Il carcere fra modello disciplinare e modello economico

Item

Title
Il carcere fra modello disciplinare e modello economico
Creator
Renzo Villa
Date Issued
1978-01-01
Is Part Of
Studi Storici
volume
19
issue
1
page start
227
page end
237
Publisher
Fondazione Istituto Gramsci
Language
ita
Format
pdf
Relation
La volontà di sapere, Italy, Feltrinelli, 1968
Microfisica del potere: interventi politici, Italy, Einaudi, 1982
Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
Rights
Studi Storici © 1978 Fondazione Istituto Gramsci
Source
https://web.archive.org/web/20230921121215/https://www.jstor.org/stable/20564546?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=1999&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Aa6a769175d8e828ad033c2a820eac841
Subject
surveillance
discipline
normalization
pathological
exclusion (of individuals and groups)
extracted text
IL CARCERE FRA MODELLO DISCIPLINARE
E MODELLO ECONOMICO
Renzo Villa
L’interesse che possono avere gli studi sull’istituzione penitenziaria, nella sua evoluzione storica, è duplice. Da un punto di vista teorico il carcere è, nelle società moderne, l’unico luogo, o comunque il riferimento centrale, della pena, unicamente modulata sul tempo. Da un punto di vista storico il carcere è una delle istituzioni più significative e « totali », una presenza continua, e a lungo silenziosa, nella struttura sociale. Ma il carcere è anche, oggi, una istituzione che subisce i contraccolpi di una conflittualità crescente, e presenta un grado di permeabilità rispetto al tessuto civile in qualche modo maggiore che in passato. Porsi dunque la domanda « cosa è, che funzione ha il carcere? » e tentare di rispondervi attraverso un’analisi storica della sua origine, non rappresenta un dato episodico e transitorio: investe una problematica ben reale ed apre contemporaneamente allo storico aree di ricerca assai scarsamente conosciute. Attraverso l’istituzione penitenziaria è possibile infatti ricostruire il modo storicamente determinato in cui una società data vive la pena come espressione finale del diritto, ma tale storia illumina anche vividamente i rapporti di classe e l’uso che di tale istituzione si venne facendo all’interno della lotta di classe. Ancora, il carcere compone, a fianco delle altre istituzioni — l’esercito, la scuola, gli ospedali — un quadro possibile di identificazione, anche se non totale, del modello che una formazione economico-sociale viene storicamente proponendo. Infine, il carcere ha, fra gli strumenti del controllo sociale, una funzione ed un valore normativo del tutto esemplare dal livello repressivo a quello simbolico.
In un quadro così complesso gli studi di carattere generale e storico sono, in Italia, singolarmente pochi ed isolati: la pubblicazione a tempi ravvicinati di due opere che hanno un oggetto simile, appunto la nascita del sistema carcerario, rappresenta quindi un fatto di non secondaria portata \ Certamente ciò non avviene a caso: se il libro di Foucault si
1 M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975, trad, it., Torino, 1976 (citato nel testo come S.P.); D. Melossi M. Pavarini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, Bologna, 1977 (citato nel testo come C.F.).



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inserisce in una più ampia ricerca sulle forme della razionalità e del potere nel mondo occidentale, ma è anche stato scritto sotto la spinta di una partecipazione militante alle lotte carcerarie2, il volume di Dario Melossi e Massimo Pavarini nasce come cosciente risposta ad una domanda, a sua volta posta dalla crisi dell’istituzione: « perché il carcere? Per quale motivo in tutte le società industrialmente sviluppate questa istituzione adempie in maniera dominante alla funzione punitiva, sino al punto che carcere e pena vengono considerati dall’opinione comune quasi sinonimi? » (C. F. 19). Non svilupperemo qui i problemi di una situazione teoricamente e istituzionalmente di crisi: cercheremo invece di seguire e discutere le risposte date da due volumi, risposte per lo storico assai importanti; non solo perché per molti aspetti stimolanti ma anche per gli spazi di ricerca, le ipotesi, i risultati che questi lavori propongono.
Leggere i testi di Foucault implica sempre un esercizio complesso: i livelli del discorso sono volutamente stratificati e correlati, e una lettura univoca è sempre parziale: questa osservazione va premessa al fatto che da Sorvegliare e punire trarremo soltanto le tesi storiche, volutamente tralasciando l’ordine più complesso del discorso foucaultiano. D’altra parte è statò l’autore stesso ad avvertire che « c’è minore difficoltà ad intendersi » 3 con gli storici, pur trattando un materiale « non nobile », che con i destinatari delle analisi, in questo caso giuristi e criminologi, e ciò proprio per la messa in causa degli statuti epistemologici delle loro discipline.
Il discorso di Foucault prende l’avvio dalla pratica, da quella più rappresentativa, pre-carceraria : il supplizio, esposto come il cerimoniale della sovranità, l’espressione pubblica, e sul corpo del condannato, del potere del re. Il supplizio, che non è la pena principale ma quella che meglio esprime il modello delle pene stesse, è, anche, una tecnica: espressa in una quantità calibrata e ritualizzata (5. P. 37).
Tale tecnica ha per oggetto il corpo del condannato, e su questo corpo verrà esprimendosi — anche dopo l’illuminismo, l’opera di Beccaria, l’affermazione della « certezza del diritto » — la moderna dottrina pe-nologica. Foucault — pur esprimendo il proprio debito, peraltro poi non pagato, verso un testo-chiave per chiunque voglia occuparsi della questione carceraria, l’opera di due autori della scuola di Francoforte, Georg Rusche e Otto Kirchheimer4, ben presente anche nel testo di Melossi e Pavarini — ha compiuto una operazione decisiva. Ha cioè spostato lo sguardo dalla struttura e funzione dell’istituzione, all’oggetto della pena, appunto il corpo. Al di là delle più recenti applicazioni del
2 - Foucault ha contribuito, dopo il ’68, alla creazione del Groupe Information Prisons, e questa esperienza è presente nella struttura discorsiva del testo.
3 - M. Foucault, Microfisica del Potere, Torino, 1977, p. 119.
4 - G. Rushe, O. Kirchheimer, Punishment and Sociale Structure (1939); New York, 1968 :)i prossima pubblicazione la traduzione italiana.



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discorso su potere e corpo5, resta il fatto che questo spostamento epistemologico favorisce tutto il successivo sviluppo del discorso: in particolare giustifica e fonda tutta l’interpretazione del carcere come modello disciplinare fondato su una tecnologia del corporale; l’istituzione quindi modella e non ha altra dipendenza dalla struttura socio-economica, se non l’essere parte di una tecnica del potere.
Il diritto penserebbe invece la pena come una tecnologia della rappresentazione: nell’ideale dei riformatori, infatti, la pena non è appiattita e resa uguale per tutti, ma estremamente articolata, tale da rendere appunto visiva e rappresentata la pena.
Le ragioni di questa nuova articolazione sono varie: « Spostare l’obiettivo e cambiare la scala. Definire nuove tattiche per raggiungere un bersaglio che è ora piu ristretto ma assai piu largamente diffuso nel corpo sociale. Trovare nuove tecniche per applicarvi le punizioni ed adattarvi gli effetti. Porre nuovi principi per regolarizzare, affinare, universalizzare l’arte di castigare. Omogeneizzare il suo esercizio. Diminuire il suo costo economico e politico aumentandone l’efficacia e moltiplicandone i circuiti. In breve, costituire una nuova economia ed una nuova tecnologia del potere di punire: sono queste senza dubbio le ragioni d’essere essenziali della riforma penale del secolo XVIII » (5. P. 97). Ma, in presenza di tre fattori, che si presentano nel periodo a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo, questo progetto si evolve ulteriormente: dai segni rappresentativi si passa ad una tecnica fondata su un « modello coercitivo, corporale, solitario, segreto del potere di punire » (5. P. 144), al carcere appunto. Il primo di questi fattori è, per Foucault, l’evoluzione della criminalità. Essa, nel corso del XVIII sec., avrebbe perso parte della sua violenza per divenire criminalità di frode (5. P. 81-85): a sua volta l’allargamento e la minore virulenza della criminalità viene correlata alla necessità di rendere certa la pena, e nello stesso tempo più rapida, funzionale, meno ancorata all’esercizio del potere del sovrano. Infine l’eversione della feudalità e le nuove caratteristiche della proprietà fondiaria borghese, nonché lo sviluppo della proprietà commerciale ed industriale, impongono una revisione della definizione degli spazi di illegalità: « L’illegalismo dei diritti che assicurava spesso la sopravvivenza dei più poveri, tende, col nuovo status della proprietà, a divenire un illegalismo di beni. Bisognerà allora punirlo» (S. P. 93). Delimitando la criminalità, si viene contemporaneamente assolvendo quell’illegalismo delle classi ricche — il crimine economico che anche oggi rappresenta l’altra criminalità — che caratterizza anche la realtà della popolazione carceraria.
Questi tre elementi, diciamo cosi « esterni » si fondono con un’altra scoperta: quella del corpo come oggetto di disciplina. Gli esempi della scuola, dell’esercito delineano ormai quello che è il nocciolo del discorso di Foucault: il carcere come luogo deputato, modello, di una società fondata sulla disciplina. L’analisi da lui compiuta dell’istituzione da
5 Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, Milano, 1978.



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questo punto di vista ha indubbi motivi di fascino intellettuale, e solo la lettura diretta può restituire la ricchezza di motivi che in essa circolano. Trarremo solo due aspetti che ci paiono fra i più significativi. La struttura che visivamente stabilisce il rapporto di potere, in cui il condannato è « oggetto di informazione, mai soggetto di una comunicazione » (S. P. 218), è la struttura proposta nel Panopticon di Bentham6: una struttura ad anello accoglie le celle, con una finestra per la luce esterna e l’altra verso l’interno; al centro una torre da cui il sorvegliante può vedere ma, per mezzo di persiane, non è visto. Questa struttura che sorveglia la disciplina, l’adesione del corpo del condannato ad un ideale rieducativo, si apre ad un’altra tecnologia del potere. Quella delle discipline — la psichiatria, la criminologia, la psicologia — che dall’osservazione della popolazione carceraria si sono sviluppate e il cui compito è, oggi, quello di giustificare e ampliare la pratica della giustizia.
Quali le fonti di questo complesso, prolifico, sotto molti aspetti affascinante discorso sulla nascita della prigione? Qui tocchiamo alcuni primi, immediati, limiti della costruzione foucaultiana. In primo luogo si tratta di un discorso limitato alla Francia: le esperienze di altre nazioni e del mondo anglosassone è appena sfiorato e ciò, per un discorso che vuol essere generale, è assai pericoloso. In secondo luogo, mentre appare abbastanza semplificata e sottovalutata l’analisi del pensiero illuminista7, le fonti storiche vengono usate solo a seconda dell’utilità, del discorso, e non esposte rigorosamente. L’uso delle fonti diviene più criticabile quando si tratta di due questioni centrali, e cioè la modificazione della criminalità e il panoptismo.
Riguardo alla prima occorre rilevare che se è indubbio un mutamento nel quadro della criminalità, e se la rivoluzione dell’89 ha comunque agito come acceleratore di tale mutamento, tuttavia la questione nel complesso appare ancora scarsamente studiata8, occorrendo affiancare allo studio degli archivi giudiziari, studi paralleli sulla mobilità, il pauperismo e i cicli economici, e soprattutto pare assai più diluita nel tempo di quanto Foucault possa ammettere. Basti pensare al problema dell’organizzazione per bande di « briganti », che presenta caratteri nazionali assai differenziati, spesso legati all’ordinamento giuridico ed alle tecniche militari. Il problema comunque non pare tanto da riferire alla forma istituzionale del potere, quanto alla rivoluzione industriale, e da questo punto di vista sembra di poter dire che ci fu un aumento della criminalità
6 - cfr. J. Bentham, Panopticon, (1787), Works, IV, New York, 1962.
7 - Questa critica è stata sottolineata in particolare da: J. Pinatei, Philosopbie carcerale, technologie politique et criminologie clinique, « Revue de Science criminelle et de droit pénal compare », n.s., 1975, 3.
8 - Per il mondo inglese disponiamo di un testo di inquadramento generale come L. Radzinowicz, A history of English Criminal Law and its Administration from 1750, London, Stevens e Sons, 1948, 2 voli. Ricerche recenti per l’area francese sono R. Cobb, Polizia e popolo. La protesta popolare in Francia (1789-1820), Bologna, 1976; L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, Bari, 1976.



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— indotta anche dalle modificazioni nella struttura urbana, ecc. — di sangue piuttosto che di quella di frode.
Riguardo alla seconda questione, che svilupperemo più avanti, va subito rilevata la grande parzialità, giustificata da uno schema ma a prezzo di un irrigidimento interpretativo, di Foucault. Tale parzialità deriva dal considerare il modello di Bentham come quello che storicamente si è imposto e che continua a dominare l’universo concentrazionario. Ma pochissime prigioni furono costruite secondo tale modello. Il progetto disegnato da Jeremy e Samuel Bentham nel 1791 ha certamente il vantaggio, da un punto di vista teorico, di essere una struttura a molti usi: carcere ma anche ospedale, scuola, casa popolare, tutti i luoghi in cui occorra sorvegliare e separare. Ma, alla fine del ’700 altri progetti erano ben presenti: la Maison de Force di Gand progettata dal sindaco Vilain XIV nel 1772; gli schemi dedotti dalle sue visite da Howard (1782); il progetto Jefferson-Latrobe per la prigione di Richmond (1786-1796); ancora i progetti presentati per il concorso inglese del 1782. Negli ultimi due secoli poi l’edilizia carceraria ha subito numerosi mutamenti. Certamente uno studio sull’architettura carceraria, dai modelli militari a quelli a stella, porrebbe in luce anche la molteplicità di situazioni e rapporti fra il carcere e il tessuto urbano. La prigione infatti, come la fabbrica, non può essere solo analizzata dall’interno : occorre stabilire i codici del rapporto con il tessuto, appunto l’ambiente urbano, in cui è calata e per cui è costruita, con funzione eminentemente significante9.
Se il panoptismo non fu dunque che una delle proposte della tecnologia carceraria, occorre far rilevare come una storia dell’istituzione non possa comunque tralasciare la molteplicità delle forme dell’istituzione stessa.
La lettura di Melossi e Pavarini, rifiutando una filosofia carceraria troppo facile, è, pur partendo dall’attuale realtà e quindi ponendo domande « interessate » alla storia, più circostanziata proprio nell’analisi dell’« invenzione penitenziaria». Divisa in due parti, di cui la prima, di Dario Melossi, ricostruisce la storia dalla metà del XVI alla metà del XXI secolo in Europa e Italia, e la seconda, di Massimo Pavarini, l’esperienza americana nella prima metà del XIX sec., quest’opera ha il pregio di una rilettura puntigliosa delle pubblicazioni sul problema e di una proposta interpretativa in chiave marxista. Il discorso parte dalle prime forme di reclusione: le Rasphuis olandesi e le Workhouse inglesi, stabilendo subito una relazione, che costituisce il filo conduttore dell’opera, fra sviluppo del modo di produzione capitalistico e carcere, fra uso della forza-lavoro, organizzazione del lavoro e istituzione repressiva. In questa prima fase, le cui fonti sono poco note in Italia 10, la casa di lavoro ha
9 - Uno studio sui modelli archi tettonici penitenziari è S. Lenci, Tipologie delTedilizia carceraria, in M. Cappelletto, A. Lombroso (a cura di); Carcere e società, Venezia, 1976.
10 - Soprattutto V. F. Piven, R. A. Cloward, Regulating tbe Poor, London 1972; T. Sellin, Pioneering in Penology, Philadelphia, 1944; fra le fonti documentarie molto



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il compito di « Assicurare la soppressione di un mondo intero di impulsi e di disposizioni produttive, per valorizzare solo quella infinitesima parte dell’individuo che è utile al processo lavorativo capitalistico » (C. F. 45). Ma questa funzione non può avere, data l’esiguità quantitativa della forza-lavoro, che un significato tendenzialmente solo simbolico, e non direttamente legato al mercato del lavoro: già Howard, ad esempio, nel 1784 poteva verificare lo smantellamento della manifattura nel penitenziario di Gand. Melossi ricostruisce assai bene comunque il rapporto fra le esperienze europee e lo sviluppo economico, articolando storicamente e sottoponendo a verifica la tesi centrale di Rusche e Kirchheimmer, che, cioè, il grado di utilizzazione del lavoro non libero sia stato funzione dell’espansione o contrazione del mercato del lavoro libero.
L’analisi del significato simbolico ed ideologico attribuito progressivamente al carcere, finché « nel periodo 1840-1865 trionfa in Inghilterra il principio terroristico e, con esso, quello dell’isolamento cellulare e del lavoro inutile » (C. F. 76), prosegue con l’approfondimento della posizione di Bentham.
La complessità della situazione preunitaria italiana — il lavoro di Melossi termina infatti alle soglie dell’Unità 11 — è analizzata in dense e articolate pagine che collegano le esperienze penitenziaristiche ai dibattiti fra i riformatori. Viene in particolare sottolineata la situazione precapitalistica, per cui « anche in Italia, l’istituzione viene creata come istituzione essenzialmente borghese, il cui fine precipuo è l’educazione alla disciplina e all’obbedienza ma, piu che in altre situazioni nazionali, il disprezzo per una forza-lavoro perennemente sovrabbondante ne farà strumento terroristico di controllo sociale» (C.F. 138). Il rapporto fra il modello carcerario e la fabbrica si situa dunque non a livello di corrispondenze dirette ma « sulle esigenze ideologiche d’un particolare modo di produzione (quindi sulla fabbrica) » (C. F. 139).
L’istituzione penitenziaria tuttavia, cosi come è presente nel dibattito ottocentesco, non è un prodotto europeo, ma principalmente nordamericano. La scelta di approfondimento di Pavarini, appunto l’« invenzione penitenziaria » negli Stati Uniti della prima metà del XIX secolo, corrisponde anche all’importanza del dibattito fra auburniani e filadel-fiani, in una analisi di cosa questo significò nella realtà del nascente capitalismo. Il sistema sperimentato nel penitenziario di Auburn consisteva nella reclusione cellulare e nel lavoro comune di giorno e ciò nel più assoluto silenzio. Pavarini, che ha precedentemente ricostruito non solo il quadro economico sociale di riferimento ma anche le prime forme di controllo sociale ed organizzazione giudiziaria, afferma a proposito di Auburn: « L’originalità del nuovo sistema consisteva, quindi, essenzial-
usata è la descrizione di J. Howard, Prisons and Lazarettos, (1792), Montclair (New Yersey), 1973 reprint; e per l’Italia l’opera di Petitti di Roreto.
11 Sul periodo successivo un ottimo saggio è quello di G. Neppi Modona, Carcere e società civile, in Storia d'Italia, I documenti, Torino, 1973, voi. II, pp. 1903-1998.


233 II carcere tra modello disciplinare e modello economico mente nell’introduzione di un tipo di lavoro di struttura analoga a quella dominante nella fabbrica» (C.F. 182).
La conseguenza maggiore di questo fatto fu la sussunzione della disciplina carceraria da parte della organizzazione del lavoro. Il carcere faceva « della capacità lavorativa il parametro reale per il giudizio di buona condotta» (C.F. 183). Ma la stretta integrazione fra carcere e fabbrica permise anche « la possibilità — sfruttata per tutto il secolo XIX — di abbassare i costi di produzione di alcuni settori industriali e di porre quindi — attraverso la concorrenza — un calmiere all’aumento del livello salariale » (C. F. 183) e ancora « la storia del carcere americano, nel suo sorgere è (anche) storia dei modelli di impiego della popolazione internata» (C.F. 190).
Diverso il modello di Filadelfia, basato sul lavoro solitario nella cella: « il carcere cellulare filadelfiano ripropone, in scala minia turale, il modello ideale (l’idea astratta, cioè, di come dovrebbero organizzarsi i rapporti di classe e di produzione nel “libero mercato”) della società borghese, del primo capitalismo » (C. F. 190); il modello è però ancora artigianale, con una bassissima quantità di capitale fisso. Al contrario ad Auburn la produzione entra direttamente nel carcere e l’imprenditore « organizza efficientemente la produzione, provvede ad industrializzare le officine, retribuisce, parzialmente, il lavoro, produce manufatti non più artigianali e provvede personalmente a collocare il fatturato sul libero mercato » (C.F. 191). Ma la finalità del carcere non può essere identificata nella quantità di produzione di merci, fatto che anche in America alla fine dell’800 è ormai in crisi: è fatta coincidere con la trasformazione del criminale in detenuto e del detenuto in proletario. « Il carcere — nella sua dimensione di strumento coercitivo — è quindi finalizzato ad un obiettivo preciso: nel riconfermare l’ordine sociale borghese (la netta distinzione tra l’universo dei proprietari e l’universo dei non-proprietari) deve educare (o rieducare) il criminale (non proprietario) ad essere proletario socialmente non pericoloso, cioè essere nonproprietario senza minacciare la proprietà » (C. F. 207). Le conclusioni a cui giungono Melossi e Pavarini dopo questa analisi delle funzioni originarie, reali ed ideologiche, del carcere, è, in primo luogo, fondata sul fatto che la proporzionalità della pena al delitto sia « la traduzione, a livello giuridico-penale, di un tipo di rapporti sociali basati sullo “scambio di equivalenti”, cioè sul “valore di scambio” (C. F. 241). Schematizzando alcuni lavori12 sulla lettura marxista della « questione criminale » ed elaborando anche alcuni nodi teorici presenti in Pasu-kanis 13, gli autori affermano anzitutto la congruità della pena privativa di libertà nella società borghese in quanto modulata su una forma di
12 - Si tratta, in generale, del lavoro compiuto dalla rivista « La questione criminale ». In particolare da uno scritto di D. Melossi, Criminologìa e marxismo: alle origini della questione penale nella società de «Il Capitale», «La questione criminale», 1, 1975, 2.
13 - Cfr. E. B. Pasukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo, Bari, 1975.



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valore di scambio, cioè il valore del lavoro salariato. Da questa matrice contrattuale, vengono inferite — previa la verifica storica — alcune conseguenze: in primo luogo fra la pena come retribuzione e la pena come esecuzione esistono delle contraddizioni, che riportano il rapporto fra ragione contrattuale e necessità disciplinare al rapporto di lavoro: contratto di lavoro-subordinazione operaia. In particolare viene sottolineata la pena (come fatica alienata) del lavoro operaio e la pena come lavoro per il condannato; il momento disciplinare coincide con il momento istituzionale: « Infine la “fabbrica è per l’operaio come un carcere” (perdita della libertà e subordinanza); il “carcere per l’internato è come una fabbrica” (lavoro e disciplina) » (C. F. 246). Il passaggio fra organizzazione coattivo-carceraria e organizzazione coattivo-economica del lavoro14 significa anche l’analogia duplice « i detenuti debbono essere lavoratori, i lavoratori debbono essere detenuti » (C. F. 246). Questa analogia, che assume nel testo quasi un carattere di necessità, rende particolarmente perplessi. Certo lo sforzo teorico compiuto è, in Carcere e fabbrica, notevole. Ma, ci pare, riferibile alla sola fase iniziale della storia carceraria, e, anche in questa fase, da verificare più a fondo con ricerche storiche dettagliate. Il fatto che, da un secolo almeno, il carcere perda praticamente in volontà e capacità di risocializzazione ed assuma funzioni deterrenti è forse anche da collegare all’essere il lavoro carcerario, lavoro improduttivo, data l’analisi marxista sul lavoro produttivo e la forza lavoro libera. E resta poi da sviluppare il discorso sulla popolazione carceraria: chi era, e cosa faceva dopo l’uscita dal carcere, il « detenuto proletario »?
Una prima osservazione generale può essere fatta per entrambi i testi: essi pongono il carcere come modello, ideologico e normativo, ma anche reale per coloro che lo vivono: modello disciplinare e modello dei rapporti economici di produzione. Ciò ci pare solo in parte legittimo. Infatti se questa fu la reale intenzione dei riformatori e più in generale della storia del carcere nella prima metà dell’800, nei decenni successivi il carcere venne investito da una critica ed una crisi che rendono il modello pensato dagli autori scarsamente suscettibile di concreta applicazione. Con i primi tentativi per articolare la pena o comunque scalfire in qualche modo l’uniformità del sistema penitenziario e cioè con la probation, i riformatori e le case di correzione, il dibattito sui sostitutivi penali, si apre una fase che sostanzialmente sottolinea il solo valore deterrente del carcere e, contemporaneamente, la sua insufficienza. Infatti non esiste carcere nei momenti in cui una crisi economica impone un illegalismo diffuso, né quando il terrore si afferma come strumento di controllo sociale. Mi riferisco, ad esempio, al processo migratorio come strumento di regolazione del mercato del lavoro; all’eco-
14 È una tesi di P. Costa, Il progetto giuridico. Ricerche sulla giurisprudenza del liberalismo classico, voi. 1, Da Hobbes a Bentham, Milano, 1975.



235 II carcere tra modello disciplinare e modello economico nomia keynesiana e derivati come forma di sostitutivo alla disoccupazione e alle sue conseguenze; agli universi concentrazionari, quei campi di concentramento in cui è sempre presente il lavoro, ma con funzione di sola produzione di morte, e non di merce, o di merci comunque non analizzabili in termini economici. La crisi del carcere si prolunga ormai da decenni, come gran parte delle istituzioni totali nate nell’Ottocento. Certo l’analisi delle funzioni reali, che soprattutto è dimostrata in Carcere e fabbrica, porta materialisticamente anche ad una analisi della attuale sopravvivenza, ma anch’essa rischia di non fornire, se non viene arricchita e dialettizzata, strumenti per l’analisi dei processi successivi.
Inferire un modello da una struttura in crisi è errato, applicare un metodo ipotetico-deduttivo, come fa Foucault, ad una istituzione storica è quantomeno limitativo; e infatti, da questo punto di vista Sorvegliare e punire opera tali tagli nel materiale storico — e anche solo il libro di Melossi e Pavarini lo dimostra — da rischiare di essere, o comunque da voler essere, un libro di « filosofia carceraria ». Il che, oltre che legittimo, può anche essere utile ma, dal punto di vista storico, abbastanza discutibile.
Una seconda osservazione generale riguarda il rapporto fra il carcere e il modo di produzione capitalistico. Entrambi i testi affermano che il carcere ne è funzione. Una funzione secondaria, si potrebbe pensare al termine di una lettura di Sorvegliare e punire: il capitalismo ha infatti inventato altri e ben piu complessi sistemi di controllo del corpo: dalle macroistituzioni come la città contemporanea, alle tecniche di controllo del comportamento attraverso patterns culturali e cosi via; la letteratura è cosi estesa da essere difficilmente controllabile. Il carcere è invece una funzione importante per Melossi e Pavarini, perché esprime l’analogia del diritto con i rapporti sociali di produzione. Se questo secondo aspetto ci sembra assai più appagante e stimolante, vorremmo tuttavia segnalare una carenza che abbiamo notato in entrambi, il riferimento cioè all’economia politica. In realtà l’economia politica, non solo per come essa viene intesa da Marx, ma nella storicità dei suoi testi, entra e si lega con i dibattiti sul carcere, e come fonte del discorso sul soggetta economico, si lega al problema penitenziaristico in vari modi. Bentham non ha inventato il Panopticon a caso: la derivazione giusnaturalistica dell’utilitarismo, il porre i problemi economici in termini di pena e di piacere rendeva il discorso giuridico sovrapponibile a quello economico: e questa linea è forse rintracciabile fino all’analisi marginalista. Ma soprattutto la questione del pauperismo, il modo di considerare la forza lavoro e l’esercito industriale di riserva hanno dato spazio soprattutto agli economisti cattolici, per un interesse ed una analisi reale dei temi penali e carcerari. E qui si innesta una terza osservazione generale: come l’economia politica si occupa dell’istituzione penitenziaria e della sua organizzazione, pur non essendone ovviamente una scienza dipendente, cosi le discipline che si occupano del criminale — criminologia, psichia-



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tria forense, psicologia, sociologia — non sono necessariamente figlie dirette del carcere. Anzi: l’uomo nel carcere, il prodotto del carcere, o, per dirla con Melossi e Pavarini, il delinquente divenuto proletario, non interessa affatto, e, soprattutto, non esiste nemmeno per la criminologia, che è critica verso il carcere. Piuttosto queste discipline sono tutte dipendenti dal diritto e quindi da valutazioni di norma, di reato, di soggetto di diritto, di causa e cosi via, che il diritto elabora. Il fatto che i criminologi studino i carcerati (da Ferrus a Lombroso) non è perché si sia loro fornito un oggetto prima inesistente. Essi studiano gli uomini che delinquono e deviano e se lo fanno nell’800 e non prima è, oltre a ovvie considerazioni di storia delle scienze, perché prima il diritto colpiva i singoli e non intieri strati sociali. Prima infatti si sviluppa un approccio fisiognomico e frenologico e, solo dopo, un approccio antropologico. Il criminologo fa la conoscenza del criminale, certo, ma non tanto in quanto « deviante istituzionalizzato » (C. F. 205) quanto come soggetto di colpa. Lombroso quando tenta di ricostruire minutamente il vissuto del criminale-carcerato (i Palinsesti del carcere) o De Greef quando studia la personalità dei carcerati di Lovanio, non studiano tanto le conseguenze dell’istituzione quanto gli elementi preformati ad essa. Ma, afferma Foucault, queste discipline si formano e si esercitano come tecnologie dell’inserimento: le tecnologie dell’« anima » non sono che tecnologie strumentali al potere sul corpo. Questo è indubbiamente il risultato attuale e resta il compito di una critica delle discipline che si occupano della devianza, ma ricordando che esse operano prima dell’internamento, e ben poco, dopo.
È possibile dunque considerare il carcere come fonte storica, oltre, quindi, che come modello e funzione del capitalismo? Credo che la risposta possa essere affermativa ma che, rispetto a queste due opere, occorra portare in scena, oltre all’istituzione, gli istituzionalizzati, gli oggetti della pena, i carcerati: in questi due libri, essi sono assenti e la loro assenza non è, forse, secondaria. Sono infatti presenti in tanti discorsi che oggi vengono prodotti sulle istituzioni? In realtà anche la recente pubblicistica sul carcere15 appare divisa fra la testimonianza e l’inchiesta, che « ridanno la parola » a chi ne è stato privato, e gli studi sulle istituzioni, altrettanto globali, nella loro volontà di critica, di quella sociologia che si vuole, anche, denunciare. Certo Foucault sviluppa il legame fra polizia e criminali, sostenendo che lo scacco della prigione — visto che non risocializza, produce recidivi, è scuola di delinquenza — e la sua ancora ben attuale presenza non sono elementi contraddittori, ma funzionali. L’illegalismo prodotto dall’istituzione è infatti meno socialmente pericoloso, piu controllabile, più patologizzato di ogni illegalismo politico contro cui anzi la delinquenza viene organizzata. Questa
15 Cfr. G. Mosconi, Il carcere nella recente pubblicistica italiana, « La questione criminale », II, 1976, 2-3.



237 II carcere tra modello disciplinare e modello economico
tesi presenta diversi aspetti di verità, ed è forse meno applicabile nella situazione attuale, ma si fonda su un superficiale esame dei dibattiti di fine Ottocento sul carcere: di nuovo, la ricostruzione dei caratteri della popolazione carceraria e come sembra suggerire Foucault, il passaggio (eventuale) da proletario a lump attraverso il carcere, sono oggetti di necessari e futuri studi storici.
Richiedere di far storicamente agire gli istituzionalizzati significa necessariamente che occorre condurre degli studi — e le monografie « illuminanti » sono spesso assai più produttive di studi generali — sulla popolazione carceraria. Le fonti, anche archivistiche, benché disperse, esistono, e ciò permetterebbe di articolare un discorso storico sull’esercizio del potere sul proletariato, sulle condizioni di vita materiale del sottoproletariato, sull’uso che di esso è stato fatto in funzione antirivoluzionaria (una costante, questa, dell’epoca moderna), e soprattutto sull’area di influenza del carcere, sulla sua maggiore e minore capacità di essere luogo di potere o invece, come oggi, luogo di reclusione per una minima parte degli autori di reati o, in Italia, testimonianza dell’incertezza e dell’impotenza del diritto, che, tra l’altro, non riceve alcun rafforzamento dall’inasprimento del potere sul corpo dei condannati. Lo studio della popolazione carceraria rispetto all’evoluzione dell’istituzione, nel quadro complesso e problematico che questi due libri hanno suscitato e contribuito ad attivizzare dal punto di vista storico, può porsi come obiettivo non parziale di una ricostruzione tanto del mercato del lavoro quanto del sottoproletariato e dello stesso proletariato.
L’attualità di questi problemi, anche riguardanti il ruolo di discipline medico-psicologiche che attraversano una crisi nei loro fondamenti, ma che hanno ancora ampie funzioni di potere, appare, dopo la lettura dei due saggi, ancora più immediata.