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Title
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I problemi della ricerca
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Creator
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Yvon Garlan
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Fiamma Lussana
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Date Issued
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1985-10-01
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Is Part Of
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Studi Storici
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volume
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26
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issue
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4
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page start
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909
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page end
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915
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Publisher
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Fondazione Istituto Gramsci
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Storia della sessualità, Italy, Feltrinelli, 1985
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Rights
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Studi Storici © 1985 Fondazione Istituto Gramsci
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Source
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https://web.archive.org/web/20230921131329/https://www.jstor.org/stable/20565677?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjo1LCJzdGFydHMiOnsiSlNUT1JCYXNpYyI6MTAwfX0%3D&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A192d54ae35c0f2739afb1220ba309796
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Subject
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sexuality
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subject
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ethics
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the arts of existence
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biopower
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apparatus (dispositif)
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extracted text
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I PROBLEMI DELLA RICERCA
Yvon Garlan
La giornata di studio organizzata dall’Istituto Gramsci mi ha dato l’occasione, e messo nell’obbligo, di iniziare una riflessione su ciò che scrissi qualche anno fa in tema di schiavitù nella Grecia antica e sulle modifiche che un giorno dovrò apportare basandomi soprattutto sulle critiche che mi saranno state rivolte. C’è tuttavia qualcosa che mi è impossibile modificare, almeno in profondità: il genere stesso del libro. Si tratta di una sorta di manuale destinato inizialmente a fornire agli studenti francesi lo strumento di lavoro di cui essi avevano bisogno e che in seguito ho completato con la pubblicazione, avvenuta nel 1984, nella collezione del Centre d’Histoire Ancienne di Besan^on, di una raccolta di testi antichi intitolata L’esclavage dans le monde grec. Del corso universitario ho dunque voluto conservare la forma: piu nettamente articolata e meno «impressionista» di quella di un saggio di tipo anglosassone; più comprensibile — lo spero — o — come diranno altri — meno sottile, più provinciale di quanto può essere prodotto altrove nella stessa Francia. Di un corso universitario, cosi come viene generalmente inteso, mi sono anche sforzato di concepire lo spirito: anzitutto quella preoccupazione di «oggettività» che, secondo me, non consiste tanto nel far finta di non prendere posizione o nell’immergere ogni cosa in un eclettismo di comodo, quanto nel giocare a carte scoperte, esplicitando, in margine al testo — nell’introduzione e nelle conclusioni — i problemi teorici che l’autore si è posto e le risposte che ha creduto di poter dare. Non mi pento pertanto di essermi dedicato a un genere spesso screditato, ma che ritengo invece degno di considerazione per le sue particolari esigenze, non foss’altro quella di tener conto della totalità dei dati, senza sacrificarne volontariamente nessuno per la bellezza della dimostrazione.
Lo stesso argomento del libro suscitava qualche problema, per due ragioni fondamentali: in primo luogo a causa della proliferazione, negli ultimi decenni, di lavori sia specifici che di sintesi: nella nuova edizione, del 1983, della Biblio-graphie zur antiken Sklaverei di Joseph Vogt e Heinz Bellen, completata da Elisabeth Herrmann e Norbert Brockmeyer, il numero di tali studi (il cui censimento è tutt’altro che esauriente) arriva a 5.162; la maggior parte di questi lavori riguarda, più o meno direttamente, il mondo greco: era quindi impossibile, probabilmente abbastanza inutile, farne una lettura completa.
In secondo luogo, e soprattutto, perché la schiavitù antica è sempre stata e ri-
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maneva un luogo di controversie, se non proprio di polemiche, la cui portata oltrepassava spesso i limiti del gioco di erudizione, non solo fra marxisti e non marxisti, ma anche fra gli stessi marxisti (senza contare gli ex e i paramarxisti), con tutto ciò che questo implicava di divergenze ideologiche globali che affioravano talvolta direttamente sul terreno politico. Da questo duplice punto di vista il mio libro, senza che sul momento io stesso ne avessi piena coscienza, sembrava collocarsi in una congiuntura molto delicata: al termine di un periodo di infatuazione per lo studio della schiavitù antica e mentre si profilava una certa pausa nella ricerca. La ragione immediata era nello spostamento della problematica, in occidente, a vantaggio di settori meno esplorati della vita sociale (come quello delle donne) e nei paesi socialisti a vantaggio di un approccio piu diversificato e piu concreto alle realtà storiche. Mi sembra che ciò possa esser spiegato, nel primo caso, con l’opposizione frontale contro il marxismo sviluppatasi a partire dagli anni Ottanta nella maggior parte dei paesi occidentali e particolarmente in Francia, e, nel secondo, da un ammorbidimento delle norme ideologiche. A partire da quegli anni le circostanze non erano state favorevoli a un approfondimento del dibattito sulla schiavitù antica.
Lo erano invece di più alla comparsa, nel 1981, di un libro come quello di G.E.M. De Ste. Croix su The Class Strugge in theAncient World: offrendo l’immagine di un marxismo «inquadrato» e un tantino provocatorio, questo libro restituì ad alcuni un senso di sicurezza, ad altri un bersaglio ideale (come dimostrano le recensioni, numerosissime e molto significative, di cui esso è stato oggetto). Anche dopo una seconda lettura non riesco a trovare un motivo per modificare sensibilmente la valutazione, piuttosto negativa, che ne aveva brevemente dato in un post-scriptum — ferme restando la stima che ho per l’autore e la simpatia che mi ispira una presa di posizione come questa, in un contesto certo non favorevole. Rimango infatti sostanzialmente allergico a una concezione economicistica della lotta di classe, che non tiene nel dovuto conto la forma storica assunta dai rapporti di produzione e le corrispondenti prese di coscienza: quando, come nell’antichità, lo sfruttamento deriva essenzialmente dall’esercizio della forza — in altri termini, dalla costrizione extra economica — sulla persona del lavoratore, i rapporti di produzione che ne sono il risultato possono tradursi soltanto in termini politico-giuridici e non in termini direttamente economici come nella società capitalistica in cui lo sfruttamento fondato sul salariato, fatta astrazione dalla personalità del lavoratore, vede in esso nient’altro che una semplice forza-lavoro. Senza prolungarmi ulteriormente su questa fondamentale questione, noterò che De Ste. Croix, in tale circostanza piu marxista di Marx, non esita a correggere (pp. 66 e 91), per le esigenze della sua causa, alcuni passi del Manifesto comunista e dell’Ideologia tedesca dove si tratta dell’opposizione fra schiavi e uomini liberi o fra schiavi e cittadini — laddove, ci si dice, sarebbe stato opportuno opporre schiavi e proprietari di schiavi: è forse lecito, senza alcun approfondimento, parlare, con sicurezza, a tale proposito di «un semplice lapsus» (a mere slip) ripetuto più volte? Misconosciuta in quanto espressione dei rapporti di produzione, la dimensione politica, in De Ste. Croix, viene a sovrapporsi dall’esterno alla lotta di classe; questo accade, per esempio, quando egli parla, per l’Atene classica, del «prodigioso sviluppo della democrazia reale» che costituirebbe «un buon esempio di fattori
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politici eccezionali che agiscono temporaneamente in modo da controbilanciare le forze economiche» (p. 97). Sul problema particolare degli schiavi ho del resto trovato nel libro ben poche idee originali: se non quella sottolineata giustamente da Domenico Musti nella sua corposa prefazione alla traduzione italiana del mio libro (Gli schiavi nella Grecia antica, Milano, 1984, pp. XVI-XVII): l’idea secondo la quale ciò che conta in una società non è solo il modo attraverso cui viene assicurato il grosso della produzione, ma anche e soprattutto il modo e il tasso di prelevamento sui lavoratori di quel surplus che permette alle classi dominanti di esistere socialmente e di riprodursi in quanto tali (p. 133). In particolare, poco o niente troviamo in De Ste. Croix sull’atteggiamento dei padroni verso gli schiavi e sui caratteri della resistenza servile: ciò è tanto piu sorprendente in un libro sulla lotta di classe, ma si capisce meglio se ci si ricorda che, in una prospettiva «economicistica», ci può essere classe senza coscienza di classe.
Disinteressarsi del modo con cui i padroni e gli schiavi manifestarono concretamente una certa coscienza di classe —- molto piu forte, come ci si può aspettare, nella classe dominante che in quella dominata — significa lasciare il campo libero al recupero umanistico del rapporto padrone-schiavo, difficile da decapitare almeno quanto l’idra di Lerna. Prenderò a caso, fra le mie recenti letture, un piccolo libro di Claude Vatin su Citoyens et non-citoyens dans le monde grec, tanto piu significativo in quanto, inizialmente, si trattava di un corso (di qualità) rivolto agli studenti. L’autore, non ignora certo le critiche pertinenti rivolte su questo punto da Moses I. Finley a Joseph Vogt e ai suoi seguaci ed è ben consapevole che «non è vero che la tenerezza umana, o la dolcezza, attenuino la crudeltà del sistema» (p. 240), ma non per questo egli perde l’occasione di sottolineare che «la vita» e la «realtà vissuta» «realmente attenuavano il rigore del sistema» (p. 240); gli capita anche di mancare di spirito critico nella scelta degli argomenti avanzati in tale senso. Per esempio non credo che sia possibile scrivere che la discendenza dell’individuo affrancato (in Grecia) «sarà gradualmente integrata» (s’intende, dal contesto, al corpo dei cittadini: p. 212). E esatto d’altra parte affermare che «nella azienda agricola tutti sono interessati ai profitti, gli amministratori beninteso, in primo luogo, ma anche gli operai e le operaie attraverso le ricompense che sono come dei premi che vengono a ingrandire il loro peculio» (p. 227)? In ogni caso non trovo traccia di ricompense di danaro conferite alla massa degli schiavi nel?Economico di Senofonte o in quello dello pseudo-Aristotele: solo l’amministratore è eventualmente ricompensato. Un modo di parlare semplice, in apparenza innocente, può dar luogo a una interpretazione forzata di uno stato di fatto: quando, per esempio, si parla di lavoratori liberi o schiavi, che lavoravano insieme nei grandi cantieri pubblici del V o del IV secolo, Cl. Vatin ci dice che essi operavano «gomito a gomito» (p. 231) — ciò che farebbe presumere un forte spirito di solidarietà reciproca. La posizione, apparentemente invidiabile, degli schiavi banchieri (p. 235), apre forse una specie di falla, paradossale, nel sistema schiavistico, o non conviene forse interrogarsi piuttosto, e piu di quanto sia possibile fare qui, sulle motivazioni che avevano gli uomini liberi nel conferire a schiavi il ruolo di banchieri? Ci si chiederà parimenti se per uno schiavo che aveva il posto
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di carnefice si trattasse realmente di acquisire «ascendente sui cittadini» (p. 237), e se gli schiavi pubblici avessero veramente alla fine del V secolo, «la responsabilità di stabilire il testo delle leggi di Solone» (p. 237). E, a proposito del trattamento degli schiavi raccomandato nel libro VI delle Leggi di Platone (777 cd), come vedere in quel passo una dimensione «umanitaria» (p. 198)? Infatti la finalità delle cure particolari che è opportuno accordare loro, non consiste, come generalmente si traduce (e come io stesso ho tradotto nella mia raccolta di testi), nel loro «interesse»: è invece quella di farne dei buoni schiavi, e ancor più quella di evitare al padrone di cadere nell’eccesso (hybris) e nell’ingiustizia, pregiudizievoli per il corpo sociale.
Anziché attardarsi sulla «coabitazione, la partecipazione a un’opera comune» che «avvicinano gli uomini a dispetto delle condizioni sociali» e sulle virtù della «vita quotidiana» dove «gli status rimangono ben distinti, ma in cui possono stringere complicità, e le apparenze sono ingannevoli» (p. 232), è meglio, probabilmente, (mi rincresce di non averlo fatto a sufficienza) tentare di precisare la portata e le esatte motivazioni di tutto ciò che a prima vista può apparire come un tentativo di «fraternizzazione» fra padroni e schiavi. Un certo numero di studi, condotti attualmente sui rapporti tra uomo e donna nel mondo greco, ci offrono interessanti esempi di siffatte decrittazioni ideologiche: in particolare Uusage des plaisirs che costituisce il secondo tomo della Histoire de la sexualité pubblicata da Michel Foucault nel 1984.
Questa opera ci aiuta in special modo a riflettere sulla sessualità servile che Pierre Leveque mi rimprovera giustamente di aver pressoché passato sotto silenzio («La Pensée», 234, 1983, p. 130). Nel fondamentale rapporto che lega a tale riguardo il soggetto-agente attivo e penetrante all’oggetto-paziente che subisce, passivo e penetrato — rapporto che si riflette «attraverso le medesime categorie del campo delle rivalità e delle gerarchie sociali» (Foucault, p. 237) — il posto dello schiavo è nettamente e irrimediabilmente segnato: come quello della donna e dell’adolescente, ma senza nessuno di quegli elementi di relativa valorizzazione che impongono per questi ultimi una certa «problematizzazione» etica della vita sessuale. Il fatto che lo schiavo, femmina o maschio, fosse un normale oggetto di piacere per il suo padrone all’interno dell’oz£os o per la comunità degli uomini liberi a conclusione dei banchetti o nei ritrovi adibiti al caso, non pone alcun problema ed è ampiamente documentato. Il fatto che, invece, per un rovesciamento dei ruoli naturali, egli divenga l’amante attivo della donna o dell’uomo liberi, è difficilmente pensabile (nel primo caso) o è (nel secondo) oggetto di pesanti sanzioni: è quanto attestano, per esempio, un’antica legge ateniese che proibisce allo schiavo «di essere l’amante di un fanciullo libero o di corteggiarlo, sotto pena di vedersi infliggere pubblicamente 50 colpi di frusta» (Eschine, Contro Timarco, 139) e altre leggi che, sempre in tale prospettiva, escludono gli schiavi dal ginnasio. Le rare volte in cui si dà il caso che un uomo sposato eviti, in maggiore o minor misura, di avere relazioni sessuali con gli schiavi (nelle Leggi di Platone, nel Nicocle di Isocrate e nel?Economico dello pseudo-Aristotele), tale «temperanza» non mira affatto, beninteso, a rispettare la persona dello schiavo, non più di quanto essa derivi da un reciproco impegno inerente al rapporto matrimoniale: essa è l’effetto
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«di una regola politica, che (nel caso delle leggi platoniche) viene autoritariamente imposta o che (secondo Isocrate e lo pseudo-Aristotele), l’uomo impone a se stesso per una sorta di autolimitazione riflessa del suo proprio potere» (Foucault, p. 185); essa è conseguenza di una scelta, di una volontà di dare alla propria vita un certo stile, di soddisfare una certa estetica dell’esistenza, al fine di evitare di rendere schiavi se stessi e di raggiungere una perfetta padronanza di se stessi e degli altri. Agli antipodi di questa libertà volontaria e positiva si colloca la licenza degli amori interni al mondo servile, di cui non si fa menzione nei nostri testi, se non quando si tratta di incoraggiarli o di limitarli nell’interesse del padrone.
Nello stesso spirito, se non con la stessa capacità, potrebbe essere ripreso lo studio dell’insieme dei rapporti padroni-schiavi. Il problema, in effetti, non è quello di sapere se gli schiavi (o le donne libere) fossero trattati bene o male, ma di determinare come venissero considerati. Per questo è necessario rinunciare a quell’«umanismo» astratto e atemporale, molto in voga oggi in occidente, che, sotto universali banalizzati, tende a occultare la specificità statutaria dei sentimenti che presiedono alle relazioni personali in una società gerarchica come quella greca. E questo il caso, per non citare che un esempio, della «filantropia» che gli ateniesi, secondo Demostene (Contro Midia, 48-49), si vantavano di manifestare verso i loro schiavi barbari: in quel caso si trattava di un sentimento che, come scrive Jacqueline de Romilly, può «svilupparsi solo al margine della giustizia» e che «si manifesta solo quando la legge lo decreta e nel quadro della libertà concessa dal diritto» (La douceur dans la pensée grecque, 1979, p. 51). ,
Per evitare, cosi facendo, un approccio puramente rituale, ai divarii sociali in una prospettiva rigorosamente statutaria, conformemente a una delle tendenze prevalenti della sociologia contemporanea (cfr. per esempio Pierre Bourdieu), è tuttavia opportuno valutarle in funzione della situazione concreta degli schiavi (soprattutto nella vita economica), quale essa poteva essere storicamente percepita a partire da una certa realtà «oggettiva». A tale riguardo, è importante capire meglio perché essi fossero percepiti soprattutto, positivamente, come prestatori di servizi e, negativamente, come consumatori supplementari che imponevano ai padroni un surplus di oneri; perché, in altri termini, essi non sembravano appartenere all’ambito della produzione — questo punto nero della società greca — e quali erano le conseguenze che ne derivavano sulla presa di coscienza degli uni e degli altri. Infatti non c’è nulla di più assurdo che voler giudicare quest’ultima sul metro delle concezioni «leniniste», come troppo spesso si fa o per sopravvalutarla o, più frequentemente, per negarne totalmente l’esistenza.
È per questo che io ritengo che l’ideologia schiavistica — nella sua specificità e nelle sue diverse manifestazioni «de la cave au grenier» dell’edificio sociale (per riprendere un titolo di Michel Vovelle) e dunque fin nei suoi usi più metaforici — non è stata studiata ancora a sufficienza e rimane un terreno di ricerca particolarmente fecondo, come dimostrano due o tre dei contributi precedenti: quello di Gabriele Giannantoni che è centrato su Aristotele, e quelli di Lucio Bertelli e di Gian Franco Gianotti, consacrati, l’uno per intero e l’altro
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parzialmente, agli schiavi nell’utopia. Su quest’ultimo tema i nostri testi sono pochi, ma quanto propizi a una riflessione d’insieme sul fenomeno schiavistico! Qualche problema, inoltre, merita di essere ulteriormente chiarito (credo opportuno precisare che la critica rivoltami da Lucio Bertelli nel rimando della sua nota 14 si basa semplicemente su un’ambiguità: la frase da lui citata in modo affermativo si presenta nel mio libro in forma interrogativa e riceve in seguito una risposta interamente negativa): per esempio il posto dello schiavo nell’insieme delle società periferiche come quelle che si riflettono nel «miroir» greco (in particolare la sua assenza di connotazioni positive in India) o ancora, per evocare un elemento particolare, la natura dei paides (fanciulli o schiavi?) che, nell’età d’oro di Anfizioni di Telesicle «giocavano agli aliossi con pezzetti di vulva di scrofa e di dolciumi» (Ateneo, Deipnosofisti, 268 d).
L’altro tema ampiamente trattato nel corso di questa giornata di studio è quello dell’originalità dei dipendenti di tipo ilotico in relazione agli schiavi-merci. Dopo gli studi fondamentali di Delef Lotze e Moses I. Finley esso non pone più problemi. Ma continua a suscitarne in coloro che tentano di spiegarne la ragion d’essere in modo non negativo e in una prospettiva «teleologica» (L. Canfora): attraverso la posizione «intermedia» degli iloti in un ventaglio statuario continuo che va dalla libertà alla schiavitù assoluta di tipo ateniese. Il mio modo di rendere conto di tale fenomeno, attraverso il peso dell’elemento comunitario nel processo di asservimento, sul posto, di popolazioni indigene (in armonia, mi pare, con le Formen marxiane), può restare, evidentemente, solo come materia di discussione (aspettando di meglio). A tale problema è intimamente legato quello dell’origine degli iloti, frutto di una conquista, come vorrebbe la tradizione più consolidata, ovvero, come suggerisce un testo di Antioco di Siracusa, di un fenomeno di differenziazione interna della comunità spartiata (in un contesto militare, sottolineiamo, e non su basi economiche); gli è anche intimamente connesso quello dell’identità di numerosi gruppi intermedi inclusi nella società lacedemone (come i Parthenoi fondatori di Taranto esaminati puntualmente da Domenico Musti), in cui generalmente si esiterà a riconoscere dei cittadini decaduti, sia degli iloti promossi, sia una discendenza mista degli uni e degli altri.
Ancora più delicato è il problema, connesso, di sapere in quale misura la schiavitù micenea prefiguri la schiavitù-merce di tipo ateniese classico. Sia Louis Go-dart nel suo contributo che Domenico Musti nella sua Prefazione (p. XII) tenderebbero, mi sembra, a ridurre l’ampiezza del fossato che io avevo scavato tra quei due tipi di schiavitù: l’uno mostrando tutta la diffusione del fenomeno servile nelle tavolette in lineare B, l’altro ponendo l’accento sulla continuità dello sviluppo schiavistico dall’epoca arcaica all’epoca classica.
Interrompo a questo punto il mio giro di orizzonte, senza evocare l’insieme dei temi che meriterebbero un’analisi più approfondita. Certo qui non debbo convincere nessuno che la schiavitù antica, come ha scritto Edouard Will, «non è una realtà semplice». Ma non per questo è lecito provocare un’esplosione del tema, come fanno alcuni storici che, a forza di sfumature giustificate dalla fluidità del vissuto e dall’inadeguatezza dei nostri strumenti teorici, giungono a una sorta di disinvolta liquidazione della schiavitù antica e più generale del
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fenomeno dello sfruttamento. La risposta deve essere cercata altrove: per dirla in due parole, nel terzo degli orientamenti seguiti, secondo I. Wallerstein, dagli storici marxisti: «Il problema [...] non è di spiegare i grandi movimenti della storia (il Manifesto comunista dimostra che lo si può fare disinvoltamente e con intelligenza), ma piuttosto quello di sbrogliare i particolari complicati: le lunghe e tenebrose “transizioni” da un modo di produzione all’altro, il presupposto dello “sviluppo disuguale”, i “ritardi” della sovrastruttura. I marxisti reagiscono in tre modi a tali problemi: 1) ignorandoli, come i marxisti “volgari” che sono sostanzialmente dei seguaci di Adam Smith; 2) essendone sopraffatti, come gli “ex marxisti” che generalmente finiscono per rivolgersi a Weber; 3) vedendo in essi i problemi intellettuali e politici chiave dei marxisti. Per usare un’espressione alla moda, quest’ultimo atteggiamento è definito “gramsciano”, anche se certamente Gramsci non è stato il solo marxista eminente ad adottarlo. Lenin e Mao-Tse-Tung, per citare solo loro, appartengono certamente a questo gruppo» (L'esclavage américain et Péconomie-monde capita-liste, in Esclave=facteur de production, a cura di S. Mintz, 1981, pp. 257-258).
traduzione di Fiamma Lussana