Rivolta e misticismo nei chiostri femminili del Seicento

Item

Title
Rivolta e misticismo nei chiostri femminili del Seicento
Creator
Fiamma Lussana
Date Issued
1987-01-01
Is Part Of
Studi Storici
volume
28
issue
1
page start
243
page end
260
Publisher
Fondazione Istituto Gramsci
Language
ita
Format
pdf
Relation
La volontà di sapere, Italy, Feltrinelli, 1968
Rights
Studi Storici © 1987 Fondazione Istituto Gramsci
Source
https://web.archive.org/web/20230921160305/https://www.jstor.org/stable/20565753?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxNCwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjMyNX19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A2bd4fc960db12d209a1171746fb0da29
Subject
sexuality
confinement
discipline
surveillance
ethics
moral systems
pastoral power
power-knowledge
extracted text
RIVOLTA E MISTICISMO NEI CHIOSTRI FEMMINILI DEL SEICENTO
Fiamma Lussana
Sabato 22 dicembre 1607, presso il monastero del fiocchetto è chiamata a deporre davanti al vicario criminale della curia arcivescovile di Milano, signor Gerolamo Saracino, suor Virginia Maria de Leyva, monaca del monastero di Santa Margherita in Monza. Richiestole sotto giuramento di dire la verità e di rievocare i fatti che la riguardano, l’imputata risponde:
Doppo ch’io ebbi veduto detto Gio. Paolo Osio due volte [...], pareva ch’io fossi sforzata diabolicamente ad andare a quella finestra a vedere detto Osio ed essendomi particolarmente detto da detta sor Ottavia o sor Candida Colomba che detto Osio stava nel giardino io mi sentii venire uno dessiderio di vederlo [...] e talvolta ancora entravo in casa mia pregando Iddio che mi aiutasse abraciando uno crocifisso e talvolta l’immagine della Madonna pregando che mi aiutassero e talvolta pareva che io fosse levata per forza ad andarlo a vedere talvolta ancora spinta da questa tentatione che io da me stessa mi stradavo li capegli e tal volta venutomi pensiero d’amazarmi da me stessa perché non possevo reprimere questa tentatione. Le quali cose tutte credo che mi si causassero per opera diabolica1.
L’incartamento giudiziario, redatto in dieci fascicoli e relativo al Processo per la violatone della clausura, la deflorazione e romicidio di una monaca nel monastero di S. Margherita di Monza, commessi da Gio. Paolo Osio. 1608, è oggi interamente disponibile nell’accurata edizione critica promossa dal Centro nazionale di studi manzoniani. L’originale del processo è conservato nell’archivio della curia arcivescovile di Milano; nei dieci fascicoli in cui il processo si articola, la materia è suddivisa in un ordine logico, secondo i criteri di consultazione archivistica senza rispettare l’ordine cronologico dello svolgimento dei fatti. I fatti, o «fattacci», sono quelli che, fin dall’Ottocento, periodo a cui risale la trascrizione integrale del processo, ci sono giunti anche attraverso le pagine esemplari del Manzoni quando, nel suo Fermo e Lucia, prima, e quindi nei Promessi Sposi rievoca con rigore
1 Questa deposizione è tratta dal volume Vita e processo di suor Virginia Maria de Leyva monaca di Monza, Milano, Garzanti, 1985, pp. 512-513. Il volume raccoglie gli atti del processo ecclesiastico contro suor Virginia Maria de Leyva, pubblicati per la prima volta e integralmente a cura del Centro nazionale di studi manzioniani. Gli atti processuali sono introdotti da saggi di autori vari e da una presentazione di G. Vigorelli.



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storiografico e con una intensa passione narrativa la vita della Signora di Monza. Quando, nel 1821, il Manzoni mise mano al romanzo, gli atti del processo a suor Virginia Maria de Leyva non gli erano ancora noti2 e sappiamo che solo circa quindici anni più tardi gli fu concesso di accedere al prezioso manoscritto. Come nota il Vigorelli nella presentazione degli atti processuali, il Manzoni fu sempre dilaniato fra gusto della narrazione e dell’invenzione letteraria e ansia del vero e della fedeltà storica ai fatti. La rappresentazione narrativa che ne viene appare dunque strettamente aderente ai fatti, ne è quasi un’intuizione più vivida. Sembra addirittura che il testo manzoniano possa costituire a tratti la trama reale e «corporea» della vicenda storica, che nell’incartamento processuale trova semmai una ulteriore conferma, quello sfondo storicamente accertato sul quale si inserisce la vicenda umana con le sue diverse risonanze e sfaccettature3. Pertanto, l’uso letterario delle pur documentate informazioni tratte dalle Historiae del Ripamonti stimolano semmai nel Manzoni l’efficacia della narrazione, in cui è possibile ritrovare come in un «microcosmo» il senso stesso di un’intera epoca storica4, quella della Controriforma. Sappiamo in realtà che la vicenda manzoniana è posticipata al periodo novembre 1628 - ottobre 1630, mentre la vicenda reale si svolge fra il 159 7 e il 1608. Si può tuttavia affermare che, nonostante i problemi storiografici ancora °® °ggetto di studi, relativi al passaggio tra il XVI e il XVII secolo, una linea di raccordo interpretativo può essere trovata proprio nel clima controriformistico con le sue superstizioni, gli intrighi, il rigore e le pene esemplari e in generale in quel processo di demonizzazione o di incarnazione esteriore del male secondo un raffinato procedimento che, nel momento in cui liberava e purificava la coscienza individuale, materializ-
2 Come risulta dalla presentazione degli atti del processo, il Manzoni ebbe notizia che il testo del processo fosse conservato presso l’arcivescovado di Milano solo fra il 1835 e il 1840; sembra che egli riuscisse ad avere in lettura il prezioso manoscritto per dieci giorni. Qualche anno più tardi Tullio Dandolo anticipò qualche passo del manoscritto nel suo studio dedicato a La Signora di Monza, pubblicato nel 1855. In tempi più recenti Mario Mazzucchelli ha ampiamente utilizzato le carte processuali per il suo La monaca di Monza, apparso nel 1961, alterandone però frequentemente il contenuto.
3 II Manzoni ci fornisce un magistrale ritratto di suor Virginia Maria: «Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta [...]. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca» (A. Manzoni, I Promessi Sposi, commento critico di L. Russo, Firenze, La Nuova Italia, 1957, I ed. 1935, pp. 169-170).
4 Per l’inquadramento dell’intera vicenda della monaca di Monza nella cultura e nel clima della società secentesca rimandiamo al saggio di A. Agnoletto, Suor Virginia Maria de Leyva e il suo tempo, in Vita e processo, cit., pp. 97 sgg. Segnaliamo inoltre le Historiae patriae di Giuseppe Ripamonti, Milano, 1641-43, cui si riferisce il Manzoni, e la Storia di Milano di Pietro Verri, Firenze, Sansoni, 1963, utili anche per i riferimenti relativi alla storia della famiglia de Leyva.



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zava il male per meglio riuscire a distruggerlo o ad esorcizzarlo. Il perno dell’autodifesa di suor Virginia Maria, cosi come ci viene integralmente restituita dalla pubblicazione degli atti del processo, sta proprio nella tesi della possessione e dell’ammaliamento diabolico. Il peccato, come si vedrà, è spesso vissuto e razionalizzato come una sorta di deviazione sovrannaturale che, caratterizzandosi con intimi contrasti e profonde lacerazioni, è opera implacabile del Malefico. Il diavolo diviene pertanto l’incarnazione stessa del male, in un secolo in cui la persecuzione del «diverso» e del «deviante», messa in opera ad esempio con straordinaria tenacia dalla Compagnia di Gesù5, dopo il Concilio di Trento, diventa lo strumento necessario per estirpare dalla società tutto ciò che va represso e allontanato dall’animo delle masse dei fedeli.
Marianna de Leyva nasce a Milano alla fine del 1575 o all’inizio dell’anno successivo da Martino de Leyva, appartenente a una dinastia di recente nobiltà, e da Virginia Marino, figlia del duca di Terranova di Calabria e vedova da circa due anni di Ercole Pio di Savoia, signore di Sassuolo. Dopo pochi mesi la bimba rimane orfana della madre, venuta a mancare probabilmente a causa della pestilenza del 1576; trascorrerà i suoi primi mesi di vita, affidata forse a qualche balia. Sulla breve fanciullezza veglieranno le zie, alle quali va riconosciuta la responsabilità di aver allevato la fanciulla «nella totale assenza dei più stretti affetti familiari»6.
5 Cfr. a tale riguardo C. Ginzburg, Folklore, magia, religione, in Storia d'Italia, I, I caratteri originali, Torino, Einaudi, 1972, pp. 603-676 e in particolare il paragrafo La Controriforma, pp. 650 sgg.; e inoltre A. Biondi, Aspetti della cultura Cattolica post-tridentina. Religione e controllo sociale, in Storia d'Italia, Annali, IV, Torino, Einaudi, 1981, pp. 255-302. Sull’iniziativa politica della Chiesa nella Controriforma si veda inoltre A. Asor Rosa, La cultura della Controriforma, in Letteratura italiana, 26, Roma-Bari, Laterza, 1979, soprattutto le pp. 29 sgg.
6 Sulla vita di Virginia Maria de Leyva e la storia della sua famiglia cfr. fra gli altri: L. Zerbi, La signora di Monza nella storia. Notizie e documenti, Milano, tipografia Bortolotti, 1890; C. Casati, Nuove notizie intorno a Tommaso De Marini tratte da documenti inediti, in «Archivio storico lombardo», 1886; G. Pagani, Storia rinnovata della Signora di Monza (1575-1650) secondo i documenti autentici resi accessibili a tutti dal suddetto ex-Archivista, Milano, Bocca, 1898; G. Riva, Autografi e documenti della Famiglia de Leyva nell'Archivio Municipale di Monza, Milano, Pulzato e Giani, 1906; A. Ratti, La vita della Signora di Monza abbozzata per sommi capi dal Cardinal Federico Borromeo, in «Rendiconti dellTstituto lombardo di scienze e lettere», Milano, 1912, pp. 852-862; A. Locatelli-Milesi, La Signora di Monza nella realtà, Milano, Treves, 1924; ricordiamo inoltre le già citate opere di T. Dandolo, La Signora di Monza. Le streghe del Tirolo. Processi famosi nel secolo decimosettimo per la prima volta cavati dalle filze originali, Ditta Boniardi Pogliani, 1855, e di M. Mazzucchelli, La Monaca di Monza (Suor Virginia Maria de Leyva), Milano, Dall’Oglio, 1961; si vedano inoltre G. Barbieri, Un personaggio del Manzoni nei documenti archivistici del Monte di Pietà di Milano, estratto dall’opera Archivi Storici delle Aziende di Credito, voi. I, Roma, Associazione bancaria italiana, 1956; A. Merati, Trovato a Monza un documento relativo alla monacazione di Marianna de Leyva, in «Archivio storico lombardo», 1963; R. Moggi, Volto e anima della monaca di Monza, Milano, A. Giuffré Editore, 1964; fra gli studi più recenti vanno segnalati: U. Fiorina, Inventario dell'Archivio Falcò Pio di Savoia, Vicenza, Neri Pozza, 1980; la biografìa di taglio giornalistico di R. Gervaso, La monaca di Monza. Venere in convento, Milano, Bompiani, 1984 e il volume-catalogo Aspetti della società lombarda in età spagnola, curato dall’Archivio di



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Il testamento materno, ben presto impugnato dai figli di primo letto, divide i beni di famiglia in due parti, la prima delle quali spetterebbe al figlio primogenito Marco Pio di Savoia e l’altra alla piccola Marianna de Leyva, lasciando a don Martino de Leyva l’usufrutto di quest’ultima parte. Le frequenti assenze da Milano del padre, che intanto intraprende diverse imprese guerresche, disinteressandosi dell’amministrazione dei beni e della salvaguardia del patrimonio, sono la causa principale del progressivo depauperamento dei beni di famiglia, mentre le pressanti richieste dei figli di primo letto di Virginia Marino e l’impugnazione del testamento si trascinano in una lunga e complessa vicenda legale, al termine della quale la parte di patrimonio della piccola Marianna de Leyva sarà notevolmente ridimensionata a vantaggio di quella dei fratellastri. Nel corso di un viaggio in Spagna, intrapreso nel 1589, don Martino conosce intanto Anna Viquez de Moncada e decide di prenderla in moglie.
Sono poche e insufficienti le notizie sull’educazione ricevuta da Marianna, che naturalmente risenti dell’atmosfera rigida, austera e repressiva che caratterizzava l’educazione delle fanciulle in quell’epoca, ma è plausibile che il suo destino di monaca non fosse ancora deciso prima del secondo matrimonio paterno7. L’avvio alla vita claustrale fu il risultato di una serie di circostanze, fra le quali lo stato patrimoniale della famiglia e le difficoltà non indifferenti insorte a seguito delle continue assenze del padre da Milano, alla sua sostanziale indifferenza per le vicende familiari e affettive e all’insensata amministrazione dei beni.
Il 15 marzo 1589 Marianna de Leyva prende il velo assumendo il nome di suor Virginia Maria. Ha tredici anni. Ha inizio cosi la lunga e sofferta vicenda che nel giro di qualche anno, dalla totale inconsapevolezza del proprio stato e della propria dignità, la trasformerà in quella figura tragica dipinta dal Manzoni che, intrecciando una relazione «licentiosa» e un amore «lasivo», oserà trasgredire col peccato le rigide e astratte regole claustrali. Il chiostro del convento di Santa Margherita in Monza è
tetro, uggioso, profondamente malinconico [...]. Per la speciale disposizione dei singoli locali quel povero monastero non aveva un punto solo dal quale la vista potesse ricrearsi d’uno sguardo ai monti, all’orizzonte, all’aria libera. Era per cosi dire chiuso da ogni parte, ché alla destra il giardino della casa degli Osii tutto lo circondava colle alte piante, a mattina i locali rustici del cenobio toglievano quel poco di paesaggio che avrebbe potuto dare la muraglia della città, a mezzodì la chiesa tutto ostruiva, ed a ponente infine la porta di ingresso con tanto di chiavistello8.
Stato di Milano, 1985. Per le vicende familiari e di eredità si rimanda inoltre alle carte e ai documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Milano e nell’Archivio Falcò Pio di Savoia. Una bibliografia storica e letteraria a cura di U. Colombo è infine contenuta nel volume Vita e processo, cit., pp. 927-955.
7 Cfr. E. Paccagnini, La vita di suor Virginia Maria de Leyva, in Vita e processo, cit., p. 8.
8 L. Zerbi, op. cit., p. 33.



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La cospicua somma di sei mila libbre imperiali sarà la cifra corrisposta dalla famiglia de Leyva come «dote spirituale» per suor Virginia Maria. Come ha notato il Ripamonti9, fin dal suo ingresso nel monastero di Santa Margherita, essa è al tempo stesso monaca di clausura - cui è fatto obbligo di obbedienza, povertà e castità - e «feudataria». Gode cioè di determinati privilegi relativi al suo stato nobiliare e se ne mostra subito consapevole10. L’inizio dell’interessamento di Giovanni Paolo Osio, «bel giovine»11, ricco e ozioso, per suor Virginia Maria risale all’autunno del 1597. Dopo i primi saluti dalla finestra e le schermaglie iniziali i due passano al rapporto epistolare, fatto sempre di continui cedimenti anche solo verbali da parte di lei, mascherati con inutili accenni al peccato e alla scomunica.
Al Natale poi - narra suor Ottavia nella sua deposizione al processo - credo che fosse la notte di S. Stefano cominciò esso Osio entrar dentro al monastero e andò con suor Virginia Maria nella sua camera e cominciò a dormire con lei in un letto, e suor Benedetta et io dormivamo in un altro letto, et cosi restò gravida di lui quale dormeva una o due volte la settimana se ben alcune volte stava una settimana, quendeci giorni et anco un mese mentre stava a Milano, e continua anco di venire da suor Virginia Maria sendo lei gravida che partorì un putto morto12...
Uno dei problemi, pure affrontati dal Concilio di Trento, ma che per tutto il Seicento e il Settecento non trovano adeguata soluzione, è quello relativo alle monacazioni forzate. Se la normativa corrente le punisce severamente e i padri conciliari le condannano espressamente, la pratica del tempo e un costume ormai consolidato in realtà le favoriscono. Il fenomeno è dunque diffuso soprattutto nelle famiglie nobili, allo scopo di tutelare l’omogeneità del patrimonio familiare evitando indesiderate frantumazioni. Nelle famiglie del popolo molte fanciulle sono invece avviate al chiostro o perché non abbastanza graziose, o perché i parenti non possono garantire loro una dote adeguata. Altre prendono il velo per sfuggire alla rigidità talvolta eccessiva delle regole educative che limitano non poco la libertà d’azione e di espressione delle fanciulle13.
9 Cfr. G. Ripamonti, op. rii., p. 359.
10 «Tra i’altre distinzioni e privilegi che le erano stati concessi - scrive il Manzoni a proposito della sua Gertrude - per compensarla di non poter essere badessa, c’era anche quello di stare in un quartiere a parte» (A. Manzoni, 1 Promessi Sposi, cit., p. 207).
11 Tale definizione è contenuta nel costituto di Apollonia de Regibus dell’8 dicembre 1607 (Atti del Processo a suor Virginia Maria de Leyva. Trascrizione integrale e nota filologica, a cura di G. Farinelli, in Vita e processo, cit., p. 373).
12 Costituto di suor Ottavia Ricci del 4 dicembre 1607 in Atti del Processo, cit., p. 344.
13 Sul problema dell’educazione e dell’istruzione della donna nel Seicento si vedano fra gli altri: A. Belloni, Il Seicento, in Storia letteraria d’Italia, Milano, Vallardi, 1929, soprattutto pp. 15 sgg.; B. Croce, Appunti di letteratura secentesca inedita o rara, in «La Critica», s. Ili, III, VI, 20 novembre 1929. «Nel Seicento - scrive Croce - la donna non è animatrice e moderatrice di adunanze e conversazioni, non proteggitrice di arte ed artisti e poeti, non la s’incontra nei salotti: che anzi, i salotti propriamente detti non esistono. Si moltiplicano in questo secolo,



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Predicando alle monache di San Paolo nell’estate del 1583 Carlo Borromeo, pur non ignorando il costume del tempo che al chiostro sacrificava molte infelici, esorta tuttavia alla rassegnazione, alla sottomissione, alla supina accettazione di un destino inappellabile: «Confido, figliuole, che quando ciascuna di voi entrò in questi sacri chiostri e si dedicò al divino servizio, sia venuta con questo animo largo e risoluto; il che avete anche rinnovato col mezzo del voto della santa ubbidienza: ma affinché questo giunga a quella perfezione che avete proposto, dovete rinnovarlo molto frequentemente, spesso donarvi al Signore Dio, rassegnarvi nella volontà sua, e dei Superiori vostri...»14.
A partire dalla prima metà del XVI secolo e per tutto il Seicento la situazione dei monasteri italiani dà spesso adito a scandali, disordini, interventi di controllo e di repressione da parte della gerarchia. I monasteri sono spesso situati lontano dai centri abitati, in luoghi talvolta difficilmente raggiungibili e ciò, oltre a rendere più problematiche la vita e l’organizzazione interna, facilita fenomeni di corruzione dal momento che il controllo e qualunque contatto con il mondo esterno sono necessariamente limitati15. Alcuni monasteri sono inoltre «usati» da illustri donne dei ceti più altolocati, che ottengono dal chiostro saltuaria ospitalità infrangendo le regole più austere e talvolta aprendo il monastero al circuito del mondo esterno, attraverso le frequenti visite che ricevono. I monasteri hanno diverse giurisdizioni e spesso l’ordine e la loro organizzazione interna sono strettamente legati alle condizioni economiche esistenti. La Santa Sede, il vescovo o i diversi ordini religiosi sono le tre autorità giuridiche da cui dipendono i monasteri; nel primo e
le accademie; ma le donne ne sono escluse o di fatto non vi prendono parte» (p. 468). Qualche riferimento sull’educazione femminile è anche in C.F. Gabba, Della condizione giuridica delle, donne. Studi e confronti, Torino, Utet, 1880. Per riferimenti più specifici vanno senz’altro segnalati i trattatisti che all’epoca erano maggiormente letti e diffusi e fra essi: G.P. Giussani, L’educazione della madre di famiglia da «Istruzioni a’ padri per saper ben governare le famiglie loro», Milano, 1603; S. Antoniano, L’educazione cristiana dei figliuoli, Libri tre, Verona, 1584; fra i testi precedenti, ma significativi, ricordiamo La istituzione di una fanciulla nata nobilmente - L’institution d’une file de noble maison, di G.M. Bruto, Paris, 1555; A. Piccolomini, Della nobiltà et eccellenza delle donne, Venezia, 1549 e il Dialogo di M. Ludovico Dolce della istituzione delle donne, Venezia, 1559. Estremamente lucida e significativa la posizione del cardinale G.B. De Luca nel suo II cavaliere e la dama overo Discorsi familiari nell’ozio tusculano autunnale dell’anno 1674, Roma, 1675: se è giusto che le donne siano più colte e che possano praticare le scienze e le arti - sostiene il cardinale - è anche vero che queste la rendono «più esposta alle insidie degli uomini» (p. 534). Pur non condividendone del tutto l’impostazione generale, fra i saggi più recenti citiamo G. Bochi, a cura di, L’educazione femminile dell’Umanesimo e della Controriforma, Bologna, Malipiero, 1961 e F. Francescaglia, La pedagogia della Riforma protestante e della Controriforma, Milano, Ave, 1952.
14 La citazione è riportata in Ulta e processo, cit., p. 150 ed è tratta da S. Caroli Borromei homiliae, Milano, 1747-48, V, p. 275.
15 Per la situazione dei monasteri femminili rimandiamo fra gli altri allo studio di P. Paschini, I monasteri femminili in Italia nel ’500, in Aa. Vv., Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento, Padova, Isep, 1960, pp. 31-60.



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nel secondo caso il controllo è molto labile e spesso troppo mediato per riuscire ad incidere in alcun modo sulla vita del monastero. Le regole dei diversi ordini, per quei monasteri che vi dipendono espressamente, sono viceversa gli unici strumenti diretti ed efficaci per limitare i fenomeni di devianza e contenere gli scandali. Scrive nel luglio 1565 Alberto Lino, uno dei vicari di Carlo Borromeo, in una lettera a lui diretta: «In questa visita io trovo delle malcontente non poco, le quali dicono apertamente che sono state poste per forza ne’ monasteri et vivono inquietissime et inquietano anche le altre buone, le quali desidereriano che si trovasse qualche rimedio per quiete del monasterio»16.
Vittore Soranzo, vescovo di Bergamo, scriveva al cardinale Cervini nel settembre 1549: «Fra gli altri monasterii, che sono in questa città di Bergamo, ne sono due dell’ordine dei Servi, l’uno de homini, l’altro di donne, et l’un et l’altro della vita e della conversacione scandalosissimi. Va pochi gli anni, che non se ne oda alcuna cosa notabile. Et ultimamente da uno dei frati è stata impregnata una monaca»17. Girolamo Priuli annota il 10 febbraio 1506 nei suoi Diarii: «Nel monastero di Ognissanti fu scoperto che la badessa aveva avuto rapporti carnali con un prete vicario del cardinale Corner veneziano. In città se ne fece gran rumore perché quelle monache erano ritenute “santissime donne”»18.
La vita dei monasteri, il tentativo di imporre loro una rigida organizzazione interna e una severa applicazione delle regole della clausura e pene esemplari a qualunque trasgressione costituiscono la materia essenziale dei canoni tridentini a proposito del governo dei monasteri19. Carlo Borromeo, che ricorre fedelmente alla tutela e all’applicazione letterale delle prescrizioni tridentine, fin dal 1564 incoraggia Nicolò Ormaneto a pubblicare l’opuscolo Ordini del santo Concilio di Trento per il governo dei monasterij delle monache. Malgrado però il pedante riferimento ai canoni e la
16 Ivi, p. 39.
17 Ivi, p. 40.
18 Ivi, p. 43.
19 Una testimonianza molto documentata sui canoni tridentini in materia di governo dei monasteri femminili ci è offerta da E. Cattaneo nel suo saggio su Le monacazioni forzate fra Cinque e Seicento, in Vita e processo, cit., pp. 147-195. Per quanto riguarda la bibliografìa specifica soprattutto circa la diffusione delle prescrizioni tridentine rimandiamo fra l’altro a R. Creytens, La riforma dei monasteri femminili dopo i decreti tridentini, in Aa. Vv., Il Concilio di Trento e la riforma tridentina, atti del convegno storico internazionale Trento 2-6 settembre 1963, Roma, Herder, 1965; F. Molinari, Visite pastorali dei monasteri femminili di Piacenza nel sec. XVI, ivi, pp. 679-731. Cfr. inoltre: N. Ormaneto, Ordini del santo Concilio di Trento per il governo de monasterij de monache, Milano, 1565; P. Giussano, Instruttione a sacerdoti curati per le congregationi che devono fare de i Padri di famiglia in essecutione de' Concila provinciali e Diocesani di Milano, Milano, 1603; G.P. Barco, Specchio religioso per le monache posto in luce d'ordine dellTllmo e Rev.mo Signor Cardinale Federico Borromeo arcivescovo di Milano, Milano, 1609. La frequente mancata obbedienza ai canoni tridentini è testimoniata dalle lettere del Lino, trascritte nel volume di E. Cattaneo, Influenze Veronesi nella legislazione di S. Carlo Borromeo, in Aa. Vv., Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento, cit. :



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fiducia espressamente professata dal Borromeo nel magistero della Chiesa, l’obbedienza alle prescrizioni tridentine è spesso disattesa e il fenomeno delle monacazioni forzate e delle frequenti e conseguenti trasgressioni «secolari» alle regole e alla clausura divengono una prassi consolidata20. La trasgressione o la satira sferzante sono gli atteggiamenti con cui si esprime «dall’interno» la rivolta contro il carcere forzato dei chiostri. La prima, come nel caso della Signora di Monza, può diventare scandalo, episodio estremo, raccolto dalla morbosità popolare e dai resoconti della Curia come esempio di turpe devianza. L’unica possibilità di riscatto è in questo caso una lunga ed esemplare espiazione. La seconda, più rara, presuppone intelletto, arguzia e lucida coscienza di sé e un esempio del suo uso a fini di denuncia ci viene offerto da suor Arcangela Tarabotti, veneziana, obbligata al chiostro nel 162021.
Una ricerca storica in parte ancora da fare sarebbe la ricostruzione critica degli atteggiamenti e delle diverse forme in cui si esprime la rivolta femminile all’interno dei monasteri, attraverso memorie, lettere, testimonianze, atti processuali. Il documentato saggio del Cattaneo sulle monacazioni forzate ci offre interessanti spunti di riflessione storiografica sul fenomeno inquadrato nel suo insieme e tenendo conto delle «reazioni» della curia e dei canoni tridentini. Sarebbe tuttavia molto interessante accompagnare l’analisi storiografica con alcuni esempi di insofferenza e disadattamento al chiostro, allo scopo di rendere evidente quella sorta di riflesso diretto e storicamente significativo degli effetti reali dell’applicazione delle norme, offrendo in sostanza una prova tangibile della loro cieca rigidità.
Dal suo «Inferno» claustrale la Tarabotti intraprende una lacerante e profonda riflessione sulla condizione femminile che, dall’esperienza personale del «carcere a vita» per volontà paterna, la condurrà ad esaminare con sorprendente capacità di penetrazione l’angustia e la libertà menomata del sesso femminile. Meglio la morte che una costrizione perpetua del corpo e dell’anima fra le fredde mura del chiostro. Senza mai abbandonare la sua vena satirica, la Tarabotti si esprime con violenza e disperazione, disegnando un quadro cupo e miserevole della sorte di tante
20 Cfr. a questo proposito il già citato saggio del Cattaneo su Le monacazioni forzate fra Cinque e Seicento, in Vita e processo, cit., soprattutto pp. 162 sgg.
21 Su Arcangela Tarabotti, oltre al fondamentale lavoro di E. Zanette, Suor Arcangela monaca del Seicento veneziano, Roma-Venezia, Istituto per la collaborazione culturale, 1960, che contiene anche utilissimi riferimenti bibliografici, va segnalato lo studio di G. Conti Odorisio, Donna e società nel Seicento. Lucrezia Marinelli e Arcangela Tarabotti, Roma, Bulzoni, 1979, che, oltre a ricostruire la cultura e l’ambiente misogino del tempo, propone alcuni brani antologici delle opere della Tarabotti, fra cui l’inedito Inferno monacale, Venezia, 1663 (ma 1643). Conti Odorisio critica l’interpretazione dello Zanette che contrappone la rivolta tarabottiana alle «pie» e «mansuete» monacate per vocazione che «non hanno lasciato tracce negli archivi» (cfr. Zanette, op. cit., p. XI), e colloca la Tarabotti nel quadro storicamente corretto delle monacazioni forzate, recuperandone al tempo stesso l’originalità di pensiero.



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«vergini sacrificate» e si scaglia contro coloro che lucidamente e cinicamente scelgono per le proprie figlie un tale destino:
Ma voi, tiranni d’averno, aborti di natura, cristiani di nome e diavoli d’operazioni, pretendete d’esser partecipi della divina volontà allora che vivamente l’offendete; pretendete dico d’esser scrutatori di quei cuori che non si vedono se non dagli occhi di Dio, e disponete, con pazza pretenzione fino all’arbitrio di quelle creature, che pur’anche stanno chiuse nell’alveo materno, senza aspettare che esse vi dichiarino a qual stato le inchini il loro genio [..]. Pur saria meglio che il giorno della nascita di queste semplici, che ingannate e imprigionate fra’ claustri, fosse loro occidente22.
Nell’I»/^ monacale, scritto nella sua prigione claustrale, la Tarabotti ricostruisce fedelmente il crudele rituale che, come in un sacrificio pagano, porta la giovane vergine ad essere «introdotta nella tragedia della religione»: «Sotto il nome di sora prima che se li recida la chioma e che le si proferisca formidabile sentenza di non uscir mai più dall’eternità d’un intricato labirinto, succedono contrasti e discordie circa la dote che se le deve consignare, si discorre della spesa in travestirla di lana e effettuare i soliti riti e cerimonie necessarie»23.
Negli anni in cui, dal monastero di Sant’Anna a Venezia la Tarabotti si provava ad esprimere la propria denuncia, il sacerdote milanese Carlo Andrea Basso, studioso di teologia e di diritto canonico, dava alle stampe due interessanti pubblicazioni che dovevano in qualche modo rappresentare la risposta della Chiesa ai tanti fenomeni di corruzione e di scandalo nei chiostri, costituendo una sorta di manuale di prevenzione. Nel 1627 esce a Milano, per esser poi ristampata a Venezia, La monaca perfetta ritratta dalla Scrittura sacra, auttorità et esempi de" Santi Padri. Opera utilissima a chiunque desidera servir a Dio in perfettione. Cinque anni più tardi, sempre a Milano, lo stesso autore dà alle stampe la Compagna fedele per la figliuola mentre sta nella casa de Parenti per ritornare al Monastero per pigliare rhabito monacale. I due scritti, evidentemente pensati con l’intento di fissare una volta per tutte i criteri che dovevano ispirare la libera scelta del chiostro da parte delle fanciulle e per dar conto dei frequenti abusi di tale libertà da parte dei parenti, ci colpiscono anche per la ricca casistica dei diversi casi di monacazione forzata che il Basso analizza con dovizia di riferimenti. Quello che per la Tarabotti era l’inferno monacale viene spesso presentato dai parenti come una sorta di paradiso, una dolce dimensione mistica e appagante cui la fanciulla candidata al chiostro deve aspirare. «Ne ho udito alcuni -sottolinea il Basso riferendosi ai parenti - dar questo consiglio come degno di persona saggia: essere opportuno preparare in casa alle bambine
22 A. Tarabotti, La semplicità ingannata, Leida, 1654. Per questa citazione cfr. G. Conti Odorisio, op. cit., p. 200.
23 Queste citazioni sono tratte da L'Inferno monacale, pubblicato per la prima volta da G. Conti Odorisio, op. cit., pp. 233 sgg..



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un Purgatorio, affinché di lor spontanea volontà cerchino di uscirne»24. Ma quell’inferno simbolico che viene crudamente trasfigurato in forma letteraria dalla Tarabotti, nel corso del XVII secolo è destinato realmente a popolarsi di demoni o diavoli, incarnazione stessa dell’idea del peccato, che cosi spesso viene richiamato dai padri conciliari e dall’etica della Controriforma perché venga represso e debellato attraverso una dolorosa espiazione. Le storie di possessioni demoniache ci sono giunte dalle fonti più disparate che vanno dai documenti d’archivio alle fantasie popolari e le leggende. La recente ristampa, prima in Francia e poi in Italia, della storia dell’indemoniata di Loudun25 riapre oggi la riflessione su di un fenomeno - quello della possessione - spesso male interpretato o comunque raramente analizzato nel suo significato più propriamente storico. Fu del resto lo stesso Freud che, in uno scritto del 1922, tentò di analizzare un caso di nevrosi demoniaca nel secolo decimosettimo26 e, pur trovando una interpretazione clinica che si configurava patologicamente nell’ambito dell’isteria, Freud assumeva come movente l’ipotesi della depressione psichica immediatamente legata all’ambiente sociale e dunque suscettibile di una lettura storicamente significativa.
I demoni sono secondo Freud quei «desideri cattivi, ripudiati, che derivano da moti pulsionali che sono stati respinti e rimossi»27. Dal manoscritto proveniente dal santuario di Mariazell, nei pressi di Vienna, e nel quale è descritta la storia della possessione e della successiva liberazione del pittore bavarese Christoph Haizmann negli anni 16771678, Freud ricostruisce a ritroso, attraverso l’analisi, il travagliato percorso interiore di questo eccezionale e «potenziale» paziente. Analizzando il suo dolore per la morte del padre, avvenuta precedentemente, Freud arriva alla conclusione che il motivo del presunto patto col diavolo è uno stato di acuta depressione psichica. Il diavolo diviene il sostituto del padre nei confronti del quale il pittore nutriva sentimenti ambivalenti di amore-odio. Nel caso di Jeanne de Belcier, più nota come mère Jeanne des Anges, suora professa di Sant’Orsola a Loudun e superiora nel medesimo convento, figlia del barone di Cozes, Louis de Belcier, anche se la storia del suo patto col diavolo può essere letta in diverso modo, possiamo però tenere per fermi i presupposti freudiani dei demoni come «desideri cattivi».
Fra il 1632 e il 1637, da poco compiuti i trent’anni, la superiora di Loudun si trova coinvolta insieme con la sua comunità in un noto caso di
24 Questo brano è ripreso dal De parentum in pueros disciplina, Milano, 1649, riportato in E. Cattaneo, op. cit., p. 181.
25 Ci riferiamo al volume curato da M. Bergamo, Jeanne des Anges, Autobiografia. Il punto di vista deir indemoniata, Venezia, Marsilio, 1986.
26 Cfr. S. Freud, Una nevrosi demoniaca del secolo decimosettimo, in Opere, IX, Torino, Boringhieri, 1977, pp. 525-558.
27 Ivi, p. 525.



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possessione demoniaca. Il testo recentemente tradotto nell’edizione critica a cura di Mino Bergamo è quello tratto dal manoscritto 1197 della biblioteca comunale di Tours, intitolato Histoire de la possession de la mère Jeanne des Anges de la maison de Coze, supérieure des religieuses ursulines de Loudun e risalente ad una trascrizione del XVIII secolo. Viene in particolare riproposto il II capitolo di tale manoscritto, relativo all’autobiografia di Jeanne des Anges («Relation de ce qui c’est passé dans la possession des religieuses ursulines...»). Angelo Morino ha invece pubblicato contemporaneamente la traduzione de VAutobiographie d’une hystérique possedée, già apparsa a Parigi nel 188628 e ristampata sempre a Parigi circa un anno fa. L’importanza della riproposizione di questo episodio di possessione non sfugge ai due curatori che però rimangono entrambi nell’ambito dell’analisi del caso patologico o della storia di una liberazione soggettiva, non riuscendo sostanzialmente a collocare l’orsolina di Loudun in quel contesto storico che ne determina grandemente gli atteggiamenti psichici e che, come nel caso della monaca di Monza, è tutt’altro che uno sfondo privo di senso. Secondo il Foucault de La volontà di sapere29 il secolo XVII sarebbe stato l’inizio di un’epoca di repressione e di censura. Nuove regole di decenza e di convenienza avrebbero pertanto imposto una certa cautela anche solo nel nominare il sesso, origine del peccato. Controllare le deviazioni sessuali nella realtà avrebbe necessariamente comportato un controllo parallelo della sua «libera circolazione nel discorso». Il filtro rigoroso della parola si allenta pertanto solamente nella confessione, in cui libero spazio trovano le fantasie, i desideri e l’immaginazione. Se è vero cioè che il sesso si deve nominare con prudenza, le immagini fantastiche ad esso collegate possono e anzi debbono dispiegarsi liberamente nel segreto della confessione. Ecco dunque che l’idea stessa del peccato spesso assume i contorni morbosi e inquietanti dell’atto pensato, conservato e ingrandito nel segreto delle fantasie soggettive e trova una collocazione «esterna» sempre nel segreto del confessionale. Il peccato, e soprattutto il peccato carnale, è simbolicamente rivestito di una valenza negativa e distruttiva enorme, cui solo la misericordia divina può porre rimedio. Repressione e censura prevalgono a poco a poco su tutto, sui pensieri e le fantasie soggettive, cosi come sulle manifestazioni esterne in cui si esprime la fantasia popolare. In effetti, dalla metà del Cinquecento, e dopo le nuove
28 Cfr. Jeanne des Anges, Storia della mia possessione, Palermo, Sellerio, 1986, a cura di A. Morino. Si tratta della traduzione del testo pubblicato a Parigi per la prima volta nel 1886, con la prefazione di Charcot e con il titolo Autobiographie d’une hystérique possedée, a cura di G. Legué e G. de la Tourette. Questo stesso testo è stato ristampato a Parigi Qéróme Millon, 1985), tenendo conto delle segnalazioni e correzioni apportate dal Cavallera nel suo saggio h"autobiographie de Jeanne des Anges d’après des documents inédits, in «Recherches de Science religieuse», 18, 1928, pp. 224-235.
29 Cfr. M. Foucault, La volonté de savoir, Paris, 1976. Citiamo dalla trad. it. Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 19 sgg.



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disposizioni imposte dal Concilio di Trento, si assiste ad una brusca repressione in senso antipopolare ad esempio di tutte quelle forme spontanee di espressione e di manifestazione folkloristica che andavano dalle feste popolari, alle processioni e nelle quali la Chiesa stessa aveva giocato fin dal Medioevo un ruolo determinante30. Con il XVII secolo viene meno cioè quell’armonia incontrastata che aveva caratterizzato il ruolo della Chiesa e la sua immagine popolare e ha inizio la linea repressiva che porterà a poco a poco a quella che Camporesi ha definito la «formalizzazione astratta della vita religiosa»31. Il male, il peccato, il sesso, la perversione, che erano tutti elementi latenti, ma non «demonizzati» nell’organizzazione del mondo medievale, assumono a poco a poco i contorni inquietanti, devianti, della visione della Chiesa postridentina. In effetti, già dalla fine del Quattrocento e via via per tutto il secolo successivo si verificano fenomeni di persecuzione di forme diaboliche e superstizioni che assumono però sempre più il carattere di repressione inquisitoriale e di esplicita simbolizzazione del male nella società. Il prete e la sua specifica formazione sono gli strumenti cui la Chiesa postridentina fa riferimento per imporre capillarmente quel rigido controllo dei costumi e delle anime che è il solo baluardo contro le tentazioni del male32.
Asor Rosa ha d’altra parte sottolineato il ruolo fondamentale svolto dalla Chiesa durante la Controriforma, ponendo l’accento sulla sua iniziativa politica «in senso lato»33. Uno dei problemi che la Chiesa controriformistica si pose e che superò brillantemente fu quello di realizzare quel processo di «omogeneizzazione ideologica» che tenterà di saldare la cultura delle classi dominanti e quella delle classi subalterne. La predicazione, le cerimonie sacre, i quaresimali divengono altrettanti strumenti di propaganda ideologica, studiati per agire direttamente sul popolo ed operare quella sorta di saldatura fra cultura dominante e cultura popolare che secondo Asor Rosa arriva a prefigurare le tecniche della moderna persuasione di massa.
Il tentativo di operare una saldatura ideologica fra alto clero e basso clero, fra cultura d’élite e cultura popolare, riproponendo però la spaccatura incolmabile fra bene e male, misericordia divina e peccato, Dio e diavolo, sembrano alcuni dei tratti più significativi della Chiesa controriformistica. Il Bene e il Male divengono due entità astratte, assolutamente divaricate. Lo sventurato o la sventurata che cade nella tentazione e nel peccato, può
30 Per una approfondita analisi della cultura popolare nel XVII secolo, cfr. P. Camporesi, Cultura popolare e cultura d'élite fra Medioevo ed età moderna, in Storia d'Italia, Annali, IV, Torino, Einaudi, 1981, pp. 81-157.
31 Ivi, p. 113.
32 Cfr. in particolare A. Prosperi, Intellettuali e Chiesa all'inizio dell'età moderna, in Storia d'Italia, Annali, cit., pp. 161-252.
33 A. Asor Rosa, La cultura della Controriforma, cit., pp. 29 sgg.



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risollevarsi solo attraverso una lenta e durissima espiazione, mentre il pentimento assumerà a sua volta carattere e forma diverse a seconda della specifica situazione e comporterà un carico di pena e di dolore proporzionale all’entità della colpa e al grado di coscienza che se ne raggiunge34. Lunga e dolorosa è l’espiazione di Virginia Maria de Leyva che, macchiatasi di «plurima gravia, et enormia, et atrocissima delieta» è condannata35 alla pena e alla penitenza della carcerazione perpetua nel monastero di Santa Valeria di Milano36. Lungo e tormentoso il pentimento di Jeanne des Anges che, nella forma dell’autobiografia, e dunque della «confessione» pubblica, ci consegna la memoria del peccato, rivissuto «analiticamente» per essere esorcizzato e sconfitto. Ci sembra a questo punto opportuno ricollocare la vicenda dell’indemoniata di Loudun nell’ambiente controriformistico che ne esasperò il significato e la portata, facendo del diavolo un’entità esterna e dunque ancora più insidiosa e incontrollabile. Leggendo l’autobiografia di Jeanne des Anges è possibile ricostruire dall’/tao il percorso della tentazione-peccato-espiazione alla luce di quei motivi classici di intimidazione e tetro senso del peccato che caratterizzano la politica della Chiesa postridentina.
«La risoluzione di cambiar vita non era ancora ben radicata nella mia volontà - scrive la superiora di Loudun - mi lasciavo spesso ricadere nelle vecchie abitudini, e la natura, unitamente alla tentazione, aveva il sopravvento sulla ragione e sulla grazia»37; fra le righe dell’autobiografia riusciamo agevolmente ad intendere che i demoni tentatori altro non sono che i desideri interni di rivolta e di non sottomissione («il mio carattere naturale, con tutte le sue astuzie, e il mio amor proprio mi
34 In una lettera del 21 giugno 1627, il cardinale Federico Borromeo invia all’abate Giovanni Battista Besozzo, suo procuratore a Madrid alcuni consigli e, esprimendosi in particolare in merito ai «disordini», avvenuti in Monza 25 anni prima, definisce Virginia Maria de Leyva «uno specchio di penitenza». Cfr. E. Paccagnini, La vita di suor Virginia Maria de Leyva, cit., p. 55.
35 II 17 ottobre 1608 la sentenza è pronta; viene pertanto inviato a suor Virginia Maria l’atto di citazione a comparire davanti al vicario criminale sabato 18 ottobre, per ascoltare la sentenza. Il luogo prescelto per la lunga espiazione è il convento delle convertite di Santa Valeria dove suor Virginia rimase più di tredici anni, «murata viva» in una cella stretta e buia, con un unico piccolo foro nella parete da dove filtrava la luce e le veniva passato il cibo.
36 La sentenza, promulgata dal vicario criminale arcivescovile Mamurio Lancilotto è riprodotta in Vita e processo, cit., alle pp. 675-679. Vi si legge fra l’altro: «E per implorare al sommo Dio il perdono dei suddetti suoi peccati crimini eccessi e delitti, e per la salvezza della sua anima, detta suor Virginia Maria debba e sia tenuta a digiunare ogni sesto giorno di ciascuna settimana per cinque anni, e possibilmente a pane e acqua [...] e questo per la penitenza salutare in aggiunta alle altre suddette rispettive pena e penitenza alla carcerazione perpetua, che ingiungiamo alla medesima suor Virginaia Maria pensando, come mostriamo, alla salvezza della sua anima» (pp. 676-677). Come risulta dagli atti processuali suor Virginia Maria, una volta ascoltata la sentenza, non disse nulla contro.
37 Jeanne des Anges, Autobiograjìa, cit., p. 37.



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servivano da demonio»)38. Desideri e aspirazioni che Jeanne des Anges non riesce ad accettare dal momento che stridono in modo inequivocabile con il suo stato e con il suo ruolo di religiosa. Qualche raro barlume di coscienza appare qua e là fra le righe del suo racconto («spesso mi veniva l’idea che dovevo combattere i miei nemici nella mia propria natura, e prendermela con me stessa per tutti i miei disordini, senza cercare cause esterne»39; e ancora: «persistetti dunque, con la grazia di nostro Signore, nella risoluzione di non considerare più i demoni come autori di tutti i miei disordini, e d’incolpare me stessa al loro posto [...]. Giacché, dopo aver beneficiato dei primi moti della grazia, non tardai a rendermi conto che ero io la vera causa del mio male...»)40; ma alla fine è più forte il desiderio di conformarsi alla regola della gerarchia, rimettersi cioè al padre esorcista che avrebbe dovuto liberare la sua anima dal tormento dei demoni.
Come risulta chiaramente dagli atti processuali, le malie, gli incantamenti, l’«opera diabolica» sono gli argomenti ripetutamente usati anche da suor Virginia Maria de Leyva a sua discolpa («con tutto ch’io facessi ogni sorte e di oratione e anco discipline sino al sangue per non havere a raggionare e trattare più col detto Osio tuttavia pareva ch’io fossi portata dalli diavoli e cruciata talmente al cuore che non potessi stare di non vederlo»)41; anche se in un contesto diverso, il diavolo diviene quell’entità esterna cui è delegata l’intera responsabilità dei mancamenti e degli atti peccaminosi, attraverso un processo di «allontanamento da sé» della colpa che può rendere meno gravoso il lavoro di pentimento e di espiazione. Si può dunque notare come l’idea assoluta del Bene e del Male intese come entità separate abbia prodotto da una parte atteggiamenti di rivolta ad una situazione storicamente repressiva; dall’altra è possibile parlare anche di un opposto atteggiamento di ascetismo mistico o di rifiuto esplicito del male, inteso come tentazione o desiderio di cambiare il proprio stato. Senza qui negare la realtà delle vocazioni autentiche, non mancano gli esempi di adattamento mistico al proprio ruolo che, nel medesimo contesto storico della Controriforma, costituiscono altrettante forme di misticismo subentrate ad una situazione di monacazione forzata. Significativo il caso di suor Maria Celeste Galilei, figlia di Galileo e di Marina Gamba di Venezia, «nata di fornicatione» il 13 agosto del 160042. Negli
38 Ivi, p. 47.
39 Ivi, p. 50.
40 Ivi, p. 55.
41 Cfr. il costituto di suor Virginia Maria del sabato 22 dicembre 1607, in ]/ita e processo, cit., p. 517.
42 Per notizie dettagliate intorno alla vita di suor Maria Celeste Galilei e al suo rapporto con il padre, cfr. A. Favaro, Galileo Galilei e suor Maria Celeste, Firenze, G. Barbera, 1891; P.F. Sarti, Suor Maria Celeste, Milano, Corticelli, 1934; E. Viviani Della Robbia, La figlia di Galileo, Firenze, Sansoni, 1942. In particolare il Favaro riporta testualmente (p. 61) la fede di battesimo di Virginia, figlia primogenita di Galileo e che recita come segue: «A di 21 agosto



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anni di insegnamento presso l’Università di Padova Galileo intrattenne una relazione con la giovane veneziana Marina Gamba dalla quale ebbe due figlie, Virginia, che diventerà suor Maria Celeste e Livia, che prenderà il velo dopo la sorella col nome di suor Arcangela. Nel suo studio dedicato a Galileo e a suor Maria Celeste, il Favaro ci informa che la famiglia illegittima dello scienziato si accrebbe nel 1606 di un altro figlio, anch’egli nato dalla relazione con la Gamba, cui fu imposto il nome di Vincenzio Andrea. Galileo, la cui casa padovana era meta continua di studiosi e allievi di varie nazionalità, non ritenne di poter condividere la familiarità domestica con il suo impegno di studioso: Marina Gamba e i figli non vivevano sotto il suo stesso tetto, ma poco lontano e ricevevano naturalmente sussidi e protezione da parte dello scienziato. Già nel novembre del 1611, come testimonia il carteggio fra Galileo e il cardinale del Monte43, Galileo aveva maturato la decisione di monacare entrambe le figlie, dal momento che la strada del matrimonio avrebbe comportato innumerevoli problemi, soprattutto di carattere economico. La via del chiostro, data anche la condizione di illegittime di entrambe le fanciulle, era senza dubbio la più dignitosa ed in certo senso la più discreta. Nel silenzio del chiostro Galileo avrebbe potuto visitare le figlie a suo piacimento e ricevere a sua volta conforti e preghiere.
Il convento di San Matteo d’Arcetri, nel suburbio meridionale di Firenze, fu il luogo prescelto44. La storia dell’esemplare vita monacale di suor Maria Celeste Galilei è ben documentata dal prezioso carteggio con il padre che segna con cadenze regolari il suo rapporto di passiva venerazione per Galileo e testimonia inoltre della sua vita, spesso esaltata nel corso dell’Ottocento come esempio luminoso di fede e ragione45. Suor Maria Celeste dedicherà la sua vita ad assistere spiritualmente il padre che
1600. Virginia figliuola di Marina da Venetia nata di fornicatione il 13 detto, fu battezzata...» (cfr. Archivi della curia vescovile di Padova, Dipartimento delle nascite, delle morti e dei matrimoni; volume ms. contrassegnato sul dorso: Battesimi 1597-1605).
43 II Favaro riporta integralmente la risposta del cardinale del Monte a Galileo riguardo al desiderio di questi di monacare entrambe le figlie «prima ancora che la conoscenza del mondo - scrive Favaro - potesse ingenerare in loro il desiderio di non uscirne» (A. Favaro, op. cit., p. 98). Il cardinale del Monte sottolinea nella sua risposta la «difficoltà insuperabile» di monacare le fanciulle cosi presto «perché non si otterrebbe mai di dare l’abito a fanciulla alcuna innanzi l’età legittima» (cfr. A. Favaro, op. cit., p. 99). Sullo stesso punto cfr. P.F. Sarri, op. cit., pp. 36-37.
44 II Favaro ricostruisce la storia del convento di Arcetri e ne fornisce una accurata descrizione. Cfr. A. Favaro, op. cit., pp. 100 sgg.
45 In un capitolo del suo studio dedicato a suor Maria Celeste e intitolato «La donna forte» il Sarri ne disegna un ritratto di fanciulla angelica e compassionevole, la cui forza, naturalmente, è tutta nel darsi alla vita del monastero e all’assistenza spirituale del padre e del prossimo. «Ma senza dubbio - scrive il Sarri a proposito della vita di suor Maria Celeste nel monastero - ciò che doveva rapir d’incanto quelle monache dinanzi alla dolce figura di Suor Celeste era la bontà del suo animo, d’una modestia disinvolta, e compassionevole al sommo» (P.F. Sarri, op. cit., p. 65).



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diviene l’unico e grandissimo suo riferimento affettivo. La salute cagionevole dello scienziato, le difficoltà di rapporto con il resto della famiglia e soprattutto la persecuzione di cui Galileo fu vittima, sono per suor Maria Celeste motivi di continua apprensione e le lettere al padre saranno gli strumenti per inviare i suoi pietosi conforti e le amorevoli attenzioni.
Se la Tirannia paterna46 di suor Arcangela Tarabotti è il modo in cui si esprime la vendetta e il rancore contro un padre tiranno, queste lettere di suor Maria Celeste sono una singolare testimonianza di un amore che mal si presta ad essere definito filiale, traboccante come ci appare di un sentimento di rinuncia e di sacrificio quasi materni. La propria condizione monacale non viene mai messa in discussione, dal momento che suor Maria Celeste non conosce altro stato che il suo: «Ed invero che io non m’avveggo d’esser monaca - confessa al padre in una lettera dell’estate del 1623 - se non quando sento che V.S. è ammalata, poiché allora vorrei poterla venir a visitare e governare con tutta quella diligenza che mi fosse possibile»47. Un inspiegabile silenzio ci impedisce invece di conoscere l’esperienza claustrale della sorella, suor Arcangela, della quale altro non rimane che i richiami nelle lettere di suor Maria Celeste.
L’insieme delle lettere pervenuteci contengono continui riferimenti ai molti piccoli problemi di vita claustrale, richieste di aiuto in denaro per rendere meno gravose le precarie condizioni economiche del monastero, offerte di assistenza al padre e ai parenti, il desiderio sempre presente di vedere il padre ogni volta che i suoi impegni gli consentano una visita, raccomandazioni ansiose per la salute e l’invio di dolci e «amorevolezze». Mai nessun accenno, come si è visto, a sentimenti di rivolta o di insoddisfazione al proprio stato, ma piuttosto un atteggiamento di assoluta inconsapevolezza e indifferenza per la propria condizione. In una lettera datata 22 novembre 1629, alla consueta trepidazione per le condizioni di salute del padre, si aggiunge una nuova inquietudine per il tentato suicidio di una monaca impazzita. L’episodio, narrato con precisione di particolari, si limita ad una scarna registrazione dei fatti, cui non si accompagna la benché minima riflessione sulle cause della presunta pazzia della monaca48.
Ci sembra interessante riprendere a questo punto una dibattuta tesi di Ida Magli che oltre dieci anni fa espresse una sua originale ipotesi sull’ascetismo femminile, inteso in chiave antropologica, e in generale sul rapporto
46 Cfr. A. Tarabotti, La semplicità ingannata o Tirannia patema, cit. È l’opera più significativa della Tarabotti, il cui titolo primitivo, come informa E. Zanette {op. cit., p. 105) era la Tirannia patema. Ampi stralci dell’opera sono stati pubblicati da G. Conti Odorisio, op. cit., pp. 199-214.
47 Cfr. Lettere di suor Maria Celeste a Galileo Galilei, IV, Di S. Matteo, li 17 d’agosto, 1623, riportata in A. Favaro, op. cit., p. 241.
48 Cfr. Lettere di suor Maria Celeste a Galileo Galilei, XL, Di S. Matteo, li 22 di novembre, 1629, riportata in A. Favaro, op. cit., pp. 285-289.



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della donna col cosmo, con Dio, con il trascendente49. Le tesi della Magli, pure discutibili, danno luogo tuttavia ad importanti categorie interpretative di carattere storico-antropologico che possono offrire più di uno spunto teorico nell’analisi del monacheSimo fra Cinque e Seicento. La Magli comincia col mettere l’accento sull’«immediata» comprensione della cultura che caratterizza la donna rispetto all’uomo. Nei confronti della realtà storica che la circonda, la donna avrebbe cioè un duplice patrimonio di percezione e di coscienza, quello della concretezza reale dei fenomeni, con cui da sempre si è dovuta misurare, e quello del «significato» o del valore culturale che i modelli maschili hanno ad essa storicamente assegnato. Questo guardare alla realtà sulla base, da una parte, di una consapevolezza oggettiva dei fenomeni e, dall’altra, di un distacco anch’esso oggettivo, risultato di una mancata partecipazione storica all’interpretazione di essi, costituirebbe la doppiezza o ambiguità della donna che, lungi dal rappresentare un carattere di debolezza psicologica, sarebbe, secondo la Magli, all’origine di quella «partecipazione totale di significati culturali» che consente alla donna un rapporto privilegiato nella comprensione del mondo e del trascendente.
Sulla base di questa teoria la Magli si spinge fino alla riflessione sul rapporto della donna con il cristianesimo e in generale con la vita monastica. E qui ci sembra che la personalissima tesi della Magli, pur basandosi su di un presupposto originale - il rapporto privilegiato col trascendente - non tenga conto sufficientemente della realtà storica che in gran parte ha condizionato e in qualche caso alterato il senso della vocazione religiosa. La scelta della verginità e la vita monastica vengono infatti interpretate come rifiuto del matrimonio e soprattutto del ruolo sociale che implicitamente esso prevede per la donna. La professione monastica diverrebbe storicamente un modo per liberare la donna da un ruolo sociale subalterno e per liberare nello stesso tempo le sue potenzialità espressive; rappresenterebbe insomma la possibilità storica di sottrarsi al proprio destino di «“funzione” per l’uomo e per la cultura»50.
La tesi del monacheSimo come sublimazione spirituale di una potenziale liberazione costituisce senza dubbio un interessante contributo per un’analisi non superficiale del fenomeno del monacheSimo femminile. Ma, riguardo al problema delle monacazioni che storicamente ci sembra più significativo, è evidente che il rapporto privilegiato col trascendente viene
49 Cfr. I. Magli, La donna, un problema aperto. Guida alla ricerca antropologica, Firenze, Vallecchi, 1974, soprattutto pp. 21 sgg. e 51 sgg. Queste stesse tesi sono state riprese in Id., La femmina delfuomo, Roma-Bari, Laterza, 1982.
50 «Perfino alcuni aspetti più tipici dellWw/, scrive la Magli, l’astinenza dal cibo e dal sesso, concepiti nel monacheSimo come tecniche di superamento della cultura e della caduca storicità, diventano per la donna strade positive di ritrovamento della sua realtà individuata ed autosufficiente, e come tali pregne di potenza storifìcante» (I. Magli, La donna, un problema aperto, cit., p. 93).



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traumaticamente soppiantato da cause sociali esterne che, nei casi più eclatanti di monacazione forzata hanno semmai il potere di spegnere del tutto una potenziale aspirazione all’ascesi o anche una solo accennata sensibilità mistica. In questi casi, le presunte potenzialità liberatrici connesse allo stato monacale divengono semmai motivi di risentimento e di rancore, caricandosi talvolta - ed è il caso della Signora di Monza - di desideri trasgressivi in cui il sentimento di rivolta si accompagna alla volontà, troppo a lungo repressa, di vivere una vita «normale».
Nel contesto della Controriforma e relativamente ai casi di monacazione forzata cui si è precedentemente accennato, rivolta e misticismo51 rappresentano in molti casi le due facce di un’unica realtà storica. In tal senso, la trasgressione e il peccato culminanti nel pentimento da un lato, e il misticismo inteso come estrema sublimazione di un destino cui fatalmente ci si deve adeguare dall’altro, rappresentano due degli atteggiamenti, entrambi ideologicamente incanalati nella logica e nei dettami controriformistici, cui è necessario riferirsi per un’analisi storica del monacheSimo femminile secentesco. Solo molto raramente, si può invece parlare di percorsi opposti, in cui la vocazione e il velo possano realisticamente rappresentare autentici modelli di liberazione.
51 Abbiamo qui volutamente trascurato il fenomeno del misticismo considerato nell’ottica delle monacazioni per vocazione che ha suscitato un ampio dibattito e al quale si riferisce una specifica bibliografia. Anche se toccano marginalmente il nostro punto di vista vanno comunque ricordati alcuni importanti lavori che si muovono in tale ambito di ricerca: A.M. di Nola, MonacheSimo, in Enciclopedia delle Religioni, IV, Firenze, Vallecchi, 1972, c. 580; I. Magli, Gli uomini della penitenza. Lineamenti antropologici del medioevo italiano, Milano, Garzanti, 1977; R. Rossi, Teresa d’Avita. Biografìa di una scrittrice, Roma, Editori Riuniti, 1984; I. Magli, Santa Teresa di Lisieux, Milano, Rizzoli, 1984.