Sulla politica della ragion di Stato

Item

Title
Sulla politica della ragion di Stato
Creator
Domenico Taranto
Date Issued
1994-04-01
Is Part Of
Studi Storici
volume
35
issue
2
page start
575
page end
588
Publisher
Fondazione Istituto Gramsci
Language
ita
Format
pdf
Relation
Omnes et singulatim. Vers une critique de la raison politique, in Le Debat, 1986, n. 41
La « governamentalità», in « Aut Aut », 167-168, pp. 12-29
Rights
Studi Storici © 1994 Fondazione Istituto Gramsci
Source
https://web.archive.org/web/20230921133653/https://www.jstor.org/stable/20565627?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjo1LCJzdGFydHMiOnsiSlNUT1JCYXNpYyI6MTAwfX0%3D&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A192d54ae35c0f2739afb1220ba309796
Subject
governmentality
power
pastoral power
extracted text
SULLA POLITICA DELLA RAGION DI STATO
Domenico Taranto
Chi guardi l’imponente bibliografia boteriana che Enzo Baldini ha predisposto per l’importante convegno dedicato al teorico benese nel 1990, e chi abbia in mano il primo numero dell’«Archivio della Ragion di Stato» con l’altrettanto utile bibliografia dovuta principalmente alla cura di Gianfranco Borrelli, difficilmente sarebbe disposto a pensare che nel nostro tempo si assista ad una nuova fortuna del concetto di cui ex professo intende occuparsi l’«Archivio».
Un semplice approccio quantitativo infatti parrebbe non dover segnalare alcuna soluzione di continuità nella ricerca sul tema, almeno a partire dal 1860, data in cui Ferrari dava alle stampe la sua Histoire de la raison d’Etat che può utilmente essere assunta come punto di partenza dell’indagine critica sul concetto. In realtà a ben guardare, nonostante la crescita esponenziale della letteratura critica, si può dire che la ragion di Stato non abbia goduto, fatte le dovute eccezioni, di una buona stampa. Certo nel 1924 essa avrebbe conosciuto con il capolavoro1 del Meinecke la sua consacrazione definitiva sul piano storico e categoriale, certo fatta carne e sangue dello Historismus sarebbe diventata tappa essenziale dello sviluppo e dell’essenza stessa della cultura europea, ma ciò nonostante pesava e avrebbe pesato ancora su di lei un giudizio che, elaborato nel Settecento, era comprensibilmente duro a morire. Quel giudizio che aveva preso corpo intorno alla metà del XVIII secolo, suonava come ripulsa della vecchia politica ed esprimeva l’esigenza che la nuova si costruisse su altri principi. Venisse da Maffei, da Muratori o dall’Ortes, era comune in Italia dove - come in Europa - stava faticosamente affermandosi il nuovo peso della Oeffentlichkeit, la volontà di liquidazione della vecchia politica con il suo sapore di chiuso e di arcano, il tentativo di far scaturire la decisione, dal gabinetto del principe alla pubblica discussione. Nel bel
1 F. Meinecke, Die Idee der Staatràson in der neueren Geschichte, Mùnchen-Berlin, 1924. Quest’opera è stata ritenuta il capolavoro del Meinecke da Federico Chabod che ha dedicato al pensatore tedesco due splendidi saggi (Uno storico tedesco contemporaneo e Necrologio, rispettivamente nel 1927 e nel 1955), ora leggibili in Id., Lezioni di metodo storico, Bari, 1969.



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mezzo di una lotta contro il dispotismo, che tardava ancora a diventare «illuminato», si capirà che la volontà di svolta e di rottura avesse la meglio su quella del giudizio storico e che la ragion di Stato venisse vista, in quanto ragione del principe e della sua sete di dominio, come «fiera turbatrice del riposo de’ popoli».
Quella sua amoralità che altri, dopo, avrebbe riscattato attraverso il concetto di una autonomia della politica, allora a chi cercava di allargare il peso dell’opinione pubblica doveva apparire solo come espressione della illimitata facoltà dei regnanti di agire nel segreto e con tutti gli stratagemmi del caso, senza tenere in nessun conto le esigenze dei popoli. Insomma l’appaiamento tra machiavellismo e tirannide, operato nel fuoco di un’altra importante lotta da Gentillet, sembrò capace di esprimere la natura della ragion di Stato e la sua vocazione più profonda. Chi cercava in quegli anni di riportare la politica sui binari di una forma di contrattualismo, fosse questo contratto originario un fatto e quindi un diritto, o come per Kant «una semplice idea della ragione», non poteva che vedere nel mendacio e nelle minute tecniche simulatorie e dissimulatorie elaborate dalla letteratura degli arcana imperii, il nemico contro cui combattere. Era ovvio cosi che contro il primato dello Stato e della persona del suo rappresentante, si profilasse quello della società civile e della sua multilaterale essenza, ovvio che contro il primato e il restringimento dell’attività politica al campo delle relazioni tra Stati e alla loro lotta per la supremazia, subentrasse una diversa attenzione alla storia interna della civilisation e ai rapporti tra cittadini, ovvio che alla verticalizzazione del potere, cui la ragion di Stato sembrava guardare, Vétat social democratique cominciasse, pure in Europa, a contrapporre volontà e aspirazioni di soggetti non più sudditi e tendenti all’instaurazione di una cittadinanza piena.
Non credo ci possa essere alcun dubbio sul fatto che quell’immagine della ragion di Stato che i teorici del Seicento avevano costruito e che i suoi oppositori del secolo successivo avrebbero con la loro lotta rafforzato, avesse più d’una ragione dalla sua. Gli intellettuali del preilluminismo non avevano certo lottato contro un falso obiettivo quando dichiaravano di voler chiudere la partita con la ragion di Stato e a volte contro la tradizione della vecchia politica tutta, semplicemente cambiando pagina2 e interrompendo il cursus lineare della koAiti/H è7noTfj|Lir|.
2 Nel suo II pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Roma, 19596, che mi pare ancora oggi, nonostante tutto, il miglior quadro d’insieme di cui dispongano i nostri studi, Luigi Salvatorelli scriveva: «Il nuovo pensiero politico, che è impulso, cosciente o
no, di trasformazione della politica pratica, viene dunque dal di fuori della trattatistica
politica, da giuristi, economisti, storici, moralisti appunto perché esso consiste innanzi
tutto in una eliminazione della vecchia “ragion di Stato” [...] Si tratta di un capo volgi-
mento di valori: quel che conta non è più la natura e la struttura del potere sovrano e



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In quegli anni si imponeva una svolta ed essa ci fu e fu salutare, ma quel giudizio sul nemico gli rende poi pienamente giustizia? In altre parole la ragion di Stato nel Seicento, durante tutto l’arco di tempo in cui fu teorizzata, costituì solo quel che di essa videro e tramandarono i suoi oppositori?
Parrebbe di si a leggere un recente ed importante libro di Maurizio Viroli, Dalla politica alla ragion di Stato, originariamente pubblicato in inglese nel ’92 nella bella collana «Ideas in context» di cui costituiva il ventiduesimo titolo. La TroXiTt/f) Òtti arri pr| cui prima accennavamo ricordandone la svolta nel Settecento, non era nuova rispetto a questi cambiamenti, tanto che per restare in Italia, dove programmaticamente Viroli vuole rimanere, il suo linguaggio oggetto di una analisi che in consonanza con la metodologia cantabrigense ne sottolinea al massimo la significatività, dovette registrare già un mutamento, forte come una cesura, tra Cinque e Seicento. Per ricostruire tale mutamento che ha il sapore di un tramonto e di una svolta, nel segno dell’impoverimento di una augusta tradizione, Viroli comincia dal XIII secolo, dal momento in cui cioè grazie al cooperare di almeno tre tradizioni: quella delle virtù politiche, dell’aristotelismo e del diritto romano, le disiecta membra della saggezza antica, che avevano costituito il luogo di fondazione e di deposito del sapere su quegli oggetti che riguardano la polis, che ancora oggi chiamiamo politici, «vennero rielaborate per formare un linguaggio coerente e condiviso della politica intesa come arte della città»3. Ricostruendo con una invidiabile padronanza dei testi la storia della rinascita del termine-concetto di politica, a partire dalla indagine ormai ben avviata sullo stesso «word politicus» (penso a Rubinstein, ma anche a Sellin a Riedel e ad una serie di importanti indagini settoriali), Viroli scrive un capitolo assai bello sulla tradizione delle virtù politiche che costituirono l’ideologia delle repubbliche cittadine del Duecento e che fecero nascere quel linguaggio che, nonostante i non pochi slittamenti semantici, è ancora il nostro. La tradizione romana delle virtù politiche fu allora, in mancanza del De re publica di Cicerone nella
i mezzi per fondarlo e mantenerlo, ma le condizioni, sotto questo potere e in relazione con l’opera sua, della società e degli individui. Questo capovolgimento rappresenta, sul
terreno politico, il nucleo deU’illuminismo» (op. cit., p. 1).
3 M. Viroli, Dalla politica alla ragion di Stato, Roma, Donzelli editore, 1994, p. 3. Il libro è informato e ben scritto, tanto più dispiace perciò un errore tipografico che, a p. 39, ha fatto schizzare i glossatori al XVIII secolo. Rispetto all’originale, la versione italiana appare alleggerita dei ringraziamenti e della dedica a Quentin Skinner, ma quel che più conta si presenta alleggerita nel testo, nelle note (il VI capitolo ne ha 109 contro le 132 dell’originale) e priva dell’utilissimo index rerum. Anche l’indice dei nomi forse in omaggio alla voglia di «velocità» del lettore italiano appare sfoltito (di questa «economicità» di intenti fa le spese Gabriele Guicciardini e J.P. Canning).



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sua interezza, edito in seguito al ritrovamento del palinsesto vaticano da Angelo Mai solo nel 1828, affidata ad una tradizione manoscritta di una parte di esso, quel famoso Somnium Scipionis cui anche grazie al commento di Macrobio arrise sempre una notevole fortuna. Da esso usci quel blocco delle virtù politiche: prudenza, giustizia, forza, temperanza, che variamente ordinate a seconda del primato della prudenza o della giustizia, costituiranno il corredo con cui i buoni rectores et conservatores agiranno nello Stato, «concilia coetusque hominum iure sociali, quae civitates ap-pellantur» (Cic., Rep., VI, 13).
Il tema della «eccellenza» della politica, trattato a livello antropologico come eccellenza e beatitudine eterna dei reggitori di repubbliche, avrà qui uno dei suoi punti fermi, punti arricchiti poi cosi dai moralisti come dai teologi, ma furono però i teorici del governo comunale ad insistere più degli altri sul corredo delle virtù necessarie alla persona pubblica che avrebbe ricoperto la suprema magistratura. Anche Brunetto Latini che nel Tre-sor avrebbe identificato la politica con l’arte di governo «selonc raison et selonc justice» dentro a questa tradizione avrebbe insistito, anche grazie alla connessione politica-retorica, sulla figura del reggitore.
Uno spostamento del centro della riflessione dalla persona del rector a quella della costituzione e del regime della città, si verificò grazie al consistente apporto dell’aristotelismo: cosa ciò abbia significato nel processo di secolarizzazione della politica, di irrobustimento e approfondimento delle sue radici laiche, gli studiosi sanno anche grazie ai bei lavori di Walter Ulmann, ma quel che a Viroli interessa mettere in luce è che tra la traduzione di Guglielmo di Moerbeke e la riflessione di Tommaso d’Aquino, si ispessisce una valutazione che è insieme descrittiva e valutativa del regi-men politicum e della politica stessa. Ciò avviene come è noto attraverso la separazione/opposizione tra il regime politico e quello dispotico ottenuta tramite la divaricazione tra un primato della legge e del bene comune, che compete solo a quello, e un imperio dell’arbitrio e dell’interesse personale che caratterizza invece questo. Una tale concezione poi approfondita grazie al contributo dei giuristi del XIV secolo, portò infine alla conseguenza che si potesse e dovesse chiamare politico quel regime che, repubblicano o monarchico che fosse, ispirasse i suoi principi alla supremazia della legge, al consenso dei governati, al perseguimento del bene comune, alla moderazione, all’elettività del supremo magistrato e alla limitazione del suo potere. Come è facile vedere insomma, introiettando quella oscillazione tra un intento descrittivo e uno prescrittivo che aveva felicemente complicato la politica aristotelica, i commentatori avevano finito per attribuire al regime politico, «id est civilis», quei connotati di regime pubblico per eccellenza che, discendendo dall’ancoraggio all’etica e



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al diritto, disegnavano un mondo di valori che in certe circostanze sarebbero potuti diventare anche dei fatti.
E difficile dire che quei valori fossero diventati carne e sangue della storia d’Italia del Quattrocento, ma non c’è invece alcun dubbio sul fatto che essi, incarnati ormai in quella sorta di neologismo che era la «politica», avessero conosciuto la loro età dell’oro nell’Umanesimo civile fiorentino, tanto nella sua veste repubblicana da Salutati a Bruni, veicolata tramite Aristotele e Cicerone, che in quella del principato «civile» di un Francesco Patrizi ispirata alla rinascita di Platone. Muovendosi su di un terreno ampiamente e fruttuosamente dissodato (basti pensare a Baron, Garin, Skinner) Viroli riesce a dare anche qui un bel quadro d’insieme attento però, come la metodologia contestualista gli suggerisce, alle situazioni particolari e contingenti oltre che alle scansioni temporali che danno un senso specifico alle grandi correnti di pensiero. Particolarmente netta e felice risulta la conclusione, ricavata da un ampio spoglio di opere «politiche» e morali, secondo cui la celebrazione della politica «si accompagnava all’esecrazione dell’arte dello stato, intesa come ricerca del potere e uso delle istituzioni pubbliche per promuovere interessi particolari»4.
Una tale differenza, di esecrazione ormai non si può più parlare, rimane a giudizio di Viroli anche nel pensiero di Machiavelli, autore in cui coesistono, entro ambiti che appaiono separati, i lessici differenti e le differenti opzioni ideologiche che l’adozione di essi di volta in volta comporta, tanto della politica che dell’arte dello Stato. Nessuna meraviglia dunque che nel Principe dedicato ex professo all’arte dello Stato, come non equivalente di «repubblica» o di vivere politico, il Segretario fiorentino non usi mai né il termine politico né i suoi equivalenti, mentre nei Discorsi o neWArte della guerra segua «rigorosamente le convenzioni linguistiche della filosofia civile di derivazione ciceroniana e aristotelica»5. Perpetuando dal canto suo l’immagine irriconciliata di Machiavelli, lo studioso tiene dunque ferma questa duplicità di piani discorsivi e ideologici concludendo con la convinzione che non solo essi siano stati mantenuti distinti, ma
4 M. Viroli, op. cit., p. 49. A titolo di esempio e senza nessuna pretesa di completezza indicherei come importanti recenti segnali di un rinnovato interesse al tema, la ristampa di Boterò, Della Ragion di Stato, Forni, 1990, nella bella «Biblioteca del principe e del cortegiano»; i volumi collettanei curati da C. Lazzeri e D. Reynié, Le pouvoir de la raison d’Etat, e La raison d’Etat: politique et rationalité, entrambi pubblicati da Puf nel 1992; Raison et Déraison d’Etat, sous la direction de Y. Ch. Zarka, Paris, Puf, 1994; la riedizione annunciata da parte di Lazzeri de L’interest des Princes di Rohan. Sul senso di questo che appare un revival per nulla ideologicamente compromesso dall’adesione a posizioni politiche autoritarie o filogovernative, si veda il bel saggio di V. Dini, Il ritorno della «ragion di stato», in «Filosofia politica», Vili, 1994, pp. 23 9-241.
5 M. Viroli, op. cit., p. 95.



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che il prevalente impegno repubblicano del Segretario gli abbia fatto assegnare «alla politica il rango più alto»6. Un’analoga distinzione di piani vale probabilmente anche per Guicciardini che mentre pensa alla politica come ad una derivàzione dall’etica e dal diritto, tratta, secondo una fine osservazione di Viroli, l’arte dello Stato alla luce della convinzione che esista una forte affinità fra questa «e l’arte dell’amministrazione e del commercio». Anche l’oscillazione tra l’adesione ideologico-linguistica all’uno o all’altro valore delle due opzioni in campo (testimoniata dal Discorso di Lo-grogno o da Del modo di riformare il Governo), non riuscirà a risolversi in una superiore unità, stante da un lato la paternità spirituale guicciardinia-na della moderna ragion di Stato e dall’altro quella sua resistenza verso il principato, anche se condotta «in nome del commercio e della prosperità economica più che della libertà»7.
Dal punto di vista teorico non molto altro aggiunge il V capitolo impeccabile come sempre nella ricostruzione del canto del cigno della filosofia civile ad opera di un Brucioli o di un Giannotti, alle soglie di quella definitiva restaurazione medicea degli anni Trenta che segnò la fine della filosofia repubblicana a Firenze e in Italia (con l’eccezione di Venezia) e l’inizio della fortunata traslazione di quell’augusta tradizione nel pensiero politico anglosassone, come ci ha insegnato Pocock.
La consumazione del linguaggio della politica, consenti a fine Cinquecento non solo a quello dell’arte dello Stato, con il suo corredo tecnico-prudenziale, di venire alla luce, ma addirittura di identificarsi con la politica tout court, occupando in fretta una scena prima ben più complessa e articolata. Protagonista nel gran teatro del mondo e della politica da allora in poi - e fino a noi come sembra suggerire l’epilogo - la ragion di Stato sostanzialmente identificata con la deroga, si sarebbe mossa incontrastata sanzionando lo svincolamento del potere dalla giustizia e dalla legge, annunciando il primato del fatto sul diritto, l’irrilevanza della questione della legittimità. Tutto ciò avrebbe avuto un prezzo che a giudizio di Viroli la modernità dispiegata avrebbe interamente pagato: la superiorità del particolare rispetto al generale, la crisi del concetto di bonum commune e di quello della virtù. Se l’esautoramento della politica è arrivato da allora ad oggi al fondo del suo cammino, quale momento più del nostro è quello adatto per percorrere il cammino inverso e restaurare una filosofia civile? Questo in estrema sintesi il senso del discorso di Viroli, in cui una sempre attenta ed informata disamina critica si intreccia con una scoperta ipotesi interpretativa che ha tutto il sapore della filosofia della storia. E questo senso più palesemente orientato in direzione Geschicbtspilosophische
6 Ivi, p. 108.
7 Ivi, p. 124.



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che per più d’un motivo mi sembra di non poter condividere. Si ha l’impressione innanzitutto leggendo diagnosi impietose come queste sulla progressiva depauperazione del patrimonio culturale dell’Occidente, sul suo interno e corrosivo nichilismo politico, formulate come è noto in modo teoreticamente vigoroso nel primo cinquantennio di questo secolo (da Leo Strauss ad Horkheimer e Adorno), e qui ideologicamente riprodotte, di essere di fronte in questo caso ad una certa insufficienza di motivazione. Infatti la concentrazione dell’analisi sul linguaggio politico in consonanza con una robusta tendenza della storiografia politica contemporanea di area anglosassone, mi pare risulti francamente insufficiente a reggere il peso di una tale impegnativa affermazione. Perché essa sia plausibile bisogna presupporre una perfetta corrispondenza linguaggio realtà, che non può essere assunta come un dato in ogni luogo e in ogni tempo. Il primo problema può dunque a mio parere essere riformulato nel modo seguente: quando si constati una trasformazione-involuzione del linguaggio della politica, questa connota una analoga trasformazione di quell’attività pratica, o va registrata solo sullo stesso piano linguistico dal quale è stata desunta? In altri termini il mutamento riguarda la prassi, la sua autoconsapevolezza lin-guistico-teorica, o tutt’e due le cose insieme. E almeno probabile che il linguaggio politico-retorico della modernità non esprimesse tanto la realtà della politica contemporanea8, quanto una precisa opzione ideologico-poli-tica a favore di un intervento attivo nella lotta per favorire con il peso della teoria certi atteggiamenti pratici contro certi altri. Se si ipotizza quindi la non completa intercambiabilità tra il livello linguistico e la realtà di cui ostinatamente continua ad occuparsi il linguaggio, si può presumere che l’involuzione non tocchi la realtà, ma solo la consunzione di un genere, quello degli specula per intenderci, avvenuta quando le condizioni reali si mostrarono impermeabili a certe teorie e quando i loro proponenti si avvidero dell’inefficacia delle loro costruzioni entro un quadro istituzionale che lasciava certo meno spazio alla lotta tra partiti e alle loro ideologie. Per difendere la tesi di una trasformazione involutiva del linguaggio della politica, e passiamo al secondo punto, Viroli assume come tendenzialmente compatta ed unitaria la tradizione antica, che è invece, come egli stesso sa, tutt’altro che omogenea e tutt’altro che incentrata sui medesimi valori.
Il male, il negativo, il «demoniaco», come è noto, non hanno mai abbandonato la saggezza antica e non hanno mai smesso di turbare il suo, solo presunto, olimpico carattere. Pur senza citare il troppo noto spirito della tragedia, credo che si possa ricordare Tucidide, la pseudo senofontea Athenaion Politela, la tesi della giustizia come utile del più forte o quella
8 Come ha notato con la consueta finezza interpretativa, anche Norberto Bobbio in una discussione delle tesi del libro di Viroli apparsa su «L’indice», maggio 1994, p. 7.



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più insidiosa e più graffiarne, anche grazie alla sua ripresa in Nietzsche, dell’utile dei più deboli. Le arti di Tiberio immortalate da Tacito, i dubbi sull’utilità della virtù esposti in Lucano, quelli sulla coincidenza tra «sa-pientia» e «prudentia» romana espressi da Filo in Cicerone, e poi la denuncia dalla teoria alla prassi, dell’ampiezza della corruzione politica da Lisia alle orazioni di Cicerone, tutto ciò sta a indicare almeno due cose: anche nel mondo antico il lato solare della politica non offuscò mai il suo contrario e anche nel mondo antico questo lato della teoria convisse con una pratica che sembrava sovente ispirata a principi del tutto opposti. Quello stesso Aristotele che tanta parte ha avuto nella rinascita della politica con i suoi assunti normativi è anche quello che scrivendo il famoso V libro sulle cause del mutamento delle costituzioni, dà consigli che non dispiacevano ai teorici della ragion di Stato. Mentre nella tradizione politica cristiana da Paolo ad Agostino è forte l’insistenza sulla necessità della soggezione come rimedio al disordine indotto dal peccato e sulla diseguaglianza politica come conseguenza della fine della naturale egualità, spezzata dalla colpa. Il fatto che, nella sua esposizione del pensiero politico fiorentino dal Bruni a Giannotti, questi problemi non vengano toccati (perché l’Umanesimo è pagano? perché è cristiano ma non agostiniano? perché in quanto aristotelico è laico?), rafforza cosi l’immagine di un linguaggio capace di veicolare una sola teoria, finendo per cancellare o per annebbiare le differenze anche profonde di posizioni ideologico-politiche, che si celano dentro ad uno stesso codice linguistico ogni qualvolta queste non abbiano ancora la capacità di produrre svolte che richiedono la creazione di nuovi codici espressivi. Ho l’impressione che un approccio meno lineare allo stesso Umanesimo italiano, che ne sottolineasse, come è stato fatto, l’aspetto tragico e irrisolto, avrebbe costituito un’utile cautela metodologica, magari leggera come il sorriso beffardo del Momus albertia-no, capace di dare alla storia e al suo «taglio» uno sfondo e un contrasto che invece è del tutto assente.
Questo approccio volutamente semplificativo della complessità storica fa pagare però uno scotto piuttosto alto all’ipotesi interpretativa del volume, proprio quando viene messa a tema la ragion di Stato, vista come l’opposto della politica e quindi come l’estremo esito dell’autonomizzazione del potere rispetto alla morale e al diritto, ridotta mi sembra, alla sola «deroga» e letta alla luce del solo rapporto tra kratos ed ethos9. Che per i mol-
9 Viroli non si lascia sfiorare dal dubbio che qualcosa dell’ethos della «politica» sia entrato nella costituzione della ragion di Stato e in quella dello Stato moderno, attraverso categorie non meramente ideologiche come quella del «pastorato». Su questo punto si veda invece la splendida lezione di M. Foucault, tenuta alla Stanford University nell’ottobre del 1979, e pubblicata col titolo di Omnes et singulatim. Vers une critique de la raison politi-que, in «Le Debat», 1986, n. 41. Credo che il peso della connotazione linguistica presta-



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ti ragionatori dello Stato quel rapporto costituisse il problema è, per molte e ovvie ragioni, un dato di fatto, ma lo storico deve riprodurre l’autocoscienza degli «auctores» o può interrogare la logica di un movimento di tale consistenza cercandone il senso anche al di là degli orizzonti di visibilità dei singoli? E anche quando allo storico si negasse accesso a questo senso, è difendibile la tesi che l’intenzione dei ragionatori dello Stato fosse solo quella di accreditare la deroga, dunque l’azione straordinaria e repentina leggibile entro la canonica dei coups d’Etat?
La molta letteratura che soprattutto in questi ultimi anni ha indagato questi problemi, mi sembra abbia avuto il benefico effetto di dislocare l’essenza della ragion di Stato, altrove rispetto al nesso etica politica e quindi altrove rispetto all’immagine che ne dà Viroli quando fa fare alla questione un passo indietro rispetto a Croce10, mostrando come l’assunzione di un progetto forte di ricerca e l’identificazione con il proprio oggetto (la tradizione repubblicana) possa far velo ad una comprensione dei processi di formazione del primo Stato moderno, che si identifica in Europa, piaccia o no, con l’affermazione della ragion di Stato. Bisogna dire però, in favore di Viroli, che quest’opera di correzione di una visuale strettamente politologica ed etico-politica della ragion di Stato non è venuta né dall’Italia (nonostante le pregevoli e indispensabili ricerche di De Mattei11 e di Firpo)12 né dalla Francia (no-
tuale dello Stato (come condizione privata cioè), non gli faccia cogliere a pieno l’importanza del riempimento della parola da parte di nuovi contenuti, spesso orientati ad un inglobamento della tradizione medievale che poteva egregiamente servire, con il prestigio di cui godeva, a rendere «pubblico» un concetto originariamente privato.
10 Identificati in tre i possibili atteggiamenti di fronte alla ragion di Stato («ristabilire in forma più alta l’identità medievale di politica e morale [...] considerare la politica intesa nel senso machiavellico, ossia la ragion di stato come un mero negativo della legge morale; [...] definirla come alcunché di positivo, da distinguere dalla morale, ma da porre con questa in un determinato rapporto»), Croce (Storia dell’età Barocca in Italia, Bari, 1967, p. 90, I ed. 1929) collocava la questione sul terreno dei rapporti tra etica e politica, ma poi, sia attraverso una importante e bella scelta antologica - che varrebbe la pena di ristampare - Politici e moralisti del Seicento, Bari, 1930, sia attraverso i principi guadagnati nel ’25 con gli Elementi di politica, sceglieva la terza tra le possibili vie sopra elencate, sottraendo la questione alle secche del moralismo edificante verso cui invece qualcuno sembra di tanto in tanto voler tornare.
11 Sul quale è ora da vedere il bel fascicolo dedicatogli da «Trimestre», XXVI, 1993, n. 2/3, curato da Gabriele Carletti, con importanti saggi tra i quali segnalo per il nostro tema quelli di G. Borrelli, L’interprete politico della ragion di Stato, pp. 203-213; quello di E. Baldini, Boterò e Lucinge: le radici della ragion di stato, pp. 215-240, e l’importante Per una Bibliografia di Rodolfo de Mattei, a cura di L. Russi, pp. 293-309.
12 Una bibliografia completa (curata da A.E. Baldini e F. Barcia) sui suoi studi a partire dalla bella Introduzione a G. Boterò, Della Ragion di Stato, Torino, 1948, si legge ora nel IV dei 4 volumi di Studi in onore di Luigi Firpo, a cura di S. Rota Ghibaudi e F. Barcia, Milano, 1990.



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nostante imponenti lavori di ricerca come quello di Thuau13 e di Church)14, né dalla storiografia anglosassone cui egli ha fatto ampio riferimento, quanto dagli storici tedeschi che concentrando l’attenzione sul processo di formazione dello Stato moderno in Germania e sulla forma che esso assunse come «Stato di polizia», hanno mirato a comprendere la «ratio» di quella serie di procedure ordinate e continue che hanno caratterizzato la nuova forma di Stato, piuttosto che classificare le tipologie del segreto e dello stato d’eccezione (sulla cui essenza Schmitt aveva invece fondato la sua teoria della sovranità) che sembravano regnare nei pensatori del resto d’Europa. Sul terreno della storiografia politica queste indicazioni vennero messe a frutto nell’importante convegno di Tubinga del 1974. Qui una robusta interpretazione storiografica e una sapiente regia convergevano nel far risaltare la con-sustanzialità della ragion di Stato al processo di formazione degli Stati europei tutti15, il suo essere cioè non l’atemporale sostrato demoniaco della politica ma «ein in der damaligen geschichtlichen Lage eminent politischer Be-griff»16, nel mettere in risalto accanto alle modalità del suo essere terreno d’azione e di gioco del principe (subjektivere Spielart) anche quelle legali e giuridiche che assunse17. In questa tensione Machiavelli-Bodin e nell’attenzione alla specificità dell’area tedesca (poi oggetto delle importanti analisi di Stolleis)18 si assistette ad una importante lateralizzazione della questione eti-
13 E. Thuau, Raison d’Etat et Pensée politique à l’époque de Richelieu, Paris, 1966.
14 F. Church, Richelieu and Reason of State, Princeton, 1972.
15 Da questo presupposto teorico discendeva la scelta importante di non limitare la trattazione agli autori che potevano rientrare tramite l’uso dell’espressione ragion di Stato nel suo variegato campo semantico, ma di allargarla anche a quelli che per dirla secondo una modalità giuridica l’avevano usata in senso «materiale»: «Allerdings ist so-gleich zu bemerken, dah es hier nict darauf ankommen kann, sich nur mit jenen Au-toren zu befassen, die den Ausdruck “Staatràson” verbaliter gebrauchten. In diesem Zu-sammenhang geht es nicht nur um die formale Geschichte eines Begriffs», cosi Roman Schnur nell’Enleitung a Staatrdson. Studien zar Geschichte eines politischen Begriffs, hrsg.v. R. Schnur, Berlin, 1975, p. 13.
16 Ivi, p. 14.
17 L’attenzione su questo aspetto era stata propria dello studio di CJ. Friedrich, Constitu-tional reason of state. The survival of thè constitutional arder, Boston University Press, 1957.
18 Della sua rimarchevole bibliografia cito solo «Arcana imperii» und «Ratio status»: Be-merkungen zur politischen Theorie des frùen 17. Jarhunderts, Gòttingen, 1980, ora in Staat und Staatsrdson in der Neuzeit. Studien zur Geschichte des Offentlichen Rechts, Frankfurt, 1990, ricordo che l’attenzione al cameralismo in Germania, da noi pionieristicamente studiato da P. Schiera (Dall'arte di governo alla scienza dello Stato, Milano, 1968) e alle tecniche di attenzione alla popolazione - dal mercantilismo alla statistica -sono centrali nella proposta interpretativa di Foucault. Sempre in questa linea di lettura si veda il recente importante saggio di M. Senellart, Y a-t-il une théorie allemande de la raison d’Etat au XVIE siede? «Arcana Imperli» et «ratio status» de Clapmar à Chem-nitz, in Raison et Déraison d’Etat, cit.



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ca-politica foriera di positivi sviluppi. C’era insomma li, pur con inevitabili tentennamenti un collegamento che, come sembrava ad un acuto recensore, andava ulteriormente evidenziato «con l’assolutismo nel suo complesso teorico-pratico, in particolare con la sua ratio di fondo, consistente nella stringente logica progettuale del nuovo Stato, della nuova forma del potere che si viene costruendo»19. Concludendo la sua bella recensione a Staatrdson, Pierangelo Schiera, che per suo conto aveva già in quegli anni maturato una proficua attenzione ai processi di disciplinamento messi in moto dallo Stato moderno ed emersi nella letteratura coeva, sia attraverso il rinnovamento degli studi sul neostoicismo (Oestreich) sia attraverso l’indagine sulla «governa-mentalità» (Foucault), richiamava come interpreti della ragion di Stato più gli italiani della fine del Cinquecento che Machiavelli, più il Boterò delle Cause della grandezza che quello della Ragion di Stato, più il Galateo che il Cor-tegiano.
Era un’importante indicazione di metodo che nell’immediato non ebbe il successo che meritava, ma la cui bontà è ora confermata dalla piega presa dai più recenti studi sulla materia. Tra questi merita di essere segnalata l’importante opera di Michel Senellart, Machiavélisme et raison d’Etat. In questo libro tanto smilzo quanto acuto, la lettura della novità della ragion di Stato viene argomentata a partire dal suo costitutivo e non occasionale antimachiavellismo. Se i ragionatori dello Stato furono generalmente antimachiavellici questo non accadde perché essi avessero introiet-tato le tecniche della dissimulazione ispirate alla volontà di resistere alla Persecution20, ma perché essi orientarono il loro pensiero attorno ad un centro che era lontano ed opposto rispetto al primato della guerra, quella fatta e quella pensata, che stava a cuore al Segretario fiorentino. Lontani da una connotazione polemiologica del politico, i teorici della ragion di Stato, si sarebbero incamminati secondo quanto già si mostra in Boterò sulla via dell’incremento del bene pubblico secondo finalità e modalità che lo trasferiscono dal piano etico religioso, o da quello della conquista, al livello «des réalités socio-économiques»21, o del «doux commerce». Identificate in queste premesse, nelle quali sembra di riascoltare l’eco di Constant, le modalità della transizione da Machiavelli a Boterò, Senellart aggruma la sostanza della ragion di Stato attorno all’adesione alle tesi del mercantilismo, alla centralità dell’interesse come principio d’ordine sociale
19 P. Schiera, recensione a Staatrdson, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», V-VI, 1976-77, p. 981.
20 II riferimento è come è ovvio a L. Strauss, Persecution and thè Art of Writing, New York, 1952.
21 Senellart, Machiavélisme et raison d’Etat. XIE-XVIIE siècles Suivi d’un choix de tex-tes, Paris, Puf, 1989, p. 69.



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e non più di conflitto, all’incitamento allo sviluppo dell’industria umana. Tracciando un breve schizzo degli sviluppi di questa ragion di Stato lontana ed opposta a quella che guardando alla Machtpolitik aveva scritto Meinecke, Senellart prova ad inserire Boterò e i teorici della sua ragion di Stato antimachiavellica tra i padri nobili del liberalismo, rovesciando come un guanto, con eleganza, ma forse troppo, l’assunto da cui abbiamo preso le mosse, quello relativo cioè all’identificazione tra ragion di Stato e dispotismo.
Rispetto all’interessante sovraccarico economico operato da Senellart della categoria della ratio status, l’intervento di Borrelli si presenta come restaurativo della autonomia del politico, attraverso l’esaltazione di quelle categorie che, come la prudenza e lo scambio, costituiscono, a suo parere, non tanto elementi di una successione diacronica quanto diverse modalità sincroniche di funzionamento della pratica politica della razionalizzazione occidentale. L’adozione di questo punto di vista consente a Borrelli il raggiungimento di un importante risultato. L’accurata ricostruzione dei paradigmi delle due modalità di esercizio del potere politico è trascinata da questo presupposto verso una felice contaminazione che assume che non c’è scambio esente da un possibile ritorno alle modalità pratiche della prudenza, come che non c’è prudenza che non contenga elementi di scambio. Questa seconda intuizione permette a Borrelli, che pure limita l’indagine all’area italiana dove poteva essere forte la tentazione ad un approccio moralistico e «derogatorio» al problema, di inseguire le tecniche di diffusività del politico miranti ad ottenere la conservazione nel loro funzionamento «normale» e non solo nel caso d’eccezione. Abbiamo cosi l’individuazione del nucleo concettuale della ragion di Stato con le sue varianti, l’enunciazione dei problemi che rimanevano aperti e irrisolvibili all’interno del paradigma (trattati nel bel capitolo dedicato a Malvezzi) ma abbiamo soprattutto un’indagine che pur inseguendo con la dovuta acribia filologica i testi, li sollecita ponendogli domande sul senso che appartiene loro e al processo nel suo insieme. Ora non v’è dubbio che, per Borrelli, questo senso sia - dopo il tracollo del giusnaturalismo cristiano - quello della ricostituzione dell’obbedienza attraverso quelle pratiche governamentali che siano in grado di «motivare e rendere stabile» la relazione sovrano sudditi, di produrre forme di disciplina o meglio di autodisciplina maneggiate con accorto calcolo dai dispositivi della sapienza e della prudenza pronte ad inserirsi in temporalità diverse e diversificate, dal tempo lungo e naturale all’attimo, dalla stasi all’accelerazione improvvisa. Dispositivi capaci di offrire al principe un vasto campo di prospettive di intervento volte alla conservazione del potere politico anche grazie alla messa in funzione della sua visibilità perpetua, dispositivi insomma che funzionando secondo ritmi innervati nella vita dei singoli, siano in grado di spingere in tempi nor-



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mali in una zona d’ombra quella forza, che rimane comunque «il fondamento nascosto della prudenza politica»22. Esaltando il ruolo della funzione pubblica come elemento di mediazione degli interessi, mettendo in atto strategie atte ad interessare i sudditi, consapevole della funzione non meramente autoritativa della «disciplina», il governo del principe esibisce un potere che ormai lontano dalla sua configurazione semplicemente patrimoniale evolve verso quella teoria della souveraineté che pure non indaga esplicitamente, mentre realizza, memore dei consigli della politica come ars pratica, quelle ormai codificate tecniche di polizia che tanto sviluppo avranno in terra tedesca.
Senza seguire oltre come pur meriterebbe il percorso tracciato da Borrel-li vorrei concludere questa nota ricordando come l’adozione che il libro fa di una ispirazione paradigmatica e kuhniana in politica, da un lato non disperda il patrimonio di rigore accumulato dalla filosofia analitica, dall’altro non lo banalizzi in modo antistorico23 e riesca inoltre a restituire spessore teorico a quelle teorie politiche che risultano talvolta appannate da una loro insistita contestualizzazione. Individuando tale spessore nel rapporto tra obbedienza e disciplina mi pare infine che tale proposta interpretativa sia come quella di Senellart, singolarmente vicina a quella fou-caultiana di analisi governamentale24 del potere. E assai probabile che dun-
22 G. Borrelli, Ragion di Stato e Leviatano. Conservazione e scambio alle origini della modernità politica, Bologna, 1993, p. 90.
23 Ad una tale banalizzazione, rimproverata da Dunn alla filosofia analitica inglese (On thè Identity of thè History of thè Ideas, in «Philosophy», XLIII, 1968) il modello paradigmatico si sottrae proprio perché aperto alle rotture che la storia apporta alla sua validità e vigenza. Ovviamente questo potrebbe significare che la storia entri nel modello quando questo non c’è più, o comunque solo negli interstizi tra una formalizzazione e un’altra, ma mi sembra che in ogni caso, a parte la sensibilità storica di Borrelli, anche con questi limiti un siffatto modello eviti le pericolose secche del continuismo. Mi pare che in questo caso il modello dia buona prova di sé, non credo però che questa possa essere una scelta metodologica definitiva, visto che in altri casi come con la categoria dell’aristotelismo politico, che non so guardare senza sospetto, mi sembra siano condivisibili le critiche serrate che gli muove E. Nuzzo, Crisi dell’aristotelismo politico e ragion di stato. Alcune preliminari considerazioni metodologiche e storiografiche, di prossima pubblicazione negli atti del convegno svoltosi a Torino presso la Fondazione Firpo, tra 1’11 e il 13 febbraio 1993, su Crisi dell’aristotelismo politico e ragion di stato.
24 II bel saggio La «Governamentalità» (lezione tenuta nel febbraio del 1978 al Collège de France, trascrizione e traduzione di P. Pasquino) si può ora leggere in M. Foucault, Poteri e Strategie, a cura di P. Dalla Vigna, Milano, Mimesis, 1994, pp. 43-67. Sul senso della proposta interpretativa foucaultiana, tesa a leggere la ragion di Stato come prima forma di cristallizzazione dell’arte di governo, come arte di reggere le sorti della popolazione e della sua scienza irriducibile all’antica «economica europea» - come ha mostrato anche Otto Brunner in La «Casa come complesso» e l’antica «economica» europea, in Id., Per una nuova storia costituzionale e sociale, a cura di P. Schiera, Milano,



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que nello spazio compreso tra queste due ipotesi interpretative e tra le loro possibili relazioni, vada cercato e costruito l’unico modello capace di essere ad un tempo attraente e valido, con il quale comprendere la crescita esponenziale di ricerche settoriali sempre più precise ma sempre più bisognose di una integrazione teorica.
1970, pp. 133-164 - rimando al bel saggio di M. Senellart, Michel Foucault: «gouver-nementalité» et raison d’Etat, in «La Pensée politique», Revue annuelle dirigée par M. Gauchet, P. Manent et P. Ronsavallon, 1993, pp. 276-303. Su questa linea, pur con i dovuti distinguo, mi sembra si muovano anche C. Lazzeri e D. Reynié quando scrivono della ragion di Stato che essa è «la découverte que rien ne présidera plus efficace-ment aux destinées d’un Etat que la connaissance de ses qualités spécifiques: son peu-ple, sa géographie, son temps, ses ressources, son organisation économique et la manière de l’améliorer [...] Le gouvernement de la raison d’Etat s’appuiera sur un savoir peu à peu institué en une théorie moderne du politique et finalement ramené au con-tenu serré d’une Science de l’administration et de ses effets sur la societé dont le mer-cantilisme, le caméralisme, la statistique et les théories de la police constituent le noyau dur. La raison d’Etat renvoie alors à une autre forme de rationalité gouvernamentale et de technique de gouvernement» (introduction a La raison d’état, cit., p. 11).