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Title
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I "Gironi" della miseria nella Firenze di primo Ottocento
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Creator
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Giovanni Gozzini
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Date Issued
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1988-01-01
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Is Part Of
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Studi Storici
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volume
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29
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issue
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1
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page start
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175
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page end
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206
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Publisher
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Fondazione Istituto Gramsci
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976.
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Rights
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Studi Storici © 1988 Fondazione Istituto Gramsci
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Source
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https://web.archive.org/web/20230921162740/https://www.jstor.org/stable/20565812?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxNiwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjM3NX19&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A086387dfef1be2d5f9a652a1af96a8f7
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Subject
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confinement
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discipline
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surveillance
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normalization
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extracted text
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NELLA FIRENZE DI PRIMO OTTOCENTO
di Giovanni Gozzini
I have been assured - scriveva nel 1848 un viaggiatore inglese - there is a great deal of poverty in Florence, although it may not often meet thè eye [...] But thè wants of thè humble Fiorentine are cheaply supplied; his diet is simple, his habitation confined and cheerless, his expenses less perhaps than in most European cities, and his comfort as few1.
I chanced to enter a market place - riferiva sempre a proposito di Firenze un altro visitatore dotato di maggiore coraggio e curiosità - chiefly resorted to by thè poorer inhabitants of thè city. It was crowded by numbers of this class, who, with famished haste seemed eager to buy their little Stores of provisions, battling and bargaining with clamorous, but good-humoured vociferation; all complaining loudly that thè venders demanded too much for their goods; but yet seasoning their reproaches with much drollery and repartee, which, in spite of thè sorry, meagre, half-naked figures that were presented to thè eye, gave a gaiety inconceivable to thè whole scene. Among those composing thè different groups, tali finely-formed women with diswelled hair, pale faces, and care-worn countenances, made a conspicuous part. These, with thè venders of meat, their boys, dogs and men, stalking with bare arms and grisly visages, fìlled up thè picture; while dim and unfrequent lamps darkly showed all thè dismalness of thè place, and thè wretchedness of thè food they were purchasing2.
I turisti stranieri di passaggio a Firenze nella prima metà dell’Ottocento componevano, come si vede, un quadro di maniera, all’interno del quale la miseria sembrerebbe presente in misura minore e comunque contemperata e addolcita da una sorta di proverbiale parsimonia e vena di buonumore.
Il 4 marzo 1812 - quattro anni dopo l’incorporazione della Toscana e di Firenze nell’Impero francese di Napoleone - il prefetto del Dipartimento dell’Arno inviava a Parigi un Etat des pauvres et des mendiants existant dans chaque communi, al suo interno il Maire di Firenze forniva la cifra di 23.455 poveri e di 785 mendicanti.
1 J. Whiteside, Itafy in thè nineteentb century, London, 1848, p. 97.
2 J. Bell, Observations on Ital^ Naples, 1840, pp. 68-69.
3 Su questa fonte cfr. S.J. Woolf, The reliability of Napoleone statista: thè «Etat des pauvres et des
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Probably an underestimate - commenta Stuart Woolf che ha reperito e studiato il documento - if one compares it to thè 56.918 in need of a daily bread subsidy within thè city of Florence, according to an estimate of a charitable congregation in thè early 1790s4.
Ma anche nella stima più contenuta delle autorità fiorentine, il marchio dell’indigenza segnava pur sempre un terzo degli allora settantamila abitanti della città.
D’altra parte, non si trattava di una novità per la storia di Firenze. Durante la carestia del 1554 che causò 60 mila morti, i poveri vennero contati in numero di 18 mila: grosso modo il 30% degli abitanti5. Un secolo più tardi, nel 1647, gli accattoni erano 11 mila; calati poi a 7 mila nel 16916. Un prospetto della popolazione fiorentina compilato nel 1738 ci restituiva, invece, la cifra di 43.624 «poveri di elemosina», dei quali 27.472 «senza letto»7.
Nonostante gli antichi e reiterati divieti, dunque, anche la capitale del Granducato era abituata da secoli a veder sciamare per le sue strade un vero e proprio esercito di questuanti, di invalidi, di ciechi, ogni giorno in lotta per una moneta, un pezzo di pane, un riparo al coperto.
Non era, certamente, una peculiarità solo fiorentina. A Bologna nel 1844 i mendicanti erano ancora 5.226, i disoccupati e i «venturieri» 5.638, gli orfani raccolti negli istituti di beneficenza 1.301: equivalenti nel complesso a una quota percentuale che sfiorava il 20% della popolazione totale della città8. Un secolo prima, a metà del Settecento, gli abitanti di Caen senza un lavoro fisso che ricorrevano saltuariamente alla carità pubblica e privata, rappresentavano il 28% del totale9. Nella Torino del 1802, invece, i miserabili erano censiti in numero di 2.154: solo il 4% degli abitanti10. A Parigi nel 1807 gli indigenti erano più di 97 mila, su un totale di individui che oltrepassava abbondantemente il mezzo milione: la percentuale corrispondente superava quindi il 16%n. Mentre a Venezia nel 1810 i
mendiants existant dans chaque commune» in thè Department of thè Amo, 1812, in «Social history», 1976, 1, pp. 93-102.
4 Ivi, p. 99. La cifra documentata da Woolf si riferisce alla distribuzione di pane davanti alle porte delle chiese della città nella domenica di Pasqua del 1790 (cfr. S.J. Woolf, The treatment of thè Poor in Napoleone Tuscanj 1808-1814, in «Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea», 1971-72, 23-24, p. 449).
5 Cfr. G. Fabbroni, Gii ozi delia villeggiatura, Villa, 18002, p. 48.
6 Cfr. G. Fabbroni, Dei provvedimenti annonari, Firenze, 1804, p. 240.
7 Biblioteca nazionale centrale di Firenze, Fondo Magliabechiano, II, II, 538.
8 Questi dati, tratti dal censimento bolognese del 1844, sono riportati in appendice a L. Dal Pane, Economia e società a Bologna nell’età del Risorgimento, Bologna, 1969. Si vedano anche le cifre pressoché analoghe riferite al 1841, in A. Bellettini, La popolazione di Bologna nel corso dell’Ottocento, in «Storia urbana», 2, 1978, 5, p. 18.
9 Cfr. J.C. Perrot, Genèse d’une ville moderne, Caen au XVTIIe siècle, 2, Paris-La Haye, Mouton, p. 935.
10 Cfr. G. Muttini Conti, Un censimento torinese nel 1802, Torino, 1951, p. 139.
11 Cfr. L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, Roma-Bari,
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mendicanti erano poco più di 1.500, pari ad appena 1’1,5% degli abitanti12.
Come si vede anche da questa rapidissima girandola di cifre, i dati erano discordi e fortemente eterogenei: riflesso probabile di oscillazioni decisive nell’uso e nell’interpretazione delle nozioni statistiche di povertà e di indigenza. Ogni rilevazione quantitativa della miseria applicava - ancora per tutta la prima metà dell’Ottocento - categorie e criteri relativi e non assoluti, legati strettamente ai diversi ambienti urbani, ai diversi modi di formazione e distribuzione delle risorse, alle diverse strategie di sopravvivenza, alle diverse tradizioni assistenziali e caritative.
Prima ancora che della realtà effettiva, ogni numero, ogni quantità ricostruita sulla base di queste fonti documentarie - specialmente se riferita al magma in continuo movimento del pauperismo nelle grandi città - ci parla del senso comune, dell’intelligenza, delle paure, di funzionari e di autorità che poveri non erano. Del loro modo, vecchio e nuovo insieme, di «vedere d’appresso» e di «formarsi un’idea giusta» della miseria che abitava accanto alle loro case.
Ciò non toglie che lo sforzo di accertamento statistico non fosse, soprattutto da parte delle autorità imperiali francesi, tenace e convinto. Appena qualche anno prima dell’Ex/ des pauvres, il Maire di Firenze aveva avuto il suo daffare per compilare, tra il gennaio e l’aprile del 1810, il censimento di tutti gli abitanti della città13. In quell’occasione erano state affidate ai 114 rilevatori incaricati alcune precise disposizioni per caratterizzare la condizione economica di ogni cittadino.
È importantissimo — recitavano le disposizioni del Maire — che nell’indicazione della professione o mestiere ciascuno dichiari se è capo di negozio, traffico o bottega, accomandatario, ministro o commesso, come pure se è lavorante o garzone, o lavori per conto di altri nella propria casa e perciò sarete acuto nelle interrogazioni da farsi a ciascun individuo, per evitare qualunque errore.
Oltre all’indicazione della professione, sulle cartoline che gli incaricati riempirono casa per casa, venne indicato l’ammontare della pigione pagata e ogni capofamiglia venne iscritto in una delle cinque grandi classi di stato economico predisposte dalle autorità: «ricco», «benestante», «comodo», «povero», «indigente».
Per caratterizzare quest’ultimo - informavano le disposizioni - conviene assicurarsi che non abbia mezzi di sussistenza nemmeno col lavoro delle proprie braccia e che anche una minima spesa gli toglierebbe il necessario, né sarebbe in grado di sopportarla.
Laterza, 1976, p. 583.
12 Cfr. R. Zangheri, La popolazione italiana in età napoleonica, Bologna, Azzugnidi, 1966, p. 138.
13 Mi permetto di rinviare al mio saggio espressamente dedicato all’illustrazione di questa
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Su 69.146 abitanti il censimento fiorentino indicava la presenza di 36.637 poveri e di 22.838 indigenti. Mentre la prima quantità sembrava riferirsi genericamente alle «labouring classes» della città, solo la seconda - come abbiamo visto dalle istruzioni impartite ai rilevatori - era da intendersi come cifra più vicina alla categoria di «poveri strutturali», secondo la terminologia di Gutton14, costretti dalla mancanza di lavoro a condizioni di vita al di sotto del minimo vitale.
Se dalle cinque, generiche, classi di stato economico si passava alle professioni effettivamente esercitate e censite, gli accattoni e i questuanti veri e propri si rivelavano una presenza assai più contenuta, pari a 427 individui, cui si affiancavano 2.319 disoccupati «cronici»15 e 1.302 invalidi che nei registri del censimento ricorrevano sotto le varie forme di inabili, malati, impotenti, dementi, ciechi, storpi.
La cosa interessante era che i 427 accattoni registrati nei registri ufficiali, rappresentavano in qualche modo una presenza non contemplata, ed anzi esclusa, dalle leggi vigenti in materia di proibizione dell’elemosina.
Com’è noto, alla concezione medievale che vedeva negli indigenti le «membra sofferenti» di Cristo e i suoi rappresentanti in terra, si era gradualmente contrapposta e sostituita una visione «urbanocentrica» di ordine pubblico, secondo la quale il pauperismo era da considerarsi una presenza eversiva e minacciosa, prodotto di incontinenza ed ignavia, fomite di tensione sociale e di contagi epidemici. A partire grosso modo dal XVII secolo si moltiplicarono anche nelle città italiane i bandi di proibizione della questua pubblica.
Difendiamo ad ogni e qualsivoglia persona valida ed invalida di mendicare [...] tanto di giorno come di notte, pubblicamente o in segreto, con qualunque specie o pretesto, sotto le medesime pene che si vedono lodevolmente imposte in altri paesi [...] cioè della carcere per la prima volta, ed altra più grave, eziandio corporale, ad arbitrio del Senato nostro in caso di recidiva16.
Rispetto ai «secoli bui» si faceva strada nella mente delle autorità un’idea più ampia e severa di «decoro urbano», destinata a tollerare sempre meno la miseria ambulante per le strade, l’accattonaggio pubblico, i piccoli ripari
fonte particolare, Il «censimento» fiorentino del 1810, in «Passato e presente», 1983, 4, pp. 227-239.
14 Cfr. J.P. Gutton, La Société et lespauvres, Paris, 1974. Si veda anche la distinzione introdotta da J. Poster tra «povertà primaria» al di sotto dei minimi di sussistenza vitale, e «povertà secondaria» come impossibilità di sostenere le spese per le medicine, la scuola, le bevande, i debiti di varia natura (cfr. J. Poster, Class Stranie and Industriai Revolution. Early industriai capitalism in three English towns, London, 1974, p. 258).
15 I termini censuari dell’epoca accorpati sotto questa voce sono: alla ventura, senza impiego, venturiere.
16 Si tratta del bando emanato da Vittorio Amedeo II a Torino nel 1716, in occasione dell’apertura del nuovo Spedale di carità, citato in F. Della Peruta, Aspetti della società italiana nell’età della Restaurazione, in «Studi Storici», 17, 1976, 2, p. 53.
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semilegali che la città offriva da sempre agli invalidi, ai disoccupati, ai questuanti di ogni genere.
Il Presidente del Buon Governo Ciantelli [...] aveva dati ordini severissimi ai birri contro i poveri che accattavano per le strade; ed i birri, nei primi giorni specialmente, si misero con tanto impegno ad eseguire gli ordini ricevuti, che avrebbero arrestati anche i muricciuoli. Ora avvenne che il marchese Torrigiani, conosciuto da tutti i poveri per la sua bontà, s’imbatté presso il ponte alla Carraia in uno di essi, che gli andò incontro per chiedergli l’elemosina. Mentre il marchese metteva mano a tasca e stava per dargli un paolo, poiché egli non dava mai di meno, si fecero addosso al povero due birri tutti inferociti per arrestarlo. Al marchese Torrigiani andò il sangue alla testa; ma per un poco si contenne, dicendo ai birri con gli occhi un po’ sgranati: «Che cosa entrate voi nei miei interessi? Io pago quest’uomo che mi ha fatto un servizio, e andatevene!». Siccome però i birri non lasciavano il povero, il marchese venendo a più mite consiglio, li bastonò tutt’e due di santa ragione, e disse loro: «Andate a dire a Sua Altezza che ve le ha date il marchese Torrigiani!». Poi diede il paolo al povero che se la svignò più presto dei birri, che furon fischiati dalla gente accorsa a quel lazzo, inseguendoli con l’epiteto di biacchi del boia come li chiamava il popolo per dispregio17.
A dire il vero, lo sforzo delle autorità, più che ubbidire ad un unico, vasto, disegno organico di «grande internamento» e di «redistribuzione dell’economia del castigo»18, corrispondeva all’intento di «depurare» le città dalle tracce visibili e più imbarazzanti di miseria, attraverso una serie di misure di carattere essenzialmente, ma non unicamente, repressivo.
Il fondamento ideologico di questa politica era rappresentato dalla distinzione tra «poveri volontari» e «poveri involontari», formulata già agli inizi del Settecento da Ludovico Antonio Muratori e successivamente ripresa in innumerevoli opuscoli morali dedicati alla questione19. La carità diveniva elemento di scelta e di selezione sociale: destinata solo agli invalidi effettivi, si accompagnava alla condanna e all’emarginazione dei vagabondi, degli oziosi, dei «renitenti» al lavoro. La miseria, in altre parole, non appariva più soltanto come il frutto di una disgrazia, ma anche e soprattutto come una scelta immorale, un comportamento deviante, un reato20.
L’impero francese non fece eccezione. Gli articoli 274-282 del nuovo
17 G. Conti, Firenze vecchia, Firenze, Bemporad, 1899, pp. 466-467.
18 Come ci si accorgerà dalle pagine che seguono, non mi sento molto d’accordo con le tesi di M. Foucault, che per altro hanno rappresentato uno dei punti di riferimento e uno degli stimoli indiretti all’origine di questo lavoro (cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1976).
19 Cfr. S.J. Woolf, The treatment of thè Poor, cit., p. 436. Si veda anche Timore e carità. Ipoveri nelf Italia moderna. Atti del convegno «Pauperismo e assistenza negli antichi stati italiani», Cremona, 28-30 marzo 1980, Cremona, 1982.
20 Cfr. F. Rizzi, Dissertazione sull'impiego dei poveri, Napoli, 1806; S. Morosi, Prospetto per lo stabilimento dei poveri presentato al cittadino Carlo Reinhard, Commissario del governo francese in Toscana, Firenze, s.d.; F. Mazzei, Riflessione sui mali provenienti dalla questua, Pisa, 1799.
180 Giovanni Gozzuti
codice penale iscrivevano la questua tra i reati da perseguire. Ma non mancarono in questo sviluppo voci discordi che, pur riconoscendo l’°ggettivo incoraggiamento alla mendicità di una beneficenza casuale e prodiga, mettevano l’accento sulle dimensioni collettive del fenomeno: «La carità piglia l’aspetto di un debito e di una cautela sociale: essa cessa di essere una virtù e diviene una pubblica imposta»21. Opponendosi di conseguenza all’istituzione di ricoveri e reclusori attraverso i quali «si distrugge la famiglia, e si toglie ai poveri la sola proprietà che resta loro, quella della persona»22.
Gli ospizi di invalidità - aveva scritto già nel 1804 Francesco Maria Gianni, uno dei funzionari passati dall’apparato amministrativo del granduca Leopoldo al servizio attivo dei francesi - che li accolgono sembra che servano a toglierli dalla mendicità, ma la loro sussistenza poi non è altro che quella dei mendicanti, ma con la privazione della libertà. Si applaudiscono volgarmente quegli stabilimenti perché tolgono dalla vista dei cittadini tante migliaia di infelici che sarebbero molesti con le loro domande di soccorso, e non si potrebbero nascondere le cause e la sorgente delle loro miserie23.
Non ci sono più poveri per le strade - esclamerà George Sand - gli avete proibito di chiedere l’elemosina alla luce del sole, e chi è privo di risorse mendica di notte col coltello in pugno24.
Del resto
uno dei principali articoli della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino proclamava solennemente che «l’assistenza pubblica è un sacro debito. La società deve assistenza ai cittadini sventurati, o fornendo loro lavoro, o fornendo i mezzi di sussistenza a coloro che non sono in grado di lavorare». L’obiettivo della legislazione sociale era, secondo la Convenzione, «offrire a tutti i francesi il modo di procurarsi l’essenziale per vivere senza dipendere da nulla che non sia la leg-ge»25-
Ma, com’è noto, il Termidoro annullò gran parte di questi provvedimenti, bollandoli come forme di «stravagante filantropia». Nei fatti, le caratteristiche sostanzialmente repressive della politica seguita dalle autorità rimasero prevalenti, anche se non esclusive, sia sotto l’amministrazione napoleonica, sia dopo la Restaurazione.
I tratti di corda, il marchio a fuoco, la frusta, la gogna non erano, tuttavia, i soli strumenti di «politica sociale» degli Stati italiani fino a tutto il XVIII
21 R. Lambruschini, Della necessità di soccorrere ipoveri e dei modi, Firenze, 1855, p. 12.
22 Ibidem.
23 F.M. Gianni, Discorso sui poveri (1 maggio 1804), in Id., Scritti pubblici di economia storico-economici e storico-politici del senatore Francesco Maria Gianni, 1, Firenze, Niccolai, 1848, p. 173.
24 Citato in L. Chevalier, Classi lavoratrici, cit., p. 75.
25 C. Lis-H. Soly, Povertà e capitalismo nell’Europa preindustriale, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 276.
181 I «gironi» deila miseria a Firenze nell’Ottocento
secolo. Ad essi si aggiungevano il ricovero e l’internamento dei poveri in appositi edifici, che conobbero - come vedremo - una larga diffusione nella penisola durante l’età napoleonica e la Restaurazione.
Non mancarono, anche nell’ambito dell’amministrazione imperiale, funzionari più lungimiranti, pronti a battersi perché la politica sociale del regime francese superasse gli angusti limiti della repressione e si estendesse a misure di effettivo avviamento al lavoro e all’istruzione26. Ma si trattava di sforzi destinati a rimanere marginali rispetto agli intenti generali di «depurazione» e di «reclusione» del pauperismo urbano. Un decreto imperiale del 5 luglio 1808 ordinava la creazione in ogni Dipartimento di un Depot de mendicite', casa di internamento e correzione degli accattoni27.
A Firenze la direttiva imperiale venne applicata il 14 ottobre 181228. Il decreto che istituiva il Depot sanciva anche le pene di detenzione (da tre a sei mesi) per i «vagabondi e le persone senz’arte né parte». Ma se il questuante veniva sorpreso fuori dal proprio «cantone» di residenza la pena poteva salire fino a dieci anni. Una misura abnorme, sintomo della paura «vera» delle autorità: quella del formarsi di flussi mobili, vaganti e incontrollabili, di pauperismo di massa.
Dal primo dicembre dell’anno successivo ogni questuante sorpreso a mendicare nella pubblica via veniva trattenuto per otto giorni; trascorsi i quali, se non era stato richiesto da qualche amico o familiare, era tradotto nel Depot almeno per un anno, fino al raggiungimento della capacità di guadagnarsi da vivere.
In questo anno i mendicanti reclusi si svegliavano alle sei e mezzo (d’estate le quattro e mezzo), partecipavano alla messa ed eseguivano esercizi fino alle nove, per poi incominciare a lavorare fino alle sei di sera con l’interruzione di un’ora per il pranzo, composto - secondo regolamento -da due once di zuppa, un’oncia di pane, sei once di fagioli. La carne e la biancheria pulita erano somministrate alla domenica. O meglio, questo era il regolamento ufficiale: quale fosse poi la realtà effettiva non lo sappiamo. «The similarity to a prison - commenta comunque Stuart Woolf - was hard to deny»29.
La stessa filza di archivio che contiene il bando di apertura del deposito di mendicità, conserva anche decine di lettere che chiedono la restituzione di familiari «arrestati» - è il termine sintomatico che più spesso ricorre - nel
26 Si vedano, ad esempio, i passi compiuti da De Cerando, uno dei capi della giunta francese in Toscana, per la costituzione del Conservatorio di arti e mestieri a Prato, documentati da G. Assereto, La polìtica economica francese in Toscana e «le perfectionnement des manufactures», in La Toscana nell’età rivoluzionaria e napoleonica, Napoli, Esi, 1985, pp. 297 sgg.
27 Cfr. S.J. Woolf, The reliability, cit., pp. 93-94.
28 II bando si trova in Archivio di Stato di Firenze (d’ora in avanti ASF), Prefettura dell’Amo, filza 319.
29 S.J. Woolf, The treatment of thè Poor, cit., p. 469.
182 Giovanni Gozzini
Depot. Nei due mesi di dicembre e gennaio vennero tradotti e successivamente «rilasciati» su richiesta delle famiglie 13 femmine e 26 maschi sorpresi a mendicare. Non tantissimi, come si vede: sicuramente una quantità non sufficiente ad accreditare l’idea di un «grande internamento» come disegno organico ed esclusivo delle autorità preposte.
Come ha osservato Woolf30, nella visione burocratica dei francesi i Dépots dovevano servire a rieducare soltanto gli uomini abili in grado di lavorare, i cosiddetti «poveri volontari». Ai «poveri involontari» — i bambini orfani, gli anziani, gli invalidi - dovevano provvedere altre istituzioni che l’Impero aveva in gran parte ereditato dal Granducato di Leopoldo: l’orfanatrofio del Bigallo, l’Ospedale degli innocenti, l’asilo della Quarco-nia, le scuole professionali femminili, la Congregazione di San Giovanni Battista.
L’intento complessivo rimaneva, cosi, almeno sulla carta, quello di una «depurazione» dell’ambiente urbano dalle tracce visibili della miseria, attraverso la segmentazione di quest’ultima in «contenitori» appositi. Un intento di selezione - piuttosto che di mera repressione - che richiedeva a monte una attenta e il più possibile precisa indagine statistica: i numeri diventavano ancora una volta indispensabili per poter contare e sceverare i poveri dai mendicanti, i meritevoli dai vagabondi, i bisognosi dai malviventi.
Un certo grado di confusione era comunque destinato a permanere. Nella sua lettera del 24 dicembre 181331, il prefetto Fauchet — a meno di un mese dalla apertura del Depot - protestava contro la avvenuta reclusione di poveri involontari, e in particolare di anziani, mentre la maggioranza dei poveri volontari continuava a vagare per la città e ad esercitare abusivamente l’accattonaggio. Le autorità stesse, insomma, ammettevano tra le righe la scarsa incidenza sostanziale dei loro provvedimenti repressivi nei confronti della questua.
Del resto, lo stesso censimento del 1810 - una rilevazione ufficiale, ordinata, gestita e vagliata con accuratezza dalle autorità non solo cittadine - riconosceva l’esercizio della questua pubblica come una «professione» regolare o quanto meno accertabile con precisione, se non «garantita» in qualche modo da una sorta di licenza fornita dalle organizzazioni caritative. L’accattonaggio era fuorilegge, dunque, ma continuava ad esistere. Esso, anzi, rappresentava - come vedremo meglio attraverso l’intreccio degli altri dati censuari - il «nocciolo» del pauperismo a Firenze agli inizi dell’Ottocento. Anche per questo, particolare motivo di polizia, uno scrupolo supplementare era stato raccomandato ai rilevatori censuari del 1810 nell’individuazione dei «poveri» e degli «indigenti», caratterizzando questi ultimi come coloro che non avevano mezzi di sussistenza
30 Cfr. S.J. Woolf, The reliabiliiy, cit., p. 94; Id., The treatment of thè Poor, cit., p. 467.
31 Cfr. S.J. Woolf, The reliabilìty, cit., p. 96.
183 I «gironi» della miseria a Firenze nell’Ottocento
neppure attraverso il proprio lavoro. Vale a dire, come «poveri involontari» obbligati in modo continuato alla miseria da invalidità fisiche, età, condizioni familiari, e quindi sostanzialmente dipendenti dalla carità pubblica e privata.
Questo tipo di distinzione, nata - come abbiamo visto - nel clima di reazione alla povertà urbana del XVIII secolo, era tuttavia destinata a rimanere invalsa nell’uso comune, per tutta la prima metà dell’Ottocento. Ad essa si rifaceva la monumentale opera del conte Massei, La scienza medica della povertà ossia la beneficenza illuminata, pubblicata a Bologna nel 185832; e non molto dissimili sarebbero stati i criteri adottati per la rilevazione censuaria effettuata a Firenze nel 1841. Nella classe degli indigenti, si sosteneva nelle istruzioni delle autorità cittadine,
non dovranno quindi figurare coloro che quantunque bisognosi, non son costretti necessariamente per campar la vita di ricorrere alla carità dei prossimi. Gl’indigenti altri son tali per impotenza, altri per vera mancanza di lavoro. Quanto ai primi si userà nel designarli l’espressione di indigenti necessaij, e rispetto ai secondi quella ^indigenti casuali. Nell’una ipotesi dovrà concorrere l’impotenza fisica; nell’altra il fatto estraneo alla volontà dell’indigente. Cosi chiunque è valido e può, volendo, trovar lavoro, se non ha pane è sua colpa, né ha da riguardarsi come un indigente, ma sivvero come un ozioso^3.
Tuttavia, un conto era la chiarezza apparente e formale di queste distinzioni; un altro la realtà concreta di un ambiente urbano, come quello fiorentino, largamente contrassegnato dalla diffusione del lavoro a domicilio, dalla stagionalità e dalla precarietà delle occupazioni, dalle congiunture dei buoni e dei cattivi raccolti e dal conseguente andamento del prezzo del pane. Calata in tale contesto, la linea di demarcazione tra poveri volontari e poveri involontari - e in generale tra poveri e non -appariva assai più difficile a tracciarsi: più incerta, più confusa, più intermittente nello spazio e nel tempo.
Oltre ad oscillazioni decisive nell’ideazione e nell’uso delle categorie interpretative della miseria, le rilevazioni statistiche dell’età napoleonica risentivano anche del carattere fluttuante, per propria natura difficilmente individuabile con precisione matematica, del pauperismo di massa nelle città.
Dalle risultanze censuarie del 1810 la sfera della miseria emerge in una forma complessa e articolata che sembra allargarsi progressivamente in gironi concentrici.
Al centro, come abbiamo visto, la trasgressione tollerata di chi viveva la povertà come una condizione assoluta e permanente di dipendenza totale dalla beneficenza pubblica e privata. Ai margini, l’isolamento degli esclusi dal mondo del lavoro: i disoccupati permanenti, gli invalidi, che soltanto
32 Cfr. L. Dal Pane, Economia e società a Bologna, cit., p. 484.
33 P. Bandettini, La popolatone toscana alla metà dell’Ottocento) Torino, lite, 1956, pp. 103-104.
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una sottile parete, forse di antico decoro o di tenui legami familiari, divideva dagli accattoni «professionali».
A partire da questo nucleo di indigenza palese e «strutturale» -quattromila individui, grosso modo il 5% della popolazione totale - la miseria urbana si disperdeva nei diversi mestieri, cessando di essere essa stessa una professione stabile. Il suo volto diveniva piuttosto quello del declino di manifatture tradizionali unito alla dispersione produttiva e all’emarginazione familiare e civile: tipico in questo senso era senz’altro il caso della lavorazione della seta. La povertà rappresentava una minaccia permanente e una condizione costantemente contigua, alimentata dalla stagionalità dei ritmi di lavoro, dalla precarietà esasperata delle occupazioni, dalla mancanza di reti familiari di protezione e di solidarietà. Per più di un terzo della popolazione fiorentina questo era il volto della miseria: un volto consueto e quotidiano anche se talvolta, con fatica, tenuto a bada dalla pratica di un mestiere e dal ricorso costante alle vie della carità pubblica. Lo spettro dell’accattonaggio era sempre presente e concreto: spesso una soluzione estrema, forse temporanea, accettata con rassegnazione.
Un’altra buona metà degli abitanti di Firenze - quella censita effettivamente come «povera» - viveva una condizione forse meno pressante ma pur sempre preoccupata. I bilanci familiari, arrotondati dal lavoro dei figli e degli anziani, riuscivano ad affacciarsi appena al di sopra dei livelli minimi di sussistenza. Ma ogni spesa — di istruzione, di assistenza — poteva rimettere in discussione questo equilibrio faticoso e precario. La malattia di un membro della famiglia poteva in ogni momento aprire la porta alla catastrofe. L’utilizzazione dei canali pubblici di beneficenza si rivelava, cosi, saltuaria ma quasi sempre provvidenziale. La miseria era, per questa fetta di popolazione, un destino intermittente, scandito dal ritmo dei raccolti e dall’andamento dei prezzi del pane: uno spettro un po’ più lontano, ma non per questo meno minaccioso e meno capace di tenere sempre nella paura le vite degli uomini e delle donne, dal momento della loro nascita fino a quello della loro morte. «Morte bramata è un certo desire che sta cent’anni per venire», recitava uno dei proverbi di allora34.
Nei suoi diversi gironi - accattoni e minorati, indigenti cronici, poveri saltuari - e nei suoi diversi volti, il pauperismo della Firenze di primo Ottocento era tuttavia segnato da un forte carattere endogeno. Si trattava di una circostanza che distingueva nettamente — nelle origini e nella fisionomia - la miseria urbana fiorentina da quella di grandi metropoli coeve, come Londra e Parigi, sommerse per tutta la prima metà del XIX secolo da ondate immigratorie successive e da sconvolgimenti profondi
34 Motti, scherzi, preghiere deipopolo di Firenze, in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», 5, 1886, 4, p. 529.
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degli assetti demografici ed abitativi, che costituivano la prima causa e la prima caratteristica del pauperismo35.
Firenze era, invece, fino dal Cinquecento una città ferma, in cui - ad esempio - non si costruivano più nuove case: 8.741 edifici nel 1561,9.051 nel 1630, solo 8.028 nel 1810. Le mappe dell’abitato, disegnate in epoche cosi lontane tra loro, fotografavano questa stasi urbanistica, delimitata ancora dalla terza cinta muraria finita nel 1333. Alle una di notte passava la ronda e venivano chiuse tutte le porte della città. Tre colpi di martello avvertivano i ritardatari e i nottambuli che da quel momento in poi chi voleva entrare in Firenze doveva bussare a un piccolo uscio e pagare una crazia - sette centesimi di franco - di pedaggio. Solo nel 1848 il nuovo governo rivoluzionario sarebbe riuscito ad abolire questa misura sopravvissuta da tempi immemorabili. Entro le sue mura la capitale del Granducato viveva un equilibrio, ormai quasi anacronistico nel XIX secolo, di superfici edificate e superfici coltivabili, con circa settanta ettari di terreno destinati - ancora nel 1865 - ai lavori agricoli, in mezzo ai quali non era raro scorgere i bindoli, le ruote girate dagli asini, per irrigare i cam-PL .
Uno scenario rimasto pressoché immutato negli ultimi tre secoli di vita della città, che trovava il suo corrispettivo immediato - e la sua ragion d’essere - in una stasi demografica altrettanto palese e singolare. La ferita profonda della «peste nera» del XIV secolo era rimasta incancellabile nell’equilibrio dei movimenti naturali della popolazione fiorentina. Dopo di allora il numero degli abitanti compresi entro le mura non era più tornato alla quota precedente di 120 mila, risalendo faticosamente dai 36 mila del 1427 ai 60 mila del Cinquecento e ai poco più di 80 mila degli ultimi anni del XVIII secolo36. Era una crescita debole e lenta - grosso modo di un terzo nel giro degli ultimi due secoli - assai al di sotto del livello medio di aumento, nel corso del Settecento, della popolazione italiana nel suo complesso, calcolato da Reinhard e Armengaud attorno a percentuali di poco superiori al 50%37. Una crescita debole e lenta sulla
35 Cfr. L. Chevalier, Classi lavoratrici, cit., pp. 236 sgg.; G. Stedman Jones, Londra nell'età vittoriana, Bari, De Donato, 1980, pp. 64 sgg.
36 Ovviamente le cifre che si conoscono a questo riguardo non sono esattamente concordi tra loro. A. Zuccagni Orlandini, Ricerche statistiche sul Granducato di Toscana, Firenze, Tipografia granducale, 1848, pp. 460 sgg.: 59.023 abitanti nel 1561, 68.600 nel 1761, 86.000 nel 1799; K.J. Beloch, Bevolkerungsgeschicte Italiens, Berlin-Leipzig, Gruyter, 1940, p. 148: 78.537 abitanti nel 1784, 81.069 nel 1794; G. Pardi, Disegno della storia demografica di Firenze, in «Archivio storico italiano», 1916, 1, pp. 202 sgg.: 59.216 abitanti nel 1561, 63.143 nel 1630, 78.635 nel 1766, 80.560 nel 1794; G. Parenti, La popolazione della Toscana sotto la Reggenza Lorenese, Firenze, 1937, PP* 17 sgg.: 77.835 abitanti nel 1738, 78.635 nel 1766; ASF, Archivio di stato civile, filza 12525: 79.607 abitanti nel 1784; Biblioteca nazionale centrale di Firenze, Fondo Magliabechiano, filza II, II, 541, «Miscellanea statistica della Toscana (1825)»: 78.635 abitanti nel 1767, 79.859 nel 1784.
37 Citato in R. Zangheri, La popolazione italiana, cit., p. 142.
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quale era destinato a calare come una scure il peso dei rivolgimenti politici a cavallo tra i due secoli: l’arrivo dei francesi, le guerre di Napoleone, la coscrizione obbligatoria, il blocco commerciale operato dall’Inghilterra, la scarsità di approvvigionamenti, il succedersi serrato dei sovrani e delle amministrazioni. E gli eserciti, immancabili custodi di ogni instabilità, portavano come sempre con sé il loro strascico funesto di epidemie, cui anche Firenze non poteva sfuggire: tre anni di tifo tra il 1816 e il 1818, 2.900 morti di vaiolo nel 180938.
Del blocco demografico prodotto dalla congiuntura politica e dalla dominazione francese in Toscana, poteva apparire, in qualche modo, una riprova a posteriori anche la marcata ripresa nel numero degli abitanti, concomitante alla Restaurazione. Tra il 1814 e il 1841 la popolazione di Firenze arrivava di nuovo a toccare la vetta delle 100 mila anime, con un incremento che in meno di trenta anni quasi eguagliava quello dei due secoli precedenti.
In ogni caso, nei primi anni dell’Ottocento, Firenze sembrava assai lontana dall’espansione abnorme che, nella prima metà del secolo, contraddistingueva grandi capitali europee come Parigi o Londra. In particolare non si verificavano a Firenze quelle ondate immigratorie successive di manodopera prevalentemente maschile e giovanile, protago-niste dirette del congestionamento e del degrado dei sobborghi di queste città. In quegli stessi anni a Firenze la vita scorreva assai più lenta e tranquilla, quasi immobile.
Secondo il censimento del 1810, il 79,5% degli abitanti fiorentini risultava nato a Firenze, contro un 7,2% proveniente dalle campagne immediatamente circostanti, un 10,1% dal resto della Toscana, un 2,3% dagli altri stati italiani, uno 0,8% dall’estero39. Erano valori eccezionalmente bassi, se considerati in raffronto con quelli di altre città nella stessa epoca. Sia di grandi metropoli come Parigi, dove tra la borghesia urbana indagata dalla Daumard al momento della Restaurazione, i padri domiciliati in provincia oscillavano tra il 40 e il 50% del totale. Sia di città con dimensioni più simili a Firenze come Caen, dove nel 1798 gli immigrati coprivano percentuali attorno al 40-45%; oppure come Torino, dove tra gli sposi della prima metà del Settecento, i forestieri rilevati da Giovanni Levi erano nettamente la maggioranza, tra il 50 e il 60% del totale40.
38 Cfr. A. Zuccagni Orlandini, Ricerche statistiche, cit., p. 21; Y.M. Bercé, L’introduction de la vaccination antivariolique en Toscane 1801-1815, in La Toscana nell’età rivoluzionaria, cit., p. 607.
39 Sono percentuali abbastanza vicine a quelle calcolate da Giusti e riprese da Barbagli: cfr. U. Giusti, Un censimento fiorentino sotto Napoleone I, in «Bulletin de ITnstitut internationale de statistique», 123, 1926, 2, p. 449, e M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 181.
40 Cfr. A. Daumard, La bourgeoisie parisienne de 1815 à 1848, Paris, 1963, p. 28 7; J.C. Perrot, Genèse d’une ville, cit., p. 161 ; G. Levi, Mobilità della popolazione e immigrazione a Torino nella prima metà del Settecento, in «Quaderni storici», 6, 1971, 17, pp. 522 sgg. Suirimmigrazione a Torino nei primi anni del XIX secolo si veda anche G. Muttini Conti, op. cit., p. 70.
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È vero, altresì, che il censimento fiorentino venne effettuato in periodo invernale e che quindi furono escluse dal computo molte occupazioni stagionali, come ad esempio quelle edilizie, che in estate richiamavano in città molti lavoratori. Le cartoline dei rilevatori nel 1810 avevano a questo proposito una casella espressamente dedicata alla registrazione delle assenze saltuarie e stagionali da casa. Questa casella, tuttavia, venne riempita solo in 581 casi, meno dell’uno per cento del totale: 356 erano coscritti sotto le armi, 89 impegnati in lavori agricoli e nelle bonifiche della Maremma, 136 risultavano assenti per altri motivi non specificati. Una conferma diretta dell’assenza di mobilità e della mancanza di forti correnti migratorie e di fenomeni di urbanesimo nella Toscana granducale e napoleonica, veniva dall’esame del peso percentuale che Firenze esercitava, in termini di popolazione residente, sul resto della regione: nel 1427 tale peso si aggirava sul 14%, nel 1745 era pari all’8,3%, nel 1814 al 6,9%, nel 1841 al 6,8%41.
In effetti i 13.933 individui (il 20% del totale) che, secondo il censimento, provenivano da fuori Firenze, erano i protagonisti di movimenti migratori piuttosto recenti - quasi metà abitava a Firenze da meno di venti anni -che non riguardavano da vicino gli strati economicamente più bassi della popolazione. Tra gli addetti alle diverse manifatture, i bottegai, i venditori ambulanti e i loro garzoni, i barrocciai (i possessori-conducenti di un carro da trasporto), gli uomini di fatica (i facchini generici), le percentuali di nati in Firenze risultavano appena più basse, con valori attorno al 65-70%, della media cittadina (79,5%). Tra gli accattoni, gli invalidi, i disoccupati, i nati a Firenze salivano addirittura all’80% del totale. Processi di urbanizzazione interessavano, invece, in maniera più significativa, sia il ceto dei domestici, dove tale quota calava drasticamente al 40%, sia le professioni liberali (52% tra i medici, 48% tra gli avvocati) e le alte cariche dell’esercito e della pubblica amministrazione, dove, pur su cifre assolute assai più contenute, i nati in Firenze scendevano sotto il 40%, con presenze percentualmente rilevanti di nati all’estero e particolarmente, com’è ovvio, in Francia42.
Un flusso di immigrazione, quindi, del tutto «fisiologico», regolato, per un verso, dall’aristocrazia cittadina di antico regime che pescava nei propri possedimenti extraurbani i contingenti necessari di servitù domestica; e,
41 Cfr. M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit., p. 247 n. 20; L. Del Panta, Città e campagna in Toscana nella seconda metà del XVIII secolo: dinamica e distribuzione della popolazione, in «Storia urbana», 2,1978, 5, p. 62; P. Bandettini, op. cit., pp. 39 e 107.
42 Le risultanze totali del censimento concordano sostanzialmente con quelle del campione analizzato da M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit., p. 181: la quota percentuale di immigrati tra i domestici, desunta dal censimento, è appena più alta (il 60% contro il 50%), cosi come accade per i liberi professionisti (48% tra i medici, 52% tra gli avvocati, contro il 33% generale calcolato da Barbagli). Solamente per il clero si verifica una discordanza apprezzabile: la quota di prelati immigrati che risulta dal censimento è assai più bassa (27% contro 46%) di quella del campione.
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per altro verso, dagli spostamenti geografici delle carriere intellettuali è dalle «importazioni» di personale burocratico e militare collegate ai rivolgimenti politici ed amministrativi nella vita della città. L’accompagnarsi simultaneo di questi fenomeni costituiva, per altro, una ulteriore spia di saldezza e tranquillità - almeno per i più ricchi - pur in mezzo a guerre e cambi di regime tutt’altro che rassicuranti. Le correnti di immigrazione si integravano nel corpo sociale della città senza traumi visibili, ripartendosi equamente nei diversi quartieri senza apprezzabili disparità tra centro e periferia. Non esistevano, in altre parole, nella Firenze del 1810, aree urbane particolari destinate a fare da contenitore per flussi migratori e nuovi insediamenti civili: la modesta entità di questi ultimi e il loro carattere aristocratico o quanto meno agiato non sembrano destare né richiedere «attenzioni» particolari. Anche la zona del ghetto ebraico, topograficamente ben delimitata tra piazza del Duomo e via Tornabuoni, non sembrava legarsi a fenomeni di immigrazione. Nel 1810 gli ebrei che vivevano nel ghetto di Firenze - 136 famiglie, per un totale di 707 abitanti - erano in stragrande maggioranza (81%) fiorentini da almeno una generazione.
Del resto, anche se non si costruivano più case da tempo immemorabile, la città non sembrava soffrire problemi di sovraffollamento. Gli edifici, in genere non molto alti, che ne costituivano il centro storico ospitavano nel 1810 una media di poco superiore alle due famiglie, pari in totale a meno di nove persone. Quasi ovunque questo indice veniva sostanzialmente rispettato, confermando l’impressione di un generale equilibrio; ma con una, macroscopica, eccezione. Quella del ghetto, dove l’indice di affollamento si innalzava vertiginosamente a più di 40 abitanti per edifìcio. Un congestionamento abitativo che si legava, tuttavia, non a particolari condizioni di miseria, bensì a una diffusione del tutto abnorme, rispetto al resto della città, di nuclei familiari mastodontici, composti da una ragnatela di legami parentali tanto estesi quanto intricati43, che innalzavano il numero medio di componenti delle famiglie dai 3,8 di tutta la città ai 5,1 di questa particolare zona.
L’interno del ghetto era sudicio e lercio quanto mai si può dire. Il Comune non vi faceva i lavori necessari, le fogne non si spurgavano, nessuno sorvegliava la pulizia né l’igiene; e tutti facevano quello che volevano. C’eran delle case perfino d’undici piani [...] Sembra un’esagerazione, ma è proprio la verità. Le case di sette e nove piani erano comuni. C’è da immaginarsi perciò quanta luce e quanto sole penetrasse in quelle corti e in quei vicoli rinchiusi44.
43 Nel ghetto gli abitanti che vivevano in case con affìtti sopra i cento franchi annuali rappresentavano nel 1810 quasi i due terzi del totale (62%), mentre in tutta la città erano pari a poco più del 20%. D’altra parte le persone che vivevano in famiglie complesse, cioè allargate a parenti esterni al nucleo coniugale composto dalla coppia di genitori con o senza prole, nel ghetto erano più di due terzi (68%), mentre in tutta la città rappresentavano solo il 22%.
44 G. Conti, op. cit., p. 435. Sull’«aria malsana» che si respirava nel ghetto, si veda anche E.
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Pur con questa isola buia al centro, la Firenze del 1810 rimaneva tuttavia, nel suo complesso, una città che sembrava muoversi al rallentatore, senza scosse. Restavano estranei ad essa i grandi perturbamenti che cominciavano a funestare le metropoli del continente: ondate immigratorie, slums di miseria e sovraffollamento. L’indice della densità abitativa mostrava a Firenze un andamento paradossale, inversamente proporzionale alla presenza della miseria. Era assai contenuto (meno di tre membri per nucleo domestico) tra i capifamiglia che pagavano gli affitti più bassi, fino a 30 franchi l’anno, e saliva invece attorno ai quattro nelle classi di affitto più alte, oltre i cento franchi annuali.
L’immobilismo demografico e l’assenza di rilevanti flussi migratori che da diversi secoli regolavano gli equilibri complessivi della città, non mancavano cosi di riflettersi e anzi di approfondirsi in seno alla parte più povera degli abitanti. Tra i questuanti (81%), i disoccupati (85%) e gli invalidi (78%) le percentuali di nati a Firenze eguagliavano o superavano la media cittadina. Di contro, nella Parigi del 1829, tra i capifamiglia assistiti in quanto indigenti, quelli originari della città erano meno del 30% del totale. Ma anche in un abitato più vicino a Firenze nello spazio e nelle dimensioni come Torino, più del 90% dei mendicanti arrestati negli anni a cavallo del 1740 proveniva da fuori città e in particolare dai paesi delle valli alpine45. La miseria a Firenze, invece, nasceva entro le mura della città e si trasmetteva di padre in figlio: questo era il primo dato di fatto.
Era una differenza di genesi che non poteva non condurre a una differenza di fisionomia. Dai dati del censimento del 1810, in altre parole, non risultavano nessi precisi tra maggiore densità abitativa, flussi immigratori recenti, presenza maggiore di accattoni e indigenti. Le pur modeste correnti di immigrazione non sembravano essersi ritagliate uno spazio particolare nel reticolo urbano. Le percentuali di nati a Firenze scendevano attorno al 50% - contro il 79,5% di media cittadina - sia in alcuni isolati del centro, intorno a piazza San Firenze e tra via del Corso e via del Proconsolo; sia in alcuni quartieri di «periferia», contigui alle mura, tra piazza San Marco e Porta San Gallo, tra via Laura e Porta Pinti.
Questa sostanziale «equità distributiva» nei flussi demografici solo parzialmente si rifletteva nella mappa del pauperismo fiorentino. La curva degli affitti in città, infatti, divideva in modo abbastanza chiaro l’abitato in due parti. Da un lato, tutto il centro storico - compresa l’isola del ghetto ebraico - racchiuso nel quadrilatero tra piazza Signoria, piazza Santa Croce, piazza del Duomo e piazza Santa Maria Novella, dove le pigioni al di sotto dei 50 franchi annui risultavano grosso modo la metà del totale
Maccanti, I misteri di Firenze, Firenze, 1884, p. 25.
45 Per questi dati si veda L. Chevalier, Classi lavoratrici, cit., p. 584; G. Levi, Mobilità della popolazione, cit., p. 548.
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(56%), mentre quelle oltre i 100 franchi oscillavano tra un terzo e metà. Dall’altro, i quartieri esterni affacciati sulla cinta muraria della città e in modo particolare quelli esposti verso Oriente e verso Mezzogiorno, tra Porta Pinti, Porta alla Croce, Porta San Niccolò, Porta Romana e Porta San Frediano. In questa fascia periferica gli affitti a meno di 50 franchi salivano a circa tre quarti del totale, mentre quelli oltre i 100 calavano a valori percentuali attorno al 10% del totale.
Da questa mappa degli affitti rilevati nel 1810 emergeva, dunque, una polarizzazione tra centro e fascia esterna della città, sostanzialmente estranea agli altri indicatori demografici ed abitativi. Pur se in modo molto più sfumato, la distribuzione in Firenze delle cinque classi di stato economico censite dai rilevatori giungeva a confermare, almeno in parte, tale polarizzazione. Nelle aree del centro storico si addensavano, infatti, percentuali superiori alla media cittadina di «ricchi», di «benestanti», di «comodi»: in piazza Santa Croce essi rappresentavano addirittura la metà dei capifamiglia presenti, mentre in tutto il resto della città ne coprivano mediamente appena il 10%.
Nella fascia dei quartieri esterni le classi di stato economico più abbienti risultavano sovrarappresentate nelle due zone di piazza Santa Maria Novella e di piazza San Marco. Altrove la distribuzione dei capifamiglia per stato economico tornava sui livelli medi, con «poveri» e «indigenti» attorno all’80% del totale. Addensamenti di «indigenti» notevolmente superiori al normale - con valori sul 65-70% a fronte del 37% di media cittadina - si verificavano, invece, nelle due aree del mercato di San Lorenzo, da un lato, e del mercato di Sant’Ambrogio, posto tra piazza Santa Croce e Porta alla Croce, dall’altro.
Alla polarizzazione tra centro e periferia della città, se ne aggiungeva dunque un’altra tra piazze signorili «storiche» e mercati popolari.
Ulteriori conferme in questo senso provenivano dalla distribuzione delle professioni. Possidenti e redditieri si concentravano attorno a piazza del Duomo, piazza Santa Croce, via Tornabuoni, piazza Pitti, piazza Santo Spirito, piazza Santa Maria Novella. Gli accattoni, dal canto loro, rivelavano presenze superiori alla media nei quartieri di San Lorenzo e di Sant’Ambrogio, oltreché nel dedalo di viuzze tra piazza Signoria e l’Arno e nella zona di Porta a Prato; mentre risultavano quasi del tutto assenti nel resto del centro storico, nel ghetto, in Santa Croce.
La distribuzione spaziale della miseria nella Firenze di primo Ottocento non appariva, però, del tutto casuale. Certo, non si trattava di una concentrazione tale da poter avvalorare l’ipotesi dell’esistenza di «inner city slums». Ricchezza e povertà continuavano ad essere contigue e ad intrecciarsi nel reticolo urbano; la presenza della miseria entro le mura della città era talmente diffusa che la sua concentrazione in determinate aree non era mai esclusiva e tale da configurare l’esistenza di veri e propri slums.
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Piuttosto, la miseria seguiva alcuni percorsi obbligati dalla polarizzazione delle attività economiche. Attorno agli affollati mercati della città era più vantaggioso mendicare, più facile sfuggire agli occhi degli sbirri, più probabile ottenere qualche scarto dai banchi di vendita, meno difficile rubare senza essere visti. A partire da queste semplici e concrete opportunità, il pauperismo di massa gettava le sue radici, stendeva le sue piccole reti di relazione, deteneva i suoi spazi di convivenza civile, difendeva le sue possibilità di sopravvivenza. Più che di «inner city slums» si può e si deve, quindi, parlare di «neighbourhood ties»46, di riproduzione endogena della miseria negli interstizi della vita economica e civile della città, di assuefazione plurisecolare a una malapianta che spontaneamente ramificava nei luoghi urbani più congeniali, senza per questo dare luogo a fenomeni di rigetto, di emarginazione e ghettizzazione in «riserve» separate dal resto della comunità cittadina.
Ma per capire di più questi tratti «fisiologici» e «strutturali» del pauperismo fiorentino di primo Ottocento, occorre addentrarsi nell’analisi del suo nocciolo centrale: quello rappresentato dai tre «gironi» concentrici dei capifamiglia censiti come accattoni di professione, come invalidi, come disoccupati permanenti.
I registri del 1810 ci restituiscono una loro fisionomia abbastanza particolare. Nell’insieme di queste tre condizioni di indigenza - accattoni, invalidi, disoccupati - le donne risultavano sottorappresentate (102,8 ogni 100 maschi) rispetto al totale della popolazione fiorentina (110,6) e anche alla sua parte attiva, compresa fra 20 e 69 anni di età (114,7)47. Questo lesero squilibrio nella composizione sessuale raggiungeva la sua punta massima proprio tra gli accattoni, dove su cento maschi le donne erano appena 74,4. In particolare, tra gli indigenti della città c’erano meno coniugate (11%, contro il 29% sul totale della popolazione attiva), più nubili (23%, contro il 15%) e più vedove (10%, contro il 7%). Una medesima distribuzione di stato civile si verificava tra gli uomini, confermando la vicinanza e la diretta proporzionalità di miseria urbana e disgregazione familiare. Tra gli accattoni veri e propri la presenza percentuale di vedovi (10%, contro il 2% cittadino) e di vedove (21% contro il 7%) risultava ancora più alta48. L’indigenza, insomma, attecchiva
46 Cfr. S.J. Woolf, The domestic econonry of thè poor of Florence in thè early nineteenth centufy, Florence, European University Institute, working paper, 1986, p. 4.
47 Sono dati leggermente discordanti da quelli calcolati da Woolf su un campione di suppliche rivolte dai poveri della città alla Congregazione di S. Giovanni Battista, nel quale si registra una più marcata presenza di donne, pari a 133 ogni 100 maschi. Bisogna tuttavia tener presente che i dati censuari sono il risultato di informazioni professionali individuali mentre le suppliche sono compilate su base familiare e le notizie da esse contenute sono riferite all’insieme della famiglia il cui capo si è rivolto alla Congregazione (cfr. S.J. Woolf, Charite', pauvrete' et strutture des ménages à Florence au début du XlXe siede, in «Annales ESC», 39, 1984, 2, pp. 362-363).
48 Una larga preponderanza di vedove si ritrova anche nei mendicanti processati a Parigi tra il
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di più tra gli individui rimasti soli, esclusi da ogni rete di protezione familiare, da ogni solidarietà di parentela.
La distribuzione dei poveri agli estremi della scala di stato civile corrispondeva cosi a un loro addensamento nelle classi di età più giovani e più anziane. 47 indigenti fiorentini su cento avevano meno di 35 anni, a fronte del 41% di media cittadina sul totale della popolazione attiva; mentre addirittura il 34% (contro il 17% cittadino) ne aveva più di 55. Tra i poveri della città l’esclusione dai sistemi di parentela e la conseguente sottorappresentazione di coniugati si accompagnava, cioè, a un vero e proprio spopolamento relativo delle età di mezzo che ne coprivano appena il 18%, contro un dato cittadino corrispondente del 40%. Nello strato particolare degli accattoni la distribuzione in classi di età appariva ancora più sperequata: addirittura il 68% di essi aveva più di 55 anni e solo il 6% ne aveva meno di 35.
Il pauperismo fiorentino continua cosi a differenziarsi da quello di altre città. A Torino quasi due terzi dei «poveri presi a mendicare» tra il 1739 e il 1743, avevano meno di trenta anni49: il loro carattere immigratorio, avventizio, stagionale — e non endogeno — si sposava in questo caso a un’età più giovane e suscettibile di mobilità. L’età più anziana dei miserabili fiorentini unita alla loro preponderante origine cittadina deponeva invece a favore della loro natura «stanziale» e fisiologica.
Ma ciò che li accomunava ai poveri di altre città coeve, anche lontane per geografia e dimensioni, era la prevalenza di famiglie «tronche», l’avanzata massiccia di processi di disgregazione familiare, di isolamento e di emarginazione civile. La perdita di una rete anche elementare di parentele e di solidarietà equivaleva, in altre parole, al punto di non ritorno, alla precipitazione nei diversi gironi della miseria urbana.
Un chiaro riflesso di tale corrispondenza tra destini demografici e destini sociali si ricava dalle risultanze censuarie del 1810 relative ai diversi tipi di aggregato domestico che prevalevano tra gli accattoni di Firenze.
In seno al «girone» centrale del pauperismo fiorentino, infatti, la famiglia nucleare perdeva la propria posizione di maggioranza relativa. Rispetto a un dato cittadino pari al 39%, tra gli accattoni le coppie con figli coprivano appena il 20%. Èra uno dei dati più bassi registrati tra le condizioni professionali della città, vicino non casualmente a quello delle lavoranti della seta, minacciate da analoghi processi di frammentazione delle famiglie. Maggiori frequenze relative si registravano, invece, tra gli accattoni, per le coppie senza figli (30%, contro un dato cittadino del 17%)
1700 e il 1784 (cfr. C. Romon, Le monde despauvres à Parts au XVIIIe siede, in «Annales ESC», 3 7, 1982, 4, p. 749).
49 Cfr. G. Levi, Mobilità della popolazione, cit., p. 547. Dati analoghi sono riscontrati per i poveri ammessi all’Ospedale Saint Louis di Caen nel 1748 e nel 1790 (cfr. J.C. Perrot, Genèse d’une ville moderne, cit., pp. 829-830). Si tratta, com’è ovvio, di raffronti meramente indicativi con fonti diverse, non censuarie, compilate per scopi e situazioni particolari.
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e naturalmente per i vedovi e le vedove solitarie (17%, contro il 7%). D’altra parte le famiglie estese (5%) e multiple (2%) vi risultavano presenti in misura dimezzata rispetto alla media fiorentina.
Origine intraurbana, isolamento e disgregazione familiare, anzianità relativa: questi erano insomma i tre connotati demografici di fondo degli accattoni fiorentini, la cui collocazione all’estremo inferiore della gerarchia sociale cittadina agli inizi dell’Ottocento appariva difficilmente negabile.
I rilevatori del censimento, infatti, registrarono quasi tutti i questuanti (92%) all’interno della classe di stato economico degli «indigenti», mentre il basso livello degli affitti di questa categoria «professionale» - il 51% dei quali sotto i 20 franchi annui e il 93% sotto i 50 - arrivava a toccare il suo massimo assoluto in città. Si trattava di un livello di miseria nettamente superiore anche alle «punte» di povertà riscontrate nei mestieri più decaduti, come la manifattura della seta (61% di «indigenti» e 77% di pigioni sotto i 50 franchi), e nella massa dequalificata e fluttuante degli «uomini di fatica» (54% di «indigenti» e 81% di affitti sotto i 50 franchi). Un salto di qualità, dunque, che del resto trovava riscontro nella collocazione degli accattoni ai limiti, se non oltre i confini, del codice penale napoleonico che esplicitamente - come abbiamo visto - proibiva la questua pubblica. Virtuali fuorilegge, i mendicanti di professione condividevano tuttavia con altri strati sociali fiorentini - e in particolare con quelli appena richiamati delle setaiole e dei faticanti - un medesimo destino di perdita e rottura dei legami elementari di parentela, unito a una età già avanzata. In ognuno di questi strati, la condizione vedovile — nella sua duplice versione di isolamento familiare e di emarginazione degli anziani — era infatti quella maggiormente ricorrente.
A Firenze l’inchiesta industriale compilata su disposizione del ministero degli Interni nel 1811 documentava per «le incannatrici della seta che in numero di 2.400 lavorano a domicilio» un salario medio giornaliero di mezzo franco: per l’esattezza l’equivalente di un «paolo», la stessa moneta che il marchese Torrigiani era solito elargire in elemosina, pari a franchi O,5650. È la cifra più bassa che è possibile leggere nei 136 tableaux della rilevazione. Già alle 252 incannatrici che risultavano occupate, invece che a casa propria, nei 23 opifici della città, veniva assegnata una paga doppia: un franco e 12 centesimi. Ecco dunque che da più parti vengono stabilendosi legami di analogia e contiguità tra il «nocciolo» di pauperismo urbano che abbiamo preso a campione della nostra analisi - gli accattoni -da un lato, e settori sia di manodopera cittadina dequalificata e priva delle
50 Sulla cosiddetta «inchiesta dei tre regni» ordinata da Parigi in tutti i dipartimenti dell’Impero, si veda SJ. Woolf, Contrìbution à Phistoire des orìgìnes de la statistique: Frana 1789-1815, in La statistique en Frana à fepoque napoléonienne. Journée d’e'tudes, Paris, 14 fevrier 1980, s.i.t., pp. 76-77 e 104. A Firenze le tavole dell’inchiesta sono conservate in ASF, Prefettura deir Amo, filza 589.
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protezioni corporative, come nel caso degli «uomini di fatica», sia di manifatture anche di grande tradizione ma sottoposte a un irreversibile processo di decadimento e frammentazione, come nel caso della lavorazione della seta, dall’altro. Non apparirà arbitrario, allora, indicare in questi strati sociali dequalificati o dispersi nel lavoro a domicilio, il «serbatoio» primario, anche se non esclusivo, di una miseria urbana che ancora agli inizi dell’Ottocento manteneva intatti i suoi caratteri di persistenza strutturale e di riproduzione endogena all’interno della città di Firenze. Di 3.110 poveri che in quegli anni si rivolsero alla Congregazione di San Giovanni Battista per averne un pane, dei vestiti, un letto, 1.561 - vale a dire più della metà - dichiararono di esercitare il mestiere di tessitore, specialmente di seta51: di questi 1.450 erano donne. Del resto che «il progressivo decadimento dell’arte della seta dovrà riguardarsi come ben rovinoso»52 lo avrebbe affermato anche Zuccagni Orlandini nel 1848; e un attento osservatore inglese, come Bowring, in quegli stessi anni, avrebbe richiamato l’attenzione sul grande numero di poveri e mendicanti, «sempre a carattere transitorio», che popolavano Firenze, gettati sul lastrico dalla morte del capofamiglia o dalla crisi di particolari settori produttivi della città53. La stessa inchiesta industriale del 1811 denunciava a più riprese l’interscambio tra la massa del pauperismo urbano e quelle lavorazioni artigianali particolarmente soggette a ritmi stagionali e a lunghi periodi vuoti. Come, ad esempio, nel caso dei «Fonditori di ottone» che quando manca il lavoro «si occupano allora di qualche piccolo traffico o son costretti a mendicare».
Il semble normal — sostenevano i delegati della Congregazione di S. Giovanni Battista, massima organizzazione caritativa della città — que des gens aussi miséreux qui n’ont au monde aucune autre ressource que le travail de leurs mains se retrouvent nécessairement dans la détresse si ce travail s’interrompt ou méme (soyons clairs) s’il est réduit de beaucoup54.
Il legame tra stagionalità dell’occupazione e miseria appariva dunque chiaro anche alle autorità dell’epoca preposte al soccorso e al ricovero dei poveri. I diversi «gironi» del pauperismo urbano si aprivano ad intermittenza per tutti gli individui mai protetti oppure progressivamente espulsi dall’«ombrello» previdenziale e assicurativo fornito dalle tradizionali corporazioni di mestiere. Spesso il salto verso l’elemosina si determinava in concomitanza di più fattori: il prolungarsi di periodi di inattività e di disoccupazione forzata, la morte di familiari o comunque la perdita di legami parentali importanti, fasi congiunturali di aumento dei prezzi di
51 Cfr. S.J. Woolf, Charité, pauvreté, cit., p. 367.
52 A. Zuccagni Orlandini, Ricerche statistiche, cit., p. 558.
53 Cfr. G. Bowring, Statistica della Toscana, di Lucca, degli Stati pontifici e lombardo-veneti e specialmente delle loro relazioni commerciali, Londra, 1838, p. 58.
54 Citato in S.J. Woolf, Charité, pauvreté, cit., p. 379.
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generi di prima necessità. Ma ciò che è importante notare, al di là di questi elementi contingenti, è la costante «predisposizione strutturale» - per cosi dire - di larghe fasce di popolazione urbana dequalificata o precariamente occupata a domicilio, ad entrare nelle file dei questuanti e degli accattoni della città. La contiguità fisiologica, in altre parole, di un mercato del lavoro organicamente e largamente stagionale e precario con l’area del pauperismo assistito attraverso i canali della beneficenza pubblica.
In realtà, dunque, il bando della questua per strada tentava — per altro, come abbiamo visto, con scarso successo - di nascondere ipocritamente una situazione in cui la povertà, ben lungi dall’essere una scelta volontaria di «ozio e infingardaggine», si presentava in massima parte come sbocco naturale di un’organizzazione del lavoro protetta e assicurata solo nelle sue parti corporative, più esperte e qualificate. Né Firenze rappresentava in tal senso un’eccezione.
In March 1848 thè Toulouse city council commission investigating conditions in thè locai baking industry observed: «In all branches of industry and commerce, poverty invincibly forces workers to offer their labor at a lower price, either by working for less wages or by working more for thè same wages. Everywhere, under thè influence of necessity, thè exploitation of workers by employers is taking place, without premeditation or planning and as a fatai consequence of our social and politicai organization»55.
Del resto, la contiguità tra pauperismo palese e manifatture dequalificate e frammentate emergeva anche da una rapida occhiata ai «conti» dei bilanci familiari.
Lo stesso Zuccagni forniva a riscontro un quadro sommario ma indicativo delle possibilità e delle modalità di sopravvivenza nella Firenze di primo Ottocento. Il vitto e l’alloggio di «uno straniero di agiate fortune» equivalevano all’incirca a dieci paoli (5,60 franchi) al giorno, quelli di «un uomo d’affari» a due franchi e 80 centesimi. Un artigiano di città «condannato a strettissima economia» riusciva a mangiare con una lira toscana (0,84 franchi) al giorno, mentre un bracciante in campagna ce la faceva anche con un paolo (0,56 franchi). Per 8 soldi (33 centesimi di franco) «un mendicante» — è il termine che usa Zuccagni — poteva comprare «buoni farinacei e buon vino»56. I costi medi per il ricovero giornaliero di un malato in uno degli ospedali della città si aggiravano
55 R. Aminzade, Class, polìtici and early industriai capitalism. A study ofmid-nineteenth century Toulouse, Trance, Albany, State University of New York Press, 1981, p. 41. Rispetto alla tesi foucaultiana del «grande internamento», mi pare invece assai più importante questo rapporto tra mercato del lavoro, sottoccupazione precaria e pauperismo di massa.
56 Cfr. A. Zuccagni Orlandini, Ricerche statistiche, cit., 1, p. 370. Secondo Imberciadori la «sussistenza minima popolare cittadina» corrispondeva a 94 centesimi di franco (cfr. I. Imberciadori, Forze e aspetti industriali della Toscana nelprimo Ottocento 1815-1861, Firenze, 1961, p. 46).
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intorno al franco e trenta centesimi. Quelli per il sostentamento di un povero all’interno del Dépot aperto nel 1813 erano invece assai più contenuti: da 50 a 70 centesimi al giorno, l’equivalente di due zuppe di fagioli — una a pranzo e una a cena — di sei etti di pane, di un quartino di vino «andante». Appena un po’ più bassa era la somma che si spendeva per i detenuti delle carceri: 43 centesimi al giorno57. Insomma la retribuzione del lavoro a domicilio delle donne che incannavano la seta era appena superiore a quello che le autorità spendevano in cibo e vestiti per i detenuti. Ma con una differenza fondamentale: la sopravvivenza dei carcerati era comunque assicurata per tutto l’anno, mentre il lavoro delle incannatrici era garantito - nel migliore dei casi - solo dai quattro agli otto mesi l’anno, come l’inchiesta documentava in modo preciso. Dunque, anche dal punto di vista — necessariamente impreciso e meramente indicativo - dei conti e dei bilanci, il diaframma che divideva le setaiole fiorentine dal pauperismo permanente appariva quanto mai sottile e vulnerabile.
Con i primi anni dell’Ottocento si moltiplicarono, tuttavia, gli sforzi di medici e «benefattori» per ridurre ancora le spese corrispondenti al minimo di sussistenza vitale: «o di paglia o di fieno il corpo ha da esser pieno» era un altro dei proverbi di allora58.
L’invenzione migliore in tal senso fu senz’altro la zuppa Rumford, cosi chiamata dal nome del conte che ne fissò i principi costitutivi: una miscela di orzo, patate e fagioli secchi con l’aggiunta di sedano, carote e rape per insaporirla. A Londra - sostenne il medico Gaetano Palloni di fronte all’Accademia dei georgofili - dove la zuppa Rumford veniva distribuita ai poveri fin dal 1798, una razione costava 16 centesimi di franco, a Parigi addirittura la metà: solo 8 centesimi59. A Firenze, nel mese di dicembre del 1812 funestato dal rialzo dei prezzi del grano, ne vennero distribuite 22.000; nel gennaio successivo il ritmo fu di 400-600 zuppe al giorno60. In quel terribile inverno un decreto del Maire di Firenze aveva fissato a 58 centesimi al chilo il prezzo del «pane venale, senza tritello grosso e senza mescolanza di veruna altra sorta di granaglie, biade, o altre materie che non appartengono alla classe dei grani»61. In realtà il pane di più largo consumo era il cosiddetto «pan basso», scuro, «di cattivo odore e sapore nelle annate di scarso raccolto», mescolato a ogni sorta di tritelli intermedi tra la farina e la crusca, ma dal costo largamente inferiore, intorno ai trenta
57 Cfr. SJ. Woolf, Charitéf pauvreté, cit., p. 369.
58 Cfr. G. Fabbroni, Gli ozi della villeggiatura, cit., p. 52.
59 Cfr. G. Palloni, Sopra la cosiddetta zuppa alla Rumford, in «Atti dell’Accademia dei Georgofili», 5, 1802-1804,1, pp. 353-363; G. Carradori, Ricetta di un brodo per ipoveri, ivi; C. Ridolfi, Risultati dell’uso di zuppe economiche, in «Continuazione degli Atti dell’Accademia dei Georgofili», 1, 1817, pp. 170-176.
Cfr. SJ. Woolf, The treatment, cit., p. 449.
61 ASF, Prefettura dell’Arno, filza 458.
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centesimi al chilo62.
Pochi dubbi, tuttavia, possono restare attorno alla constatazione che l’andamento dei prezzi nei primi anni dell’Ottocento fosse tutt’altro che favorevole ai poveri fiorentini. L’instabilità politica, le guerre napoleoniche, il blocco continentale, il cattivo andamento dei raccolti, erano tutti elementi decisivi nel concorrere a un rialzo inflattivo che, dopo aver toccato il suo massimo tra il 1799 e il 1800, era destinato a rimanere su livelli elevati per tutto il periodo della dominazione francese in Toscana63.
Insomma quelli napoleonici furono anni ancora più duri per il «popolo minuto» di Firenze. Raggiungere ogni giorno quei trenta-trentacinque centesimi necessari per sopravvivere64, doveva essere ancora più difficile di sempre. E sicuramente per una vasta area di occupazioni precarie e stagionali si trattava di un’impresa quotidiana, di un’incognita costante: la battaglia normale di una vita condotta sempre ai limiti della sussistenza.
Méme s’ils restent d’une précision discutable, les résultats ne laissent pourtant aucun doute. Pour près de trois quarts des ménages [del campione di suppliche rivolte alla Congregazione di S. Giovanni Battista], quelle que soit leur taille, le revenu restait inférieur aux besoins essentiels [...] L’incapacité relative de ces ménages à pourvoir à leur besoins de subsistance nous renforce dans la conviction que les ressources déclarées dans les dossiers d’assistance sont sous-estimées et ne tiennent pas compte de revenus supplémentaires. Les familles inventaient sans aucun doute des stratégies de survie parallèles, soit de type non monétaire, par exemple à travers les déchets récupérés sur le lieu de travail ou avec les restes alimentaires que les enfants ramassaient sur les marchés, soit en obtenant des prèts sur gages au Mont-de-Piété, soit encore en sollicitant d’autres formes de charité, privées ou institutionnalisées65.
Di tali strategie alternative di sopravvivenza una delle forme più comuni era rappresentata dal Monte dei pegni. I documenti del tempo illustrano la pratica diffusa di riscattare i capi di vestiario e i gioielli ogni sabato per poi reimpegnarli il lunedì successivo, dopo i «bagordi» della domenica66 e non
62 Cfr. M. Tabarrini, Confronto della ricchezza dei paesi che godono la libertà nel commercio frumentario con quella dei paesi vincolati, s.l., 1795, pp. 88 sgg.; L. Dal Pane, Economia e società a Bologna, cit., p. 33.
63 Cfr. G. De Maria, La dinamica dei prezzi e dei redditi in Italia e nei maggiori paesi del mondo durante il quarantennio 1780-1820, in Accademia nazionale dei Lincei, Napoleone e l’Italia, atti del convegno tenuto a Roma, 8-13 ottobre 1969, 2, Roma, 1973, pp. 20-21, 111-112.
64 Con calcoli che mi sembrano appropriati e corrispondenti a quelli accennati in queste pagine - fermo restando il loro carattere meramente indicativo - S.J. Woolf valuta in questa cifra il minimo di sussistenza vitale a Firenze nei primi anni dell’Ottocento (cfr; S.J. Woolf, Charité) pauvreté, cit., pp. 369 e 373).
65 S.J. Woolf, Charité, pauvreté, cit., p. 373.
66 Cfr. L. Passerini, Storia degli stabilimenti di beneficenza e di istruzione elementare gratuita, Firenze, 1853, p. 751.
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infrequente era addirittura Fuso di impegnare il letto e le lenzuola ottenute dalle istituzioni di carità. In ogni caso il ricorso a questa forma di «prestito» era generalizzato in tutta la città e probabilmente non solo tra i suoi abitanti più bisognosi: nel dicembre del 1808 i pegni depositati a Firenze erano ben 66.33767.
Ma «l’arte di arrangiarsi» dei poveri fiorentini non si arrestava certamente al Monte dei pegni. Parlando del ghetto di Firenze, Jarro scriveva:
qui i poveri vivono di un’altra cosa. Ci sono in una parte separata del quartiere molti egregi trippai. Costoro vendono loro per un soldo, a catinelle, la brodigia in cui fanno sobbollire la trippa: in tal brodigia gettano cavoli, o grosse schioppe di pane, e s’impippiano di quel pastume68. [...]
Per un antico lascito, l’Arciconfraternita della Misericordia dà una certa somma ai malati, che in determinati giorni dell’anno son portati all’Ospedale e la cosa era saputa dai manigoldi, riparati nel Ghetto, che studiano ogni sottile industria per viver di scrocchi. I medici del nostro Ospedale cominciarono ad accorgersi che in quei giorni in cui la Misericordia dava ai malati, portati all’Ospedale, la cosiddetta pasticca, venivano dal Ghetto 10, 12, fin 14 malati. Messi sull’intesa, fu loro facile appurare che i birbaccioni o si procuravano o fìngevano lievi malattie, o mantenevano gelosamente gli avanzi di vecchie malattie e calavano in quei giorni all’Ospedale per avere il franco e mezzo o i due franchi a testa, secondo l’uso. La Misericordia credette di provvedere, non mettendo più, come soleva, il denaro sul letto dell’ammalato, ma dando un buono e dicendo che avrebbe pagato il denaro soltanto alla fine di ogni mese. Ma i malati del Ghetto piovevano sempre ne’ giorni in cui, per l’antico lascito, toccava loro la gratificazione. E invece de’ denari, pigliavano i buoni. Che era accaduto? Nel Ghetto, in una specie di borsa, si giocavano i buoni della Misericordia al rialzo, o al ribasso, secondo che si era più lontani, o più vicini, al giorno del mese in cui dovevano essere pagati. Ai primi del mese, il giorno in cui la miseria più li scottava, i malfattori che li avevano, li vendevano anche per pochi centesimi. Altri poi li andava a riscuotere69.
Come si vede, l’ingegno non mancava e molteplici potevano essere le risorse di sopravvivenza. Ogni elemento di questo quadro, tuttavia, dall’utilizzazione intermittente e sistematica del Monte dei pegni o della brodaglia dei trippai, alla corrispondenza tra le paghe delle setaiole e i minimi di sussistenza vitale, andava verso la definizione di un pauperismo strutturale, riprodotto all’interno della città e trasmesso di padre in figlio. Le sovrapposizioni non casuali tra bassi livelli degli affitti e strutture familiari «tronche» di accattoni e di settori declinanti e dequalificati delle manifatture cittadine, portavano alla medesima conclusione: l’inserimento della povertà come segmento organico e funzionale del mercato del lavoro urbano. La miseria endemica, insomma, non era che l’altra faccia della disoccupazione e della sottoccupazione endemica.
67 S.J. Woolf, The treatment, cit., p. 442.
68 Jarro, Firenze sotterranea, Firenze, Bemporad, 1900, p. 75.
69 Ivi, p. 199.
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Ma fìnghiamo - si domandava Francesco Maria Gianni - che in una notte sparissero tutti quei poveri disoccupati validi che si perseguitano come molesti, come poltroni, e si sente chi vorrebbe rinchiudergli in case di forza o di lavoro, e chi vorrebbe cacciargli dallo stato, e non potendo gli caccia dalla città, e poi mi dica dove si troveranno per una scarsa mercede quelli individui che saranno chiamati quando le vicende favorevoli alle manifatture di commercio richiederanno braccia inservienti a tante opere, senza le quali le manifatture non sarebbero eseguite?70
Il discorso non potrebbe essere più chiaro. Ma i criteri che guidavano l’azione delle autorità in questo campo erano, invece, sempre di ordine eccezionale e straordinario. La povertà si definiva ai loro occhi come un «malcostume» volontario o come una disgrazia accidentale e contingente. Mai come lo sbocco obbligato di una esasperata precarietà e stagionalità del lavoro. Il risultato era cosi quello di un «décalage marqué» - come lo definisce Woolf - tra i bisogni espressi da questa area di popolazione urbana e le forme di carità praticate dalle istituzioni preposte a tale compito. Una reticenza estrema a fornire soccorsi in denaro, una propensione marcata a distribuire pane, come se fosse una panacea universale: questi erano, ad esempio, i criteri-guida della Congregazione di San Giovanni Battista71, una delle cinque organizzazioni caritative della città, responsabile tra il 1808 e il 1809 di una quota variabile tra il 33% e il 45% delle spese totali devolute dall’amministrazione francese all’assistenza a domicilio dei poveri. Le famiglie che avevano usufruito una volta degli aiuti della Congregazione, assai difficilmente potevano accedervi una seconda. La convinzione di fondo, insomma, era quella che i poveri avessero bisogno solo di un soccorso temporaneo: quel tanto che bastasse a far superare loro uno stato di necessità occasionale.
All’altro estremo di questa politica si collocavano i «contenitori», le «case di tolleranza» della miseria, come il Depot aperto nel 1813. Quattro anni più tardi, nel 1817, dopo la Restaurazione, con il nuovo nome di Pia Casa di lavoro, il deposito di mendicità istituito dai francesi accoglieva ancora 2.008 poveri della città: 1.054 maschi e 954 femmine72. Oltre al Depot, nella città esistevano da tempo altri «contenitori» della miseria. Come l’Ospizio di Sant’Onofrio, capace di 85 letti, che apriva dopo mezzanotte e dava da dormire, non prima di una recita collettiva del rosario davanti all’immagine del santo, a donne anziane rimaste sole o ripudiate dalle loro
70 F.M. Gianni, Discorso sui poveri (1 maggio 1804), in Id., Scritti pubblici di economia cit., p. 145. Si veda anche C. Ciano, 1/ problema delia mendicità nella Toscana napoleonica, in «Bollettino storico pisano», 42, 1973, pp. 149-225.
71 Se ne veda la ricostruzione di S.J. Woolf, Cbarite', pauvrete, cit., p. 376.1 soccorsi in denaro e in generi di varia necessità (pane, letti, vestiti, biancheria) distribuiti dalla Congregazione oltrepassavano i 50.000 franchi l’anno; le spese totali dell’amministrazione francese in questo settore erano pari a circa 140.000 franchi annuali (cfr. L. Passerini, Storia degli stabilimenti di beneficenza, cit., pp. 87 sgg.).
72 Cfr. Notizie e guida di Firenze e de’ suoi contorni, Firenze, 1841, pp. 212-213.
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famiglie. All’infanzia abbandonata era invece dedicata una sequenza di istituzioni in ordine di età. Ai «gettatelli» appena nati era destinato il brefotrofio di Santa Maria degl’Innocenti che ospitava dai sei ai settecento bambini in condizioni - come vedremo - proibitive. Gli orfanatrofi del Bigallo - che ospitava più di trecento bambini tra i 3 e i 10 anni - e di San Filippo Neri, dove finivano circa 60 orfanelli di età superiore, tra i 10 e i 14 anni, proseguivano la serie. Per completare la quale era necessario includere anche le quattro scuole femminili aperte da Pietro Leopoldo73 che raccoglievano circa 1.300 bambine di età superiore a sette anni. Parte degli orfani veniva affidata a famiglie di campagna, scatenando una corsa ai sussidi elargiti dall’Ospedale degl’Innocenti e dalle altre istituzioni di carità: le condizioni di vita di questi bambini risultavano cosi addirittura Pe^i°ri di quelli internati in città, costringendo le autorità a comminare penali nei casi - tutt’altro che rari, come vedremo - di morte degli affidati.
La morte, infatti, rimaneva ancora agli inizi dell’Ottocento la vera, grande «pattumiera» dei poveri fiorentini. I tassi generici di mortalità, infatti, denunciavano a Firenze un livello sensibilmente più alto, non solo rispetto ad altre città simili per dimensione e geografia come Genova e Bologna, ma anche rispetto a grandi metropoli come Londra e Parigi. Il tasso generico di mortalità fiorentino, superiore negli anni tra il 1809 e il 1813 al 45 per mille, risultava per altro assai più alto anche di quello, oscillante attorno al 30 per mille, calcolato da Ugo Giusti per tutto il territorio del Dipartimento dell’Arno74. Né pareva trattarsi per Firenze di «punte» statistiche dovute a una particolare e contingente inclemenza delle epidemie, delle guerre, dei cattivi raccolti. I tassi specifici di mortalità per ogni classe quinquennale di età, di cui Zuccagni Orlandini ha calcolato la media per il decennio 1818-1827, non si discostano molto da quelli calcolati da Giusti sul triennio 1809-1812-181375. Solo a partire dalla metà del secolo, infatti, Firenze riuscirà ad inserirsi stabilmente nel trend nazionale di declino del tasso di mortalità, riportando il suo quoziente generico su valori attorno al 35 per mille. Dai dati che si conoscono per il quinquennio 1809-1813 risultava una «normale» supermortalità maschile (107,0 maschi deceduti per ogni 100 femmine), leggermente inferiore a quella coeva bolognese (111,3) documentata da Bellettini76. Anche il ciclo stagionale dei decessi non presenta grandi differenze rispetto alla tendenza
73 Le notizie su queste istituzioni caritative sono per la maggior parte tratte da L. Passerini, Storia degli stabilimenti di beneficenza, cit.
74 Cfr. U. Giusti, Saggio di statistiche Napoleoniche. Il Dipartimento dell’Arno, in Istat, Decennale 1926-193 6, Roma, 1936, p. 2 2.
75 Cfr. A. Zuccagni Orlandini, Ricerche statistiche, cit., 1, p. 515; U. Giusti, Saggio di statistiche, cit., p. 26.
'6 I dati fiorentini sono tratti da ASF, Archivio di stato civile, filze 12186 e 12187; quelli bolognesi da A. Bellettini, La popolazione, cit., p. 199.
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media generale, con punte massime estive (in agosto e settembre) ed invernali (in gennaio) e una minima in giugno. Confrontato con quello di Bologna, il quadro fiorentino mostrava un grado notevole di somiglianza. Composizione sessuale e andamento mensile non concorrevano a definire, quindi, una particolare peculiarità della più accentuata incidenza della mortalità a Firenze. Anzi, tendevano ad attribuirle un carattere più strutturale che straordinario, più fisiologico che eccezionale.
Il vero elemento di diversità risiedeva, invece, nella distribuzione dei morti per classi di età. A Firenze moriva un numero molto maggiore di bambini. Se si presta fede ai registri dell’Ufficio di stato civile impiantato dai francesi - i cui dati sono sempre viziati dai criteri aleatori con cui sono computati i nati morti e i figli illegittimi - tra il primo gennaio e il 31 dicembre del 1809 erano nati in città 3.016 bambini. Nello stesso arco di tempo vennero denunciati i decessi di 1.221 creature la cui vita era durata meno di un anno77. Non molto dissimile è il quoziente specifico di mortalità calcolato da Giusti come media del triennio 1809-1812-1813 sugli abitanti di Firenze fino a un anno di età: 418,4 morti ogni mille individui. In sostanza nella Firenze di primo Ottocento riusciva a malapena a sopravvivere un neonato su due. Un dato drammatico se si pensa che in tutta la Toscana, negli stessi anni, il tasso di mortalità fino a un anno di età risultava praticamente dimezzato rispetto a quello fiorentino: 275,4 ogni mille nati vivi, grosso modo alla pari con quello del Piemonte (278,8) e della Liguria (245,3)78. In valore percentuale sul totale dei decessi la mortalità infantile fino a un anno di età copriva a Firenze più del 28%; sommata a quella dei bambini fino a quattro anni sfiorava la metà (46,2%). Nel decennio 1831-1840 questa distribuzione non sarebbe variata di molto: 26,8% fino a un anno, 45,9% fino a cinque anni.
Erano percentuali non molto lontane da quelle del «Libro dei morti» fiorentino del Quattrocento che assegnava ai «fanciullini» e agli «infantuli» il 40,6% del numero totale dei defunti79. Nella prima metà dell’Ottocento anche città vicine a Firenze come Genova e Bologna rimanevano abbastanza lontane dai valori fiorentini: sul totale dei morti accertati i bambini fino a quattro anni detenevano quote nell’ordine del 40%.
Questa peculiarità fiorentina non può non metterci in allarme circa
77 Le fonti di questi dati sono il registro dei morti per l’anno 1809 conservato in ASF, Prefettura deli*Arno, filze 148 e 149; e il prospetto riassuntivo dei nati in ASF, Archivio di stato civile, filze 12184 e 12185.
78 Cfr. C. Corsini, Aspetti demografici dell’Italia nel periodo napoleonico: la mortalità infantile, in «Genus», 22, 1966,1-4, pp. 191 e 196. Altre ricostruzioni condotte su parrocchie veneziane e torinesi alla fine del Settecento davano i quozienti di 238,1 e 383,9. A Bologna nei primi anni dell’Ottocento il tasso di mortalità infantile era del 321 per mille (cfr. A. Bellettini, La popolazione, cit., p. 214).
Cfr. Notizie e guida di Firenze, cit., p. 581.1 dati del «Libro dei Morti» si riferiscono al periodo 1385-1430 e sono tratti da D. Herlihy - C. Klapisch, Les Toscane et leur familles. Une étude du Catasto fiorentine de 1427, Paris, 1978, pp. 458-459.
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l’effettiva attendibilità dei dati registrati dall’Ufficio di stato civile: già per le risultanze statistiche bolognesi - sensibilmente inferiori a quelle di Firenze - Athos Bellettini esprimeva l’ipotesi di una sopravvalutazione della mortalità maschile, particolarmente nelle prime classi di età80. La risposta a questi dubbi, come al solito, non può essere né certa né univoca. Larghe zone d’ombra permangono sui criteri che hanno guidato queste rilevazioni statistiche, principalmente rispetto ai punti già ricordati degli illegittimi e dei nati morti. È tuttavia possibile allargare ulteriormente l’orizzonte dei riferimenti e delle fonti, per istituire alcuni raffronti significativi.
Come abbiamo visto, l’Ospedale degl’Innocenti era l’istituzione preposta al ricovero degli infanti abbandonati. Tra il 1774 e il 1794 il brefotrofio accolse 19.817 bambini, al ritmo non indifferente di quasi mille «gettatelli» all’anno. Di questi ben 16.362, vale a dire più dell’80%, morirono di stenti e di malattie all’interno .dell’ospedale o presso le famiglie di campagna cui erano stati affidati. Nei primi dieci anni dell’Ottocento l’affluenza degli «innocenti» non diminuì: 10.381 bambini entrarono all’Ospedale, 6.247 morirono entro le sue mura nel corso del decennio, 2.354 conobbero uguale sorte nelle famiglie di affidamento. Solo 870 maschi vennero restituiti alla vita civile insieme a 405 femmine che riuscirono a maritarsi: nel complesso poco più del 12% riuscì a sopravvivere al «ricovero»81. Come si vede, una vera e propria «strage degli innocenti», le cui cause non era poi molto difficile individuare.
I cattivi metodi igienici allora in uso — annotava Passerini a metà del secolo — il non molto praticato sistema di inviare i fanciulli alla campagna, da non molti anni introdotto; e finalmente la frequenza delle epidemie vaiolose, le quali prima dell’utile scoperta di Jenner, mietevano la maggior parte delle famiglie, ove uno solo ne fosse rimasto attaccato82.
La verità, sostenuta dallo stesso Passerini, è che almeno fino al 1784 i bambini accolti nell’Ospedale venivano tenuti tutti insieme «ammassati in un oscuro, angusto, sudicio e fetente locale». Per ognuno dei trovatelli il brefotrofio spendeva - secondo il regolamento, ma niente vieta il sospetto che i livelli effettivi fossero ancora minori - circa 13 centesimi al giorno: una cifra irrisoria, abbondantemente al di sotto dei minimi di sussistenza degli adulti. Non mancarono denunce anonime indirizzate al prefetto secondo le quali nell’Ospedale degl’Innocenti i bambini morivano di fame83. I risultati a dir poco fallimentari convinsero, a poco a poco, le
80 Cfr. A. Bellettini, La popolazione, cit., p. 224.
81 Per questi dati si vedano L. Passerini, Storia degli stabilimenti, cit., pp. 208 sgg.; Notizie e guida di Firenze, cit., pp. 192 sgg..
82 L. Passerini, Storia degli stabilimenti, cit., p. 208.
83 Cfr. SJ. Woolf, Tbe treatment, cit., p. 457.
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autorità a dare maggior impulso all’affidamento esterno. Ma le cose non cambiarono granché.
Nel decennio successivo entrarono nel brefotrofio 12.169 trovatelli, ma ne mori quasi il 70%, in proporzioni inverse rispetto ai periodi precedenti: 3.176 cessarono di vivere dentro l’Ospedale e ben 5.179 vennero restituiti cadaveri dalle famiglie contadine cui erano stati affidati. A queste famiglie veniva, del resto, elargito un sussidio di 25 centesimi di franco al giorno per il sostentamento di ogni fanciullo, più un corredo elementare di biancheria e di vestiario. Ma la pena in caso di morte dell’affidato era semplicemente quella - come dire, «tautologica» - della perdita del sussidio. Un premio di 50 franchi era invece stabilito per chi allevava un trovatello fino all’età di 18 anni per i maschi e di 25 per le femmine. Il risultato effettivo era cosi quello di una corsa al sussidio e di un disinteresse totale - nella maggior parte dei casi - per la sorte della creatura avuta in custodia. Le condizioni di vita e, alla fine, la morte di quest’ultima venivano nascoste il più possibile alle autorità per non interrompere i sostegni finanziari, che naturalmente erano utilizzati solo in minima parte per la sopravvivenza dell’affidato.
Questi dati davvero drammatici, documentati in modo preciso e concordante dalle due diverse fonti analizzate, sembrano dunque dare forza, o quanto meno togliere qualche dubbio, alla sensazione di un quadro abnorme ed eccezionale della mortalità infantile a Firenze. Ma la domanda alla quale è più difficile trovare una risposta è ancora quella che riguarda le cause di tale supermortalità infantile.
Le statistiche che a tale proposito si conoscono84 sono tuttavia concordi nell’assegnare un ruolo preponderante ai traumi e alle infezioni connesse con il parto e, quindi, alle morti quasi immediate dei neonati. Il problema era, dunque, in larga parte quello più generale dello «stato di minorità» scientifica dell’ostetricia, considerata nell’organizzazione accademica del tempo una disciplina minore nell’ambito della chirurgia e praticamente affidata a persone prive di cognizioni mediche e di status professionale come le levatrici85. Oltretutto a Firenze le levatrici erano anche poche. Il censimento del 1810 ce le restituisce in numero di 27, vale a dire una levatrice per 1.326 donne: intorno al 1840 in Lombardia ce ne era una ogni 845 donne86.
Superato il trauma della nascita, l’esistenza infantile era messa a repentaglio da due grandi gruppi di affezioni: dalle malattie dell’apparato digerente e respiratorio. Come vedremo, allo scarso valore nutritivo del latte materno «giallognolo e di un
84 Cfr. M.L. Betri, Le malattie dei poveri. Ambiente urbano, morbilità, strutture sanitarie a Cremona nella prima metà dell’Ottocento, Milano, Angeli, 1981, p. 80.
°5 Cfr. G. Prontera, Medici, medicina e riforme nella Firenze della seconda metà del Settecento, in «Società e storia», 7, 1984, p. 807.
86 Cfr. M.L. Betri, op. cit., p. 115, n. 37. Si veda anche Y.M. Bercé, L’introduction de la vaccination antivariolique en Toscane, cit., p. 604.
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sapore come burro rancido» si sostituiva ben presto un’alimentazione a base di «cibi grossolani [...] non adattati alle deboli forze digerenti de’ teneri bambini» (in prevalenza pane tritato nel latte o nel brodo), molto spesso causa di coliche, vomito, diarrea. La scarsezza di principi nutritivi generava inoltre tipiche malattie da carenza quali lo scorbuto e il rachitismo [...] Alla crescita dei fanciulli della prima metà del secolo scorso, d’altra parte, si riservava un’attenzione molto minore dell’attuale: la miseria diffusa, il pessimo riscaldamento delle abitazioni, gli erronei criteri seguiti nell’abbigliamento (un riparo ora eccessivo, ora insufficiente dagli agenti atmosferici), l’effettiva trascuratezza di numerose madri disponeva quindi organismi già gracili a contrarre durante i rigori invernali bronchiti, polmoniti e affezioni delle prime vie respiratorie altamente letali87.
Nei rapporti dei medici condotti che sono conservati presso il fondo della Prefettura deir Arno, non infrequenti sono le tracce di epidemie infantili di «tosse convulsa o cavallina ch’ha fatto un macello di fanciulli» (comune di Londa, nel Mugello, 22 gennaio 1812), di vaiolo (12 bambini morti a Empoli, 31 dicembre 1812), di «dyssenterie épidemique regnant à cette epoque dans sa plus grande fureur» (Firenze, estate 1812)88. Ma assai diverso era, in ultima analisi, l’atteggiamento diffuso, il senso comune nei confronti della mortalità infantile. In un regime demografico ancora caratterizzato da alti tassi di natalità e di mortalità, la nascita di un bambino era per lo più un evento ripetitivo, la sua vita un bene sostituibile e riproducibile, la sua morte una selezione naturale difficilmente contrastabile. Assai lunga e difficile era la strada che la maternità doveva ancora percorrere per uscire dalla sfera della magia, del folklore, della casualità ed entrare nell’orizzonte della consapevolezza e della scienza89.
D’altra parte, questo ordine di considerazioni poteva allargarsi — mutatis mutandis - all’intero campo dell’assistenza ospedaliera e del progresso medico. Il faticoso cammino della teoria e della prassi sanitaria90 si intrecciava, agli inizi dell’Ottocento, con gli ultimi scorci di un modello demografico ancora di antico regime, contraddistinto da uno «zoccolo» di mortalità rigida sul quale si innestavano ricorrenti crisi epidemiche che dalla peste erano passate al colera attraverso il tifo e il vaiolo91.
A Firenze l’Ospedale di gran lunga più importante era quello di Santa Maria Nuova, che dopo l’ampliamento del 1783 era capace di 1.282 letti, con una media di quattro-cinquemila ricoverati all’anno. Al suo interno risiedeva un collegio di medici e di chirurghi ritenuto, anche all’estero, di
87 M.L. Betri, op. cit., pp. 83-85.
88 ASF, Prefettura del?Arno, filze 82 e 453.
89 Su questi temi cfr. C. Pancino, Il bambino e ?acqua sporca. Storia del?assistenza al parto dalle mammane alle ostetriche (secoli XVI-XIX), Milano, Angeli, 1984.
90 Cfr. A. Cazzaniga, La grande crisi della medicina italiana nel primo Ottocento, Milano, 1949; G. Cosmacini, Teoria e prassi mediche tra Rivoluzione e Restaurazione: dal?ideologia giacobina al?ideologia del primato, in Storia d’Italia, Annali, 7, Malattia e medicina, Torino, Einaudi, 1984, pp. 153-207.
Cfr. E. Sori, Malattia e demografia, ivi, p. 551.
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fama europea92. Come risulta da una tavola sinottica compilata tra il luglio e il dicembre del 185393, le malattie più frequenti erano la bronchite e la tubercolosi (curate con bevande emollienti, ioduro di ferro, olio di fegato di merluzzo), coliche, diarrea e febbri gastriche (curate con laudano, mignatte all’ano e dieta alimentare), febbri periodiche e reumatiche (curate con solfato di chinina), febbri tifoidee (curate ancora con vescicatori e mignatte all’ano), miliare e peritonite (curate con salassi, clisteri emollienti e sempre mignatte all’ano). Il quadro, come si vede, era tutt’altro che rassicurante. In quei sei mesi entrarono nell’ospedale 317 malati: 200 guarirono, 62 morirono, 55 vennero rubricati sotto un enigmatico «esito incompleto». Il tasso di mortalità arrivava cosi a sfiorare il 20% ed era grosso modo rimasto lo stesso fin dagli anni Settanta del secolo precedente.
Santa Maria Nuova non rappresentava affatto un’eccezione. Come ci riferisce Woolf, tra il 1807 e il 1812 nei 17 ospedali del Dipartimento dell’Arno entrò una media annuale di 13.985 pazienti: la media di decessi fu di 2.577, pari al 18%94. Negli anni di amministrazione napoleonica questa era all’incirca la media «normale» di ogni struttura sanitaria: 15% all’Ospedale maggiore di Milano e a quello di Venezia, 17% a Bologna, 22% a Padova, 23% a Brescia e Vicenza, 24% a Mantova95. Mettere piede in un ospedale, insomma, equivaleva a un rischio piuttosto che a una salvezza.
Si vedono tanti sventurati - erano le parole di Luca Donati, chirurgo dell’ospedale di Orbetello - portarsi agli Spedali con una terzana, e quindi cadere in un tifo; altri andarvi puliti di vita, ed acquistare una rogna e molti altri malanni, che il più delle volte, per non accusare i letti degli spedali come sorgenti di mille infezioni erpetiche, maligne e tabiche, tutto si riferisce alle predisposizioni di quello che è restato vittima di dette acquisite malattie, e senza pensar più oltre, si tira di lungo e si sacrifica l’umanità contro quei principi dai quali ebbero origine gli spedali [...] Oltre al danno che ne resulta alla società, per la perdita di tanti individui, ne nacque la rovina degli spedali medesimi, perché [...] vi si perpetuano centinaia di infermi che, divenendo incurabili, non lasciano gli spedali, se non alla morte96.
La polemica di Donati si indirizzava contro una concezione ancora «medievale» dell’ospedale come asilo e ricovero dei poveri, sani o malati che fossero, con tempi di soggiorno lunghissimi. I 114 degenti nell’Ospedale di Santa Maria Nuova che vennero registrati nel 1810 dai rilevatori
92 Cfr. V. Mondat, Topographie hygienique de Florence, Firenze, 1841, p. 115. Per le notizie sull’Ospedale cfr. L. Passerini, Storia degli stabilimenti, cit., pp. 349 sgg.
93 Cfr. F. Luciani, Tavola sinottica delle malattie osservate e curate nel R. Arcispedale di Santa Maria Nuova di Firenze nel secondo semestre del 1853, Bologna, 1854.
94 Cfr. S.J. Woolf, Tbe treatment, cit., p. 455.
95 Cfr. G. Cosmacini, op. cit., p. 175 n. 69.
96 Citato in S.J. Woolf, Tbe treatment, cit., p. 454.
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del censimento, erano tutti senza eccezione qualificati come «indigenti» e «malati incurabili». Lo stesso accadeva per i 479 ricoverati nello Spedale di San Bonifazio. Nel 1809 la media di giornate di ricovero per malato era a Santa Maria Nuova di 52 giorni, a San Bonifazio di 73. Per ognuna di queste giornate l’amministrazione dell’Ospedale di Santa Maria Nuova spendeva la somma di 80 centesimi per paziente: un trattamento più che decoroso, se raffrontato a quello offerto dal Depot de mendicité o dall’Ospizio di Sant’Onofrio. L’ospedale, dunque, era anche e forse soprattutto una delle strategie di sopravvivenza a disposizione dei poveri della città. La sua funzione sociale di «contenitore» mascherato del pauperismo urbano appariva senz’altro decisiva, se non addirittura preponderante rispetto a quella sanitaria.
Il cerchio, cosi, si chiudeva. Miseria, malattia e morte si ricongiungevano all’interno del medesimo universo urbano, legate come erano da una contiguità fisica e da una promiscuità costante, prima ancora che da qualsiasi nesso di causalità. Non c’è bisogno dell’occhio rigoroso di un medico per scorgere la natura sociale delle degenze che ricorrevano nel quadro statistico dell’Ospedale di Santa Maria Nuova: denutrizione e cattiva alimentazione, pessime condizioni abitative ed esposizione prolungata ai rigori climatici, assenza pressoché totale di privacy e di criteri igienici elementari con susseguente predisposizione al contagio e all’infezione epidemica. D’altra parte, lo snaturamento dell’istituzione ospedaliera a «casa di tolleranza» della miseria non costituiva che il corrispettivo di una più generale integrazione del pauperismo di massa negli equilibri sociali e produttivi della città. Ancora ai primi dell’Ottocento, Firenze rappresentava un modello peculiare di riproduzione endogena della miseria: frutto della decadenza di grandi manifatture di tradizione rinascimentale, della perdita progressiva dell’«ombrello» previdenziale e assicurativo offerto dalle corporazioni di mestiere, della frammentazione e della esasperata precarietà e stagionalità del mercato del lavoro urbano.
I viaggiatori di passaggio a Firenze in quegli anni non trovavano gli sciami di poveri giovani, immigrati, sradicati e fluttuanti, cui si erano abituati in altre metropoli europee. Trovavano invece vecchi e vedove, costretti all’infamia dell’accattonaggio nella stessa città che li aveva visti nascere, dalla mancanza di lavoro, dalla malattia, dalla perdita di ogni legame familiare, di ogni elementare rete di solidarietà e di protezione.