rurali alle quali pure il Report stesso si era richiamato 114. Si succedettero dunque, locali o nazionali, le previste ordinanze, che però a volte non «proibivano» ma «regolavano» l’assistenza esterna — ad esempio stabilendo che avrebbe dovuto essere data in natura e non in moneta e solo a chi non avesse già un salario — oppure consentivano speciali, elastiche «eccezioni» — per le quali, ad esempio, l'assistenza esterna era ammessa per i lavoratori sottoccupati, o momentaneamente disoccupati, o in casi di «urgente e improvvisa necessità»115. In breve, i sussidi continuarono ad esser pagati, e costituirono anzi
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la gran parte della spesa assistenziale per tutti i decenni successivi 116.
Se dunque si vuol dare concretezza alle enunciazioni radicali contenute nel Report assumendole come termini di raffronto dei casi analizzati, l’intera storia della poor law negli anni seguenti alla riforma è la storia di un insuccesso, e più ancora della sconfitta di un uomo, Edwin Chadwick, e del suo utopismo radicale. Qualcosa di simile entra certamente nel quadro, e ci è stata peraltro documentata in ogni particolare dal biografo di Chadwick, Finer, che ha scritto la storia della lunga ostilità manifestata dai circoli governativi per il testardo riformatore di modeste origini sociali, e della difficile sua collaborazione con la commissione d’inchiesta prima e il Central Board poi, di cui non riuscì mai a divenire membro effettivo 117. Ma dichiarare la mancata realizzazione delle astratte geometrie disegnate da Chadwick non è di grande aiuto a descrivere il suo contributo alla riforma che piuttosto si ritrova, con la piena consapevolezza di Chadwick, nei successivi adattamenti alla realtà subiti dal disegno originario.
La denuncia delle incapacità direttive della classe dirigente locale e la minaccia di spogliarle d’ogni potere si risolvono allora nello stimolo ad assumere i ruoli auspicati, e quindi nel rafforzamento del loro potere di con trattazione sociale. Ciò è già detto a chiare lettere — anche se probabilmente con qualche forzatura tattica — dagli autori del Report, dove era scritto che il Central Board avrebbe dovuto «assistere» e «controllare» le autorità locali118. Nel lungo rapporto che pubblicò due mesi dopo il Report in qualità di assistente commissario, Chadwick scrisse poi parole di grande apprezzamento per le testimonianze rese dai magistrati, aggiungendo: «non occorre che io sottolinei l'importanza di giovarsi dei benefici servigi di tali personalità. Faccio presente che la modifica suggerita dal materiale raccolto riguarda la posizione da loro occupata nel sovrintendere all’amministrazione delle rates, e che dovrebbe portarli dal seggio del tribunale al Board of Guardians per l’amministrazione dell'assistenza ai poveri119. I Boards of Guardians erano i costituendi consigli direttivi delle nuove Unions. In un memorandum richiestogli al momento della seconda lettura della legge alla Camera dei Comuni, Senior così rassicurava quanti avevano espresso il timore che la magistratura di contea fosse privata del suo potere: «Poiché i magistrati saranno membri, e membri tra i più influenti, dei Boards of Guardians, la legge non toglie loro
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il potere ma li mette in condizione di esercitarlo in modo migliore. Essa trasforma il magistrato, che rimane un funzionario senza giurisdizione fino a quando non gli è rivolto un ricorso, in amministratore. Gli permette di elaborare e mettere in pratica i suoi personali progetti di riforma, invece di essere uno spettatore passivo, oppure un malefico oppositore delle riforme degli altri» 120.
Del tutto coerenti con questa impostazione furono gli adattamenti — e in alcuni casi gli svuotamenti — via via subiti dalle varie parti dello schema iniziale. Durante l'iter parlamentare fu ad esempio indebolito il potere del Central Board proprio mentre erano resi meno democratici gli organi di governo delle Unions: fu stabilito che i magistrati residenti e il clero ne fossero membri di diritto, e che per reiezione degli altri membri fosse adottato il volto plurimo ponderato sull'estensione della proprietà, secondo il sistema che era già stato introdotto nel 1818 e nel 1819 per le «select vestries»121. Quando poi si passò alla fase esecutiva, e si dovettero disegnare le nuove Unions, gli assistenti commissari, anche se animati dalle migliori intenzioni neH'aggredire le contee di provincia e le roccaforti dei poteri locali ancora intatte nei loro equilibri aristocratici — oppure già precedentemente «incorporate», e dunque cementate da una serie di tenaci legami politico-partitici — finirono quasi sempre con l'ottenere rindispensabile appoggio dei magnati locali solo andando incontro alle loro esigenze — ed esempio sui confini delle Unions, oppure sui tempi e i modi deH'applicazione della riforma122.
Lo storico che più di ogni altro ha illustrato l’involuzione subita dalla riforma — e che perciò ne ha fatto un momento di «coesione della società rurale» —, Anthony Brundage, conclude che «la deferenza per i leaders naturali d'ima società ancora gerarchicamente ordinata, la subordinazione a un Parlamento dominato dai medesimi elementi, e le necessità pratiche di applicare nel miglior modo possibile una legge che dava loro scarsi poteri coercitivi, fecero sì che gli agenti del governo centrale facilitassero la costituzione di nuovi organi di governo locale potenti e indipendenti» 123.
In tal modo la riforma contribuì a cementare quella componente tipica della costituzione inglese, l'autogoverno locale quale modernamente si costruisce attraverso una «contrazione di localismo»124 che contemporaneamente abbozza un qualche profilo uniforme dell’amministrazione e abbandona le forme più
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semplici di democrazia diretta affidando il potere alle élites. Perciò, tenendo anche conto del ruolo «costituente» svolto dalla poor law in materia locale, si può dire che la riforma del 1834 creò il moderno sistema d’autogoverno inglese, e non si limitò ad aderire passivamente al gioco degli interessi fondiari tradi-zionah I25. Nel quadro costituzionale anglosassone infatti il «centralismo» svolge un ruolo assai diverso che non nel modello francese — che forse era effettivamente presente a Chadwick — perché idealmente avoca a sé il potere solo per restituirlo rafforzato alla periferia, ed è in sostanza una «garanzia» che il centro offre a dei poteri locali finalmente resi capaci di ciò che il Report non aveva trovato negli organi della vecchia legge: «eseguire correttamente» un «principio generale» e «applicare volontariamente i regolamenti».
Simile costituzione dell’autogoverno censitario nelle campagne inglesi rispondeva a una esigenza che pure s’era espressa nell'«abolizionismo»: quella di spezzare in sul nascere le «be-stiacce orizzontali» 126 che percorrevano il paese e che il vecchio paternalismo carismatico a detta dei riformatori non sapeva vedere né controllare. La gerarchia paternalistica era ristabilita, ma nella pienezza dei poteri amministrativi, dunque con strumenti adeguati a compiere l’ufficio suo, che era quello di ricondurre automatismi e collettivismi (rivendicazioni e ricatti, estorsioni, parassitismo e indolenza) sotto l'impero del rapporto personale, face-to-face: il bargain, lo scambio benevolenza-deferenza.
Raffaele Romanelli
Università di Pisa
NOTE AL TESTO
1 II testo della decisione di Speenhamland è riportato, tra gli altri, da S. e B. Webb, English Poor Law History (1927-29), London 19632, I, p. 178.
2 M. Blaug, The Myth of thè Old Poor Law and thè Making of thè New, in «Journal of Ec. Hist.», 23 (1936), pp. 151-84. Rist. in M. W. Flinn e T. C. Smodi (eds.), Essays in Social History, Oxford 1974, pp. 123-153, da dove cito ora e in seguito. Una simile elencazione dei danni attribuiti all’allowance si trova peraltro in molti altri testi.
3 M. Blaug, The Poor Law Report Reexaminated, in «Journal of Ec. Hist.», 24 (1964), pp. 229-245.
4 D. N. McCloskey, New Perspectives on thè Old Poor Law, in «Explorations in Ec. History», 10 (1973), pp. 419-436.
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5 D. A. Baugh, The Cost of Poor, Relief in South East England 1790-1834, in «Ec. Hist. Review», Il s., 27 (1975), p. 62.
6 Ibidem, p. 64.
7 Mi riferisco in particolare a J. S. Blackmore e F. C. Mellonie, Family Endowment and thè Birth Rate in thè Early Nineteenth Century, in «Ec. Hist. Review», I (1927-28), pp. 205-213 e 412-418. J. P. Huzel, Malthus, thè Poor Law, and Population in Early Nineteenth-Century England, in «Ec. Hist. Review», II s., 22 (1969), alle pp. 437-440 discute i precedenti del dibattito. Vd. anche M. W. Flinn, British Population Growth 1700-1850, London 1970, p. 32.
8 J. P. Huzel, op. cit., p. 451.
9 Id., The Demographic Impact of thè Old Poor Law: More Reflections on Malthus, in «Ec. Hist. Review», II s., 33 (1980), pp. 367-381.
10 M. Blaug, The Myth . . ., cit., p. 143.
11 J. S. Taylor, The Mythology of thè Old Poor Law, in «Journ. of Ec. Hist.», 29 (1969), p. 297.
12 A. Brundage, The Making of thè New Poor Law 1832-39, London 1978, p. 5. Parrocchie chiuse con dette quelle il cui territorio era per intero o quasi appartenente alla grande proprietà nobiliare. L’insediamento era minore, e gli stessi proprietari facevano ogni sforzo per impedirlo — arrivando anche a distruggere le abitazioni — rendendo sovrappopolate le parrocchie vicine da cui proveniva la manodapera e scaricando su di esse tutto il peso dell’assistenza. E evidente il rilievo di questo «mid-victorian scandal» (Holderness, p. 127) per la distribuzione e la mobilità della popolazione, nonché per gli effetti sociali dell’assistenza e, in questa sede, per la comparabilità delle diverse parrocchie. Cfr. B. A. Holderness, 'Open* and ’Close' Parishes in England in thè Eighteenth and Nineteenth Centuries, in «Agricolt. History Review», 20 (1972), pp. 126-139. Sull'argomento vd. anche, prima di Holderness, J. H. Clapham, An Economie History of Modern Britain. The Early Railway Age 1820-1850, Cambridge 1926, pp. 467-70.
13 K. Williams, From Pauperism to Poverty, London 1981, pp. 21-2, che addirittura definisce quello di Blaug e dei «suoi successori» «un revisionismo che definisce i propri problemi attraverso un processo di autoriferimento» per la sbrigativa enunciazione delle imputazioni mosse all’allowance e da quegli autori contestate.
14 «Non ci si rende sempre conto che gli argomenti usati per condannare la vecchia poor law di per sé condannerebbero allo stesso modo la gran parte della moderna legislazione assistenziale»: M. Blaug, The Myth . . ., cit., p. 124. «... il parallelismo tra il dibattito di oggi sull’assistenza ai poveri e quello del primo Ottocento è impressionante: D. N. McCloskey, op. cit., pp. 420-1.
15 Nel secondo volume della Encyclopaedia of thè Social Sciences, pubblicato nel 1930, alla voce «Allowance System» il sistema è detto diffuso e durevole fino al 1834, ma s’awerte che «l’idea che l’assistenza esterna sia in sé dannosa è largamente screditata dagli atteggiamenti più umani e dalle migliori conoscenze del giorno d’oggi». Sul terreno demografico poi «i critici hanno raggiunto tutta una serie di conclusioni con ragionamenti puramente aprioristici» e che la ricerca ha smentito. «Forse la tradizionale interpretazione melodrammatica era nata
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dall’esigenza di avere una semplice spiegazione della degradazione della classe operaia e dei molti mali della prima fase industriale». Ma, a parte gli studi demografici dei quali s’è detto, la voce rinvia al Report del 1834 e all’opera dei Webb, terminata l’anno precedente, che esplicitamente si colloca nel solco della tradizione ottocentesca e nella quale certo non si trovano le premesse per un simile rovesciamento di prospettiva. L’opera dei Webb potrebbe anzi essere simbolicamente posta come spartiacque tra le due epoche, come momento culminante d’una tradizione ormai secolare. Lo sottolineano gli stessi autori nella Prefazione del 1827, stabilendo uno stretto parallelo con i problemi di cento anni avanti (cfr. p. XXIII della ediz. 1963, cit.). Nel 1931 H. L. Beales (The New Poor Law, in «History», pp. 308-19) presentava la riforma del '34 come una salutare operazione chirurgica sul corpo tumorale della old poor law e paragonava la necessaria «dittatura» del sistema riformato al «socialfascismo». Spunti del genere andrebbero ripresi sistematicamente, per documentare le vicende d’una opinione che sembra seguire lo smarrimento dell'epoca.
16 Così D. Marshall, The Old Poor Law, in «Ec. Hist. Review», 7 (1937), p. 38.
17 M. Neuman, Speenhamland in Berkshire, in E. W. Martin, (ed.), Comparative Development in Social Welfare, London 1972, pp. 85-127.
18 Lo stesso Neuman ha documentato 1’esistenza di scales prima del 1795 in 4 Suggestion Regarding thè Origins of thè Speenhamland Pian, in «English Hist. Journ.», 84 (1969), pp. 317-322, mentre gli Hammond riportano una decisione consimile dei magistrati di Oxford: J. L. e B. Hammond, The Village Labourer (1911), London 1978, p. 109. Secondo i Webb modeste integrazioni al salario erano concesse da sempre per iniziativa degli overseers (op. cit., p. 170). Altre indicazioni in J. H. Clapham, op. cit., p. 357.
19 M. Neumann, Speenhamland in Berkshire, cit., p. 170.
20 La tradizione non è sempre così perentoria, ovviamente, e se ne potrebbero seguire l’evoluzione, le varianti e le contraddizioni. Certo è che già Eden riferiva di una scala «adottata universalmente» (F. M. Eden, The State of thè Poor (1797), Facsimile London 1966, I, p. 580). Riprendendo da Eden, dalla stampa radicale del tempo e dal Report del 1834, gli Hammond (forse gli autori ai quali si deve l’insistenza più convinta sugli effetti devastanti di Speenhamland) affermano che la scale, non nuova in sé, fu adottata da tutti come modello più semplice, e così «passò rapidamente di contea in contea. Il sistema dell’allowance si diffuse come una febbre, e se è vero che le contee del Nord ne furono toccate molto più tardi e in forma più leggera, nel 1834 c’erano però solo due contee ancora immuni, Northumberland e Durham» (op. cit., p. 109). L’edizione del 1978, dalla quale cito, è preceduta da introduzione di G. E. Mingay che, reso omaggio aH’importanza dell’opera, ne contesta i contenuti anche per ciò che riguarda diffusione e effetti dell’allowance. I Webb — con gli Hammond le maggiori autorità contemporanee sul tema — affermano che «tra il 1795 e il 1833» l’integrazione salariale «si diffuse in quasi tutte le contee dell’Inghilterra e del Galles eccetto il Northumberland, delle quali abbiamo avuto occasione di esaminare gli archivi» (op. cit., I, p. 180-181). Affermandone in tal modo l’estensione e la durata, si indebolisce la significatività degli effetti pauperizzanti, in genere attribuiti alle contee agricole depresse del Sud-Est e al tragico periodo di fine secolo. Riscontri puntuali danno risultati non omogenei, ma in generale si è inclini oggi a pensare che il «sistema
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21 Va sottolineato che anche Baugh o Blaugh nel contestare la tradizione ricorrono a quanto mai dubbie identificazioni di «aree Speenhamland». Ad es., il primo, dopo aver detto che la scale di Speenhamland, subito imitata nelle contee adiacenti, l’anno seguente fu «ratificata dal Parlamento» (pp. cit., p. 123), ritiene di poter considerare come «contee Speenhamland» quelle che una commissione parlamentare del 1824 riferì essere le contee più gravate dalla politica incriminata (ibidem, pp. 128-131). Il secondo, che fin dall’inizio concentra l’attenzione su tre contee sud-orientali dove la spesa era elevata — con ciò già ipotizzando un nesso evidente tra alta spesa e scale — e poi lavora su dati raccolti a livello parrocchiale nel 1817.
22 Cito in questo caso dal Report from His Majesty’s Commissioners for Inquiring into thè Administration and Practical Operation of thè Poor Laws, London 1934, che pubblica il testo della legge elisabettiana come 3° Supplemento, alle pp. 106-113.
23 Cfr. Poynter, op. cit., pp. 192, 213.
24 È il titolo di un articolo comparso su «Hist. Journal», 6 (1963) nel quale D. Roberts contesta la lunga tradizione «dickensiana» circa l’efferatezza delle wor-khouses. Contra, e per ristabilire il giudizio marxista che vede, al di là di casi singoli, la worhkouse come una istituzione repressiva di classe, U. Henriques, How Cruel was thè Victorùm Poor Law?, ibidem, 11 (1968), pp. 97-107.
25 Così, al termine di uno studio documentario sul Norfolk, A. Digby (Pauper Palaces, London 1978, p. 229: «La documentazione mostra che i poveri del Norfolk potevano usufruire di un tipo di assistenza che consentiva un tenore di vita superiore a quello dei lavoratori indipendenti. (...) La concezione popolare della workhouse come una sorta di barbara caserma assomigliava assai poco alle più civili sistemazioni dei 'palazzi dei poveri’ dell'East Anglia».
26 Webb, op. cit!., I, p. 212.
27 Ibidem, p. 220.
28 J. S. Taylor, The Unreformed Workhouse, in E. W. Martin, Comparative Development, cit., p. 61.
2’ Ibidem, p. 71.
30 A. Smith, The Wealth of Nations, (1776) Pelican Classics, 1970, p. 244.
31 J. R. Poynter, op. cit., p. 5.
32 Discutendosi, nel dicembre 1795, una proposta di legge Whilbread sulla regolamentazione dei salari alla quale accenneremo più avanti. Cfr. ibidem, p. 58.
33 Th. R. Malthus, An Essay on thè Principle of Population (1798), Pelican Classics 1970, p. 101.
34 Da una buona informazione sullo status quaestionis trae le sue mosse revisionistiche J. S. Taylor, The Impact of Pauper Settlement, in «Past and Present», 73 (nov. 1976). Ma per la schematizzazione estrema di quell'opinione vedi K. Polanyi, The Great Transformation (1944), tr. it. Torino 1974, dove alle pp. 100-1 si legge che una parziale liberalizzazione del settlement, votata nel 1795, «avrebbe reso possibile la formazione di un mercato nazionale del lavoro se non fossero
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stati introdotti nello stesso anno la Speenhamland Law» che «impedì l'istituzione di un mercato concorrenziale del lavoro».
35 Così ad esempio già Ph. Deane, The First Industriai Revolution (1967), tr. it. Bologna 1971, cap. IX., i cui giudizi sono spesso formulati su equidistanze tra le diverse tesi — e di cui infatti Hobsbawm e Hartwell, nel loro polemizzare, elogiano l’equilibrio, la cautela e l'assennatezza: vd. A. J. Taylor, ed., The Standard of Living in Britain in thè Industriai Revolution, London 1975, pp. 180 e 189. Pur negando che le trasformazioni del tempo provocassero significativi esodi dalla campagna verso l’industria, la Deane infatti non rinuncia a ripetere, anche se in modo più sfumato, che «nonostante tutto» il settlement costituì un disincentivo ai movimenti migratori (ibidem, p. 197). Un quadro più dettagliato e preciso è invece quello di S. Pollard, La forza-lavoro in Gran Bretagna, in The Cambridge Economie History of Europe, voi. VII, tr. it., Torino 1979, pp. 138-253, il quale tra l’altro illustra come la mobilità del lavoro, ben lungi dall'eliminare le forti disparità salariali, le accresceva. Un diverso aspetto del problema è costituito dal fatto che le norme sulla residenza incoraggiavano la tendenza alla riduzione del periodo consueto di assunzione: ma per questa via si direbbe che accelerassero, anziché frenare, la mobilità.
36 Varate in seguito a una fitta corrispondenza tra Chadwick e Ashworth, che aveva anche propositi antisindacali, le migration clauses sollevarono moltissime critiche e opposizioni, sia tra i radicali che tra i tories, e si risolsero in un fallimento. Gli uffici dovettero essere presto chiusi. Cfr. S. Pollard, La forza-lavoro in Gran Bretagna, cit., p. 155; S. E. Finer, The Life and Times of Sir Edwin Chadwick, London 1952, pp. 123-24; N. C. Edsall, The Anti-poor Law Movement 1834-44, Manchester 1971, pp. 51-2; A. Brundage, The Making. . ., cit., pp. 100-101.
37 Ph. Styles, The Evolution of thè Law of Settlement, in «University of Birmingham Hist. Journal», 9 (1963), p. 63.
38 Cfr. J. S. Taylor, The Impact..., cit., il quale giunge quindi a rovesciare l’opinione corrente, giudicando il Settlement funzionale ai meccanismi dello sviluppo. Si tenga inoltre presente che nei distretti urbani la deportazione della manodapera disoccupata avrebbe danneggiato gli stessi industriali al momento della ripresa; di qui l’uso del certificato e degli accordi compensativi tra parrocchie, per i quali la parrocchia urbana si limitava ad anticipare le spese assistenziali. Si aveva in tal modo un trasferimento di oneri che sostanzialmente faceva pagare ai distretti agricoli il costo della disoccupazione congiunturale nei distretti industriali. Ma significato non minore poteva avere la manovra sul settlement nelle contee rurali. Si veda il caso delle «parrocchie chiuse» (cfr. retro, n. 12), dove il settlement giovava invece ai grandi proprietari.
39 La storiografia non ha alcun dubbio al riguardo: «‘Sistema’ è comunque un termine complessivo che rinvia a una quantità di provvedimenti eterogenei canonizzati e razionalizzati da un atto del Parlamento. Le varie leggi che si riferiscono alla Poor Law — molto numerose — quasi sempre facevano riferimento, o davano espressione legale, a pratiche correnti in singole località, o ai mutamenti d’opinione che si verificavano in senso lato nel paese, cioè tra il ceto degli amministratori e dei governanti». J. D. Marshall, The Old Poor Law, 1795-1834, London 1978, p. 10. Si dovrebbe perciò usare con le dovute cautele anche il termine «legge», un atto che non sempre ha valore imperativo. Suggestiva l’annota-
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zione di Poynter (op. cit., p. 56) sulla «profonda riluttanza» dei parlamentari a influire in modo imperativo sugli affari locali, e sulla loro «convinzione che ciò che poteva esser opportuno fare come persone localmente influenti e come giudici di contea non era opportuno imporlo a tutte le magistrature di contea come membri del Parlamento».
40 A. Briggs, The History of Changing Approaches to Social Welfare, in E. W. Martin, Comparative Development. . ., cit., p. 10.
41 J. S. Taylor, The Unreformed. .., cit., p. 59.
42 G. Kitson Clark, The Making of Victorian England (1962), New York 1972, p. 17.
43 S. e B. Webb, English Poor Law History, cit., II, p. 7.
44 Non si tenta qui un ennesimo, incerto riepilogo statistico. Le cifre sulle workhouses sono tratte da J. S. Taylor, The Unreformed . . ., cit., pp. 62 e 77; quelle sulla percentuale degli assistiti, da K. Williams, op.cit., Statistical appen-dix, p. 150.
45 Sui termini della vicenda storiografica, vedi sinteticamente M.W. Flinn, op. cit.
46 Voci che dissentendo dalle dottrine mercantilistiche parlano dell’importanza del lavoratore come consumatore sono registrate, già per la prima metà del Settecento, da E. Furniss, The Position of thè Laborer in a System of Nationalism. A Study in thè Labor Theories of thè Later English Mercantilists (1918), New York 1965, pp. 126-7. Il concetto, ovviamente assai più radicato agli inizi dell’Ottocento, avrebbe diviso l’opinione «abolizionista»: «Credevo che tu fossi costretto ad ammettere — scriveva Ricardo a Malthus che le poor laws sostengono la domanda e di conseguenza l’offerta». Cfr. Poynter, op. cit., p. 241.
47 Sull'Atto del 1723 cfr. S. e B. Webb, op. cit., I, pp. 243-5 e II, pp. 64-5. Lo ricordano come primo workhouse test, tra gli altri, J. L. e B. Hammond, op. cit., p. 97 e K. Woodroofe, From Charity to Social Work in England and thè United States, London 1962, p. 17, i quali però datano 1722. Per i contenuti del «Gilbert Act» cfr. Webb, op. cit., I, pp. 272-6; per i suoi effetti, ibidem, pp. 151, 170-1, nonché J. H. Clapham, op. cit., pp. 357-8, il quale appunto dice che la legge «preparò la strada» a Speenhamland. L’uso di concedere assistenza invece di lavoro si sarebbe infatti generalizzato negli anni di più grave crisi fino a che nel 1796 una nuova legge promossa da sir William Young ampliò ulteriormente i poteri dei magistrati di concedere assistenza esterna. Ci si riferiva probabilmente allo Young Act quando si affermava che la scale di Speenhamland aveva avuto sanzione legislativa.
48 L’accenno è ad A. Smith, op. cit., p. 184. Un andamento inverso della curva d’offerta del lavoro giustificava le teorie dei bassi salari in età mercantilista: cfr. E. Furniss, op. cit., pp. 117 e ss. Perciò il fatto che Smith tratti l'argomento — ma per sottolinearne l'eccezionaiità — può essere considerato come significativo di «uno stadio di transizione nell’esperienza economica inglese» (Ph. Deane, op. cit., p. 192). Al centro di questa transizione al mercato è appunto la polemica sull'assistenza, alla quale viene rimproverato di conservare o introdurre, col suo garantismo economico, comportamenti non coerenti con una economia di mercato come quelli tipicamente rappresentati dalla «curva inversa».
49 «A dire il vero, non vedo cos’altro si sarebbe potuto fare». Così nel 1800. Cit. da S. e B. Webb, op. cit., I, p. 180.
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50 Sull’opera di Marcet cfr. J. R. Poynter, op. cit., pp. 237 sgg. Sulla Martineau vd. ora V. K. Pichanick, H. M. The Woman and Her Work, 1802-76, Ann Arbor 1980, in particolare le pp. 46-72. Per l'influenza degli economisti sull’opinione attorno alla poor law cfr. anche R. G. Cowherd, Politicai Economists and thè English Poor Laws Athens, Ohio, 1977.
51 D. Ricardo, The Principles of Politicai Economy and Taxation (1817), Everyman ed. p. 61.
52 La frase è in un passo del Report della Commissione del 1817 citato da S. e B. Webb, op. cit., II, p. 42. Alla ricerca del testo nelle biblioteche italiane, mi sono imbattuto nella traduzione comparsa a Parigi nel 1818 della quale la Biblioteca del Senato conserva una copia e dove la frase citata può leggersi a p. 5. La pronta traduzione estera sottolinea l’importanza del testo, che va considerato «il più esplicito e dogmatico riassunto della tesi abolizionista» (J. R. Poynter, op. cit., p. 245).
53 G. Nicholls, A History of thè English Poor Law, in Connexion with thè Legislation and other Circumstances Affecting thè Condition of thè People, London 1854, IL p. 140.
54 Cit. da E. W. Martin, From Parish to Union: Poor Law Administration. 1601-1865, in E. W. Martin (ed.), Comparative Development. . ., cit., p. 43. Senior così prosegue: «Egli acquista l’indolenza, l’imprevidenza, la rapacità, ma non la subordinazione, di uno schiavo. Gli è stato detto che egli ha diritto al salario, ma che è costretto a lavorare. Chi è che decide quanto duramente egli deve lavorare, o quanto duramente ha lavorato? Finora a decidere sono stati i magistrati, che sono però parte interessata, e il lavoratore ha quindi trovato giusto correggere quella decisione». I corsivi sono nel testo.
55 H. L. Beales, The New Poor Law, cit., p. 315. L'associazione tra assistenza e schiavitù era rafforzata per un verso dal ricordo delle pratiche stigmatizzanti — come l’obbligo di indossare un segno apposito — per l’altro dalle norme sulla residenza e la deportazione, nel complesso dunque da pratiche e norme o già in disuso nel 1834 o rimaste inalterate dopo la riforma.
56 M. Neumann, Speenhamland in Berkshire . . ., cit.
57 G. Nicholls, op. cit., II, p. 138.
58 A. Toynbee, Lectures on thè Industriai Revolution of thè 18th Century in England, London 1894, il quale, riprendendo Nicholls sulla decisione di Speenhamland, scrive: «Erano questi gli inizi del sistema dell’allowance, che nelle sue varie forme finì col demoralizzare completamente il popolo; non era passato molto tempo da che era operante, e già i lavoratori ci vengono descritti come pigri, insofferenti e tracotanti verso gli overseers» (p. 105). Più avanti, nei popular addresses aggiunti alle lectures, Toynbee traccia un ritratto ancora più colorito della devastazione morale prodotta dall’allowance: «l’affetto familiare fu cancellato, le madri minacciavano di abbandonare i figli fuori della porta di casa se non erano pagate per accudirli, e i figli disertavano i genitori» (p. 209). Il tutto, si noti, sarebbe provocato dalla presunta proclamazione di un diritto incondizionato all’assistenza: «Il carattere stesso del popolo fu mortificato dal riconoscimento di un suo diritto all'assistenza indipendentemente dal lavoro fornito» (p. 105).
59 E. J. Hobsbawm, G. Rudè, Captain Swing (1967), tr. it. come Rivoluzione industriale e rivolta nelle campagne, Roma 1973, pp. 47, 51. Poiché l’opera è successiva alle revisioni del dopoguerra, è da segnalare come esempio del diffuso
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costume di ricalcare tali e quali i giudizi dell’opinione ottocentesca, citando come mera aggiunta bibliografica gli scritti che drasticamente li rovesciano. In questo caso, gli aa. rinviano a Polanyi — cioè all’autore che più enfaticamente sposa l’avversione per Speenhamland — indicandolo come «la discussione di gran lunga migliore . . .», e «per ima discussione moderna da parte di un economista» citano The Myth of thè Old Poor Law... di Blaug (p. 57).
60 Basti per tutti il rinvio a Toynbee (op. cit.), che descrive la degradazione conseguente al garantismo sociale come obiettivo strategico della politica aristocratica di controllo sociale, del «Tory Socialism»: registra infatti alla fine del 700 «lo sviluppo di un atteggiamento che riconosceva al povero un diritto incondizionato ad attingere illimitatamente alla ricchezza nazionale; ma che garantiva quel diritto in modo tale da mantenerlo in condizioni di subordinazione e da indebolirne ’a dignità. Anche se fu rafforzata dal panico provocato dalla rivoluzione francese, questa idea di indurre il popolo alla passività non era del tutto nuova; aveva ispirato il Gilbert Act del 1792 (...)» (p. 103).
61 Polanyi è infatti l’unico autore ad aver proiettato sulle vicende della poor law — sintetizzandole nella contrapposizione tra 1795 e 1834 — il sistema concettuale derivato dalle dicotomie status contractus e Gemeinschaft-Gesellschaft di Maine e Tònnies sul quale egli aveva costruito la sua antropologia economica, e in essa la fondamentale «distinzione tra un rapporto di incorporazione e di non-incorporazione dell’economia nella società» (K. Polanyi, Aristotele scopre l’economia, in Id. (a cura di), Trade and Market in thè Early Empires. Economies in History and Theory (1957), tr. it. Torino 1978, p. 79, ma, per l’applicazione alla poor law, cfr. La nostra obsoleta mentalità di mercato (1947), ora in G. Dalton, ed., Primitive, Archaic and Modem Economies (1968), tr. it. Torino 1980, oltre naturalmente a La Grande Trasformazione, cit.. Ma appunto la vicenda delle poor laws sembra poco più di un pretesto nello sviluppo del sistema concettuale di Polanyi che proprio nel periodo inglese appare «in relazione più stretta con la tradizione di Biicher, Tònnies, Max Weber, Sombart, e, più immediatamente, di Thurnwald che con ogni contatto stabilito in Inghilterra» (S. C. Humphreys, History, Economies, and Anthropology : thè Work of Karl Polanyi, in «History and Theory», 8 (1966), p. 173. Per una discussione della Grande trasformazione vedi ora anche F. Block, M. Somers, Beyond thè Economistic Fallacy: The Holistic Social Science of Karl Polanyi, in Th. Skocpol (ed.), Broad Visions: Methods of Historical Social Analysis, Cambridge 1982). La sua estraneità ai percorsi seguiti dalla ricerca storica può spiegare perché questa abbia sostanzialmente ignorato il lavoro di Polanyi, in alcuni rari casi tributandogli generici omaggi — del tutto rituale quello di Hobsbawm e Rudè, che parlano di «libro brillante e ingiustamente trascurato» (pp. cit., p. 57), più convinto e necessario quello di M. Neuman, che pone «l’inevitabile Polanyi» al centro della sua analisi conclusiva (op. cit., p. 127). Viene però il sospetto che la struttura stessa del discorso di Polanyi sbarri la strada ad ogni possibile suo sviluppo, approfondimento o verifica a causa della sua «circolarità», della sua autosufficienza. A riprova del carattere fittizio, storicamente irrealizzabile, della pretesa preminenza dell'economico sul sociale, egli adduce infatti i guasti provocati da Speenhamland prima e dalla riforma del ’34 poi, intendendoli come momenti della concreta realizzazione del mercato del lavoro, dunque di quanto egli concepisce come irrealizzabile; nega quindi ai
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Raffaele Romanelli
riformatori del primo Ottocento la volontà — e la capacità — di regolare i ritmi del mutamento che invece riconosce alla legislazione dei primi Stuart o, al l’opposto, a quella protezionista del tardo secolo XIX e con ciò pone in successione cronologica, quali eventi reali in atto, quelle categorie dell’economico e del sociale il cui assoluto predominio egli è intento a negare. Sono meccanismi autopropulsivi che hanno scarso bisogno di sostegno documentario esterno.
62 V. retro, n. 54.
63 Op. cit., pp. 47-8.
64 Cfr. Report. . ., cit., p. 129.
65 Ibidem, p. 21, dove si precisa che nel testo la parola allowance è usata nel senso più ampio in uso, comprendente «ogni soccorso parrocchiale concesso a quanti si trovano a lavorare alle dipendenze di singoli datori di lavoro per il salario medio del distretto».
66 «La commissione reale d’inchiesta è uno strumento legislativo che si incontra raramente prima del 1832. Nel 1849 ne erano state costituite più di cento, e tutte le principali misure di legislazione sociale prese tra il 1832 e il 1871 furono precedute da questo tipo di indagine»: S. E. Finer, The Life and Times of Sir Edwin Chadwick, London 1952, p. 39. Attraverso la figura di Chadwick, il suo biografo stabilisce quindi un nesso tra inchiesta governativa e movimento riformatore. In questo senso vd. anche M. J. Cullen, The Statistical Movement in Early Victorian Britain. The Foundations of Empirical Social Research, New York 1975, che descrive i fondatori della Statistical Society di Londra (1834) come « uomini di mezza età, o più anziani, e di elevata reputazione nei circoli intellettuali, in particolare liberali. Il movimento statistico ebbe inizo (e sarebbe rimasto in seguito, sia pure in modo meno definito) come movimento dell’establishment riformatore, tra Whig e liberale in politica, non benthamita (anche se non esplicitamente anti-benthamita)» (p. 82). R. Tompson, The Charity Commission and thè Age of Reform, London 1979, contesta tale interpretazione «whiggita» del movimento riformatore e rivaluta le indagini riformatrici condotte prima del 1830 dai conservatori.
67 Così nel 1838, in una prefazione agli scritti di Bentham. Cit. da E. Finer, op. cit., p. 69.
68 Cfr. M. J. Cullen, op. cit., p. 84. In tutto il capitolo, l’a. descrive l’incerta collocazione del gruppo «statistico» tra i metodi deduttivi tipici dell’economia politica e il ricorso ai dati quantitativi. Anche A. Toynbee (op. cit., p. 9) riporta polemicamente l'affermazione di Senior, per il quale «l’economia politica non è avida di fatti; è indipendente dai fatti».
69 «Una commissione è molto utile per preparare la strada a un provvedimento prestabilito; prendi, per esempio, l’inchiesta sulla Poor Law»: così James Graham a Robert Peel, cit. da A. Brundage, The Making. . ., cit., p. 17. Ma la frase è scelta qui solo per la sua chiarezza, ed esprime una convinzione generale. Lo stesso Chadwick, il più convinto assertore delle indagini prelegislative, nel 1832 dettava la regola per la quale «La legge deve essere fatta per conformarsi all’opinione pubblica, oppure l’opinione deve essere istruita per conformarsi alla legge» e, scrive Finer che lo cita, egli personalmente seguiva la seconda alternativa (op. cit., p. 477).
70 S. e B. Webb, op. cit., II, p. 84. Gli inquirenti «si sforzarono più di ottenere materiali per una convincente incriminazione [della legge] che di valutare cosa