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Title
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Poveri e mendicanti nell'Europa moderna
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Creator
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Pietro Messina
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Date Issued
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1988-01-01
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Is Part Of
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Studi Storici
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volume
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29
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issue
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1
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page start
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231
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page end
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243
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Publisher
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Fondazione Istituto Gramsci
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
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Rights
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Studi Storici © 1988 Fondazione Istituto Gramsci
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Source
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https://web.archive.org/web/20230921161232/https://www.jstor.org/stable/20565814?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxNiwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjM3NX19&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A086387dfef1be2d5f9a652a1af96a8f7
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Subject
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surveillance
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discipline
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confinement
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rationality
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moral systems
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normalization
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extracted text
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POVERI E MENDICANTI NELL’EUROPA MODERNA
Pietro Messina
In questi ultimi dieci anni in Italia si è molto parlato e scritto a proposito di «emarginazione» e di figure sociali «marginali». A livello di cultura media la nozione di «marginalità sociale» si è ampiamente diffusa, rimanendo peraltro per molti versi alquanto vaga e indeterminata: una specie di scatola vuota nella quale, a secondo dei casi, si sono voluti includere i più svariati soggetti e categorie. Indubbiamente però, pur in questa vaghezza di concetti e con tale notevole dose di indeterminatezza, l’interesse per un discorso sugli «emarginati» si è largamente affermato1. Anche per questo motivo non si può non plaudire alla pubblicazione in Italia dei libri di Bronislaw Geremek e Roger Chartier, Mendicanti e miserabili nell’Europa moderna e Figure della furfanteria, entrambi apparsi nella collana «Bibliotheca Biographica» dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana2. Infatti se il valore di questi studi potrà essere apprezzato pienamente e in tutta la loro pregnanza scientifica soprattutto dai lettori più specializzati, tuttavia ogni serio contributo all’approfondimento scientifico dei temi della marginalità sociale deve essere considerato estremamente positivo e utilissimo in un ambito culturale molto più vasto, e i cui confini si potrebbero definire all’incirca come quelli della «cultura media». Solo da tali approcci possiamo sperare, forse, di vedere un poco dissipata la nebulosità, tanto riccamente permeata di superficialità e di strumentalizzazioni, che molto spesso si è ad essi accompagnata nella coscienza pubblica.
Gli studi di Geremek e Chartier non mirano affatto a fornire una migliore definizione teorica della marginalità, né tendono a rintracciare nel passato questo o quel modello culturale di emarginazione. La loro attenzione si
1 Si noti, ad esempio, che il vocabolo emarginato, nel significato di «collocato al margine della vita sociale», solo da pochi anni ha fatto la sua comparsa nei nostri dizionari. Tale accezione non è registrata ne II grande dizionario della lingua italiana, a cura di S. Battaglia, IV, Torino, 1968, né nel Novissimo dizionario di F. Palazzi, Milano, 1965; compare invece ne II nuovo Zingarelli, Bologna, 1984.
2 B. Geremek, Mendicanti e miserabili nell’Europa moderna (1350-1600), trad. di P. Procaccioli, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1985; R. Chartier, Figure della furfanteria. Maginalità e
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rivolge innanzittutto a un ben preciso settore di emarginati: ai poveri, ai mendicanti e all’indefinito universo di ladri, truffatori, vagabondi che intorno ad essi ruotava. Il pauperismo, nell’epoca da loro presa in considerazione — il lasso di tempo tra la fine del Medioevo e la prima età moderna - raggiunse, come è noto, dimensioni eccezionali, coinvolgendo strati molto vasti di popolazione e costringendo tutto il corpo sociale a fare i conti con questa nuova realtà. Il fenomeno infatti fini per non poter essere più inquadrato, né tantomeno risolto, nell’ambito dei vecchi meccanismi della coesione e dell’integrazione collettiva. Tali meccanismi subirono cambiamenti profondi: alcuni decaddero, altri si trasformarono, nuovi ne sorsero; si elaborarono nuove strategie di controllo sociale e si vennero affinando quelle della repressione. Maturarono poco per volta impostazioni ideologiche più adatte ad affrontare la nuova realtà e che si concretizzarono in una trasformazione delle politiche sociali, delle scelte amministrative e giuridiche, e insieme dei modi di pensare e di «porsi» nei confronti dei poveri3.
Nel tema della marginalità, dunque, si intrecciano, da un lato, i fenomeni che portarono al formarsi e all’emergere in modo drammatico di una nuova realtà sociale, dall’altro, quelli che caratterizzarono le susseguenti reazioni e gli assestamenti della società; a ben guardare, anzi, è lecito parlare di una «nuova realtà sociale» che identifichi il mondo degli emarginati proprio considerando insieme nel loro intreccio e comune risultanza le motivazioni economiche, quelle culturali e quelle psicologiche. Nessuna di esse può essere sottovalutata o, peggio, accantonata, e al tempo stesso non può essere trascurata, a favore dei singoli approfondimenti specifici, una lettura omogenea e quanto più possibile comprensiva di ogni risvolto e indirizzo proponibili a una ricerca.
Per comprendere un fenomeno la cui natura intima è non solo economica, né solo politica, né solo psicologica, ma che è intessuto dalla confluenza e dall’intreccio di fattori appartenenti a tutte queste diverse realtà, e spesso a
cultura popolare In Francia tra Cinque e Seicento, prefazione di C. Ginzburg, trad. di P. Procaccioli, ivi, 1984.
3 Voler considerare in modo globale il pauperismo implica affrontare le tematiche più diverse, da quelle economiche e demografiche a quelle storico-sociali. Il problema dello studio della «cultura della povertà» rimanda poi inevitabilmente allo studio della cultura folklorica. Non è questa la sede, dunque, per fornire una bibliografìa esaustiva su tutti gli aspetti della questione: da quelli economici a quelli antropologici. Sul pauperismo nell’età moderna, per gli studi italiani più recenti e per le indicazioni bibliografiche, si rimanda a: M. Rosa, Nota critica e Orientamenti bibliografici, in J. P. Gutton, La società e ipoveri, Milano, 1977, pp. 99-125; M. Rosa, A. Monticene, V.E. Giuntella, P. Stella, Poveri ed emarginati un problema religioso, in «Ricerche per la storia religiosa di roma», 3, 1979, pp. 7-41; L. Fiorani, Religione e povertà. Il dibattito sulpauperismo a Roma tra Cinque e Seicento, ivi, pp. 43-131 ; M. Fatica, La reclusione dei poveri a Roma durante ilpontificato di Innocenzo XII (1692-1700), ivi, pp. 133-178; E. Bressan, L’«Hospitale» e i Poveri. La storiografia suirassistenza: ritalia e il «caso lombardo», Milano, 1981; Timore e carità. Ipoveri nell’Italia moderna, atti del convegno Pauperismo e assistenza negli antichi stati italiani (Cremona 28-30 marzo 1980), a cura di G. Politi, M. Rosa, F. Della Peruta, «Annali della Biblioteca statale e
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più di una nello stesso tempo, si può essere infatti portati a privilegiare una sola delle sue componenti, riducendo ad essa tutta la questione. Ecco allora sorgere la tentazione di una storia meramente criminologica, che identifichi la marginalità con la delinquenza, e che si limiti allo studio della diffusione e dell’evoluzione di un certo crimine o di un certo tipo di delitti. Oppure si può studiare, magari anche con accuratissimo uso di apparati statistici, il pauperismo o la prostituzione in questa o quella città o diocesi o regione, limitandosi a un numero più o meno esteso di anni, finendo col ricadere nella vecchia spigolatura erudita.
Ancora - ed è un’ipotesi questa dotata di un fascino notevole - si può decidere di esaurire l’argomento limitandolo allo studio delle «rappresentazioni collettive» dell’emarginazione, che nel corpo sociale assumono via via sempre maggior vigore e forza autonoma, e che finiscono per identificare, nell’immaginario collettivo e nelle pratiche sociali, la realtà stessa da essi rispecchiata. A sostegno di tale operazione si può argomentare che, per quanto concerne la grande massa della popolazione marginale, i documenti e le fonti sono praticamente sempre di natura indiretta; frutto, più o meno mediato intellettualmente, di esponenti delle élites politicosociali o, comunque, delle classi da esse culturalmente e psicologicamente dipendenti. Piuttosto che di testimonianze di un autentico accaduto sociale si tratterebbe dunque di «rappresentazioni». D’altra parte, uno degli aspetti più interessanti e più proficuamente ricchi di implicazioni e di indicazioni, anche per la nostra coscienza contemporanea, è proprio lo studio dell’impatto della nuova realtà delle masse pauperizzate e disoccupate sull’insieme dei meccanismi della coesione e del consenso sociale, della reazione che innescò a livello psicologico, delle immagini e degli stereotipi che contribuì a creare. Sarebbe pertanto possibile dedicare la propria attenzione esclusivamente a quei settori dell’immaginario collettivo che, reagendo profondamente alla presenza di un qualcosa che fu subito figurato e giudicato come estraneo e diverso, elaborarono miti, simboli e
libreria civica di Cremona», XXVII-XXX, 1976-1979, Cremona, 1982; G. Assereto, Pauperismo e assistenti. Messa a punto di studi recenti, in «Archivio storico italiano», CXLI, 1983, pp. 253-271; M.C. Giuntella, L. Proietti, M. Tosti, Modelli di povero e tipologia di assistenza nell’età moderna in Italia centrale, in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», XXXVIII, 28, luglio-dicembre 1984, pp. 486-498. Per quanto riguarda lo studio della strutturazione della «cultura della povertà» e i suoi rapporti con quella delle classi superiori, spunti interessantissimi, e che ritroviamo nei due libri qui esaminati, in P. Camporesi, Cultura popolare e cultura d’élite fra Medioevo ed età moderna, in Storia d’Italia, Annali, 4, Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Torino, 1981, pp. 81-157; Id., Il paese della fame, Bologna 1978; Id., Il pane selvaggio, Bologna, 1980. Per le traduzioni, oltre al citato libro di Gutton: N. Zemon Davis, Le culture del popolo. Sapere, rituali e resistenze nella Francia del Cinquecento, trad. it. di S. Lombardini, Torino, 1980 e P. Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna, introduzione di C. Ginzurg, trad it. di F. Canobbio-Codelli, Milano, 1980; in modo particolare vorremmo segnalare la traduzione, presso l’editore Laterza, di un altro colume di B. Geremek, in cui sono ripresi e approfonditi molti temi del libro qui preso in esame: La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, trad. it. di A. Marx Vannini con la collaborazione di M. Frau e B. Verdiani, Roma-Bari, 1986.
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figure tutti tesi essenzialmente alla salvaguardia della stabilità sociale. È qui, si potrebbe teorizzare, il nocciolo dell’emarginazione, poiché il nucleo essenziale della marginalità, ieri come oggi, non si trova nell’attiva e complessa realtà sociale di chi è emarginato, nelle sue ragioni strutturali e nei suoi processi dialettici, ma va cercato fondamentalmente nella coscienza di chi vuole emarginare, nei processi mentali di chi fa di tutto per allontanare, e possibilmente annullare, ogni corpo negativamente identificato come estraneo alla propria realtà, scegliendo questa drastica via come unica difesa contro le proprie paure e fobie; una fobia fissata, in questo caso, dalla polimorfa immagine del mendicante-ladro-vagabondo-ciarlatano, dalla lingua segreta e iniziatica dei criminali. Questa potrebbe essere dunque l’unica realtà dell’emarginazione giudicata degna di studio e di interesse, al di là degli sterili dati; anche perché da essa si potrebbe pensare di prendere le mosse per un più lungo excursus storico nell’immaginario colletivo europeo, volto a rintracciare le successive «figure» catalizzatrici di paura sociale e, di conseguenza, di eventuali volontà emarginatrici. Si potrebbe cioè pensare a una vera e propria storia della marginalità come storia della volontà di emarginare, oppure a una storia delle più varie tensioni sociali, economiche, religiose, da leggere attraverso le paure e le «figure» che le fissarono e le espressero.
È ben difficile tuttavia pensare alla possibilità stessa di una storia meramente psicologica, basata sul solo piano delle «rappresentazioni». Quanto allo studio delle complessive conseguenze del pauperismo nella prassi politica, sociale, culturale esse restano in gran parte incomprensibili se non si coglie, ad esempio, la componente «razionalizzatrice» che le ispirò, e che stabilisce e rivela un legame profondo tra i loro risvolti più genuinamente psicologici e le questioni più propriamente sociopolitiche ad esse connesse; e gli uni e le altre ci riconducono a considerare la natura strutturale del problema. In quanto a quella sorta di neopirronismo, cui accennavamo prima, circa la fruibilità ai fini della ricerca dei documenti sugli emarginati, scrive di essa C.Ginzburg nella prefazione al libro di Chartier: «Si tratta di una posizione radicalmente idealistica, che spinta all’estremo precluderebbe l’integrazione di serie documentarie diverse e quindi la possibilità stessa della ricostruzione storica» (p. 8).
Non è possibile, in definitiva, sfuggire alle complesse radici e ai nodi complicati che si incontrano se si vuole studiare il fenomeno storico dell’emarginazione. Di fronte a tale complessità, diversa è la posizione dei due storici, ma nessuno di loro cerca di nasconderla, né tantomeno di eluderla. Geremek affronta il tema della marginalità socio-economica cosi come venne a delinearsi in Europa circa alla metà del XIV secolo e come andò poi evolvendosi durante i due secoli successivi. Rifiutando ogni tipo di modello teorico precostituito della marginalità (culturale, psicologico, sociologico), lo storico dichiara che il suo scopo è trattare «uno dei fronti principali della marginalità e dell’esclusione, quello legato alle trasforma-
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zioni delle strutture sociali» (p. 5), e accetta cosi il confronto con la totalità del problema. Si è accennato alle diffoltà connesse al proposito di trattare in modo omogeneo un fenomeno di per se stesso pluricomposto, e dobbiamo rilevare come Geremek sia riuscito a vincere pienamente la sfida proposta da questo impegno. Lo fa con un libro agile, essenziale nelle argomentazioni e ricco nelle descrizioni, privo di appesantimenti di natura teorica o metodologica, ma che offre pagine sempre estremamente pregnanti. L’analisi dei materiali d’archivio, di opere letterarie, di biografie criminali, di atteggiamenti mentali verso i marginali, di atti di politica urbana, confluiscono fluidamente in un quadro di storia sociale della marginalità robustissimo e ricco di spunti. Al suo interno trovano il loro giusto spazio e si integrano reciprocamente le spiegazioni sulla natura economico strutturale delle radici di questo tipo di emarginazione, l’analisi delle implicazioni ideologiche e sociali di tutta una serie di reazioni all’awenuto squilibrio dei meccanismi della struttura produttiva feudale, la descrizione delle scelte politico amministrative tentate o adottate per fronteggiare il pauperismo, e infine lo studio della nascita di una nuova mentalità nei confronti dei poveri.
Il successo di tale operazione è strettamente connesso a quelli che appaiono i pressupposti più saldi della storia sociale propostaci da Geremek. Vale a dire al rifiuto di identificare l’unitarietà del discorso storico con una mera ricucitura di settori di ricerca che si svolgono, per il resto, ognuno per conto proprio, di analisi iperspecialistiche e separate, imbastite insieme solo successivamente con un’operazione debole e arbitraria; e con l’assunzione, di contro, di una visione dialettica della realtà, che permette di considerare in modo unitario la realtà sociale, pur senza trascurare i suoi vari piani, articolazioni e fratture, e anzi esaltandone tutta la ricchezza di contenuto e di potenzialità trasformatrici; non lasciando spazio insomma a nessuna visione del reale articolata in compartimenti stagni o in livelli giustapposti o contigui, ma, comunque, separati.
Geremek si accosta allo studio dei gruppi marginali attraverso la storia della criminalità. Nel suo svolgersi ci mostra come si possono individure delle zone più dense, nello spazio e nel tempo, in cui gli incrementi non sono solo quantitativi ma comportano anche una diversa qualità della devianza sociale. E in questi casi che, intorno alla recrudescenza del crimine va identificata una più vasta area di marginalità. Geremek ci introduce in un vasto mondo di confine tra la società legale e quella illegale, in una composita umanità crepuscolare; di questi uomini si possono definire i connotati sociali: appartengono in genere agli strati bassi della popolazione; i luoghi tipici: le taverne, i bordelli, il carcere; le esperienze sociali: spesso i criminali hanno avuto esperienze di lavoro, per lo poi come contadini, ma anche garzoni, salariati, assistenti di bottega, molto spesso più è l’esperienza della guerra a sancirne il passaggio
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all’illegalità. Si tratta di uomini, situazioni, esperienze che, è bene sottolinearlo, si devono definire «di confine»: per la indefinitezza dei loro legami con la società, la labilità della loro integrazione, e anche perchè spesso chi contravveniva alla legge pure più volte, se sfuggiva alla repressione poteva poi tornare a reintegrarsi completamente in una vita normale.
Personaggio esemplare di questo mondo di confine era il vagabondo. L’analisi delle ragioni e delle motivazioni della lotta al vagabondaggio è uno dei punti focali per la comprensione del fenomeno dell’emarginazione. Le figure del viandante, del pellegrino, del viaggiatore, per secoli erano state accettate e pienamente riconosciute dalla società4. Eppure a un certo punto non si risparmiarono sforzi per combattere senza quartiere il vagabondaggio da parte di coloro che nei vincoli di solidarietà e dipendenza sociale si sentivano inseriti e protetti, contro chi, ponendosi al di fuori di essi, di fatto li negava e li insidiava. I vagabondi, a differenza dei pellegrini o dei mercanti, non offrivano alcuna garanzia di «addomesticamento» e regolarità sociale, sfuggivano ai legami col signore, col padrone o col vicinato5. Nella seconda metà del XIV secolo si assiste a un intensificarsi della lotta contro di essi, contemporaneamente all’affer-marsi della tendenza che identifica quali componenti fondamentali del vagabondaggio l’oziosità, la poltroneria, vale a dire il non lavorare pur potendolo fare. Geremek spiega che le radici di questo processo sono da ricercare in buona parte nelle crisi socio-economiche susseguite alla peste nera e che produssero una forte contrazione dei salari e disoccupazione. Spesso i lavoratori non avevano nessuna intenzione di lavorare per salari che riteneva troppo bassi e assolutamente inadeguati alle loro esigenze, molti di loro si trovarono tagliati fuori dai meccanismi produttivi. La legislazione antivagabondaggio ebbe dunque un duplice scopo: «uno ideologico, che ricorda come il lavoro manuale è un obbligo specifico della condizione delle classi popolari; l’altro economico, teso a far pressione sul mercato del lavoro e sul salario coll’utilizzazione di un’armata di manodopera di riserva» (p. 58).
Tali motivazioni si andarono poi svolgendo nel corso dei secoli successivi, arricchendo la figura del vagabondo di altre caratteristiche. Innanzitutto venne assorbita da quella del mendicante e, più in generale, da quella del povero. Alla caratteristica di «non lavoratore» si sovrappose quella di «non possessore», con pari carico di infamia. A ben vedere essa voleva individuare un potenziale di trasgressione non certo minore del precedente, mediante una definizione negativa nei confronti di uno dei più protetti,
4 Ricordiamo le pagine di M. Bloch sull’importanza degli spostamenti e dei viaggi nel Medioevo, fin dai primi tempi del feudalesimo (La società feudale, Torino, 1977, pp. 78-82).
5 Sulle potenzialità di eversione sociale e politica degli «uomini senza padrone» cfr. C. Hill, Il mondo alla rovescia, Torino, 1981, pp. 30-46.
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potenti e salvaguardati fattori della coesione e della subordinazione sociale: la proprietà. Parimenti, durante il Quattro e il Cinquecento, il vagabondo da potenziale trasgressore diviene sempre più chiaramente identificato col delinquente. Se questo processo era iniziato con la criminalizzazione del rifiuto del lavoro, la componente ideologica che vi era sottintesa continuò ad essere operante, venendo a costituire un vero e proprio tratto di unione tra le prime pratiche repressive contro i demeurant partout e i grandi interventi repressivo-assistenziali dei secoli successivi. A poco a poco, infatti, il lavoro forzato si impose come rimedio principe contro la piaga del vagabondaggio e divenne la via maestra seguita dai governi che perfezionarono e razionalizzarono tale pratica nel corso del tempo. Solo lavorando gli «inutili al mondo» possono redimersi: «Il valore del lavoro - come ha scritto J.-Cl. Schmitt - diviene il criterio essenziale dell’“inutilità” sociale in un momento in cui le workhouses sono il corrispettivo delle prime manifatture»6.
Accumunati alla sorte dei vagabondi troviamo dunque i poveri, e in effetti, fu il problema generale della povertà, ancor più di quelli specifici della mendicità o del vagabondaggio, che si pose in modo drammatico alla società europea tra la fine del Medioevo e l’età moderna. Per secoli, conforme all’ideologia cristiana, i poveri avevano avuto una loro funzionalità nella distribuzione dei ruoli sociali, nell’ambito di una società «sensibile alla salvezza e all’atto del donare» (p. 117). A questa loro «funzionalità ideologica» corrispondeva una sostanziale «afunzionalità economica»; la crisi dei rapporti sociali coi poveri iniziò quando le due cose entrarono in contraddizione insanabile. Se ci fu cambiamento nelle attitudini mentali e comportamentali nei confronti della povertà, ciò fu dovuto - come dimostra Geremek - essenzialmente al fondamentale mutamento quantitativo del fenomeno del pauperismo.
I motivi vanno ricercati nei càmbiamenti che, nel corso dei secoli XIV e XV, iniziarono a verificarsi nella struttura della produzione feudale. Grandi masse umane vennero espulse dalle campagne, la crisi dei vecchi rapporti produttivi - accompagnata da un periodo dì crescita demografica - riversò nelle città una quantità di forza-lavoro privata dei vecchi mezzi di sussistenza. Ciò avvenne in misura traumatica per le strutture del lavoro cittadino, ancora improntate all’organizzazione corporativa, e assolutamente incapaci di affrontare subito in modo adeguato la nuova situazione. Queste folle impoverite e sbandate, anche se a lungo andare avrebbero contribuito allo sviluppo economico fornendo manodopera a buon mercato, intanto procurarono disorientamento e disagio alla vecchia mentalità corporativa; crearono problemi di ordine pubblico alle autorità cittadine, che a lungo si interrogarono circa le risoluzioni da prendere.
6 J.-Cl. Schmitt, La storia dei marginati, in La nuova storia, a cura di J. Le Goff, Milano, 1980, p. 287.
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Sempre piu numerose e invadenti, mandarono in crisi il vecchio modello del povero — rappresentante e messagero di Dio, uno dei possibili veicoli della salvezza. I benestanti, i ricchi, i borghesi, ebbero sempre maggiori difficoltà a distinguere nel povero l’immagine di Cristo; vi scorgevano con assai più facilità quella di un disturbatore della quiete pubblica, che magari approfitta delle funzioni sacre per rubare o estorcere denaro, di un truffatore, un imbroglione, scaltrito conoscitore di trucchi e sotterfugi. Le crisi economiche congiunturali, col loro seguito di carestie ed epidemie, resero più acuto il problema e funzionarono da pungolo per le autorità. La soluzione sarà trovata nell’organizzazione dell’internamento dei mendicanti e del lavoro forzato, nella razionalizzazione dell’istituto della carità; «nel nome dell’utilità pubblica e della difesa dell’ordine» il povero, in una società sempre più complessa e articolata, è inesorabilmente spinto ai margini.
Col formarsi di queste ampie zone di marginalità sociale si afferma anche la curiosità da parte delle classi colte e possidenti nei suoi confronti. C’è volontà di capire, di conoscere questo aree oscure; c’è la paura verso di esse e, conseguentemente, il desiderio di comprenderle, per poterle inquadrare, spiegare, e quindi dominare. Geremek nota come le prime descrizioni del mondo marginale, il primo sforzo ordinatore, è strettamente connesso alla prassi repressiva e poliziesca, trovandosi negli scritti giuridici e legislativi che mirano a combattere il fenomeno. È in un secondo momento che la curiosità per i marginali coinvolge strati più ampi della società, e le informazioni su di loro vi trovano «un’accoglienza fervida» e «stimolano l’immaginazione» (pp. 155 sgg.). Allora si moltiplicano le opere colte di carattere letterario, erudito o scientifico che contengono riferimenti al mondo dei miserabili e dei mendicanti, si formano «immagini» e «figure», veri e propri luoghi mentali che aiutano a identificare il mondo della devianza.
Con materiale di questo tipo ci si avvia sul difficile terreno in cui si incontrano, mescolandosi, retaggi culturali, istanze ideologiche, figure e pulsioni dell’immaginario. È il terreno che ha scelto Chartier per le sue ricerche. E un terreno sdrucciolevole, e non solo per lo storico; eppure l’indagine in tale direzione riveste un’importanza fondamentale per poter comprendere nel suo insieme tutto il complesso di reazioni, contraccolpi, fenomeni di assestamento e nuove elaborazioni che la società europea produsse per fronteggiare la massa degli individui che si aggiravano ai suoi margini. L’attenzione critica per quei fenomeni ascrivibili al mondo dell’«immaginario collettivo», alla sfera della «mentalità», in questo caso è tutt’altro che una curiosità erudita o un accademico contributo a un indirizzo di studi.
Alcune perplessità potrebbero però nascere alla luce delle precedenti considerazioni. Ci si potrebbe chiedere se è possibile imbastire un discorso organico sulla «marginalità e la cultura popolare» assumendo come oggetto
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essenziale della propria analisi le «figure» che tali realtà sociali suscitarono nelle rappresentazioni mentali elaborate e condivise dalle classi superiori. L’esplorazione del complesso terreno dell’immaginario e delle «rappresentazioni collettive» può dare contributi decisivi alla comprensione di non semplici fenomeni sociali e, a volte, di tutta un’epoca, ma parimenti comporta anche notevoli rischi. Uno di questi è qui connesso alla tentazione di voler considerare tali manifestazioni come oggetto di studio radicalmente autonomo dal complessivo contesto sociale, intessuto di molteplici contraddizioni, attraversato da trasformazioni profonde, tensioni e fermenti ideologici, in cui esse stesse nacquero, si formarono, che contribuirono a volte a modificare, e in cui, in fin dei conti, trovano la loro ragione di esistenza storica. Si tratta del rischio, cui accennavamo prima, di concepire una storia meramente psicologica. Una distorsione che metterebbe in discussione, del resto, lo stesso significato di «immaginario» e di «rappresentazione». Ogni immagine che l’uomo si forma non è forse il punto di incontro tra uno stimolo esterno e la elaborazione dello stimolo stesso, iniziata nel medesimo istante della percezione da parte della propria mente? Sin dai primi momenti della sua esistenza nel mondo, anche l’/^o più semplice, quale ad esempio quella della propria persona riflessa in uno specchio, è per l’uomo un momento del continuo processo di integrazione e confronto dialettico fra il proprio io e la realtà, o meglio, il resto della realtà. Studiando il mondo dell’immaginario dunque, occorre sempre tenere presente l’esistenza di questo scarto e insieme dell’imprescindibile collegamento, dell’integrazione-scontro, con il vivo momento della realtà sociale nel suo complesso. Significativamente Geremek intitola un paragrafo del proprio libro Rappresentazioni delle realtà, realtà delle rappresentazioni. Si deve comunque riconoscere a Chartier un’estrema sensibilità per queste tematiche e per l’insieme dei problemi cui abbiamo accennato. Non a caso, proprio in relazione ai possibili rischi ad essi connessi, Ginzurg cita, nella sua prefazione, proprio un passo dello stesso Chartier, che imposta molto bene la questione: «Si tratta dunque anzitutto di comprendere i rapporti che esistono tra spazio sociale e immaginario sociale, e i modi in cui i sistemi di rappresentazione articolano e al tempo stesso si lasciano sfuggire le trasformazioni di una società» (p. 8). Né peraltro si può imputare a Chartier la pretesa di risolvere lo studio del mondo dei marginali nell’esame dell’insieme delle rappresentazioni che di esso si elaborarono. Al contrario lo storico francese sottolinea piuttosto l’importanza di tali studi come uno dei settori fondamentali di una più ampia analisi sociale, e in modo particolare per un tema, quale quello dei processi di emarginazione, in cui tanto peso hanno fattori non sempre riconducibili a precise matrici ideologiche, ma che appaiono più che altro improntati a un’apparente irrazionalità. Per il resto non ha difficoltà alcuna a riconoscere «l’importanza decisiva» che hanno opere come quelle di Geremek per l’approccio a tali fenomeni, e ancora, significativamente,
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proprio a Geremek è dedicato il capitolo IV, col titolo Figure letterarie: la letteratura della furfanteria.
L’approccio propostoci da Geremek è, a nostro avviso, fondamentale per una comprensione complessiva ed esaurientemente omogenea del fenomeno della marginalità socio-economica agli albori dell’età moderna in Europa. Gli studi di Chartier ci offrono un contributo che si può definire di natura integrativa, senza che il termine voglia avere alcunché di svilente o denigratorio; al contrario vuole significare che solo rispetto a un più ampio quadro generale gli approfondimenti proposti da Chartier acquistano tutto il loro valore e risultano utilissimi, non solo per gettare luce su zone molto vaste rimaste finora in ombra, ma anche per comprendere meglio i legami e le correlazioni tra quelle parti già note e studiate. Da questo punto di vista ci appare un’ottima scelta quella di aver pubblicato insieme e consecutivamente i due libri nella stessa collana.
Il libro di Chartier raccoglie quattro saggi dedicati ad alcuni aspetti dell’emarginazione nella Francia urbana dei secoli XVI e XVII, ma l’opera può a buon diritto considerarsi anche un libro di storia più in generale della marginalità, per i problemi che tocca e, soprattutto, per le suggestioni e gli spunti metodologici e di impostazione che ci offre. Del mondo dei mendicanti, dei «falsi poveri e dei veri ladri», sono infatti scelti alcuni degli aspetti più ricchi di valenze e di significato per illustrare i complessi rapporti tra esso e il resto della società. Viene sollecitata la riflessione sul fatto che il corpo sociale è insieme la fonte dell’emarginazione, dato che sono stati i suoi meccanismi a produrre la povertà e a far si che la miseria dilagasse oltre i confini delle vecchie salvaguardie sociali, e contemporaneamente è lo stesso sistema sociale a produrre le politiche, le teorie, l’ideologia della marginalità: definendo in modo negativo un insieme di figure, gruppi, comportamenti, decretandone la pericolosa alienità e la susseguente, necessaria, messa al margine, o «educazione» tramite apposite istituzioni. Una volta create queste nuove grandi masse di poveri, lo stesso sistema che le ha prodotte inizia ora a giudicarle come qualcosa di sostanzialmente estraneo da sé, non considerando affatto le proprie responsabilità: una dimenticanza che denuncia una forse neppure troppo celata volontà esorcizzatrice nei riguardi di colpe e problemi, e che sta fra le motivazioni di fondo delle pratiche dell’emarginazione. Chartier afferma che i dotti che descrivevano il mondo dei mendicanti come una perfetta contro-società, organizzata come quella ufficiale, usavano «schemi percettivi e comprensivi attraverso i quali» potevano «ritrovarsi in un mondo che è il loro proprio» (p. 16), ma forse è ancora una volta la volontà di rifiutare ogni discorso sulle cause, sul perché della miseria, che può aver spinto a vedere e descrivere il mondo dei diseredati come perfettamente strutturato e autonomo: una realtà di per sé, una contro-società autosufficiente, che in sé trova le proprie ragioni, che si regge e si auto-rigenera senza ombra di intervento e di responsabilità esterne. È inevitabile qui
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pensare che considerazioni analoghe possono estendersi anche alle attuali tendenze sociologiche sulla autonoma esistenza e configurazione di una cultura della povertà negli ambienti marginali urbani. Ma, tornando al nostro discorso, vediamo infine come lo stesso corpo sociale, attraverso le sue élites, i suoi poliziotti, i suoi intellettuali, ci ha lasciato la gran massa dei documenti «diretti» sul mondo degli emarginati.
Non è possibile considerare tutti questi fattori come immediatamente omogenei e analizzabili in un’ottica lineare. Ricostruire una storia della marginalità è possibile solo con l’adozione di molteplici livelli di lettura, attraverso i quali scomporre le varie realtà della marginalità e dei loro documenti, cosi come ci sono stati tramandati dalla nostra memoria storica. Una memoria che dobbiamo sapere interrogare con un’intelligenza e una versatilità che non si accontentano più della semplice precisione filologica, ma che richiedono una più grande agilità mentale e culturale. Chartier mostra di recepire tutto lo spessore di tale impegno, ne sa affrontare le difficoltà ed esporle al lettore con una non comune sensibilità. Inizia quindi lo studio delle «corti dei miracoli», dell’yl^/, della monarchia e delle corporazioni dei furfanti, della figura del re dei mendicanti. È un viaggio tra materiali e documenti disorganici e ambigui, in essi convergono invenzione letteraria, proiezioni di paure e fobie, elaborazioni «scientifiche» e di ambienti dotti alle prese col mondo dei fuorilegge. Si avverte il contrasto tra lo sforzo di ricercare il nucleo di un autentico vissuto sociale dell’emarginazione e la consapevolezza di imbattersi costantemente in linguaggi, simboli, istanze conoscitive proprie delle classi dominanti; impaurite da ciò che si muoveva ai confini del loro universo sociale, si sforzarono di moltiplicare l’uso di categorie descrittive e tassonomiche, perché aiutassero a fondare scientificamente la loro nuova politica di controllo. Nei primi due saggi Chartier ci illustra tutto questo, e sa rendere il lettore pienamente consapevole di tutte le difficoltà connesse a una lettura del passato che non può procedere unilateralmente e linearmente dalla «fonte» al «fatto», ma che necessita di quella abile lettura per livelli di cui parlavamo prima: operazione a cui egli si dedica, per usare le parole di Ginzburg, con «rigore e sottigliezza».
Punto focale e imprescindibile per lo studio dell’emarginazione sociale nell’età moderna - e ciò risulta chiaro sia in Geremek sia in Chartier - è la comprensione dell’irrevertibile rottura del vecchio meccanismo sociale e sacrale imperniato sull’elemosina, gesto salvifico individuale, e sulla figura mitica del povero-immagine di Cristo.
Nel terzo saggio Chartier mette a fuoco uno dei punti principali della laicizzazione del problema della povertà: l’istituzione, in varie città, di ospedali e di alberghi dei poveri, e sottolinea come tale nuova ispirazione andasse di pari passo con l’evoluzione delle immagini che ci si formava dei poveri: immagini che arrivavano a fondere insieme i poveri coi ladri e a collocarli nel sotterraneo mondo della furfanteria.
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Notiamo come la laicizzazione dell’elemosina, con l’istituzione dell’elemosina generale e soprattutto con le successive operazioni di internamento dei mendicanti, può essere considerata come uno dei tanti processi di «razionalizzazione» che hanno segnato la nascita della società moderna, dando vita a istituzioni che vogliono essere unitamente di controllo e sorveglianza, e di educazione: queste seguono di più di un secolo la nascita dei collegi, e precedono di meno di cento anni quella dei penitenziari7. Chartier ci dà un quadro molto accurato di questa razionalizzazione: il suo orizzonte ideale è un ideale umanistico, non a caso condiviso dalle élites sia cattoliche-erasmiane sia protestanti di varie città, è la «società civile e armoniosa, società laboriosa e pacificata» (p. 65); i poveri devono essere indirizzati al lavoro e alla produzione, devono essere moralizzati, educati cristianamente. Ma ancora una volta per la povera gente la «razionalità» dei potenti significò sacrificio e oppressione: l’emarginazione divenne una forza operante potentemente nella società, i poveri scontarono le rigide omologie che la razionalità portava con sé tra decoro cittadino, pulizia, ordine, ricchezza, e, al negativo, tra povertà, sporcizia, delinquenza.
Politiche urbane e rappresentazioni collettive convergono in questa nuova visione della società, Chartier sottolinea come le seconde abbiano notevolmente alimentato le prime; ma c’è da chiedersi se non vi è sempre una costante relazione, con precise rispondenze, tra il modo di rappresentare gli emarginati e le politiche adottate nei loro confronti: entrambi sono frutto di una identica visione ideologica dell’ordine sociale; si affermano e si rafforzano, diffondendosi le rappresentazioni più funzionali a un dato tipo di controllo verso gli emarginati, in una costante reciproca selezione tra «rappresentazioni» e «azione politica», frutto entrambe della stessa «necessità» storica.
Da ricordare, infine, l’ultimo saggio di Chartier, il più ponderoso, dedicato a vari testi presenti nella Biblioteca Blu di Troyes, e dedicati al mondo dei mendicanti e dei furfanti. Specie nell’ultima parte, il saggio dà un notevole contributo allo studio di questa collana e, più in generale, allo studio delle cosiddette letterature popolari, della loro diffusione e del pubblico al quale potevano rivolgeri. Viene gettata intanto luce su un punto particolarmente sfuggente e difficile da cogliere: sul passaggio delle idee delle élites sul mondo marginale dal circuito elevato della cultura delle classi dominanti a un ben più vasto circuito culturale, che interessa la maggioranza della popolazione. I libri che Chartier esamina sono appunto uno di questi veicoli di diffusione. Destinati a un pubblico con scarsa dimestichezza con la lettura, essi contengono moltissime delle idee sulla furfanteria che ossessionavano le classi dominanti. La paura, il fascino, l’attrazione per questo mondo deviante sono qui connesse al comico, al buffonesco. E
7 Ph. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Bari, 1976; e M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, 1976.
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ancora una volta si pone il problema se e come rintracciare «a fondamento della lettera», in tali composizioni, autentiche «figure della realtà» (p. 156); torna il problema di come cogliere la voce degli emarginati in discorsi che non sono i loro. È lo stesso Chartier che ci dà la chiave di lettura migliore per queste opere: «la produzione di effetti di realtà è certo uno degli elementi cui tendono» questi testi, «ma, nello stesso tempo e negli stessi testi, la parodia si presenta come tale e, per chi sa leggere, mette a nudo i diversi livelli del racconto». C’è la finzione dunque, ma anche l’indicazione che di finzione si tratta, soprattutto attraverso l’iscrizione del testo «nella tradizione carnevalesca o nel gioco burlesco» (pp. 156 sgg.). Ancora una volta ci dà un saggio di analisi sottile, dell’utilizzazione di una lettura su molteplici livelli, e vediamo come tale sottigliezza non sfoci affatto in aridi elenchi e giustapposizioni di categorie sociologiche, ma all’incontra-rio getta luce su aspetti impensati di tanti documenti, recuperandoli cosi alla conoscenza storica. Non a caso uno dei principali meriti di Chartier è quello di averci fornito un filo conduttore e un’importante chiave di lettura, illustrandoci il rapporto intercorso tra le politiche urbane nei confronti degli emarginati, coi progetti razionalizzatori ad esse connessi, e le rappresentazioni della furfanteria. Momenti diversi, ma riconducibili all’istanza di fondo che agl nella società europea, impegnata ad affrontare mutamenti strutturali, e che impose a un dato momento di circoscrivere e dominare un fenomeno di massa che si presentò, per varie ragioni, come un pericolo grave per le classi dominanti. Anche un mondo dai contorni tanto indefinibili e con delle leggi tanto inafferrabili come quello dell’immaginario collettivo può essere cosi meglio compreso, in quanto è recuperato alla logica di una più ampia dinamica sociale e del generale sviluppo storico.