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Title
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La paura nella societa' di ancien régime
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Creator
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Luigi Donvito
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Date Issued
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1979-10-01
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Is Part Of
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Studi Storici
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volume
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20
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issue
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4
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page start
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875
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page end
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880
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Publisher
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Fondazione Istituto Gramsci
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
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Rights
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Studi Storici © 1979 Fondazione Istituto Gramsci
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Source
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https://web.archive.org/web/20230921150727/https://www.jstor.org/stable/20564654?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjo3LCJzdGFydHMiOnsiSlNUT1JCYXNpYyI6MTUwfX0%3D&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Aa3d3de9a38443275aa1ce03da49d0ec3
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Subject
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confinement
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surveillance
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discipline
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exclusion (of individuals and groups)
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extracted text
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LA PAURA NELLA SOCIETÀ’ DI ANCIEN RÉGIME
Luigi Donvito
Nell’ormai classico II senso della morte e l'amore della vita nel Rinascimento (Torino, 1957) Alberto Tenenti documentava come una cultura ed una mentalità laiche, centrate sulla celebrazione della prudenza nonché sulla esaltazione della « virtù » in quanto soprattutto capacità di predisporre in vita la memoria postuma di sé ovverossia in quanto capacità di « durare », si organizzassero quasi a smentita di una realtà umana addirittura tragica (basti pensare alla peste nera). Una esistenza in ogni senso precaria si celava dietro immagini consolatorie se non lusinghiere della condizione umana; tuttavia, proprio grazie a questa operazione veniva ribadita la fiducia nella possibilità che la storia, il tempo artificiale e misurabile dell’agire consapevole, prendesse il sopravvento sul fluire della esistenza. Se l’oggetto della indagine (la mentalità) poteva apparire sfuggente, certamente tale non era il soggetto storico a cui quella indagine si richiamava: la élite colta europea che in Erasmo e in Montaigne avrebbe trovato o avrebbe potuto trovare le giustificazioni più fini del suo essere cristianamente scettica e del suo vivere di rendita aristocraticamente. Chiaramente sollecitato dalla lezione di Febvre, Tenenti rivisitava un caposaldo della storiografia conservatrice europea, sottraendo la interpretazione del Rinascimento ai toni rievocativi e congelanti della Kulturgeschichfe; cadeva la chiave di lettura del Burckhardt che identificava il Rinascimento con la stagione migliore della cultura delle città libere europee, semmai assumeva un nuovo significato quello su cui si era più soffermato Huizinga, il perpetuarsi di valori cortesi e cavallereschi nella civiltà dell’età tardocomunale. Non sussisteva più il topos della fiducia umanistica nella positività del facere come momento correlato allo intelligere, anche se proprio l’arte laica del ’3OO-’4OO ha ostinatamente occultato o accorciato l’intervallo tra i due momenti. In effetti, tra le condizioni storiche generali dei due secoli da un lato (tracollo demografico e crisi della rendita feudale in natura, rivolte urbane ed anarchia feudale, emergere delle monarchie nazionali e snaturamento della facies sociale del capitale mercantile e finanziario impegnato a sostenere un organismo politico-statuale che imporrà a breve termine la aristocratizzazione della società) e, dall’altro lato, la grande cultura così
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rassicurante sulla dignità ed eccellenza dell’uomo corre una contraddizione così vistosa, che per Tenenti può essere spiegata solo con l’origine commissionata della immagine che le classi dominanti del tempo hanno trasmesso di sé. Con un occhio piu attento di quanto non l’abbia Tenenti al fatto sociale più rilevante dei due secoli, il confronto tra capitale mercantile e dominio feudale della terra, si può dire che la cultura del Rinascimento, coniugando il particolare irrelato (la prudenza, cioè la separazione dal presente precario, cioè il distacco del capitale dalle attività manifatturiere e mercantili) con il durevole e l’univer-salmente riconoscibile (la « virtù », cioè la perpetuazione della memoria di sé, cioè la saldezza di uno status sociale ancorato alla rendita signorile), prepara al dominio e a nuove dislocazioni sociali forze che si devono ancora rassodare o devono ancora individuare il loro interesse specifico. Ridotta a codice, quella stessa cultura, che nella sua fase espansiva aveva predicato la dignità dell’uomo in generale, si adatterà a dire encomi anche servili a singoli o a famiglie che troveranno via via sistemazione soddisfacente nella corsa generalizzata alla costituzione di rendite signorili.
Possiamo condensare il senso di quanto sin’ora detto in due notazioni: dalla descrizione della esperienza comune del precario stato fisico e psichico dell’uomo l’analisi critica di Tenenti ha isolato una cultura che elabora una immagine dell’uomo divaricante di molto da quella esperienza; lo stacco può giustificarsi storicamente solo col fatto che il nucleo centrale di quella cultura altro non era che l’ideologia dei ceti dominanti mercantile e feudale. Con una qualche forzatura, si può ritenere che la cultura del Rinascimento esorcizzò la paura di quei ceti di non riuscire a superare la grande crisi del XIV secolo.
Altra è la paura oggetto del lavoro di Delumeau * (la paura del giorno dopo giorno, alla solita ricerca della mentalità della vita quotidiana), altri i riferimenti storiografici che danno respiro ad un discorso centrato, malgrado il titolo, sui due secoli centrali del vecchio regime, il XVI e il XVII, anche se non mancano in questo come in un lavoro diverso del francese contatti con la ricerca più originale dello storico italiano (si allude al peso che la paura del ’300 e oltre ebbe nello scuotere la credibilità delle istituzioni ecclesiastiche, per cui vedi J. Delumeau, La Riforma. Origini e affermazione, Milano, 1975, pp. 58-74). Fondamentalmente Delumeau non si misura con gli storici della Kultur, anche se non manca, beninteso, la presa di distanza (« Aussi faut-il corriger ce qu’a écrit Burckhardt sur la Renaissance... La nouvelle conscience de soi fut aussi la conscience plus aiguè d’une fragilité qu’exprimèrent con-jointement la doctrine de la justification par la foi, les danses macabres et les plus belles poésies de Ronsard... », La peur en Occident, p. 253). Delumeau ha presenti le tematiche più interessanti della sociologia sto-
* Jean Delumenau, La peur en Occident (XIVe-XVIIIe siede). Une cité assiégée, Paris, Fayard, 1978, pp. 485.
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rica religiosa: la demolizione del mito di un Medioevo cristiano e il dibattito sulla decristianizzazione delle élites nell’età dei lumi (una convincente esposizione delle due tematiche in J. Delumeau, Il cattolicesimo dal XVI al XVIII secolo, Milano, 1976, pp. 201-287; sulla decristianizzazione è da vedere gran parte della produzione di Michel Vovelle, Pie té baroque et déchristianisation en Provence au XVIIP siècle, Paris, Plon, 1973 e Mourir autrefois. Attitudes collectives devant la mort au XVir et XVIIP siècles, Paris, Gallimard, 1974).
Al centro tra le due tematiche, e non solo cronologicamente, è ovvio, il blocco dell’ancien regime in generale o, per stare al sottotitolo che è la chiave del lavoro in esame, quella strana « cité assiégée » un po’ kafkiana e integralista, attorno alla quale assedianti reali non ce ne sono.
Sotto una forma spregiudicata il contenuto è abbastanza prevedibile. Ce ne occupiamo brevemente, per avere agio di discutere il metodo, la struttura e l’interpretazione che l’autore dà del suo lavoro. Nella prima parte (« Les peurs du plus grand nombre », pp. 31-194) si passano in rassegna alcuni dei più consolidati esiti della storiografia delle « Annales » del dopoguerra e della antropologia sociale anglosassone: il sentimento ostile verso il mare (qui è l’eccezione, una sorta di anti-Braudel), la diffidenza verso ogni novità sia fiscale (donde le rivolte tutte conservatrici e passatiste, che richiamano senz’altro Mousnier) sia religiosa (Riforma protestante come Restaurazione e conflitti confessionali come due rifiuti di due supposte novità che è l’esito meno condividibile della lezione di Febvre e un totale scivolamento verso un ecumenismo storiografico non molto comprensibile). Seguono il ricorso alla protezione della magia contro i rigori della religione riformata (K. Thomas), la stregoneria come complesso culturale arcaico espresso dalle società tradizionali in presenza di modificazioni sociali (A. Macfariane) e una serie di temi obbligati, da « le mort saisit le vif », alla peste, alle processioni che esprimono bisogni non mediati dalle istituzioni ecclesiastiche, alle rivolte cittadine come « réponses sécurisantes à des situations angoissantes » (vedi l’illuminante accostamento coi moti studenteschi in Francia, p. 145 sgg.), alle violenze millenariste, al brigantaggio, ancora alle rivolte, rurali questa volta, mosse dalla fame o dal sospetto di una cospirazione sociale come la celebre Grand Peur di Lefebvre, per concludere, significativamente, che i moti popolari nell’età preindustriale furono assai più spesso antifiscali che non antinobiliari.
Ci limitiamo per ora ad una osservazione dettata dal buon senso: se la paura è cattiva consigliera, uno storico che si fermi a registrarne le manifestazioni acconsente a farsi sviare. Per la verità, il traviamento era implicito in una scelta e in un impiego delle fonti che pure dovrebbero essere molto cauti e avvertiti, allorquando ci si occupa del « plus grand nombre » ovvero dei ceti popolari, sicuramente analfabeti nell’età moderna. Per questo periodo, è scontato rilevarlo, noi abbiamo una documentazione sui ceti popolari, notoriamente filtrata e organizzata dai ceti
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dominanti; in questo lavoro, infatti, troviamo in preminenza passi letterari e testes i più eterogenei, che non sono usati per costruire via via un discorso critico ma palesemente colmano degli stampi ereditati. Ora è proprio questo discorso fatto, accolto con sostanziale passività, che rimanda direttamente all’autore. Delumeau mostra di avere consapevolezza del problema metodologico fondamentale quando nella introduzione, rilevando la forte insistenza della letteratura cinquecentesca sul « valore » appannaggio sicuro dei nobili e sulla « viltà » segno triste di una condizione ignobile, coglie « les raisons idéologiques du long silence sur le ròle et l’importance de la peur dans l’histoire des hommes » (p. 5). Ma in sede di applicazione troviamo tutt’altro che un uso critico delle fonti, troviamo campeggiante la linea interpretativa di Mousnier, che fa dei tartassati ceti subalterni rurali i sostenitori delle esigenze di conservazione dell’assetto ancien régime in cui si riconoscevano, guarda caso, anche i nobili (non de mauvais gré, si vuole sperare). Se si escludono i déracinés, i pauvres enfermés e simili e la grande monarchie col suo potere centralizzatore, gli estremi insomma, l’antico regime fu abbastanza stabile, grazie anche ai salassi salutari delle émotions\ questa tesi, che è anche di Goubert (L"Ancien Régime. Tome I: La Société, Paris, Colin, 1969) e si ritrova accolta da molti dei maggiori storici delle « Annales », è il reale supporto del lavoro di cui ci occupiamo. La società francese dell’età moderna — per estensione, si intende, anche la società europea occidentale — è colta nella dimensione fin troppo semplificata del contrasto o meglio della concordia discors ceti popolari-ceti dominanti, discordi perché si guerreggiano (vedi allora l’idoleggiamento della cultura subalterna) ma concordi nel respingere le pretese eccessive del potere assoluto.
Dato questo fondamentale asse interpretativo della società, le classi dominanti di Delumeau non nutriranno paure loro proprie (inerenti, come ha mostrato Tenenti, alla affermazione e conservazione di sé); loro impegno sarà di organizzare ‘razionalmente’, in quelli che potremmo chiamare i grandi miti deterrenti, le paure molteplici e irrazionali dei ceti popolari. La seconda parte del lavoro (« La culture dirigeante et la peur », pp. 197-388) si apre coi capitoli più interessanti, della « Attente de Dieu » (quasi ignorate le diverse valenze sociali dei due miti dell’avvento del Millennio e dell’approssimarsi del Giudizio Finale) e di « Satan ». L’« invasion démoniaque » inizia a montare nel ’300, quando « la con-science religieuse de l’élite occidentale cesse pour une longue période de résister au raz de marèe du satanisme » (p. 233), sino a influenzare i mass media che faciliteranno il propagarsi delle Riforme; con la fase di riflusso, sulla credenza nel demonio si attesta una cultura popolare finalmente ‘diversa’: « La culture populaire s’est ainsi défendue, non sans succés, contre la théologie terrorisante des intellectuels » (p. 243). A parte la concessione cavalleresca che introduce all’idoleggiamento di cui sopra, la comprensione delle due diverse stagioni del satanismo avrebbe tratto
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vantaggio da una loro connessione coi periodi lunghi di crisi (’300-metà ’500) e poi di ripresa (fine ’500-primo ’700) del regime signorile della terra. Concludono la rassegna gli agenti di Satana: idolatri e musulmani, ebrei, streghe, dei quali tutti la fama di nemici pubblici rimonta quasi sempre all^ intemperanze predicatorie degli ordini mendicanti nel ’400, ma la cui tragica sorte, specie da fine ’500, è da addebitarsi al rafforzamento della monarchia assoluta. Il capitolo sulla repressione della stregoneria (pp. 364-388) esamina lucidamente indirizzi interpretativi di lingua inglese (Murray, Thomas e Macfarlane, Trevor-Roper) oltre a far cogliere la propensione molto significativa dell’autore per una spiegazione che assimila le pratiche stregonesche a liberazioni di pulsioni.
L’esposizione schematica dello sviluppo del lavoro ha permesso di sciogliere la grossolana generalizzazione che non è solo nel titolo: una cosa sono le molteplici e slegate paure concretamente vissute dai ceti popolari, altra cosa è l’unica paura dei ceti dominanti, quella di perdere il mondo, che li induce ad alimentare il mito di Satana, mito unitario (come una è la società) ma insieme proteiforme e fungibile (come diverse e imprevidibili sono le minacce al predominio sociale). Mistificante, perciò, è la conclusione suggerita dallo stesso autore (« Un pouvoir, à la fois religieux et civil, de plus en plus annexionniste et centralisateur qui, de fagon croissante, redoute les déviances », p. 393), conclusione che porta diritto ai lavori di M. Foucault e di J.P. Gutton e alla ambigua equazione potere = repressione. Del resto, nella introduzione (« L’his-torien à la recherche de la peur », pp. 1-28) dopo la rassegna delle teorie sulla aggressività dell’uomo (Freud, Reich, Fromm, Lorenz) l’autore non si pronuncia sul quesito: « les causes de la violence humaine sont-elles anthropologiques ou sociologiques? ». Ciò che gli preme è di agganciare i secoli bui dell’età moderna (« un "pays de la peur’ se constitua à l’intérieur duquel une civilisation se senti mal à l’aise », p. 22) alla istituzione che nel ’700 vide ridimensionata la sua presa sulla società (« La ’cité assiégée’ dont il va étre question, c’est surtout l’Eglise des XIVe-XVIIe siècles, mais [corsivo nostro] l’Eglise en tant qu’elle était pouvoir », p. 27). Ma perché allora mandare allo scoperto la società, le paure e la mentalità di ceti popolari e di ceti dominanti, quando a questo e ad un secondo volume prossimo (« La peur de soi et la sortie du pays de la peur prendront place dans un second volume en cours de rédaction », p. 24) sta dietro un discorso tutto centrato sul rapporto Chiesa-Società? Se la « déchristianisation » del XVIII secolo spiana la strada ad una interpretazione problematica e aperta del ruolo di credenti e non credenti nella società contemporanea, come prova l’implicita polemica di Vovelle contro le chiusure antimoderniste di Le Bras (vedi Piété baro-que... cit., Introduction generale, dove si sottolinea che la vecchia sociologia della pratica religiosa, in sostanza, accerta solo conformismi e anticonformismi), per l’età moderna una operazione similare passa attraverso una scelta discutibile. L’auspicio con cui Delumeau chiude la sua
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introduzione: « Il est temps que les chrétiens cessent d’avoir Peur de l’histoire » ha condizionato pesantemente il lavoro, perché, tramutato in giudizio storico e portato, quindi, ad operare a ritroso, ha finito per introdurre nel profilo della « mentalità » occidentale una antistorica e ambigua separazione tra credenze e istituzioni che le alimentavano e se ne sostenevano.