L'ideologia nobiliare nella Francia di antico regime. Note sul dibattito storiografico recente

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Title
L'ideologia nobiliare nella Francia di antico regime. Note sul dibattito storiografico recente
Creator
Diego Venturino
Date Issued
1988-01-01
Is Part Of
Studi Storici
volume
29
issue
1
page start
61
page end
101
Publisher
Fondazione Istituto Gramsci
Language
ita
Format
pdf
Relation
Le parole e le cose: un'archeologia delle scienze umane, Italy, Rizzoli Ed., 1967
Subject
interpretation
commentary
hermeneutics
discontinuity
extracted text
L’IDEOLOGIA NOBILIARE NELLA FRANCIA
DI ANTICO REGIME.
NOTE SUL DIBATTITO STORIOGRAFICO RECENTE
Diego Verrino
La definitone del problema. È ormai invalso l’uso di datare le origini della moderna storiografia sulla nobiltà francese di antico regime a partire dalle famose pagine delle «Annales» degli anni Trenta in cui Marc Bloch e Lucien Febvre invitavano a un rinnovato interesse per quella componente essenziale della società prerivoluzionaria1. L’uso è giustificato. Proprio a partire da quegli anni un nuovo cantiere di studi ha cominciato lentamente a organizzarsi, certo più ricco per metodi e risultati di quello che già nel XIX secolo aveva impegnato storici non mediocri, ma per i quali la nobiltà era ancora un problema politico e non soltanto storiografi-co2. Una nuova immagine di essa si è cosi affermata nell’ultimo cinquantennio soprattutto a opera delle scuole storiche francese e americana3. Le suggestioni dei primi direttori delle «Annales» hanno insomma trovato l’eco che meritavano, sono state lievito fecondo. Ma non tutte hanno avuto uguale fortuna.
Questo lavoro è frutto d’un seminario tenutosi nell’ambito dei corsi per il dottorato di ricerca in «Storia della società europea» (II ciclo) presso il Dipartimento di storia dell’Università di Torino coordinato dai prof. G. Ricuperati, R. Bordone e L. Guerci.
1 M. Bloch - L. Febvre, Les noblesses. Reconnaissance generai da terrain, in «Annales d’histoire économique et sociale», Vili, 1936, pp. 228-242 e 366-378. Cfr. anche Comte de Neufbourg, Les noblesses. Projet d’un enquéte sur la noblesse francasse, ivi, pp. 243-255 (trad. it. di alcune delle pagine di Bloch e Febvre in Problemi di metodo storico, a cura di F. Braudel, Bari, Laterza, 1963, pp. 12-19). Già qualche anno prima gli stessi Bloch e Febvre avevano attirato l’attenzione sui ritardi degli studi sulla nobiltà (Au bout d’un an, in «Annales d’histoire économique et sociale», II, 1930, pp.1-3).
2 Ancora interessanti sono gli studi di Giraud, Histoire de Pesprit révolutionnaire des nobles en France, Paris, s.n.t., 1818; C. Louandre., La noblessefranose sousfancienne monarchie, Paris, G. Charpentier, 1882, e tra i due secoli: H. Baudrillart, Gentifchommes ruraux de France, Paris, Firmin-Didot, 1894; G.D’Avenel, La noblesse franose sous Richelieu, Paris, Colin, 1901; P. De Vaissiere, Gentilshommes campagnards de tandenne France, Paris, Perrin, 1903 (rist. Genève, Slatkine, 1975 e Paris, Presses du Village, 1986).
3 Indichiamo alcune rassegne e alcuni studi da cui è possibile trarre un panorama generale della bibliografia e dei temi più importanti del recente dibattito sulla nobiltà: P. Du Puy De Clichamps, La noblesse, Paris, Puf, 1968; G. Borelli, Ilproblema della nobiltà:preliminari di una ricerca storica, in «Economia e storia», XVIII, 1970, pp. 486-503; P. Goubert-J. Meyer, Lesproblèmes de la noblesse au XVII siede, in Actes du XIII Congrès International de Sciences historiques, Moscou 70, Moscou,



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Se si prescinde dalle vecchie ricerche di Magendie e Carré4, ciò che è mancato è stato uno sforzo sistematico di ricostruzione delle linee generali dell’ideologia del gruppo. Solo da una ventina d’anni e nell’ambito di uno spostamento che ha condotto numerosi storici di varia formazione dalla storia sociale alla storia delle mentalità, dalla «cave au grénier»5, l’attenzione non casuale di alcuni di essi si è rivolta verso un aspetto degli studi nobiliari che pure Bloch e Febvre avevano individuato con chiarezza:
Insomma da tutto questo - diritti, ranghi, condizioni di vita - emerge uno specifico stato d’animo? e, se si, qual è? Che cosa si pensa nella nobiltà o nelle nobiltà? Di sé, degli altri, del paese, dello stato? Si pensa, si sente esattamente come altrove? e con
1973, t. 1, partie V, pp.42-67; R. Dauvergne, Leproblème du nombre des nobles en Frante au XVIII e siècie, in Aa. Vv., Hommage à Marcel Reinhard. Sur lapopulation franose au XVIII et XIX siècles, Paris, 1973, pp. 181-19 2; F. Billacois, La crise de la noblesse europèenne (1550-1650). Une mise aupoint, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», XXIII, 1976, pp. 258-277; C. Capra, La nobiltà europea prima della Rivoluzione, in «Studi Storici», XVIII, 1977, pp. 117-138; O. Di Simplicio, La crisi della nobiltà, in «Studi Storici», XVIII, 1977, pp. 201-216; Y. Meyer, La noblesse franose au XVIII siècie: apersi des problèmes, in «Acta Poloniae Historica», XXXVI, 1977, pp.7-46; A. Corvisier, La noblesse militaire: aspects militaires de la noblesse franose du XV et XVIII siècie: e'tats des questions, in «Histoire sociale - Social history», XI, 1978, pp. 336-355; J.H.M. Salmon, Stormover thè noblesse, in «Journal of Modem History», LIII, 1981, pp. 242-257; J.M. Constant, Lesstructures sociales et mentales de Panoblissement: analyse comparative d’e'tudes recentes, in L’anoblissement en France, XV -XVIII siècles, Tbéories et realités, Actes du Colloque de Bordeaux, 27 nov. 1982, Bordeaux, Pub, 1985, pp. 37-67; O. Di Simplicio , Istituzioni e classi sociali: l’egemonia nobiliare, in La storia a cura di N. Tranfaglia - M. Firpo, Torino, Utet, 1987, III, pp. 527-551, con una ricca anche se eterogenea bibliografia. Tra i numerosi studi di storia sociale vanno segnalati, oltre all’ormai classica ricerca di J. Meyer, La noblesse bretonne au XVIII siècie, Paris, Sevpen, 1966, J.P. Labatut, Les Ducs et Pairs de France au XVIII siècie, Paris, Puf, 1972; J. Wood, The Nobilita of thè Election of Bqyeux, 1463-1666: Continuiti through change, Princeton, Princeton University Press, 1980 (nell’introduzione fa il punto del dibattito attuale sulla storia sociale della nobiltà francese); J.M. Constant, Nobles etpaysans en Beauce au XVI et XVII siècie, Lille, Presses de l’Université de Lille, 1981.
4 M. Magendie, Lapolitesse mondaine et les thèories de Phonnètetéen France au XVII siècie, de 1600 à 1660, Paris, Puf, 1925 (ristampa, Genève, Slatkine, 1970); H. Carré, La noblesse de France et Popinion publique au XVIII siècie, Paris, Champion, 1920; H. Brocher, A la Cour de Louis XIV. Le rang et Pétiquette sous Pancien regime, Paris, Hérissey, 1934. Molto importante F.L.Ford, Robe and Sword. The Regroupingof thè French Aristocrary after Louis XIV, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1953 (2a ed. New York, 1965); W.L. Willey, The Gentleman of Renaissance France, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1954, particolarmente dedicato alla prima metà del Cinquecento; L. Rothkrug, Opposition to Louis XTV. The Politicai and Social Origins of thè French Enlightenment, Princeton, Princeton University Press, 1965. Manca un equivalente per la situazione francese dello straordinario studio di O. Brunner, Adeliges Landleben und europàischen Geist. Leben und Werk Wolf Helmhards von Hobberg, 1612-1688, Salzburg, Mùller, 1949 (trad. it., Vita nobiliare e cultura europea, Bologna, Il Mulino, 1982), anche se il Sire de Gouberville per l’importanza storica e sociologica del suo diario ha tentato vari studiosi (cfr. C. Blanguernon, Gilles de Gouberville, gentilhomme du Cotentin, 1522-1578, Coutances, chez l’Auteur, 1969; A.J.F. Tollemer, e.d.,Un Sire de Gouberville, gentilhomme campagnard au Cotentin de 1553 à 1562, riproduzione in facsimile dell’ed. Paris, 1883, La Haye-Paris, Mouton, 1972; M. Foisil, Le Sire de Gouberville: un gentilhomme normand au XVI siècie, Paris, Aubier-Montaigne, 1981.
$ Il riferimento è ovviamente a M. Vovelle, De la cave augrènier: un itinéraire en Provence au XVIII



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quale grado di unanimità? Problema particolarmente delicato oltre che rilevante, e di fronte al quale non è possibile tergiversare. Dopo tutto non vi è classe senza coscienza e laddove mancasse la mentalità di gruppo, il gruppo non sarebbe altro che una finzione6.
Il procedere stesso degli studi sociali, economici e giuridici sulla nobiltà ha reso sempre più acuta l’esigenza di ricostruire le mediazioni complesse tra le condizioni reali di vita dei nobili e l’immagine che essi ne avevano, e sulla base della quale decidevano e agivano. Come studiare e comprendere la persistenza e gli effetti sociali d’una pratica giuridica come la de'rogeance senza riferirsi ai fenomeni mentali? Lo stesso vale per i rapporti fra nobiltà e funzione militare, per i cerimoniali di corte, per il duello, incomprensibili senza il chiarimento dei concetti di virtù e di onore. Il caso più esemplare della forza d’un mito ideologico nobiliare è quello della «nobiltà rovinata», ripreso ancora da qualcuno degli storici sociali dei nostri giorni7.
L’oggetto di queste pagine non sarà tuttavia le attitudini mentali in generale, bensì quelle ideologiche. La scelta è stata indotta dallo stato stesso della ricerca orientata dalla presenza d’una sterminata trattatistica nobiliare d’epoca più verso l’analisi dell’esplicito, del conscio, che dell’implicito. Abbiamo cosi trascurato i rari tentativi di razionalizzazione a posteriori dell’«immaginario collettivo»8, privilegiando le analisi dell’auto-considerazione degli stessi protagonisti e della razionalizzazione compiuta all’epoca stessa di certe pratiche e di certe pretese sociali, politiche ed economiche. Non ciò che pensano in comune Cesare e l’ultimo dei suoi soldati sulla morte o sugli astri, ma ciò che pensa Yintelligencija nel suo insieme sulla sorte politica e sociale del gruppo9.
siede: de Phistoire sociale à Phistoire de la mentalité, Quebec, S. Fleury, 1980 e alla teorizzazione di questo passaggio ncWIntroduction a Idéologies et mentalite's, Paris, F. Maspero, 1982, pp.15 sgg.
° M. Bloch-L. Febvre, Les noblesses, cit., p.242.
7 Una messa a punto del problema della povertà nobiliare in J. Meyer, Relativité de lapauvreté de la noblesse, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», XVIII, 1978.
8 Per una definizione dell’immaginario collettivo cfr. G. Duby, Les trois ordres ou PImaginaire du féodalisme, Paris, Gallimard, 1978 (trad. it., Lo specchio del feudalesimo. Sacerdoti, guerrieri e lavoratori, Roma-Bari, Laterza, 1980).
9 J. Le Goff, Les mentalités. Une bistoire ambigue, in J. Le Goff-P. Nora, Faire de Phistoire, Paris, Gallimard, 1974, 3, p. 80 (trad. it., a cura di I. Mariani, Fare storia, Torino, Einaudi, 1981, p. 244). Per questa ragione non abbiamo trattato sistematicamente monografie dedicate a singoli autori nobili, né studi generali sulla nobiltà che dedicano parti limitate o secondarie ai problemi dell’ideologia come quelli di J. P. Labatut, Les Ducs et Pairs, cit., in cui si presenta in forma riassuntiva e compilativa le idee di alcuni duchi come Saint-Simon e Montausier; F. Bluche, La vie quotidienne de la noblesse au XVIII siede, Paris, Hachette, 1973; J.M. Constant, La vie quotidienne de la noblessefrancasse au XVI e XVIIsiècles, Paris, Hachette, 1985, o ancora Id., Nobles et paysans, cit., che nella seconda parte dedica alcune pagine interessanti alla mentalità del gruppo e al pensiero politico. Analogamente fuori dal nostro ambito si situano le ricerche di P. Higonnet, Class, Ideologi and thè Rights of Nobles during thè French Revolution, Oxford, Clarendon Press, 1981, che si occupa dell’immagine pubblica della nobiltà; C. Jouhaud, Mazarinades: la



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La scelta è immune da ogni giudizio di valore sulle due prospettive che d’altra parte spesso convivono10. Il fondamento della distinzione concerne soltanto il tipo di fonti prese in considerazione nella letteratura analizzata11. Perciò abbiamo preferito parlare qui di dibattito sull’ideologia nobiliare piuttosto che sulle mentalità o sulle «visioni generali del mondo»12: la prima categoria ha, rispetto al dibattito ricostruito, il merito della chiarezza documentaria e dell’unità dell’approccio. Non esistendo nell’età moderna un’ideologia senza scrittura, ricorrere all’ideologia definisce di per sé il campo della ricerca e orienta decisamente la metodologia.
Nutrendosi dello spoglio sistematico delle fonti a cui si è fatto riferimento, il dibattito storiografico degli ultimi due decenni ha permesso di reperire i lineamenti d’un quadro generale dei valori e delle idee della nobiltà a partire dal momento in cui essa si vide costretta a mettere per iscritto e con precise logiche argomentative le ragioni delle proprie pretese e dei propri privilegi. Entrare nella Galassia Gutenberg fu traumatico per un gruppo
Fronde des mots, Paris, Aubier Montaigne, 1985, che studia le mazzarinate non per le idee che, veicolano, ma dal punto di vista del valore politico della loro circolazione; P. Barberis, Aux sources du realiste. Aristocrates et bourgeois: du texte a rhistoire, Paris, Union Générale d’Edition, 1978, in cui l’analisi disordinata, ma a volte interessante, degli scritti di Retz, La Rochefoucauld, Saint-Simon, ecc., è volta a ricostruire l’archeologia del realismo letterario ottocentesco.
10 Va anzi precisato che sul piano del programma di lavoro di gran parte degli autori che hanno animato il dibattito la convivenza tra ideologia e mentalità è esplicitamente teorizzata. Forse per opporsi alla tradizionale storia erudita delle idee, considerata anacronistica e poco attenta ai rapporti fra idee e pratiche, le dichiarazioni di principio indicano la volontà di ricostruire le collective mentalities o attitudes, le sensibilités collectives, fino a riprendere i progetti di psicologia storica cari a Mandrou. Il tutto nutrito da un’apertura metodologica verso le tecniche euristiche dell’antropologia e dell’etnologia, da Lévy-Strauss a Mauss e Clifford Geertz. Tuttavia uno sguardo alle bibliografìe relega quei programmi tra le buone intenzioni. Il corpus documentario è quanto di più tradizionale si possa immaginare: opere edite e sotto forma di dotti trattati giuridici o storici, di memorie di nobili illustri, di cahiers de doléances. Nessuna traccia d’altra parte d’un uso men che tradizionale di quelle fonti: l’appello a una sfera antropologica nell’analisi della storia delle culture trova risposte rare e impacciate sul piano concreto della ricerca.
1 Non entriamo nel merito della difficile definizione del termine «ideologia». In generale, seguendo Duby, prendiamo come punto di riferimento quella di Althusser: «Un système (possédant sa logique et sa rigueur propres) de représentation (images, mythes, idées ou concepts selon les cas), doué d’une existance et d’un róle historique au sein d’une société donnée. Disons que l’idéologie comme système de représentation se distingue de la Science en ce que la fonction pratico-sociale l’emporte en elle sur la fonction théorique» (Pour Marx, Paris, 1965, p. 18; trad. it., Per Marx, Roma, Editori Riuniti, 1967); cfr. G. Duby, Histoire sociale et idéologies des sociétés, in J.Le Goff-P. Nora, Faire de rhistoire, cit., 1, pp. 147-168 (trad. it., Fare storia, cit., p.119). Interessante ai nostri fini anche la definizione di Paul Veyne: l’ideologia è «un sophisme de justification» che «répond au besoin idéaliste et honteux de se justifìer en droit devant ce que Kant appellerait le tribunal idéal des étres raisonnables» {L'histoire conceptualisante, in J.Le Goff-P. Nora, Faire de rhistoire, cit., p.77, trad. it., cit., p.42-43).
12 Mandrou definisce la storia delle mentalità come «une histoire des “visions du monde”» (riportato da M. Vovelle, Ide'ologies, cit., p. 10).



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sociale il cui ruolo dirigente era stato indiscusso nei secoli precedenti. La differenza di finalità fra la letteratura medievale cavalleresca e la trattatistica nobiliare d’epoca moderna è netta: la prima non puntava certo a giustificare il privilegio sociale dei nobili. L’affascinante analisi delle persistenze e delle trasformazioni dei fondamenti dell’ideologia nobiliare di fronte allo svilupparsi del pensiero rinascimentale, di quello classico, delle lumièris, insomma di fronte al mondo moderno, e le influenze reciproche, ha fatto emergere un grappolo di questioni. Quando si senti il bisogno di elaborare un discorso giustificativo del potere nobiliare? in che modo l’officina ideologica nobiliare partecipò al formarsi della ragione politica moderna in Francia? come spiegare il fascino che il modello nobiliare ha esercitato nel corso dell’antico regime? è vero che essa è stata la depositaria della libertà nel corso dell’età moderna secondo la tradizione ottocentesca di Tocqueville e Hugo?
Le risposte date a un tal groviglio di interrogativi ci pare possano disporsi secondo un principio di intellegibilità comune: giustificare la disuguaglianza sociale e le sue modalità di riproduzione a fronte della perdita progressiva di importanza nell’età moderna dell’idea della disuguaglianza naturale. Disuguaglianza e nascita, uguaglianza e merito sono i poli entro cui si svolgerà uno scontro ideale che percorse l’intero antico regime, con articolazioni sul piano sociale, politico, costituzionale. Se lo sforzo di giustificazione del privilegio sociale ha trovato ai nostri giorni - come vedremo subito - i primi commentatori, non cosi è per il sogno politico-costituzionale della nobiltà, ancora privo d’una ricerca di sintesi.
La crisi della nobiltà tra «viriti» e «razza». La crisi della nobiltà francese tardo-cinquecentesca ha interessato gli storici degli ultimi decenni nel quadro di un più generale lavorio sulla crisi della nobiltà europea. Dopo èssere stato a lungo un luogo comune, il suo progressivo arretramento di fronte alle novità economiche, ai nuovi valori, alla monarchia assoluta, ha trovato secche smentite negli studi di storia locale13. La curva del potere, della ricchezza e del prestigio nobiliari non mostra un movimento discendente né al tempo delle guerre di religione, né dopo. Un altro mito della storiografia novecentesca, assai utile - come ha notato J. Wood14 -per alcune formule causali stereotipe, ha esaurito la sua forza esplicativa.
I risultati sono stati invece diversi per quanto riguarda la crisi «ideologica». Davis Bitton ha individuato nel periodo 1560-1640 una soluzione di
13 Cfr. gli studi citati nella nota 3. Sul problema della crisi cfr. particolarmente F. Billacois, La crise de la noblesse, cit.
14 J. Wood, The Nobility, cit., pp.3-19. Dello stesso autore cfr. anche Tbe Decline of Nobility in Sixteenth and Seventeenth Century Frante: Mith or Reality?, in «Journal of Modem History», XLVIII, 1976, Supplement.



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continuità nella multisecolare storia della nobiltà francese15. Nel periodo in questione essa visse «una sorta di crisi di identità con una dimensione psicologica oltre che economica e sociale. Fu una fase cruciale nella transizione dalla nobiltà francese tardo medioevale alla nobiltà francese d’antico regime»16.
Il tema, la periodizzazione, il titolo stesso richiamano alla mente l’esemplare studio dello Stone sulla contemporanea crisi dell’aristocrazia inglese17. Ma l’analogia viene presto a cadere. Quello di Bitton non è uno studio di storia sociale, bensì un tentativo di storia «ideologica» nel senso sopra definito18. Come lo stesso dibattito ha dimostrato19, esso va considerato come un primo utile colpo d’occhio, ancorché miope, nella fucina di idee della nobiltà nel momento in cui emergevano le incertezze sulla natura dello status nobile, sulla sua funzione, sulla giustificazione dei privilegi soprattutto fiscali.
Incertezze alle cui origini stanno le novità socio-economiche del secondo Cinquecento: l’awenuta forte penetrazione di roturiers nell’ordine nobiliare e le profonde modifiche nel modo di fare la guerra che diminuiscono il ruolo bellico della nobiltà. Connesso a tali fenomeni si afferma un montante sentimento antinobiliare da parte contadina, ma non soltanto20. Dalla critica tradizionale del singolo nobile degenerato, che non metteva in dubbio la sacralità dell’istituzione (il riferimento è allM/ztao del Medioevo di Huizinga), si passa a una critica più o meno velata della nobiltà in quanto tale. Desacralizzazione inaudita e che ci aiuta a comprendere l’ampiezza e la meticolosità della reazione nobiliare.
Un altro segno importante della nuova situazione fu la confusione che cominciò a serpeggiare fra la nobiltà «intorno alla sua funzione sociale»21. Il tradizionale prix du sang con il quale l’antica nobiltà guerriera intendeva
15 Davis Bitton, The French Nobility in Crisis (1560-1640), Stanford, Stanford University Press, 1969.
16 Ivi, p. 1.
17 L. Stone, The Crisis of thè Aristocracy, 1558-1641, Oxford, Clarendon Press, 1965 (trad. it., La (risi del?aristocrazìa, Torino, Einaudi, 1972).
18 Le recensioni critiche dell’inizio degli anni Settanta, insieme a pertinenti rilievi di contenuto, hanno mancato l’obiettivo rimproverandogli di non essere in realtà che un libro mancato di storia sociale. Cfr. F. Lebrun, in «Revue historique», CCXLIV, 1970, pp. 178-179; E.W. Monter, in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XXXII, 1970, pp. 155-156; O. Ranum, in «The American Historical Review», LXXV, 1970, pp. 1122-1123; «Renaissance Ouarterly», 1971, pp. 244-247; «Archiv fur Reformationgeschichte», 1971, pp. 147-148.
Wood, The Nobility, cit., p. 4; G. Huppert, Les Bourgeois-gentilshommes. An Essay in thè Definition ofElites in Renaissance France, Chicago, Chicago University Press (trad. it., Il borghese-gentiluomo, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 83, n.l).
20 La letteratura satirica antinobiliare e soprattutto anticortigiana fu infatti vivacissima in quegli anni e il tono era stato dato all’inizio del secolo da Erasmo. Bitton non usa il testo assai utile di P. Smith, The Anti-Courtier Trend in thè Sixteenth Century French Literature, Genève, Droz, 1966.
21 D. Bitton, The French, cit., p. 42.



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pagare i privilegi di cui godeva cominciava a non essere più un topos sociale indiscusso22, e lo stesso può dirsi per l’esclusività dell’eccellenza militare dei nobili. Ma, e soprattutto, quella confusione fu dettata da uno dei fenomeni capitali nella storia della nobiltà moderna in Francia, cioè il suo sdoppiamento in roba e spada che troverà nel 1604, con la paulette di Enrico IV, una definitiva conferma. Beninteso l’ideale guerriero non scompare affatto. Esso continuò a nutrire le illusioni della nobiltà di spada. La generica ma salda convinzione dello stretto legame tra nobiltà autentica, la vraie noblesse, e la pratica dell’arte militare persistette per tutto l’antico regime, e in tutti gli strati sociali. Eppure, proprio a partire dalla fine del Cinquecento e parallelamente a quel fondamento ideologico che resta sempre sullo sfondo, il discorso nobiliare comincia a frammentarsi. A funzioni sociali diverse corrisponderanno diverse argomentazioni, diversi miti, diverse concezioni della virtù e dell’onore23.
La crisi ideologica della nobiltà dunque sta tutta nella moltiplicazione delle definizioni dei rapporti fra virtù e nobiltà. Se in Brantòme la virtù è quella militare e cavalleresca, in Froydeville è piuttosto il frutto del disinteresse per la ricchezza, per la gloria, la voluttà, la vita stessa e in D’Alouete e Des Osres è fare il proprio dovere al servizio della comunità, aiutando i poveri e resistendo ai vizi e alle passioni. E si potrebbe continuare. D’altra parte rarissimi furono - secondo Bitton - coloro che considerarono la race, il sangue, come ininfluenti ai fini della definizione della nobiltà (è il caso di E. Pasquier)24. Qui l’autore osserva ed espone un problema che soltanto qualche anno dopo sarà trattato sistematicamente25. Ma egli arriva a un risultato già importante: gli ideologi della nobiltà non riuscirono in generale a neutralizzare la tensione teorica fra nascita e merito riconducendola ad unità e il loro pensiero fu eminentemente sincretistico e tendente al compromesso.
Le pagine più interessanti sono cosi quelle dedicate al dilemma fra educazione e sangue, cioè al tradizionale problema dell’insegnabilità della virtù: «La nobiltà era una qualità ereditata o una virtù personale e
22 L’espressione prix o impót du sang è. una delle più frequenti nella letteratura nobiliare di antico regime, ma si ritrova anche nel secolo XIX: cfr. il repertorio di J.F. D’Hozier, Uimpót du sang ou la noblesse de Frante sur les champs de bataille, Paris, Pillet, 1874-1881, 5 voli., che raccoglie i nomi dei nobili, cioè degli ufficiali morti in battaglia dalle crociate fino a Luigi XVI.
23 J. Wood nota a ragione che lo scontro internobiliare si svolse più sul piano ideologico che su quello della storia sociale concreta dove egli vede piuttosto collaborazione ( Tbe Nobility, cit., pp. 17-18). Ciò è confermato per il XVIII secolo da F. Bluche, Les Magistrats du Parlements de Paris au XVIII siede, Paris, Economica, 1986 (la ed. Paris, 1960).
24 Anche Loyseau negò il valore dell’ereditarietà della virtù (cfr. D. Bitton, Tbe French, cit., p. 82).
25 Cfr. infra paragrafo 4. Un esempio d’analisi delle idee e delle aspirazioni d’un gruppo nobiliare locale a partire dai Cabiers de doléances, in Y. Durand, Présentation au Cabier des rémontrances de la Noblesse du Baillage de Trojes, in R. Mousnier, J.P. Labatut, Y. Durand, Problèmes de stratificatìon sodale. Deux cabiers de la noblesse sur les Etats généraux de 1649-1651, Paris, Puf, 1965, PP- 128 sgg.



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contingente»26. A parte gli interessanti tentativi d’elaborare una pedagogia nobiliare, la soluzione più comune all’epoca confuse la nobiltà di razza intesa come categoria sociale e la nobiltà nel senso morale del termine. Una confusione che sarà rigettata tra gli altri da Oncieu (se fosse sufficiente essere virtuoso per diventare nobile, questo creerebbe un’enorme confusione nelle gerarchie) e soprattutto da Montaigne27. Generalizzando Castiglione, si affermò che la nobiltà dipende dalla virtù, ma che la virtù è a sua volta una probabile conseguenza della nobiltà. La virtù nobiliare per eccellenza è quella militare, ma la sola virtù militare non rende nobili. Un gioco di specchi che fu possibile per l’accennata estrema fluidità della definizione stessa di virtù. L’educazione alla virtù, all’onore, era considerata soprattutto un fatto di mimesi e di responsabilità familiare.
La spasmodica ricerca di una nuova legittimità sociale cosi come è stata presentata da Bitton è certo una prova evidente della crisi ideologica della nobiltà cinquecentesca. Tuttavia dal suo testo emerge l’idea di «crisi» come mera decadenza senza che nel contempo egli individui l’altra dimensione di quel termine e di quel concetto, la dimensione della decisione, della scelta, del momento risolutivo d’un male. Egli non ci restituisce cioè, se non per linee troppo generali, i profili della risposta.
Alle trasformazioni ideologiche della nobiltà cinquecentesca ha dedicato uno studio recente Ellery Schalk, del quale si conosceva già un articolo sullo stesso problema28. Pur mostrando di non ignorare la letteratura critica degli ultimi decenni, Schalk non sembra averla integrata in maniera costitutiva nel tessuto della sua argomentazione. L’accostamento al libro di Bitton è dunque possibile senza scrupoli cronologici.
Insistendo meno sull’idea di crisi, l’autore presenta una tesi di fondo
26 D. Bitton, The French, cit., p. 77. Su questi temi l’autore non valuta sufficientemente l’influenza degli uomini del Cinquecento italiano, Castiglione e Tasso su tutti, anche se dedica qualche pagina riassuntiva al trattato del Nenna (cfr. J.B. Nenna, Traicté de la noblesse, Paris, L’Angelier, 1583, traduzione di Le Fevre de la Boderie dell’edizione italiana, Venezia, 1542). Una sintesi compilativa, ma assai utile, della presenza dell’opera di Castiglione nella cultura francese tra Cinque e Seicento in P. Toldo, Le Courtìsan dans la littératurefran^aise etses rapporti avec roeuvre de Castiglione, in «Archiv fùr der neueren Sprachen und Literaturen», Braunschweig, 1900, t. CIV, pp.75-121 e 313-330; t. CV, pp.60-85.
27 Un importante recente contributo è quello di A. Jouanna, Montaigne et la noblesse, in Les ecrivains et la politique dans le sud-ouest de la France autour des annees 1580, Actes du Colloque de Bordeaux, 6-7 novembre 1981, Bordeaux, Pub, 1982, pp. 113-123. Precisato che negli Essais ci sono i materiali per un trattato sulla nobiltà, Jouanna sottolinea la volontà di Montaigne di allargare lo spettro delle qualità considerate nobili. La vaillance militare è certo il dato imprescindibile, ma egli la coniuga a un appello (paradossale per la società del tempo) alla valorizzazione etica di ciò che è ordinario, comune, contro l’ossessiva ricerca della distinzione. Il modello di virtù nobiliare diventa perciò una sorta di «Socrate guerriero» (ivi, p.120).
28 E. Schalk, Front Valor to Pedigree. Ideas ofNobility in France in thè Sixteenth and Seventeenth Centuries, Princeton, Princeton University Press, 1986. Cfr. anche Id., The Appearance and Reality of Nobility in France during thè W'ars ofReligion: an Exantple of How Collective Attitudes Can Change, in «Journal of Modem History», XLVIII, 1976, pp. 19-31.



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agguerrita e originale: lo statuto ideologico della nobiltà passerebbe tra il XVI e il XVII secolo «from valor to pedigree». In altri termini, nel corso dei primi due terzi del Cinquecento l’accento degli ideologi, e in generale di tutti coloro che scrivevano intorno alla nobiltà, sarebbe stato posto soprattutto sulla «virtù», intesa quasi esclusivamente come virtù militare, a scapito della nascita, della race. Essere nobile significava essere virtuoso, cioè esercitare la professione militare, e, viceversa, tutti coloro che praticavano il mestiere delle armi erano nobili. Il ricorso alla pratica e alla virtù militare come argomento discriminante nella definizione del nobile strutturava una concezione della nobiltà come specifica funzione sociale, quella del combattere. Insomma, la nobiltà non sarebbe stata intesa come uno status, ma come una mera professione, un mestiere, «qualcosa che si fa, piuttosto che qualcosa che si eredita»29. Una concezione che Schalk considera còme un residuo importante della visione medievale della nobiltà come classe dei guerrieri, un residuo che resiste anche contro lo sviluppo della concezione italiana e rinascimentale della nobiltà più legata all’idea ereditaria.
Il modello di nobiltà come virtù e funzione militare verrebbe rimesso in discussione - continua Schalk - negli anni Novanta a seguito delle guerre di religione e in maniera significativamente simmetrica alla normalizzazione borbonica di Enrico IV. Se ancora negli anni Settanta e Ottanta la nobiltà per far fronte agli anoblissements venali fa appello alla virtù e si preoccupa di rendere virtuosi i nobili attraverso un’educazione adatta, diversa è la situazione alla fine del secolo. A quel punto sarebbe avvenuta la scissione tra nobiltà e virtù, che Bitton attribuiva a Montaigne e che Schalk ritiene più generale: da una parte la «nobiltà» come qualità morale e dall’altra la «nobiltà» come gruppo sociale dato e come status fondato sulla nascita. Da una visione della nobiltà come gruppo aperto al talento e alla virtù militare si passerebbe a quella d’un ordine chiuso, statico e dominato dalla genealogia (il «pedigree»). Non è più la virtù che fa la nobiltà, ma è la nascita che rende virtuosi.
Questo passaggio di forma del paradigma ideologico viene attribuito a due ragioni socio-politiche di fondo. Privata di funzioni sociali specifiche -tradizionalmente quelle belliche - la nobiltà ricercherebbe nel sangue una nuova legittimità. Ma soprattutto - è questo il cuore dell’interpretazione di Schalk - la monarchia assoluta in via di consolidamento spingeva nella stessa direzione. La visione medievale della nobiltà, enfatizzandone la supremazia militare, ne sottolineava infatti l’indipendenza rispetto al sovrano. La nobiltà ereditaria invece sanzionava la fine d’ogni potere militare dei nobili e li assoggettava definitivamente al re. L’ideologia della razza come fondamento della nobiltà sarebbe dunque funzionale all’asso-
29 E. Schalk, From Valor, cit., p. XIV. Montaigne scrive a questo proposito: «La forme propre, et seule, et essentielle, de la noblesse de France, c’est la vacation militaire» (ivi, p.ll).



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lutismo, e in questo senso più «moderna» dell’ideologia della virtù.
La sottolineatura cosi marcata di due fasi dell’elaborazione ideologica nobiliare è parziale e sottovaluta il dibattito cinquecentesco sulle molteplici virtù nobiliari ridotte dall’autore alla sola virtù militare. Per dimostrare il suo assunto questi prende qualche libertà nella scelta dei passi e degli autori considerati (per esempio nel caso di Noèl du Fail, De Bounours o Dampmartin teorici della nobiltà connessa all’idea di razza nei primi anni Settanta e Ottanta del Cinquecento)30 cosi come nella traduzione inglese di alcuni termini chiave31. In realtà, lo slittamento dalla «virtù» al «pedigree» può essere accettato, ma solo come un’indicazione tendenziale di uno spostamento di accenti. I riferimenti alla virtù e alla razza sono compresenti lungo tutto il periodo in questione32, ma è beninteso la cultura cinquecentesca che pone i fondamenti della teoria della razza. È indubbio che i trattati cinquecenteschi insistevano maggiormente sulla necessità della virtù militare come segno distintivo dello stato nobile, mentre quelli secenteschi prescrivevano piuttosto l’immagine delltafe homme che conversa correttamente, danza e «ne se piqué de rien» come dirà La Rochefoucauld. E si può pensare - come fa Ranum - che la courioisie abbia giocato un ruolo nell’affermarsi dello Stato assoluto33. Ma è altrettanto certo che mai nel corso dell’antico regime i teorici della nobiltà abbandonarono il riferimento alla virtù - militare soprattutto - come fondamento autentico, in quanto ancestrale, di ogni nobiltà. Il dilemma ideologico virtù-razza non si risolse certo con il trattato di Faret del 1630 come pretende Schalk34: attorno a quel dilemma oscillò in verità tutta
30 Cfr. C. De Bonours, Eugeniaretilogie, ou Discours sur la vraie noblesse, Lyon, L. Strell, 1576; N. du Fail, Epitre liminaire, in Memoires, Rennes, Jean du Clos, 1579; P. de Dampmartin, De la conoissance et merveilles du monde et de rhomme, Paris, T. Perier, 1585.
31 È il caso dei termini francesi vacation e vocation che l’autore traduce entrambi con l’inglese vocation. Descrivere il mestiere delle armi come la «vocazione» del nobile, unica per definizione, conferma la persistenza d’una visione medievale della nobiltà; altra cosa è descrivere quel mestiere come una delle attività che il fatto di essere nobile comporta (a fianco - per esempio - dell’esercizio della giustizia). La distinzione era chiara per i contemporanei: P. de la Place scrive nel 1561: «Pourquoy il est en premier lieu requis entendre que ce mot de vocation tiré du latin, signifìe ce à quoy Fon est appellò: bien toutefois d’autre energie que le mot vacation, frangois et vulgaire, dont nous usons, signifìant la manière de vivre à laquelle chacun vaque» (Traile'de la vocation et manière de vivre à laquelle chacun est appellò, Paris, Morel, 1561, p. 3 v).
32 Significativo di questa compresenza è un passo del Traile' des nobles et des vertus dont ils soniformés Paris, R. Le Manier, 1577, di Francois L’Alouette che l’autore cita per dimostrare la connessione esclusiva della virtù e della nobiltà all’epoca: «Car ce n’est au sang ni au parentage que la Noblesse se forme, mais en la seule vertu que Dieu inspire, et fait dècouler aux coeurs et races d’aucuns hommes» (p. 36). Schalk traduce races con veins perdendo completamente di vista la circolarità del ragionamento: non è il sangue bensì la virtù il fondamento della nobiltà, ma Dio predispone che la virtù sia trasmessa attraverso le razze.
33 O. Ranum, Courtesj, Absolutism and thè Rise of thè French Rise, 1630-1660, in «Journal of Modem History», LII, 1980, pp. 425-451.
34 Cfr. N. Faret, L’honneste homme ou Pari de plaire à la Cour, Paris, T. Du Bray, 1630 (ed. Magendie, Paris, 1925).



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l’ideologia nobiliare di antico regime.
I due libri analizzati meritano ancora qualche riflessione. Una verifica nel prezioso repertorio bibliografico del Saffroy35, conferma che verso la metà del Cinquecento cominciarono a comparire in Francia un tipo di pubblicazioni rarissime fino a cinquant’anni prima. I Trattati sulla nobiltà cominciarono a ingombrare gli scaffali delle biblioteche dei ceti tradizionalmente dirigenti che tra le varie certezze ne avevano smarrita anche una secolare: che cosa significa nobiltà? come vi si accede? Il riconoscimento collettivo fondato sulla tradizione orale, sulla memoria conservata tra la gente del contado, su quelle testimonianze di cui parla Bacquet ancora nel 158236, che avevano costituito la sola e inconfutabile prova dello status del nobile, si era smarrito. Dove trovare una nuova fonte di legittimità dello status nobiliare e dei privilegi? Ci si volse verso il re37; o, per meglio dire, fu la monarchia che attraverso il meccanismo della venalità, della «savonette à vilains», obbligò la nobiltà a porsi sul terreno della giustificazione giuridica, cioè scritta, del proprio status. Paradossalmente gli anoblis erano gli unici a poter vantare una nobiltà fuori discussione, seppur recente e di minor valore, e al riconoscimento monarchico puntava anche la nobiltà parlamentare. La nobiltà di razza, non meno degli altri gruppi nobiliari, accettò la monarchia come arbitra e depositaria della fondatezza delle prove genealogiche. Il progetto monarchico insomma riuscì perfettamente: affermare una concezione giuridica della nobiltà, pensare la gerarchia stabilita sul piano del diritto scritto e non consuetudinario, fondata su una genealogia chiaramente costituita e sufficientemente provata. E ciò secondo un’ispirazione che da Filippo il Bello arriva fino a Francesco I e ai suoi successori38.
E evidente come lo sbocco anagrafico della crisi d’identità nobiliare (si parlò per tutto l’antico regime della necessità d’un nobiliaire) sia esiziale dal punto di vista sociale non meno che da quello ideologico; esso la svuota di ogni autonomia giuridica e politica rispetto al sovrano, la fagocita all’interno del costituentesi organismo dello Stato moderno, d’uno Stato in cui pur tra accuratissime distinzioni tutti sono in ultima istanza sudditi del re. Le inchieste sulla nobiltà che scandiscono il secolo XVII (1596, 1600, 1634, 1666, 1696), scandiscono anche, e in maniera più profonda della
35 G. Saffroy, Bibliographie ge'néalogique, héraldique et nobiliare de la Frante des origines à nosjours imprimés et manuscrits, Paris, Gaston Saffroy, 1968.
36 «Car nous tenons en Franco, que pour verifier que un homme est noble, il suffit que les témoins déposent qu’ils ont cogneu son ayeul et son pére» e «les ont veu vivre noblement» (I. Bacquet, Traicte' des droits de Francs-fiefs, de nouveaux acquests, d’anoblissements, Paris, S. Nivelle, 1582, P- ?2v).
1 L’appello al re perché ristabilisca le gerarchie è comune in tutta la letteratura nobiliare dell’epoca. Cfr. R. Chartier, La noblesse franose et les Etats généraux de 1614: une reaction aristocratique?, in «Acta Poloni» Historica», XXXVI, 1977, pp. 65-81.
38 Cfr. l’ancor valido studio di J.R.Bloch, L’anoblissement en France au temps de Francois I. Essai d’une définition juridique et sociale de la noblesse au début du XVI siècle, Paris, Alcan, 1934. Cfr. anche F.



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ghettizzazione curiale, il processo di deperimento dell’antica nobiltà e del suo quadro ideologico medievale.
Non è tanto dunque il passaggio dalla virtù alla razza il segno d’un orientamento favorevole all’assolutismo dell’ideologia nobiliare, bensì il fatto stesso che venga accettato il principio della giustificazione giuridica dello status nobiliare. Ma nello stesso tempo, pur dichiarando la fedeltà al monarca come una delle «virtù» nobiliari, la nobiltà non abdica ad ogni resistenza e contestazione. Non condividiamo cosi l’ipotesi centrale di Schalk sull’ideologia della razza come connessa al progetto assolutistico. Noi vi vediamo piuttosto contraddizione. L’ideologia della razza è la forma più strutturata del sogno nobiliare d’una copartecipazione al potere nello Stato moderno. Sulla razza infatti si può tentare di fondare il principio d’una duplicità (nobiliare e monarchica) della legittimità politica e sociale, mentre sulla virtù non si possono fondare che le pretese di individui che altro non sono che funzionari del monarca. Il sangue è un principio di legittimità indipendente, anche se non necessariamente contrario, al principio di legittimità monarchico: esso viene sanzionato dal sovrano, ma non creato, è una sorta di potere autonomo e irriducibile al bonplaisir del re. Insomma se sul sangue si fonda il «principio aristocratico», sulla virtù non si fonda che una élite aristocratica, completamente dipendente dal potere che l’ha dichiarata tale, cioè il monarca.
Non casualmente gli ideologi della nobiltà saranno ancora a lungo impegnati a esaltare le «virtù» della razza.
La nobiltà e la razza: verso una società razzistica? Ancora una volta il problema è stato impostato da Marc Bloch. NcWIntroduzione alla Società feudale troviamo infatti un accenno importante alla responsabilità d’un pensatore nobiliare come Boulainvilliers nella costituzione d’una moderna idea di razzismo: questi viene definito un «Gobineau ante litteram»39. Analogo riferimento, seppur con un inevitabile mutamento di ispirazione, qualche anno dopo in una pagina dedicata al conte normanno da G. Lukàcs nella Distruzione della ragione40. Al di là dell’autore in questione, del resto abbastanza rappresentativo, il dubbio seminato riguardava il carattere essenziale dell’ideologia nobiliare in quanto teoria della discriminazione.
In un voluminoso saggio del 1973, André Devyver ha tentato di dare solidità erudita alle intuizioni informi dei due grandi maestri41, ma il
Bluche-P. Durye, L’anoblissement par charges avant1789, La Roche sur Yon-Paris, Impr. centr. de l’Ouest, 1962.
39 M. Bloch, La sociétéféodale, Paris, Albin Michel, 1940 (trad.it., a cura di B.M. Cremonesi, Torino, Einaudi, 1949, p. 18). A dire il vero la connessione era già stata proposta da E. Seilliere, Le comte de Gobineau et Faryanisme historique, Paris, Plon, 1903, Introduction, e da A. Combris, La philosophie de races du comte de Gobineau et sa porte' actuelle, Paris, Alcan, 1937.
40 G. Lukàcs, Die Zerstorung der Vernunft, Berlin, Aufbau-Verlag, 1955 (trad. it., La distruzione della ragione, Torino, Einaudi, 1959, t.II, pp. 674-675).
41 A. Devyver, Le sang épuré, les préjugés de race chez Ics gentilhommes fran^ais de FAncien regime



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risultato - diciamolo subito - va in senso contrario alle intenzioni dell’autore. Se è ben vero - come nota A. Tenenti42 - che è opportuno mostrare indulgenza verso un lavoro pionieristico, sicuramente di lunga lena e ricchissimo di informazioni bibliografiche e di novità documentarie, non meno vero è che l’ampiezza della documentazione esibita e su un terreno cosi poco conosciuto rischia di far velo a una debolezza interpretativa dandogli fittiziamente la forza dell’evidenza. Cosi le tesi generali di questo studio sono state recepite negli anni successivi come un risultato acquisito, senza alcuna indagine sulla loro fondatezza43.
Inutile fermarsi sulle imperfezioni di dettaglio44; meglio stigmatizzare gli eccessi del militantismo antirazzistico di cui dà prova meritoria l’autore (progressisti borghesi da una parte e nobili razzisti dall’altra ripetono senza frutto l’ennesima favola dei buoni e dei cattivi). Il disgusto etico verso ogni forma di razzismo è per noi fuori discussione, ma riteniamo che esso produca effetti storiografici perversi coniugandosi con la passione incontrollata per i precursori. A tale passione militante ricondurremo dunque le
(1560-1720), Bruxelles, Université libre de Bruxelles, faculté de philosophie et lettre, t. LV, 1973. Fonte immediata di ispirazione sono state le opere di: T. Simar, Elude sur la formation de la dottrine des races au XVIII siede et son expansion au XIX siécle, Bruxelles, M. Lamertin, 1922 e soprattutto J. Barzun, The French Rate: Theories of its Origins and their Sodai and Politicai Implications prior tbe Revolution, New York-London, Columbia University Press, 1932. Nell’uno come nell’altro caso però teoria della razza di derivazione nobiliare e razzismo restano concettualmente diversi. Analogamente per i lavori di L. Poliakov, soprattutto Le mithe aryen. Essai sur les sources du radsme et du nationalisme, Paris, Calmann-Levy, 1971. Ricordiamo infine che Pierre Goubert ritiene non anacronistico parlare di razzismo a proposito del disprezzo nobiliare verso i roturiers'. cfr. L’Anden regime. I: la sodété, Paris, 1969 (trad. it. L’anden regime, Milano, Jaca Book, 1976,1, p. 185).
42 Recensione di A. Tenenti nella «Nuova rivista storica», LXI, 1977, pp.212-217. Si tratta dell’unica discussione critica apparsa sul volume di Devyver; ne coglie acutamente i limiti rispetto alle parti riguardanti il Cinquecento, ma troppo sommaria è l’accettazione della fondatezza di quelle successive. Ciò comunque non gli impedisce di muovere critiche severe verso le incertezze metodologiche dell’autore il quale fluttua da Ralph Linton (per la definizione di razzismo), a Lévy-Strauss (per l’antistoria che sarebbe, secondo l’autore della Pensee sauvage, un’invenzione di Boulainvilliers), senza dimenticare i «gruppi in fusione» di Sartre (a proposito della plebe nobiliare), le «minoranze dominanti» di Toynbee, e via di questo passo. Senza alcuna importanza interpretativa è invece la recensione di D. Gembicki, in «XVIII siede», Vili, 1976, pp.477-478.
43 È il caso dei volumi di A. Jouanna e R. Moro che analizzeremo nei paragrafi successivi o del giudizio di J. Craeybeckx, nell*Introduction a Aa.Vv., Etudes sur le XVIII siede. XI: Idéologies de la noblesse, Bruxelles, Editions de l’Université de Bruxelles, 1984, p. 7. Cfr. anche J. Meyer, La noblesse parlamentaire bretonne face à la pre-révolution et aux debuts de la Revolution: du témoignage à la statistique, in Aa.Vv., Von Anden Régime zur franzósische Revolution. Forschungen und Perspektiven, Góttingen, Vandenhoeck, 1978, pp. 278-317 («Excellente sur le pian des idées, cette thèse...», &291)-
44 Per esemplificare rileviamo l’affermazione fatta dall’autore intorno al manoscritto Me'moire pour la construction d’un nobiliare generai di Boulainvilliers conservato nella biblioteca dell’Ecole supérieure de guerre di Parigi, «que nous avons tenté de consulter», ma che risulterebbe scomparso (Le sang épuré, cit., p. 268). Una rapida visita in quella biblioteca può facilmente convincere del contrario.



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forzature, le confusioni sull’uso di certi termini chiave come quello di rare45, gli ammiccamenti retorici alla ricerca della complicità del lettore fatti di virgolette, puntini di sospensione, ecc.
Lo studioso belga ritiene che un mito della superiorità germanica abbia preceduto nell’area culturale francese quello ariano, base del razzismo moderno. Nato in un contesto certo differente, il primo tuttavia prepara e soprattutto «explique»46 il secondo. La nascita di questo mito viene fatta risalire alla seconda metà del XVI secolo, momento in cui la nobiltà comincia a rivendicare la propria discendenza dagli antichi conquistatori franchi e quindi il proprio diritto alla distinzione. Nell’ambito della crisi della nobiltà di cui ci siamo occupati, una tale rivendicazione va letta come un «réflexe de défense sociale»47. Quella sorta di mito giustificativo scomparirebbe attorno al 1620 per riaffiorare alla fine del regno del Re Sole di fronte all’aggravamento delle condizioni economiche e sociali della nobiltà. A riscoprire il mito germanico sarebbero autori come Le Laboreur, Saint Simon e soprattutto Boulainvilliers, nell’opera del quale il razzismo nobiliare di antico regime troverebbe la sua più compiuta formulazione, costituendosi in filosofia della storia e in tappa essenziale nella storia del razzismo europeo48. Una lunga appendice è infine dedicata alla fortuna successiva di tale mito nel Settecento e nell’Ottocento; una trattazione quest’ultima particolarmente rapsodica di cui non si può certo fare torto all’autore, che il compito era ingrato, se non fosse che proprio in quest’ultima parte viene mancato l’obiettivo di costruire l’ultimo decisivo anello che avrebbe saldato una catena di pensatori da Hotman a Rosemberg passando per Gobineau. Lo stesso Devyver fornisce in nota un testo autoconfutatorio. Gobineau in una lettera scrive: Boulanvilliers «non aveva la minima nozione dell’idea di razza, e ancora meno della preponderanza d’una razza sulle altre»49. L’autorità di Gobineau su tali
45 Alla fine dell’antico regime un dizionario dei sinonimi ci restituisce il significato del termine race all’interno d’un campo semantico preciso che fa giustizia di ogni ambiguità: «Race a donc trait particulièrement à une souche, à une extraction commune; lignée à la filiation, à la descendance commune; famille, à une vie à une existence commune; maison, à un berceau, à des titres communs. La race rappelle son auteur, son fondateur; la lignée les enfants, les descendants; la famille, les chefs et les membres; la maison, l’origine et ses ancétres» (Abate Roubaud, Nouveaux synonj/mes fran^ois, Paris, Moutard, 1785, t. 4, p. 9).
46 Ivi, p.10.
47 Ivi, titolo del cap. 3, p. 56.
48 Ivi, p. 391. Tale prospettiva è ripresa da G. Gerhardi, L*ideologie du sangchez Boulainvilliers et sa reception au XVIII stick, in Etudes sur le XVIII stick, cit., pp. 7-20. Tutti gli elementi di questo intervento sono presenti, e con maggior forza, nel volume di Devyver. Segnaliamo soltanto un grossolano errore, cioè l’attribuzione a Boulainvilliers di un testo che non gli appartiene, ma che ben si concilia con le esigenze interpretative dell’autore. Il brano in questione esalta la purezza della razza germanica e si trova nell’introduzione a H. de Boulainvilliers, Essais sur la noblesse, Amsterdam, 1732, p. 15, ma appartiene al curatore del volume, Tabary, che d’altra parte lo riprende da Tacito.
49 Ivi, p. 436.



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temi avrebbe dovuto spingere Devyver a una maggiore prudenza interpretativa, ma l’amor di tesi gli fa credere che sia l’autore dell’Ex/ sur Pinégalité des races humaines a non aver capito. Sicché bisogna tornare sulla questione.
L’argomento ricorrente nei testi filonobiliari che spinge lo studioso belga a vedervi i segni del razzismo riguarda il riferimento al sangue: i nobili considerano il loro sangue come superiore a quello dei roturiers; esso è il depositario delle virtù e il veicolo della loro trasmissione nel tempo. La qualità del sangue, e non altre differenze somatiche, caratterizzerebbe il razzismo dei nobili. Devyver documenta come meglio non si potrebbe la ricorrenza di questo tema cardine dell’ideologia nobiliare (poco presente nel Cinquecento, molto di più nel Seicento), ma l’interpretazione razzistica che ne offre contiene due forzature.
La prima riguarda l’anacronismo. Egli dà per scontato che non vi siano state trasformazioni di rilievo nella maniera in cui i nobili hanno fatto riferimento all’eccellenza del loro sangue, se non nel senso d’una progressiva sistematizzazione della teoria. Sono dunque messe sullo stesso piano, ritenute interscambiabili, le teorie di Champion, di La Roque, di Boulainvilliers, e si ignora la specificità di autori vissuti a centocinquan-t’anni di distanza e quindi con problemi teorici e pratici assai differenti. Una tale rigidezza gli impedisce di vedere che se in certi autori il primato del sangue nobiliare è nutrito da considerazioni di tipo biologico tali da rendere il sospetto razzistico per lo meno discutibile50, in altri anche il
50 Considerazioni biologiche si ritrovano in un autore come F. de Thierriat, secondo il quale «nous [i nobili] mangeons plus de perdrix et autres chairs délicates qu’eux [i roturiers], ce qui nous rend un sens et une intelligence plus désliée qu’à ceux qui se nourrissent de boeuf et de pourceau» (Trois traictez scavoir, 1 De la noblesse de race; 2 De la noblesse civile; 3 Des immunitez des ignobles, Paris, L. Bruneau, 1606, p. 47. Da vedere a questo proposito il contributo di J. Meyer, Noblesse et racisme, in Ni Juif ni Grec. Entretien sur le racisme, atti del convegno tenutosi a Cerisy-Le-Salle, giugno 1975, a cura di L. Poliakov, Paris-La Haye-New York, 1978, pp.l 13-126. L’intervento non è centrato unicamente sulla nobiltà francese. Partendo dallo stesso problema di Devyver giunge alla conclusione che non si possa parlare di razzismo nobiliare sul piano ideologico bensì su quello delle pratiche quotidiane. Spiega infatti che una delle componenti che chiarisce il ricorso al discorso biologico da parte dei nobili è un effetto di ritorno del loro immenso interesse per l’allevamento dei cani, dei cavalli e per l’arboricultura. Quando René Fleuriot, l’autore di uno dei due testi presentati come esempi, consiglia al figlio di sposare una fanciulla di bonne rosse intende con ciò fisicamente sana e priva di tare ereditarie. La race è. dunque «un terme d’eleveurs» (p.119), anche se esso continuerà a designare innanzitutto il lignaggio. (Da notare che il Dizionario Garzanti della lingua italiana, Milano, Garzanti, 1978, dà la seguente etimologia del termine razza: «Prob. dal fr. ant. “haraz”, allevamento di cavalli, tramite un’antica forma it. “l’arazz”»). Nella seconda parte del suo intervento l’autore capovolge la prospettiva e arriva a nuove conclusioni. Egli indica nel Margravio di Bade (1729-1799) un sostenitore della superiorità della nobiltà in quanto prodotto selezionato della lotta fra forti e deboli. La preminenza sarebbe dunque unicamente fondata sulla natura; la più stretta endogamia è prescritta. Sicché nell’ideologia nobiliare europea vengono individuati due ingredienti del futuro razzismo: una sorta di predarwinismo affiancato da una sorta di prelamarckismo ispirato dalle pratiche dell’allevamento del cavallo. Un’ipotesi di lavoro seducente, ma tutta da verificare: le preoccupazioni eugenetiche possono essere definite



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sospetto è impossibile. È il caso di Boulainvilliers nel quale non si trova l’idea d’una disuguaglianza ab origine. A differenza degli autori cinquecenteschi e secenteschi, egli ha fatto i conti con il giusnaturalismo moderno: non scrive forse: «E certo che nel diritto comune tutti gli uomini nascono uguali»?51
La seconda forzatura sta nell’aver posto un’analogia fra il contenuto concettuale del riferimento nobiliare al sang e quello del razzismo in senso moderno. Non che sia impossibile reperire antenati di quest’ultimo nel pieno dell’età moderna: dopo i lavori di L. Poliakov e di altri, fino alla recente messa a punto di G. Gliozzi52, è acquisito che prodromi di razzismo si ritrovano lungo tutto il percorso che ha visto l’emergenza d’un primato della civiltà occidentale sulle altre, e le teorizzazioni di questo primato. Ma nessuno dei caratteri di quel dibattito sullo statuto biologico dell’altro si ritrova nelle pagine degli ideologi della nobiltà, a cominciare dal poligenismo. D’altra parte Devyver non si impegna in un’analisi del quadro scientifico dell’epoca per quanto attiene alle scienze della vita. Non c’è risposta agli interrogativi su che cosa intendesse mediamente un intellettuale alla fine del Cinquecento parlando di «sangue» né su quali erano i suoi punti di riferimento scientifici per spiegare l’ereditarietà, né infine viene determinato se il discorso nobiliare sul sangue si ripete identico al tempo di Cardano, di Leeuwenhoek, di Malpighi53. Una volta postesi tali questioni è agevole rendersi conto che non vi è alcun rapporto fra il discorso nobiliare sul sangue e le conoscenze scientifiche dell’epoca soprattutto per quanto riguarda la genetica, che menò per lunghi anni «una battaglia contro le ombre»54. E che ciò spinge a ritenere assai più ovvio
senz’altro razzistiche? Per quanto riguarda la Francia Meyer sostiene che il termine «razzismo» è adatto perché i nobili teorizzavano la loro alterità attraverso una «justifìcation idéologique qui est bel et bien d’ordre héréditaire et racial» (p. 125). Ma d’altra parte è inadatto perché la nobiltà smentì ciò nella pratica accettando comunemente il matrimonio con i roturiers.
51 H. de Boulainvilliers, Dissertation sur la noblesse, pubblicata in appendice a A. Devyver, Lesane épuré, cit., p. 502. La prima edizione di questo testo è del 1730.
52 G. Gliozzi, Le teorie della razza nell’età moderna, Torino, Loescher, 1986, con una utilissima nota bibliografica. Aggiungiamo soltanto L. Trenard, Les fondements de Pidée de race au XVIII siede, in «LTnformation historique», XLIII, 1981, pp. 165-173.
53 Cfr. J. Roger, Les sriences de la vie dans la penseefran^aise du XVIII siede. La generation des animaux de Descartes à Diderot, Paris, Colin, 1963; F. Jacob, La logique du vivant. Une histoire de Phérédité, Paris, Gallimard, 1970 (trad. it., Torino, Einaudi, 1987) fondamentale per la storia della genetica. Sulla concezione del sangue nelle società preindustriali cfr. P. Camporesi, Il sugo della vita, Milano, Comunità, 1984; cfr. anche il numero speciale Le coeur et le sang dans Part, les sdences, Phistoire et la litterature della rivista «Aesculape», XV, marzo 1926. Fra il serio e il faceto le poche righe dedicate da L. Febvre alla voce del sangue (L. Febvre, La voix du sang. Fin d’une mystique, in «Annales ESC», IV, 1949, pp. 149-151): a segnare la fine di quella mistica sarebbero state le trasfusioni di sangue, che hanno di fatto dato «le coup de gràce à la prehistoire», hanno assassinato il neolitico (p. 151).
54 Cfr. J. Roger, Les sdences, cit., soprattutto il secondo capitolo. I medici e i biologi del XVII secolo sanno tutti «que la génération des étres vivants reste pour eux une impenetrable mystère» (p. 49).



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l’inserimento del pregiudizio nobiliare in un’ancestrale tradizione che da sempre ha considerato il sangue come il veicolo della trasmissione del seme e la materia prima da cui esso si forma (la «spuma sanguinis» di Pitagora). Se tale idea può essere definita razzistica, l’intera cultura occidentale è chiamata in causa a cominciare da Pindaro: ma a questo punto si uscirebbe dal quadro d’uno studio storiografico per entrare direttamente in quello d’una filosofia della storia55.
Insomma, andando al nocciolo della questione, la differenza sul piano della logica argomentativa fra il razzismo in senso moderno e la secolare tradizione discriminatoria della nobiltà è netta56. La discriminazione razzistica infatti non distingue l’origine e la natura: l’origine è nella natura. Nell’ambito ideologico nobiliare al contrario l’elemento originario della superiorità non è il sangue, non è il dato naturale, bensì la virtù - guerriera il più sovente, ma anche di altro tipo. E la virtù, che a un certo momento della storia - sia esso il più remoto - ha dato vita alla nobiltà non ha a sua volta un fondamento biologico, naturale. Il sangue nobile è superiore a quello ignobile perché il suo portatore eredita virtù storicamente sovrappostesi e non naturalmente predestinate. Il sangue serve a garantire nel tempo, non a fondare nella natura, il primato nobiliare. La nobiltà è un fatto individuale, dell’individuo virtuoso e della sua progenie: dal punto di vista dell’origine non si tratta d’un intero gruppo umano predestinato alla superiorità su un altro. Altrimenti non si spiegherebbe la possibilità accettata da tutti i nobili, pur con diverse sfumature, di creare nuovi nobili:
55 Operazione esplicitamente compiuta in seguito da C. Delacampagne, L’invention du rotisene: antiquité et moyen age, Paris, Fayard, 1983. Nel libro di Devyver sospetti di razzismo pesano su Mably, Tocqueville, Montesquieu. Sui termini reali del razzismo di quest’ultimo cfr. C. Biondi, Montesquieu razzista?, in «Studi francesi», LXXXI, 1983, pp. 474-477.
56 Siamo coscienti che una definizione del razzismo in termini esclusivamente biologistici può destare il dubbio che altre forme radicali e odiose di discriminazione - come l’antisemitismo d’antico regime o certo anti arabismo contemporaneo in Francia - non vi rientrino a pieno diritto. La questione riguarda il senso «largo» o «stretto» che si vuol dare al termine «razzismo». Albert Memmi nella voce «razzismo» dell’Encyc/opedia Universalis ne dà una definizione larga: «Le racisme est la valorisation généralisée et définitive de différences, réelles ou imaginaires, au profit de l’accusateur et au détriment de sa victime, afin de justifier une aggression ou un privilège» (Paris, 1984, t. 15, p. 580). Lo stesso autore propone però altrove una distinzione fra «racisme» e «hétérophobie» che ci pare feconda dal punto di vista storiografico: «Le premier désignant exactement le refus d’autrui au nom de différences biologiques; le second le refus d’autrui au nom de n’importe quelle différence. Le second comprenant l’autre comme un cas particulier» (A. Memmi, Le racisme. Description, définìtion, traitement, Paris, Gallimard, 1982, p. 118). Una simile distinzione può evitare la pericolosa banalizzazione del termine «razzismo» usato ormai da qualche anno in maniera impropria per designare forme eterogenee di discriminazione (abbiamo avuto cosi un razzismo anti giovani, anti donne, ecc.). D’altra parte quella distinzione permette di affrontare con strumenti lessicali più raffinati non soltanto le forme antiche dei meccanismi di esclusione sociale non fondati su dati biologici (come è il caso dell’ideologia nobiliare), ma anche di rendere più incisivo lo sforzo di tutti per individuare e neutralizzare le forme a noi contemporanee, e per la maggior parte non più biologiche, dell’antichissimo Proteo della discriminazione sociale.



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l’avere un nome, nascere come si diceva, significa uscire dal nulla dell’anonimato ed entrare nel mondo della storia, o per meglio dire della genealogia. Ma ciò significa che prima di esser nobile non lo si era e che di fronte a gravi tradimenti si può decadere57. Sicché mentre il razzista si oppone ad ogni osmosi tra il proprio gruppo e quelli ritenuti inferiori perché ciò ne distruggerebbe le caratteristiche biologiche, il rifiuto della mesaillance punta a limitare ma non ad escludere Yanoblissement. I trattati nobiliari dal Cinquecento fino alla rivoluzione non cessano di insistere sulla necessità del ricambio di tanto sangue nobiliare versato sui campi di battaglia con nuovi nobili, provenienti inevitabilmente dai ranghi roturiers, dove non raramente alligna la virtù, quella militare in particolare.
D’altra parte riprendendo per il proprio titolo una formula di Du Cange, le sang épuré appunto58, Devyver non ne percepisce il carattere contraddittorio con la propria tesi generale. Usare épuré invece di pur significa infatti insistere più sull’azione che sul fatto, più sul tempo che consolida e purifica attraverso l’esercizio della virtù che sulla natura che stabilisce una volta per tutte il puro e l’impuro (com’era il caso dell’atteggiamento contro ebrei e musulmani in Spagna)59.
Se del tutto insufficienti paiono le argomentazioni miranti a creare un rapporto di parentela e/o di causalità fra mistica aristocratica del sangue e mistica della razza, un altro versante dell’impianto interpretativo pare non meno debole. Ci riferiamo al legame stabilito fra l’esaltazione nobiliare del sangue e il germaniSmo, cioè il mito dell’invasione da parte di popolazioni germaniche della Gallia romana attorno al secolo V. Sta qui la chiave di volta del razzismo nobiliare secondo lo studioso belga: i nobili pretendendosi discendenti dei conquistatori germanici si considererebbero una razza pura, eletta, biologicamente superiore. Il riferimento al sangue avrebbe dunque una valenza ben definita, salvaguardare la purezza biologica della razza germanica. L’affascinante connessione fra mistica del sangue e germaniSmo produce tuttavia un vero e proprio corto circuito.
Innanzitutto il germaniSmo non fu fenomeno specificatamente francese, interessando varie culture europee con esiti estranei al razzismo. Se Devyver prende in esame la Spagna, dove è evidente che il mito dei conquistatori visigoti nulla aveva a che fare con il razzismo locale a base religiosa, egli d’altra parte non menziona che un mito politico e storiografico sassone e poi normanno si sviluppò nell’Inghilterra del
57 Un solo esempio: nei trattati dei primi del Seicento (Le Bret, Thierriat) si prescrive che il figlio nato prima delVanoh/issemenl debba essere considerato come roturier. dunque da uno stesso padre possono nascere figli nobili e figli roluriers, con buona pace d’ogni considerazione biologica (D. Bitton, The French, cit., p. 95).
58 Scrive Du Cange: «les nobles son procréés d’un sang plus épuré» (A. Devyver, Le sang épuré, cit., p. 158).
59 Su questo problema cfr. A. Sicroff, Les controverses des statuts depureté de sang en Espagne du XV au XVII sìècles, Paris, Didieu, 1960.



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periodo rivoluzionario fino alle utilizzazioni unanimistiche di Bolingbro-ke60; un silenzio analogo ritroviamo rispetto alla cultura italiana non immune dal mito di derivazione tacitiana dell’eccellenza germanica61. L’equivoco che un riferimento alla situazione europea avrebbe evitato sta nella confusione tra germaniSmo e germanofilia, fra un paradigma storiografico che in effetti percorse l’intero antico regime francese, e l’esaltazione dell’eccellenza dei caratteri etici delle genti germaniche: i due atteggiamenti non convergono necessariamente. Si può forse parlare di razzismo per quei nobili che nel Cinquecento esaltavano il carattere guerriero e l’integrità morale dei germani contro la corruzione e le mollezze degli odiatissimi «italiens» della corte del re di Francia? Se ne può parlare a proposito dell’esaltazione delle antiche libertà germaniche care a Montesquieu?
È chiaro tuttavia che il mito storiografico germanistico che vede nello scontro fra «nazioni» diverse la chiave di lettura per leggere tutta intera la storia di Francia si presta ad essere ricondotto tra gli antenati dell’idea della lotta di classe62, o della lotta delle razze. Ma ritenere che i pronipoti abbiano le stesse caratteristiche degli antenati senza precisare gli apporti intermedi che ne modificano il senso e la portata, è un pregiudizio genealogico. Tanto più che il ricorso alla storia, alla conquista germanica, per fondare la nobiltà francese risolve la tensione tra natura e storia di cui si parlava in precedenza in termini nettamente antirazzistici. Recentemente G. Gliozzi è tornato sulla questione notando che i nobili parlavano di se stessi come di una race a parte e che il mito germanico aveva trasposto l’idea e il termine razza dalla sfera biologica al contesto storico. Questo sarebbe il «contributo fondamentale che l’aristocrazia soprattutto francese ha apportato alla storia del concetto»63. Purtroppo tale accenno lascia indeterminate le caratteristiche specifiche di questo contributo sia per quanto riguarda il significato che la nobiltà dava al termine race sia in riferimento allo sviluppo che una filosofia della storia centrata sull’idea di razza avrà alla fine del Settecento in Germania e poi nell’Ottocento.
E sarebbe stato tanto più importante precisare quelle caratteristiche
60 Cfr. il recente B. Cottret Le roi, les Lords et les Communes. Monarchie mixte et Etats du royaume en Angleterre (XVI-XVIII siècles), in «Annales ESC», XLI, 1986, pp. 127-150, soprattutto pp. 141
01 Cfr. G. Costa, Le antichità germaniche nella cultura italiana da Machiavelli a Vico, Napoli, Bibliopolis, 1977. All’inizio del Cinquecento è l’area germanica ad essere la fucina del mito o dei miti sull’origine dei germani, dove per germani vanno intese le popolazioni germaniche nel loro complesso, slavi inclusi (cfr. F.L. Borchardt, German Antiquity in Renaissance Mith, Baltimore and London, The Johns Hopkins Press, 1971).
62 Cfr. la lettera a Engels del 27 luglio 1857 in cui Marx vede in A. Thierry «il padre della lotta di classe nella storiografia francese» (K. Marx - F. Engels, Opere complete, Roma, Editori Riuniti, 1972, t. XXXIX, p. 399). A. Thierry - come è noto - è erede diretto del germaniSmo settecentesco.
63 G. Gliozzi, Le teorie della razza, cit., p. 24.



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quanto più esse erano state deformate da Devyver che ritrova già costituita nell’opera di Boulainvilliers una compiuta filosofia della storia razzistica. Il fatto è che lo studioso belga legge la teoria delle due nazioni in conflitto attraverso gli esiti che nell’Ottocento ebbe quella idea in autori come A. Thierry, F. Guizot e altri, senza preoccuparsi dell’enorme scarto di cultura fra chi aveva come livres de chevet Pasquier e Cartesio e chi, come Thierry, aveva Vico e Herder. Il nobile normanno diventa cosi una sorta di profeta del razzismo, esaltatore irrazionalista dell’orda barbarica rinnovatrice, del guerriero germanico, biondo teodoforo d’una civiltà che dalle rive del Tevere si spostava verso le rive del Reno, verso il Nord. Affermazioni che Devyver non documenta, e non si vede com’egli avrebbe potuto farlo. Ciò non significa che i nobili non si sentissero un gruppo a parte se è vero, come spiega Mayer, che la nobiltà è soprattutto «alterità»64. Ma per arrivare all’idea che i nobili e roturiers costituiscano due nazioni nemiche all’interno dello stesso Stato bisognava aspettare il capovolgimento degli anni della rivoluzione, quando il mito germanico venne ripreso in chiave polemica per indicare nei discendenti dei Franchi conquistatori i nemici da eliminare65. Ma tale radicalizzazione non è affatto retroattiva, non concerne i nobili e la loro ideologia che fu al contrario di tipo unanimistico. Si prenda il caso esemplare di Sieyès. Non stupisce che l’autore ne sottolinei non solo il passaggio dell’Erw/ sur les privilèges in cui Sieyès attribuisce ai nobili di sentirsi «une espece» a parte66, ma anche il ben più famoso appello ai nobili di tornare nelle foreste della Franconia, da cui pensavano di esser venuti, del j2»W-^ que dest le TiersEtat. Tuttavia rovesciando il mito germanico Sieyès lo radicalizzava e lo modificava in maniera assai personale. Nel capovolgerlo infatti egli puntava a dimostrare la necessità dell’eliminazione (sociale) del gruppo dei nobili fuoriuscendo cosi dal quadro in cui l’ideologia nobiliare concepiva quel mito. Capovolgere ancora su se stesso il discorso di Sieyès ritenendo cosi di poter individuare l’autentica ispirazione dell’ideologia nobiliare della razza significa lasciarsi sfuggire che mentre quest’ultima tendeva alla giustificazione storica delle gerarchie, l’altro era finalizzato all’eliminazione giuridica delle disuguaglianze e dei privilegi67.
Scandagliata per trovarvi gli embrioni del futuro razzismo l’ideologia nobiliare ha testimoniato invece un’assai più tradizionale ossessione per le articolazioni gerarchiche, garanzia certa di ordine e di riproduzione del
64 J. Meyer, Noblesse et racisme, cit., p. 113.
65 Cfr. ad esempio il brano di un pamphlet del 1788 in cui i nobili sono presentati «comme plus ennemis du peuple que les Anglais et les Autrichiens», citato in A. Decoufle, L’aristocratie francasse devant topinion publique à la veille de la Revolution (1787-1789), in Aa.Vv., Etudes dfhistoire économique et sociale da XVIII sièste, Paris, Puf, 1966, pp. 1-52, p. 7.
66 A. Devyver, Le sang épuré, cit., p. 178.
67 Sui legami tra ugualitarismo e razzismo e sulla contraddizione tra universo gerarchico e razzismo cfr. L. Dumont, Homo hierarchicus. Essai sur le systhème des sastes, Paris, Gallimard, 1967.



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privilegio; Dio, la natura, la storia ne sono i cardini. La ricerca storiografica successiva cercherà in essi il senso autentico dell’ideologia della razza.
La nobiltà e la razza: verso una società gerarchica. Nel 1976 Arlette Jouanna ha dedicato alla teoria della razza uno studio imponente68. Rispetto al precedente tentativo di Devyver, la sua precisa delimitazione cronologica è feconda di risultati. La genesi dell’idea è descritta come lo sforzo della cultura cinquecentesca di rendere intellegibile il nuovo ordine della gerarchia sociale emerso dal mondo medievale. L’idea di razza corrisponde a un bisogno fondamentale della razionalità rinascimentale: «quello di scoprire un senso nell’universo fondato sulla sua unità: se la società e la natura sono rette dallo stesso ordine naturale esse possono essere considerate come due aspetti, connessi da analogie e somiglianze, di un’unica realtà»69.
Allieva di R. Mousnier e non insensibile alle metodologie e ai risultati delle differenti scienze umane, la studiosa parte dal cuore problematico della scuola cui appartiene: l’analisi della stratificazione sociale. Il suo punto di vista tuttavia non è di tipo sociologico o istituzionale, bensì punta a comprendere in che modo all’interno stesso della società era teorizzato il problema della stratificazione, con quelli connessi della disuguaglianza e della mobilità. Si tratta come è evidente dell’accentuazione d’una delle preoccupazioni fondamentali del maestro70, un’accentuazione che fa prendere a questo aspetto il centro della scena e ci conduce a riscoprire un universo ideologico e mentale prima mai esplorato in maniera cosi massiccia71.
Il materiale esaminato viene disposto dalla Jouanna secondo una complessa tipologia che riteniamo esemplare per chiarezza e incisività, tenuto conto delle caratteristiche del corpus documentario - tanto vasto quanto ripetitivo - e delle finalità della ricerca. L’analisi strutturale degli elementi
68 L'idée de race en Frante au XVI siede et au début du XVII siede (1498-1614), Lille-Paris, Champion, 1976. Una sintesi non sempre felice in A. Jouanna, Ordre sodai. Mythes et hiérarthies dans la Frante du XVI siètle, Paris, Hachette, 1977, ripubblicata in una seconda edizione a Montpellier, Presses Universitaires de Montpellier, 1981. Assai interessante anche il recente articolo della stessa autrice, Perteption et apprédation de Panoblissement dans la Frante du XVI siètle et du début du XVII siètle, negli atti del convegno L'anoblissement en Frante, cit, pp. 1-36.
69 A. Jouanna, L’idée de rate, cit., p. 382.
70 Cfr. le pagine mousneriane su Turquet de Mayerne (L’opposition politique bourgeois àia fin du XVI siètle et au début du XVII siètle. L’oeuvre de Louis Turquet de Mayerne, in «Revue Historique», LXXIX, 1955, pp. 1-20), su B. de Chasseneux (Etat et sodété sous Francois I et pendant le gouvernement personnel de Louis XVI, 1966) su Loyseau, Saint-Simon, Domat e Barnave (Les Institutions de la Frante sous la monarthie absolue 1598-1789, Paris, Puf, 1974, cap. 1), ecc.
71 Cfr. la lunga recensione di S. Oliveri-Secchi, Nella Frauda di Antito regime: nobiltà e razza, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», Vili, 1979, pp. 301-324. La ricerca della Jouanna viene considerata come un contributo alla storia della famiglia nell’Europa moderna. Cfr. anche F. Joukovsky, in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XXIX, 1977, pp. 394-397.



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costituenti la teoria della razza e la sua contestualizzazione nelle visioni del mondo nelle quali essi si inscrivono è seguita da quella psico-sociologica in cui vengono rilevate le differenze fra gli autori e fra i diversi gruppi sociali che esprimono l’idea; infine incontriamo la diacronia e la descrizione dell’interessante sviluppo nel tempo di quell’idea. Tale tipologia ha il merito raro di rendere facile l’accesso del lettore ai differenti aspetti del corpus preso in esame.
La storia dell’idea è sintetizzata in tre momenti. Relativamente rara alla fine del Medioevo e all’inizio del XVI secolo, essa conosce una larga diffusione a partire dalla metà del XVI secolo sotto la forma d’una teoria esplicativa dell’universo e della società universalmente diffusa tra i ceti dirigenti. A partire dal 1585-1595 viene esposta a vive critiche. Dalle controversie suscitate dalle guerre civili nasce una concezione delle gerarchie sociali fondate sulla competenza, qualità che si acquisisce. L’idea di razza tende cosi a porsi unicamente come giustificatrice dei privilegi, soprattutto di quelli nobiliari. Tendenza che si afferma con nettezza nel corso degli Stati generali del 1614: «De système du monde, l’idée de race se fait réflexe de défense»72. Una futura ricerca sull’ideologia della razza nel Seicento e nel Settecento non potrà che prendere spunto da queste premesse e verificare in che modo il problema razziale, cioè dell’eredità, è stato impostato in un quadro culturale non più rinascimentale73.
Ma cosa si intendeva per race? L’idea «secondo la quale le qualità che classificano un individuo nella società sono trasmesse ereditariamente attraverso il sangue»74. Non si tratta di razzismo: la race è l’equivalente della lignee15. Gli uomini dunque nascono diseguali e il dato innato è definitivo; l’ordine sociale riflette e traduce la gerarchia naturale. Le disuguaglianze sociali non sono altro che la sanzione di differenze naturali a loro volta frutto d’un disegno divino. P. de Dampmartin mette in parallelo il popolino con la terra, i mercanti con l’acqua, i nobili con l’aria, la Chiesa con il fuoco, i principi con gli astri76. L’idea della somiglianza fra gerarchia naturale e sociale è insomma di primaria importanza nella costituzione dell’idea di razza, e su questo tema l’autrice fa tesoro, sviluppandole, delle osservazioni foucaultiane sul principio d’analogia77.
In un tale universo deterministico dell’eredità naturale come è possibile
72 A. Jouanna, L’idée de race, cit., p. 1060.
73 J.P. Brancourt sta preparando una tesi di Stato francese sul tema Les concepts de Messe et d’hérédité de 1660 à 1789.
74 A. Jouanna, L’idée de race, cit., p.l.
75 Cfr. in generale l’appendice dedicata al «sens du mot race au XVI siècle» (pp. 1315-1326). Per tutti i pensatori della razza non vi sono specie diverse all’interno del genere umano: il monogenismo cristiano non è messo in discussione (p. 46). L’autrice afferma comunque che un meccanismo mentale di tipo razzistico è presente: il termine race è. infatti sporadicamente usato per designare gruppi particolari, come gli ebrei.
76 A. Jouanna, Ordre socia/, cit., p. 7.
77 M. Foucault, Les mots et les choses, Paris, Gallimard, 1966, soprattutto cap. 2.



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una pedagogia? Eppure si pensò comunemente che se l’educazione può raramente migliorare una cattiva natura è indispensabile per affinarne una buona. Tale concessione rende possibile una grande elasticità nel considerare irreversibile l’assenza di virtù tra i mal nati. Il capitolo sulla pedagogia è sicuramente il più affascinante; bisognava definire quale nourriture serviva al gentiluomo per concretizzare le predisposizioni innate. Seguendo Plutarco si ritenne che l’uomo virtuoso fosse il prodotto del sommarsi di «natura», «educazione» ed «esercizio». La buona alimentazione (e bisogna ricordare che il primo nutrimento dell’embrione è aristotelicamente il sangue), l’educazione (soprattutto militare), l’esercizio della virtù politica in un posto di responsabilità formano il gentiluomo insieme all’esempio degli antenati. Jouanna ci restituisce tutta la valenza allo stesso tempo fisico-biologica e morale del concetto di nourriture: la divisione secentesca fra corpo e mente, fra organico e inorganico, non era ancora stata consumata.
Proseguendo dal generale al particolare, l’autrice arriva ai singoli autori, alle avventure individuali. La loro classificazione secondo il contenuto, la coerenza e la forza con cui esprimono l’idea di razza ci fornisce un quadro quanto mai preciso dell’intensità di certe costanti concettuali senza perdere nulla della varietà delle posizioni, presentate con un apprezzabile gusto del dettaglio.
Se è comune in tutti l’idea che la virtù sia ereditaria, ciò che muta è il modo in cui si intende la virtù. Da qui i diversi contenuti dell’idea di razza. Quello guerriero (la virtù è militare) e quello robin (per virtù si intende l’attitudine al giudizio equo) sono connessi a un’affermazione coerente dell’idea di razza: l’ereditarietà vale allo stesso tempo per le qualità eminenti e per quelle vili. L’ereditarietà è considerata un meccanismo che consente l’emergenza delle famiglie più eccellenti, la cui ragion d’essere è quella di servire come modello, come guida d’una umanità meno realizzata, meno stimabile, ma non disprezzabile. L’ordine sociale è anche un ordine morale, perciò la gerarchia assume un valore didattico: ciò spiega l’attenzione per i segni esteriori della distinzione quali gli abiti, le presèances, gli spazi urbani riservati, ecc. Nel caso invece del contenuto bourgeois dell’idea di razza (la virtù risiede nelle ricchezze: «tout homme de biens» è necessariamente «un homme de bien») essa è espressa in maniera incoerente. Da una parte si nega l’eccellenza innata dei gruppi sociali superiori (rimettendo in causa il principio di eredità), dall’altra si afferma che le qualità vili si trasmettono, giustificando con ciò la subordinazione dei gruppi sociali inferiori. Questa varietà caratterizza gruppi sociali in via di ascensione (aperti verso l’alto e chiusi verso il basso). Si fonda la gerarchia sociale sul mantenimento in una posizione subalterna d’esseri considerati inferiori per ragioni ereditarie.
Guerrieri, robins e bourgeois esprimono infine una presenza forte o debole dell’idea di razza. Nei primi è forte, affermata e ripetuta senza sfumature.



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La nobiltà è considerata come discendente da Sem mentre la roture lo sarebbe da Cam; i vizi d’un gentiluomo possono essere spiegati con la mésalliance della madre e soprattutto la nobiltà esiste indipendentemente dal re. La convinzione moderata è propria dei robins: l’idea di razza è affermata, ma incidentalmente e solo come plausibile. In questo caso la nobiltà trova la sua origine nell’investitura del re, l’educazione viene considerata come fondamentale in quanto la sua assenza può alterare una buona natura, la continuità della virtù viene attribuita più alla grazia divina che alla forza dell’ordine naturale, e infine si riscontra un atteggiamento di apertura rispetto 2XY anoblissement. Per i bourgeois infine la convinzione è debole, vaga e/o contraddittoria. In questo «caso lo sforzo personale viene considerato più forte del determinismo naturale: il vizio del singolo gentiluomo fa perdere la nobiltà a tutta la sua razza e quindi non vi è nobiltà che non venga dalla virtù.
Il bilancio complessivo di questa ricerca è nettamente positivo, ma non immune da possibili rilievi. Quelli contenuti nella lunga recensione di Olivieri-Secchi ci paiono pertinenti e a essi rinviamo78. Qui insistiamo soltanto sulla scarsa attenzione della Jouanna verso le fonti del discorso sulla razza che non viene radicata nelle possibilità filosofiche e scientifiche del suo tempo, a cominciare dai rapporti fra determinismo e libertà cosi importanti nel pensiero rinascimentale. L’influenza di Aristotele è solo accennata mentre una considerazione sistematica dei commentari alla Politica e dei testi che vi fanno riferimento sarebbe stata preziosa. In generale sono trascurati anche gli apporti del neoplatonismo al discorso sulle analogie e le corrispondenze universali. L’autrice non considera né Cassirer né l’utilissima ricerca di Lovejoy sulla «grande catena dell’essere»79. Un tale sradicamento la conduce alla ricerca di altri modelli: il pensiero dei teorici della razza viene messo in parallelo a certe categorie di quello che Lévi-Strauss ha chiamato il «pensiero selvaggio»80.
Tra le varie suggestioni che è possibile trarre da questa ricca ricerca, due meritano particolare attenzione. La prima riguarda una specifica modalità di giustificazione dell’eredità, e quindi dell’eccellenza nobiliare: ci riferiamo alla formula «je ne sais quoi». Noèl du Fail scrive: i nobili hanno «un je ne sais quoi d’onore naturalmente impresso e proprio, al di sopra di tutte le altre condizioni e stati, proveniente da una generosità e eminenza del sangue»; De Bonours insiste: la nobiltà «denota je ne sais quoi di buono e di eccellente al di sopra della gente comune»; addirittura un avversario della teoria della razza come Turquet de Mayerne scrive: «non ho intenzione di negare che le creature generose possano naturalmente
78 Cfr. nota 70.
79 A.O. Lovejoy, The Great Chain ofBeeing, Harvard, 1936 (trad. it., Milano, Feltrinelli, 1966). La Jouanna attribuisce l’espressione «catena degli esseri» a Foucault! (p. 455).
80 A. Jouanna, L’idée de race, cit., p. 429.



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.trasmettere a ciò che proviene da loro je ne sais quoi di grande»81. Le citazioni di questa formula sorprendente potrebbero moltiplicarsi e annoverare i nomi di Retz, Pascal, Montesquieu fino a Balzac82. Ciò che spiega l’eccellenza nobiliare è dunque ineffabile, esiste, pare evidente, ma non riesce a trovare altro discorso che il «non so che».
Si può liquidare una tale giustificazione ideologica soltanto come il segno di quel mondo dell’«à peu près» in cui è nata la teoria della razza? o dell’incapacità della nobiltà di trovare argomenti più solidi? La persistenza nel tempo dell’espressione lascia intatto il problema. Ricorrere al «je ne sais quoi» è il livello minimo dell’argomentazione una volta accettata l’idea di definire attraverso la scrittura la propria alterità sociale. L’appello all’ineffabile rinviava all’osservazione, all’apparire, all’autoevidenza della distinzione: la specificità dello stile nobiliare non si spiega, si ammira, se possibile si imita, è interessante, ma non sorprendente, l’unificazione attorno al concetto di «je ne sais quoi» del complesso degli elementi che caratterizzavano il nobile di razza: il seme, il sangue, la lingua, lo stile, le maniere. La formula accompagnerà il discorso nobiliare per due secoli, dalla biologia all’estetica (Montesquieu la userà ancora alla metà del Settecento, nel contesto dell’Efw/ sur le goni pubblicato ncWEncyclopedie di Diderot).
Per questo la storia dell’espressione può servire come indicatore dei rapporti fra ideologia nobiliare e il quadro culturale e scientifico delle varie epoche. Non è casuale ch’essa continui a essere presente negli scritti filonobiliari fino alla fine del Seicento (ad esempio La Roque), per poi sparire nel secolo successivo. La giustificazione storica della superiorità nobiliare verrà a sostituire nel Settecento quella ormai insostenibile del «non so che» in autori come Saint-Simon e Boulainvilliers.
Un altro spunto riguarda l’individualismo nobiliare83. Si potrebbe dire che
81 A. Jouanna, L’idée de race, cit., pp. 543, 211, 1037.
82 Cardinal de Retz, Mémoires, ed. S. Bertière, Paris, Garnier, 1987, II parte; B. Pascal, Pensées, ed. L. Brunschvicg, Paris, 1925, t. 2, sez. II, 162; C. De Montesquieu, Lettres Persanes, ed. P. Vernière, Paris, Garnier, 1960: «De cette passion général que la nation fran^aise a pour la gioire, il s’est forme, dans l’esprit des particuliers, un certain je ne s^ais quoi, qu’on appelle point d’honneur» (lettera XC); H. De Balzac, Les Chouans, Paris, 1829: «D’un seul regard mademoiselle de Verneuil sut distinguer sous la coustume sombre des formes élégantes et ce je ne sais quoi qui annoncent une noblesse nativé» (cap.3). Un riferimento al «je ne sais quoi» nel Settecento in B. Groethuysen, Phìlosophie de la Revolution francasse, Paris, Gallimard, 1956, p. 98. Di grande interesse è l’utilizzazione in Chateaubriand: «Malgré mille efforts pour pénétrer dans les causes des troubles des Etats, on sent quelque chose qui échappe; un je ne sais quoi, caché je ne sais pas où, et ce je ne sais quoi parait ètre la raison efficiente de toutes révolutions» (Essais historiques, politiques et morale* sur les révolutions ancìennes et modemes consìdérées dans leurs rapports avec la Révolution franose, in Oeuvres de Chateaubriand, Paris, 1838, t. I, p. 139. Per un’analisi filosofica del concetto, estranea tuttavia al nostro contesto storiografico, V. Jankélévitch, Le je ne sais quoi et le presque rien, Paris, Seuil, 1980.
83 II cosmopolitismo e l’individualismo nobiliari non sono stati meglio studiati dell’individualismo. Sul sentimento nazionale della nobiltà cfr. M. Yardeni, La conscience nationale en Frante pendant les guerres de religion (1559-1598), Louvain-Paris, Nauwe Laerts, 19 71, soprattutto cap.



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l’idea di razza concilia l’individualismo eroico, elitario, proprio della tradizione cavalleresca con l’idea cinquecentesca della società gerarchica e stabile; essa rende l’ideologia nobiliare estranea a ogni elaborazione di tipo castale. La nascita di una razza è infatti la concretizzazione sociale dell’atto eroico, cioè virtuoso, ma al tempo stesso un’infrazione a un ordine sociale che analogamente a quello naturale non può essere considerato che come immutabile. L’ideologia della razza rende quindi possibile - al prezzo d’una grave contraddizione interna - la mobilità, ma solo rappresentandola come uno strappo all’ordine gerarchico, una crisi, una ferita il cui riassorbimento è affidato al tempo e dura diverse generazioni: da qui la differenza di «qualità» tra nobile di razza e anobli. Da qui l’ossessione dell’antichità come prova migliore della purezza nobiliare.
La dinamica sociale e i suoi segreti: il tempo e la memoria. Scritto verso la metà degli anni Settanta, Le Bourgeoisgentilhomme è ormai diventato un classico nel suo genere84. In esso G. Huppert affrontava il problema della formazione nel corso del XVII secolo d’una nobiltà socialmente e ideologicamente spuria rispetto alla tradizione. L’analisi è troppo conosciuta perché ci si ritorni ancora. In essa veniva sottolineato tra l’altro uno dei problemi fondamentali di fronte al quale si trovarono tutti gli ideologi della nobiltà. Come conciliare la difesa della specificità sociale e dell’omogeneità culturale del gruppo con la necessità demografica del ricambio e con l’irresistibile spinta all’ascesa di ceti non nobiliari?
Su questo problema il dibattito si arricchisce nel 1981 d’un contributo che è stato - a torto - trascurato dai recensori. Il libro di Roberto Moro85
11; sulla reazione patriottica della nobiltà al tempo di Luigi XIV abbiamo un primo lavoro: J. P. Labatut, Patriottisme et noblesse sous le régne ile Louis XIV, in «Revue d’Histoire moderne et contemporaine», XXIX, 1982, pp. 622-634, i cui documenti di riferimento sono però testi ufficiali della monarchia piuttosto che elaborazioni nobiliari. Un’analisi più attenta del patriottismo nobiliare potrebbe tra l’altro gettare nuova luce sulle scelte religiose della nobiltà cinquecentesca e sul pensiero nobiliare all’epoca della Fronda (cfr. J.M. Constant, La pénétration des idées de la Riformeprotestante dans la noblesse provinciale fran^aise à travers quelques exemples de Bassin Parisien, in Aa.Vv., LesReformes. Enracinement socio-culturel, Tours, 1985, pp.321-326, e Id., La «troisième Fronde»: les gentilsbommes et les libertés nobiliares, in «XVII Siècle», XXXVI, 1984, pp. 341-354). A. Soboul ha sottolineato che nel Settecento la nobiltà oppose al montante patriottismo borghese l’atteggiamento cosmopolita. Dopo l’emigrazione si sviluppò una forma di patriottismo di ritorno nutrito di nostalgia (Sur raristocratie et le sentiment national, in B. Kopeczi-E.H. Balazs, eds., Noblesse franose. Noblesse hongroise [XVI-XIX siècles], Budapest-Paris, 1981, pp. 87-92). Tra gli interventi di questo convegno segnaliamo}. Queniart, Visions de fEurope dans les bibliothèques de la noblesse franose au XVIII siècle, ivi, pp. 121-127, in cui si sostiene la crescita dell’attenzione della nobiltà settecentesca verso l’Inghilterra. Gli ultimi sforzi fatti per un’analisi comparativa delle nobiltà europee sono stati deludenti soprattutto dal punto di vista della presente rassegna (cfr. J. Meyer, Noblesses et pouvoirs dans ! Europe d’ancien règime, Paris, Hachette, 1973; J. P. Labatut, Les noblesses europe'ennes de la fin du XV siècle a la fin du XVIII siècle, Paris, Puf, 1978 (trad. it., Le nobiltà europee, Bologna, Il Mulino, 1982); M. L. Bush, TheEuropean Nobility, New York, Holmos-Meyer, 1983, I, Noble Privilege.
84 George Huppert, Le bourgeois-gentilhomme, cit. sopra nota 19.
85 R. Moro, Il tempo dei signori. Mentalità, ideologia, dottrine della nobiltà francese di Antico regime,



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appartiene infatti a quel genere di saggistica felicemente provocatorio, portatore di stimoli interpretativi originali e spesso paradossali, che pur fornendo raramente nuove conoscenze, può smuovere le acque, provocare risposte, scuotere luoghi comuni.
Padrone del dibattito sin qui ricostruito, l’autore si mostra assai sensibile alla nocelle histoire. Il suo eclettismo metodologico (si propone «una storia delle idee aperta alla storia delle mentalità, e una storia delle mentalità aperta alla storia sociale»)86 è finalizzato alla realizzazione d’un progetto ambizioso: elaborare un modello interpretativo del funzionamento dell’antico regime nel suo complesso facendo perno sulla nobiltà.
Il presupposto fondamentale dell’analisi è la possibilità di reperire una sorta di quid ermeneutico capace di legare l’antico regime, la nobiltà e la rivoluzione:
proprio per essere, nel nostro pensiero come nella realtà che esso suscita, cosi fortemente aggregati, i concetti di Antico regime, nobiltà e Rivoluzione debbono essere in qualche modo tra loro somiglianti, strutturalmente contigui, e, se non fatti di una stessa sostanza comune, per lo meno essere vasi comunicanti contenitori di un unico processo sociale e mentale. Nei molteplici volti della nobiltà di Antico regime ho quindi ricercato questa sostanza87.
Il problema di fondo è quello del mutamento storico: quale fu il segreto del lungo persistere della connessione fra antico regime ed egemonia economica ed ideologica nobiliare? Il quid di cui si parlava sta nella concezione del tempo: la civiltà di antico regime può essere decifrata a partire da quello che Moro chiama il «tempo dei signori»88.
Esso va distinto da altre due dimensioni del tempo elaborate da Le Goff (il «tempo della chiesa» e il «tempo del mercante»)89, e va inteso come una
Milano-Roma, Savelli, 1981.
86 Ivi, p. 12. L’autore si propone in generale di intersecare l’analisi del «materiale» e del «sociale» con quella del «mentale». Quest’ultimo a sua volta, e per analogia, conosce tre dimensioni temporali: le mentalità (le strutture), le ideologie (le congiunture), le dottrine (gli individui), dalla cui interazione emergerebbe la storia delle idee.
87 Ivi, p. 11. Il passaggio citato esemplifica le difficoltà di lettura di questo studio in cui alcune pregevoli intuizioni vengono avvolte in una prosa ispirata e troppo sovente ostica. Come spesso accade l’estrema complessità dell’obiettivo propostosi pare giustificare il ricorso all’astruso in quanto segno di quella complessità, garanzia che il linguaggio aderisce meglio alla realtà. Il coraggioso sforzo di concettualizzazione sollecita tuttavia l’indulgenza e la pazienza del lettore.
88 Per l’espressione «tempo dei signori» Moro si ispira probabilmente a P. Goubert, L’ancien regine, cit., p. 26: nell’Ottocento e nel linguaggio contadino il «tempo dei signori» era ciò che gli storici chiamavano l’«antico regime». Per il periodo precedente la rivoluzione Moro non fornisce occorrenze dell’espressione. In Saint-Simon essa indicava piuttosto il tempo dei signori feudali in Francia come nel resto dell’Europa (Mémoires, ed. Boislisle, Paris, 1919, t. XXX, p. 55).
89 J. Le Goff, Au Moyen Age: temps de CEglise et tempi du marchand, in «Annales ESC», XV, 1960, pp. 417-433 (trad. it., Tempo della Chiesa e tempo del Mercante, Torino, Einaudi, 1977, pp. 3-24).



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specifica percezione del mutamento che accomuna nei livelli piu profondi ed elementari della mentalità il contadino e il nobile. Tale percezione emerge dallo spazio chiuso e ristretto del villaggio e soprattutto dal tempo della natura, che è quello contadino, la cui ciclica perfezione esclude la storia, in quanto il passato e il futuro sono entrambi immemorabili. La mentalità e l’ideologia nobiliare vi è radicata: essa si fonda sulla tradizione, che privilegia la ripetizione alla novità. In quel clima mentale spariscono i confini tra natura e società. Affermando le proprie origini immemorabili la nobiltà postulava cosi allo stesso tempo la propria perennità, l’appartenenza a una dimensione del tempo completamente estranea a quella lineare che si svilupperà nel XVIII secolo con l’idea di progresso: appunto «il tempo dei signori, una particolare struttura del pensiero che appartiene alla dimensione del non cosciente collettivo di antico regime»90.
Situandosi sull’asse temporale della lunga durata Moro presenta innanzitutto le strutture materiali e i rapporti fra «terre», «seigneur» e «paysan» fondandosi sulla registrazione delle più importanti acquisizioni storiografiche degli ultimi decenni. Mondo rurale e «società inglobante» si fronteggiano in uno scontro che durerà tre secoli attorno ai meccanismi del prelievo fondiario. Tali meccanismi restano sostanzialmente immobili. Ma il sistema è lungi dal negare la mobilità sociale: al cuore della strategia del mutamento Moro trova la nobiltà.
Aborrita dai contadini spoliati, agognata dai ceti borghesi, la nobiltà appartiene per intero al mondo mentale (oltre che materiale) dei primi, pur essendo aperta ai secondi. Garanzia della stabilità del mondo rurale, essa è sollecitata ad aprirsi per accogliere la mobilità proveniente dalla società esterna, subendo un costante ricambio; la bourgeoisie infatti accumula ricchezze per trasformarle in dignità. Ma come conciliare stabilità e mutamento? come nasce il bouigeois-gentilhomme, figura simbolica della conciliazione? Per spiegare l’enigma l’autore arriva alla dissoluzione della nobiltà in quanto gruppo sociale. Giuridicamente indefinibile, tanto per i contemporanei quanto per lo storico, camaleonte sociale dalle mille figure che cambiano forma e confini nel tempo e nello spazio, essa è una vera e propria araba fenice per chi non si ponga sul piano della lunga durata. Non è importante infatti spiegare se la nobiltà era un ordine, una classe, o altro ancora; ciò non ci dice ancora nulla sul suo ruolo di mediazione. Essa va invece vista - e sta qui l’originalità della proposta di Moro - come un «luogo mentale»91, un ambito della mentalità collettiva che tiene unito l’intero sistema sociale, in quanto l’intero sistema riconosce la credibilità dei valori, della cultura, dei privilegi nobiliari: insomma il vivre noblement. Per questo il sistema sociale dei secoli XVI-XVIII è un meccanismo di produzione e riproduzione della nobiltà. Una tale ipertrofia storiografica
90 R. Moro, li tempo dei signori, cit., p. 32.
91 Ivi, p. 149.



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della categoria del «mentale» produce inevitabilmente qualche effetto deformante, se è vero che Moro arriva ad affermare che la nobiltà di antico regime «non ebbe ruolo né personalità politica»92.
Comunque sia questo ruolo di mediazione comporta per la nobiltà una crisi di identità cronica di cui sono segno le continue doglianze: essa è la rappresentazione collettiva che afferma e permette l’immutabilità del sistema e in questo senso deve negare ogni ricambio. Ma nello stesso tempo essa è aperta a tutti coloro che promossi dal sistema e con la cauzione della monarchia si appropriano del suo statuto ideologico. Insomma non esiste un’ideologia nobiliare in quanto la nobiltà stessa viene definita come «ideologia»93.
Lasciando le strutture mentali più o meno profonde, l’autore si impegna nella seconda parte in una verifica del suo modello attraverso un’analisi metodologicamente più tradizionale di un largo campione di Traile' de la noblesse. «Il tempo dei signori» tuttavia continua a tiranneggiare lo storico.
Posta a quei trattati la questione fondamentale («che cos’è la nobiltà»?), la risposta è quella attesa dall’autore: vaga, contraddittoria, confusa; in essi trova conferma l’idea che non sia possibile trovare una definizione univoca della nobiltà, valida per tutto l’antico regime. E questo è certamente un risultato, sempre che si accetti la liceità del problema e il suo senso storiografico. Purtroppo la promettente prospettiva d’un sondaggio articolato in maniera originale delle idee fondamentali espresse in quei Traités non prende quota e si trasforma in un’analisi convenzionale di alcuni di essi considerati più rappresentativi. È il caso del trattato del La Roque del 167894, in cui troviamo alcuni luoghi comuni fondamentali del discorso nobiliare. Se un eccesso di fiducia nelle ricerche del Devyver fa porre a Moro la dottrina del La Roque nella tradizione razzista ricostruita dallo studioso belga, più felicemente egli utilizza i risultati della Jouanna interpretando l’idea di race nell’ambito della credenza in un ordine naturale ciclico e ripetitivo che si realizza nella trasmissione dei caratteri acquisiti garantendo cosi la stabilità delle gerarchie. La teoria della race diventa cosi un esempio significativo degli intrecci profondi fra tempo dei contadini e tempo dei signori, «essa nega gli effetti distruttori del tempo [...] le evidenti rotture che il fatto stesso della morte e della vita rappresentano»95. Essa è il nerbo dello statuto ideologico nobiliare e non serve come pensa Jouanna a «fermare il tempo», bensì a rendere possibile quello dei signori.
A partire da queste faticose premesse è possibile affrontare le parti finali dedicate alle «dottrine». Le opere di Boulainvilliers e di Saint-Simon
92 Ivi, p. 31.
93 Ibidem.
94 G.A. De La Roque, Traite' de la noblesse, Paris, E. Michallet, 1678.
95 R. Moro, Il tempo dei signori, cit., p. 183.



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rappresentano la discontinuità, l’erosione totale e irreversibile del tempo e dello «spazio» dei signori.
«Forse non molti - scrive R. Moro - hanno pensato come Boulainvilliers, e dopo, per molto tempo, molti penseranno come lui»96. La concezione storica di quest’ultimo demistifica la pretesa nobiliare di origini immemorabili fissandole nella conquista franca. Appropriatosi dell’idea cinquecentesca di razza egli le dà concretezza storica. La saldatura tra razza e storia lineare razionalizza il paradosso delle origini. Cosi nasce un nuovo pensiero, una discontinuità del pensiero in senso foucaultiano: il tempo non è più ciclico, comincia ad avere una storia fatta di rotture, di violenze, di mutamenti la cui legge è il conflitto e i cui esiti sono imprevedibili. La nobiltà ha ormai una chiara origine collettiva, se ne può osservare la decadenza, può avere una fine. Si tratta come è evidente di un’autoerosio-ne, d’una paradossale rescissione dei legami con la mentalità aristocratica da parte di uno degli esponenti più tradizionalmente collegati ad essa. Negli anni della «crisi della coscienza europea» a contatto con i «luoghi più elevati del pensiero», «il pensiero di un aristocratico entrò nel mito, lo attraversò, incontrò la storia ponendo cosi fine al tempo dei signori»97. Saint-Simon opera un’erosione simmetrica concernente lo spazio dei signori93. Lo schema è quello consueto. La nobiltà di natura bifronte è ancorata al mondo rurale, ma non per questo è meno complice dell’assolutismo e modello dei ceti urbani emergenti. Il prodotto urbano specifico dell’antico regime è la Corte che prescrive e realizza un’assoluta alterità spaziale e culturale rispetto al mondo rurale, insieme al sogno d’una civiltà aristocratica. Saint-Simon si proporrebbe di riattivare il ruolo di mediazione della nobiltà nel nuovo spazio della Corte in cui il potere assoluto, allontanandosi dal mondo rurale, l’aveva trascinata. Il problema niente affatto passatista del duca sarebbe stato dunque quello di trovare un nuovo punto di equilibrio tra lo spazio e il tempo della società di Corte e quello del mondo rurale99.1 suoi strumenti ideologici sono quelli abituali: il sangue, la gerarchia, l’ordine. Ma il nuovo punto di vista fa loro perdere il contatto con lo spazio sociale rurale in cui essi agivano e li proietta nello spazio allargato delle istituzioni, del re, della nazione. Il problema diventa allora quello di sacralizzare il sangue reale. Esso non solo fonda la
96 Ivi, p. 221.
97 Ivi, pp. 226 e 224.
98 Una tale «erosione» ha un senso unicamente all’interno del modello dell’autore; si capisce male in che modo questi possa attribuire al duca «un ruolo non secondario nel dare fondamento all’ideologia della nobiltà» (ivi, p. 256), affermazione insostenibile vista la storia editoriale dei suoi scritti sconosciuti, se non a pochi intimi, fino alla vigilia della rivoluzione. La sua opera memorialistica e politica può interessare lo storico in quanto testimonianza del ruolo della corte e delle sue cabaies nella formazione della decisione politica all’apogeo dell’assolutismo versaillese (E. Le Roy Ladurie, Auprès du Roi, la Cour, in «Annales ESC», XXXVIII, 1983, pp. 21-41).
99 R. Moro, Il tempo dei signori, cit., p. 273.



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continuità dello Stato, ma circolando all’interno dello strato superiore della nobiltà (la pairie) garantisce la compattezza del sistema sociale e politico. La pairie infatti rappresenta per Saint-Simon la nazione tutta intera. Il rispetto delle gerarchie a Versailles è la condizione dell’ordine sociale, e ciò spiegherebbe le ossessioni per l’etichetta e per la preminenza della pairie. La scissione fra pairie e nobiltà fa si che quest’ultima non sia più l’anello che permette il movimento ciclico del sistema. L’utopia aristocratica di Saint-Simon si conclude con l’erosione delle antiche strutture mentali da cui era partito, delle antiche solidarietà e valori, sostituite dagli effimeri intrecci delle cabales raccontati da La Bruyère. L’élite politica aristocratica era ormai pensata come il prodotto del palazzo e non più del castello.
Il modello interpretativo presentato è monolitico da una parte e labirintico dall’altra. Un labirinto verticale a più piani che l’autore percorre «dall’alto al basso» e più volentieri «dal basso all’alto»: dal sottosuolo del pensiero fino alle dottrine e al vano agitarsi dei pamphlets (per esempio in occasione delle querelles degli anni Dieci sui Bonnets e sulla legittimazione dei bastardi di Luigi XIV a cui dedica un utile capitolo compilativo). Decifrati i risultati più importanti della ricerca è forse possibile incuneare qualche appunto.
Si resta interdetti di fronte all’impianto generale: come è possibile seguire chi si muove ai livelli «bassi e profondi»100 del pensiero e indaga «gli strati profondi della memoria»101, convinto che esista un «cemento mentale che salda l’economico al sociale»102. Modestamente persuasi della necessità di differenziare per meglio capire, stentiamo a credere che un libro in cui se si sostituissero alcuni termini chiave (tempo, signori, contadini, antico regime, ecc.) con dei simboli algebrici convenuti, nulla o quasi cambierebbe nell’intellegibilità del testo, possa veramente aiutarci nella comprensione d’una realtà proteiforme come quella d’antico regime. D’altra parte l’autore non cessa di alimentare i dubbi sulla fondatezza epistemologica del metodo troppo sommariamente definito in una pagina stringata in cui sono assenti le riflessioni svolte qualche anno prima da Koselleck103. Queste ultime forse avrebbero impedito di instaurare problematici rapporti di dipendenza, trasformatisi presto in confusione, tra il livello delle strutture e quello degli avvenimenti, e quindi tra mentalità e pensiero individuale.
Certo, date le premesse, non stupisce l’assenza d’una qualsiasi indagine
100 Ivi, p. 96. Si vedano anche i seguenti passaggi: «Proprio questo scomporsi e ricomporsi delle solidarietà in molteplici direzioni, secondo regole che rimangono ignote e modalità che possiamo solo intuire, è. il movimento dell’Antico regime...»; «[la nobiltà] ci appare antica e d’istinto si ha la sensazione che tutto il passato le appartenga» (ivi, pp. 363, 16; i corsivi sono miei).
101 Ivi, p. 154.
102 Ivi, p. 221.
103 R. Koselleck, Vergangene Zukunfi. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Frankfurt, Suhrkamp,



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diretta ed esplicita su cosa gli autori analizzati pensassero del problema del tempo o in che modo il pensiero aristocratico, attraverso soprattutto Boulainvilliers, trattò il dibattito secentesco sulle «sterminate antichità». Spiacevole, ma inevitabile, è l’oblio delle dense pagine di G. Poulet sul concetto di tempo in cui note illuminanti sono dedicate al tempo giansenista, féneloniano, ecc.104. A parte l’assillante presenza di errori di stampa che spesso stravolgono il testo105, altre riserve potrebbero esprimersi su punti più precisi106. Rivolgiamoci piuttosto all’esigenza metodologica fondamentale che questa ricerca pone.
Moro insiste giustamente sul fatto che non si possa studiare in maniera sensata l’ideologia nobiliare .di antico regime se si presuppone che la nobiltà sia un mero elemento frenante della dinamica di quella società, la «reazione» a cui pensa Devyver, o se la si trasforma in maniera tale da farla morire prima della rivoluzione come fa Chaussinand-Nogaret. Contro ogni astrattezza è proficuo considerare i prodotti ideologici nobiliari come un formidabile strumento per penetrare la storia ideale e sociale d’antico regime, come ha ben compreso Jouanna. Questa esigenza metodologica è il vero filo d’Arianna che permette di uscire con un risultato importante dal labirinto costruito da Moro. Ad esso se ne accompagna un altro: il pensiero ideologico nobiliare non è estraneo, nella forma come nei contenuti, alla preparazione di alcune delle elaborazioni fondamentali del pensiero rivoluzionario. Più che a Saint-Simon, la cui idea di rappresentanza è assai lontana da quella dell’89, si pensa a Boulainvilliers e al rapporto che Moro stabilisce, e che noi ritroviamo per l’ennesima volta, fra questi e Sieyès. Ora, se pare eccessivo vedere nell’opera del conte normanno il concetto moderno di rivoluzione107, crediamo che la sua idea della «conquista» contenga una fondamentale analogia con le modalità
a.M., 1979 (trad. it., Futuro Passato, Genova, Marietti, 1986). Per una sintesi cfr. Id., La storia sociale moderna e i tempi storici, in Aa. Vv., La teoria della storiografia oggi, a cura di P. Rossi, Milano, Il Saggiatore, 1983, pp. 141-158.
1 04G. Poulet, Etudes sur le temps bumain, I e II voi., Paris, Plon, 1950; III voi., Paris, Plon, 1964; IV voi., Paris, Ed. du Rocher, 1976. Un esempio recente di studio fecondo sulla concezione del tempo in D. Crouzet, La représentation du temps à epoque de le Ligue, in «Revue Historique», CCLXX, 1983, pp. 297-388.
105 Lo stillicidio d’errori di stampa è tale che diventa impossibile segnalarli tutti. A p. 69 e a p. 230 mancano addirittura intere righe.
106 È il caso del termine «revolution» che secondo Moro è utilizzato dalla cultura di antico regime soprattutto nel senso di revolutio (R. Moro, Il tempo dei signori, cit., p. 79). A parte i grandi classici sul problema (cfr. K. Griewank, Il concetto di rivoluzione nell’età moderna. Origini e sviluppo, Firenze, La Nuova Italia, 1979) un libro come quello di J.M. Goulemont, Discours, histoire, revolution, Paris, Union generale d’éditions, 1975, che studia la percezione del mutamento storico nella cultura prerivoluzionaria, avrebbe evitato una forzatura che trova palesi radici in esigenze interpretative. Lo stesso può dirsi per l’estremizzazione del fìloassolutismo di Saint-Simon o per il giudizio bizzarro sugli scritti politici ed economici di Boulainvilliers liquidati come espressione dell’«erudizione barocca» dell’autore (p. 249).
107 R. Moro, Il tempo dei signori, cit., p. 249. Boulainvilliers e Sieyès si ritroverebbero accomunati da uno stesso sistema di pensiero, anche se rovesciato.



93 Uideologìa nobiliare nella Francia di antico regirne
pratiche e ideali della rivoluzione: l’una come l’altra rinviano a una rottura storica che forma ex nihilo un nuovo diritto pubblico. Come nel caso del razzismo non è sufficiente rovesciare Sieyès per vedere Boulainvilliers; in mezzo vi è l’Illuminismo. Ma la relazione fra «conquista» e «rivoluzione» può forse aggiungere un dettaglio per spiegare la specificità della rivoluzione di Francia rispetto a quella inglese e americana; e d’altra parte sollecita a colmare il vuoto, a ricostruire i passaggi, a rileggere il dibattito costituzionale riportato alla luce da Carcassonne negli anni Venti sotto un più accentuato angle nobiliare1™. Prospettiva forse più feconda di quella suggerita nel modello di Moro, per il quale la rivoluzione non sarebbe altro che il rovesciamento definitivo del «tempo dei signori» e l’emergenza dei «signori del tempo». Formulazione che fagocita il problema nel modello e chiude la ricerca.
«Vivre noblement»: Possessione della viltà. L’ideologia della razza giustificava la superiorità delVw nobile; essa era il fondamento ultimo - biologico o storico secondo i casi - delle distinzioni sociali.
Analogo sforzo fu fatto per definire i caratteri delFa/ffiarire nobile. L’etica nobiliare fu un’etica dell’apparenza, ossessionata dal rischio dell’offuscamento dell’immagine sociale del nobile a causa d’un comportamento vile e contrario al modello ideale, fissato per lo più da regole non scritte. Un semplice insulto non vendicato, una transazione economica fuori dalla norma, bastavano ad avvilire il nobile, a metterne in questione lo status e quindi l’onore. La passione per il duello e il rifiuto del commercio furono cosi due forme essenziali del «vivere nobilmente»109.
Il dibattito sul concetto di onore, raro e frammentario negli ultimi
108 È. Carcassonne, Montesquieu et le problème de la contitution francasse au XVIII siècle, Paris, Puf, 1927.
109 Ma non le sole. Si pensi all’accanimento per la conservazione del privilegio della caccia che solo l’Assemblea Costituente riusci ad abolire. Ma si pensi soprattutto all’elaborazione d’un paradigma del comportamento sociale che fu egemone per due secoli: rhonnéte homme. Un’analisi specifica della letteratura sull’argomento meriterebbe una rassegna a parte, meno centrata sull’ideologia nobiliare. Il tema dellta//f homme infatti se può considerarsi da una parte come una produzione propria degli ambienti di corte, dall’altra diventa rapidamente a partire dalla seconda metà del Seicento il modello di riferimento delle e'iites dirigenti nel loro insieme allo stesso tempo che un ideale letterario, travalicando nettamente l’ambito della nobiltà come gruppo sociale separato. Una messa a punto del dibattito iniziato negli anni Venti con il libro di M. Magendie, La polireste mondaine, cit., in A. Hófer-R. Reichardt, Honnete homme, Honnèteté, Honnete gens, contenuto nel settimo volume dell’ottimo R. Reichardt-E. Schmitt, hrsg.v., Handbuch politisch-sozialer Grundbegriffe in Frankreich (1680-1820), Miinchen, Oldenbourg Verlag, 1986, pp.7-74; cfr. anche R. Chartier, Civilité, ivi, Heft. 4, pp.7-50; per il Settecento cfr. C. Rosso, Les tambours de Santerre. Essais sur quelques éclipses des Lumières au XVIII siècle, Pisa, La Goliardica, 1986. Sulla storiografia intorno alla corte in particolare sull’opera di N. Elias cfr. P. Merlin, Il tema della corte nella storiografia italiana ed europea, in «Studi Storici», XXVII, 1986, pp. 203-244. L’ultimo lavoro in ordine di tempo sui meccanismi di funzionamento della corte in Francia è J.F. Solnon, La Cour de Frante, Paris, Fayard, 1987.



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decenni110, è stato rilanciato intorno al tema del duello da due recentissime ricerche111. La storia raccontata è quella d’una duplice resistenza: della monarchia borbonica contro la nobiltà duellante e di questa contro la monarchia. Ma è anche la storia della loro mutua complicità, della nostalgia nobiliare verso l’arbitraggio monarchico delle querelles sul «punto d’onore» del tempo dei Valois e dell’indulgenza d’ogni re - primo dei gentiluomini - per le intemperanze d’un’etica cavalleresca che condivideva (eccetto Luigi XIII, tutti i re di Francia da Enrico II a Luigi XIV incluso hanno lanciato almeno una volta Vappel al duello, come Francesco I aveva fatto con Carlo V!).
L’approccio diacronico al problema, presente in entrambe le ricerche, permette di fissare alcune tappe essenziali della pratica. Nella prima metà del Cinquecento è comune il «duello giudiziario»: lo stesso re concede il cosiddetto «champs clos», assiste al duello, getta il suo «bàton» per interrompere lo scontro, proclama il vincitore. Con essi la monarchia, accettando di sospendere la propria autorità giudiziaria per rimettersi al giudizio delle armi, inglobava il fenomeno nei meccanismi stessi dell’Ex/ rqyal, neutralizzandone la portata eversiva. La nobiltà non chiedeva di meglio che questa conciliazione di pratiche ordaliche e di autorità del re. Giuridicamente nulla cambia fino ai primi del Seicento, anche di fronte alla scomunica prescritta dal Concilio di Trento per tutti i duellanti. La pratica invece muta visibilmente a partire da un famoso duello del 1547 patrocinato da Enrico II fra il suo favorito e un tal Jarnac. La vittoria di quest’ultimo e l’incapacità di Enrico II di arrestare lo scontro prima che divenga fatale, e quindi di arbitrarlo, mostrarono che sulle questioni d’onore non era più possibile affidarsi al giudizio del re, mostratosi partigiano e imbelle. Michelet scrisse liricamente che il «coup de Jarnac»112
110 Non si sono ancora interrogati sistematicamente i trattati nobiliari alla ricerca - come per l’idea di razza - d’una tipologia del concetto di onore dall’età delle guerre di religione fino alla definizione di Montesquieu. Cfr. comunque L.E. Halkin, Pour une histoire de Phonneur, in «Annales ESC», IV, 1949, pp. 433-444; Id., Avatars de Phonneur, in Initiation à la critique historique, Paris, Colin, 1974, pp. 209-224; A. Jouanna, La notion d’honneur au XVI siede, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine» XV, 1968, pp. 597-623; Id., L'honneurperdu de la noblesse, in «Histoire», LXXIII, 1984, pp. 54-62; J. Pappas, La campagne desphilosophes contre Phonneur, in Studies on Voltaire and thè Eighteenth Centuiy Franse, cit., n.205, 1982.
111 Cfr. M. Cuénin, Le duel sous PAncien régime, Paris, Presses de la Renaissance, 1982, buona introduzione; e l’eccellente F. Billacois, Le duel dans la sociétéfranose des XVI et XVII siècles: essai de psycosodologie historique, Paris, Editions de l’EHESS, 1986, la cui documentazione e bibliografia generale possono considerarsi quasi esaustive. E impossibile in questa sede dar ragione della ricchezza dei temi trattati in questa ricerca. Dal parallelo con la situazione europea alla sociologia dei duellanti al duello come espressione dell’estetica barocca fino allo sforzo di concettualizzazione dell’ultima parte. Dal punto di vista metodologico l’autore si richiama a Mauss e intende il duello come «un’istituzione sociale totale» (p.7). Va segnalato anche R. De Herte, Le duel et Pétique de Phonneur, in «Etudes et recherches», II, 1983, pp. 3-16.
112 Ancora oggi l’espressione significa «colpo basso, da traditore».



95 Lfideologia nobiliare nella Francia di antico regi/ne
aveva rappresentato la disfatta della royauté. La difesa dell’onore cominciò ad essere intesa come indipendente dalle leggi scritte della monarchia, superiore allo stesso re e affidata al coraggio di ciascuno.
Nel 1609 Enrico IV promulga il primo editto in cui è fatto divieto di praticare sotto ogni forma il duello (che, è bene precisarlo, non concerneva chi portava la robe: magistrati, preti, donne). I problemi d’onore avrebbero dovuto essere sottoposti a uno speciale tribunale dei marescialli di Francia dal giudizio vincolante per le parti in causa. Quell’istanza fu ignorata dalla nobiltà e l’editto restò lettera morta. Fu questa la tendenza del secolo. La moltiplicazione degli editti non impedì che essi fossero inosservati o mal applicati. Dopo un ultimo picco parossistico all’epoca della Fronda, la pratica del duello si smorza con Luigi XIV, ma non scompare. Lejeggi repressive del Re Sole e l’azione del clero, che assimilavano il duello all’omicidio, il «giudizio di Dio» al. «giudizio del diavolo», furono del resto favorite da una caduta del valore sociale del fenomeno. Caduta che si accentua il secolo successivo, tempo delVbonneteté e non degli eroismi cavallereschi. Il ritorno di fiamma data paradossalmente dagli anni della rivoluzione: il duello diventa il proseguimento del dibattito parlamentare violento o della schermaglia giornalistica113. Il duello sarebbe allora - come scrive Billacois parodiando Clausewitz - un dialogo proseguito con altri mezzi? Questo ci riporta alla mentalità e alle psicologie collettive e in ultima istanza al discorso ideologico. . .... .
M. Cuénin segue attraverso il metodo dei testi e dei casi esemplari lo svolgimento della tensione fra pratiche del duello e loro giustificazione. La maggioranza dei testi analizzati mostra una più o meno severa opposizione al duello; il resto accetta soltanto quello giudiziario, con l’argomento che solo il sovrano può essere giudice dell’onore di ciascuno. La nobiltà di spada da parte sua sogna un’integrazione del duello nelle normali pratiche giudiziarie della monarchia. In realtà la situazione di clandestinità a partire da Enrico IV non permette un’elaborazione esplicita favorevole al duello del punto d’onore. L’eccezione è il Cid di Corneille che ne è l’apologià. Ma si tratta d’un testo letterario, il cui straordinario successo nel tempo ci dà la misura della popolarità del fenomeno, non d’uno sforzo di giustificazione razionale di esso114. Il dato è sorprendente e assai significativo: una delle pratiche fondamentali che definivano la nobiltà di spada di antico regime non viene di fatto mai razionalizzata a scopo giustificativo. Quali le
113 Famosi i duelli tra i costituenti. L’ambito parlamentare e giornalistico, oltre a quello più tradizionale dell’esercito, videro allignare il duello fino alla prima guerra mondiale. Nel 1967 il socialista G. Defferre incrociava ancora una volta la spada con un collega parlamentare.
114 L’esaltazione del duello si ritrova in generale in opere letterarie (cfr. M. Cuénin, Le duei, cit., pp. 52 e 195). L’etica dell’eroismo è stata soprattutto studiata nell’ambito letterario. A parte il classico P. Benichou, Morales du Grand Siede, Paris, Gallimard, 1948, cfr. J.F. Maillard, Essai sur resprit du héros baroque (1580'1640). Le ménte et tautre, Paris, Nizet, 1973.



96 Diego Verrino
ragioni, a parte la clandestinità imposta dal potere?
F. Billacois fornisce un’analisi assai raffinata del problema posto. Egli conferma la rarità delle elaborazioni ideologiche di parte nobiliare, ed esamina quella cinquecentesca di Brantóme. La modalità della giustificazione della liceità del duello è in quest’autore Xexemplum^ la rassegna anedottica di duelli celebri che doveva spingere all’ammirazione e alla mimesi. Il procedimento retorico è quello medievale che sarà ancora in parte proprio a Montaigne. Il duello non sarà giustificato altrimenti neanche in seguito: non si daranno ragioni, prove, insieme di idee, come faranno gli avversari del duello, ma esempi115. L’indicazione è importante: ribadisce la reticenza nobiliare a utilizzare gli strumenti propri della ragione moderna. «Vi sono per il duello delle ragioni che il ragionamento non può capire» - scrive Billacois116. L’assenza della ragione discorsiva a proposito del duello è un ulteriore aspetto d’una ideologia che aveva accettato la formula del «je ne sais quoi».
Billacois non nota che il Cid cornelliano è un altro di quegli exe^p/a attraverso cui ha preso forma l’appello della nobiltà duellante a criteri di giudizio morali extra razionali, anche se non irrazionali. Egli insiste invece su un altro modello nobiliare che mostra come il duello fosse ritenuto compatibile con la fedeltà al sovrano e a Dio: si tratta del biblico scontro fra Davide e Golia, voluto e arbitrato da Dio e combattuto in nome del re Saul. Nella pratica del duello non vi era dunque alcuna intenzione di illegalità rispetto alle prerogative del re, bensì di extralegalità. Esso era il segno dell’irriducibilità della libertà personale del nobile fondata sulla legge non scritta dell’onore, e il cui esito era legato al versamento del sangue117, con la libertà collettiva garantita dalla legge scritta dello Stato. E al fondo più ancestrale di quest’altra giustizia c’era l’idea del «giudizio di Dio», che si manifestava attraverso l’uso delle armi, privilegio della nobiltà. Quest’ulteriore esempio di resistenza nobiliare al nascente ordine nuovo dello Stato moderno non va considerato come reazionario e volto verso il passato. Al contrario essa prese la forma di una «nuova strategia simbolica (il duello del punto d’onore) per affermare un contro-potere autonomo nel seno stesso del sistema politico attuale»118. Un contro-potere mai veramente eversivo: non polo di opposizione, ma contro-corrente potenziale che non prendeva forma se non nell’attimo clandestino del duello.
L’ideologia dcìVexemp/u^ ci dice anche altro sulle ragioni sociali del duello. Ritorniamo qui all’etica dell’apparenza. Non esiste infatti Vhonneur^
115 «En cette seconde moitié du XVI siede l’exemplum est la pièce maitresse d’une pensée aristocratique» (F. Billacois, Le due/, cit., p. 202).
116 Ivi, p. 115.
117 Sugli elementi simbolici connessi al duello (la spada, il sangue, le crociate, l’eremitismo, ecc.) cfr. le pagine stimolanti di F. Billacois, ivi, IV parte, Essai de définition thèmatique.
118 Ivi, p. 391.



97 Uideologia nobiliare nella Francia di antico regime
comunque lo si voglia definire, dal punto di vista del foro interiore: l’onore è soprattutto riconoscimento sociale del proprio status. Il nobile di razza è tale soltanto se è riconosciuto socialmente: l’ossessione del punto d’onore è proprio a chi non ha altra identità che quel riconoscimento119. E sappiamo quanto esso fosse fragile nella società tardo cinquecentesca e secentesca, non casualmente periodo d’oro del «point d’honneur». Paradossalmente solo il vinto d’un duello conserva nella morte il suo onore intatto e non più in pericolo; il vincitore, che ha conquistato a caro prezzo quell’onore, lo può perdere di nuovo alla prima smentita. Come acutamente notava Montesquieu un nobile di razza che subisce un attacco al suo onore non ha scelta: o la viltà e la perdita d’identità sociale, o il boia120.
Perdere l’onore significava dunque la morte sociale: per questo le scuse non ripristinavano la situazione precedente. Messo in discussione l’onore ogni dialogo possibile si interrompe e la parola, appunto, cede il posto alle armi. La reintegrazione sociale passa paradossalmente attraverso un ritorno allo stato di natura in cui due individui sovrani risolvono con la forza una querelle nata in ambito sociale. Il duellante «joue» con la sua vita nel duplice senso del termine francese: la recita nel teatro dell’onore e nello stesso tempo la rischia.
Durante il regno di Luigi XIV, il passaggio dal punto d’onore alla civilite' come criterio di identità e di distinzione sociale delle e'iites, nobiliari e non, sarà l’inizio della fine per la tradizionale forma del duello del punto d’onore. L’indulgenza di Rousseau121 o le pratiche ottocentesche appartengono a un’altra dimensione ideale non più connessa all’antica nobiltà di spada.
Se la passione del duello rappresentò lo spregio della vita biologica come pegno paradossale d’una vita sociale onorevole, il rifiuto del lavoro «meccanico» cioè vile, e del commercio, va visto come lo sforzo d’opporsi a una logica del comportamento economico che cancellava le vecchie distinzioni (razza coraggio onore) e le sostituiva con quelle del denaro. L’etica economica nobiliare è stata l’oggetto di due comunicazioni al Congrès International des lumières tenutosi a Bruxelles nel 1983122. Nella prima, P. Jansenn ha ricostruito per l’ennesima volta la polemica scoppiata nel
119 La strategia dei trattati sfavorevoli al duello fu quella d’opporre al falso onore ottenuto nel duello quello vero riconociuto dal sovrano. Nel 1647 il gesuita Fortin de la Hoguette propone che il duello resti illegale, ma che venga tollerato: non si giustifica più la legalità del duello giudiziario, ma la clandestinità del duello illegale (cfr. M. Cuénin, Le duel, cit., p. 140-141).
120 Montesquieu, Lettres Persanes, cit., lettre XC.
121 Cfr. cosa scrive M. Cuénin a proposito d’una lettera sul duello scritta da Rousseau nel 1770 (Le duel, cit., pp. 279 sgg.).
122 P. Jansenn, L'influence sur le continent du modèle aristocratique britannique au XVIII siècle, e R. Galliani, L’idéologie de la noblesse dans le débat sur le luxe (1699-1756), in R. Mortier-H. Hasquin, Etudes sur le XVIII siede, XI, Idéologies de la noblesse, cit., pp. 29-38 e 53-64.



98 Diego Verrino
1756 in seguito alla pubblicazione del saggio dell’abate Coyer La noblesse commerfanteX2\ Egli non aggiunge però quasi nulla a quanto una fiorente letteratura era venuta elaborando sull’argomento dall’inizio del secolo124. La polemica si svolse attorno a una proposta di Coyer: che i nobili commercino senza rischiare la dérogeance. La perdita dello status nobiliare, seguito dall’obbligo del pagamento della taille, era infatti tradizionalmente il risultato d’una pratica economica contraria all’ideale militare e rurale della nobiltà.
Il problema era annoso. A partire da Luigi XI la monarchia aveva tentato di spingere la nobiltà verso il commercio. Ricostruendo la storia di questi sforzi, Bitton si ferma particolarmente sullo scacco significativo subito da Richelieu nel 1629 e sulla sorda resistenza dei nobili125. Lungo tutto l’antico regime, essi rifiutarono ostinatamente di darsi a pratiche economiche estranee a quelle della mera esazione della rendita fondiaria o di attività comunque concernenti l’agricoltura (e l’artigianato di materiali nobili come il vetro). Un’ostinazione di cui si fece eco l’intera trattatistica nobiliare dell’epoca, appoggiandosi a un certo punto anche sull’autorità di Montesquieu e di cui la polemica intorno alla provocazione di Coyer fu l’episodio culminante e finale. Cosi come per il duello, le origini del rifiuto di integrazione nelle tendenze economiche emergenti ha origine in credenze ancestrali126. L’immagine puramente ideologica che la nobiltà aveva di sé come della classe dei bellatores era un ulteriore criterio insopprimibile d’identità sociale. Ancora, l’etica nobiliare della magnanimità e dell’onore poco si prestava ad essere conciliata con quella mercantile dell’interesse. Ma il rifiuto del commercio era anche il frutto d’una difesa lucida e a oltranza del sistema dei privilegi.
Ciò è evidente riprendendo in mano le pagine di Jansenn. La nobiltà
23 Per una messa a fuoco della figura di Coyer cfr. L. Adams, Coyer and thè Enlightenment, in Studies on Voltaire and thè Eighteenth Century France, cit., n. 123, 1974. Coyer fu tradotto in tedesco nel 1756, in italiano nel 1773 e in spagnolo nel 1781.
24 E. Depitre, Le systhème et la querelle de la «noblesse commendante» (1756-1759), in «Revue d’Histoire économique et sociale», VI, 1913, pp. 137-176; H. Levy-Bruhl, La noblesse de France et le commerce à la fin de tancien regime, in «Revue d’histoire moderne», Vili, 1933, pp. 209-235; G. Zeller, Louis XI, la noblesse et la marchandise, in «Annales ESC», II, 1946, pp. 333-346; G. Richard, Les corporation et la noblesse commendante en France au XVIII siècie, in «Information historique», XX, 1958, pp. 185-188; R.B. Grasby, Social Status and Commercial Enterprise under Louis XIV, in «The Economie History Review», XII, 1960, pp. 19-38; G. Richard, Un aspectparticulier de lapolitique tconomique et sociale de la monarchie au XVIII siècie: Richelieu, Colbert, la noblesse et le commerce, in «XVIII Siècie», XLIX, 1960, pp.2-41; J. Hecht, Unproblème depopulation active au XVIIIsiècie en France: la querelle de la noblesse commer^ante, in «Population», XIX, 1964, pp. 267-289. A ciò si allungano gli ottimi capitoli dedicati al problema in D. Bitton, The French, cit., cap. 4, e R. Moro, Il tempo dei signori, cit., cap. 10. Nostalgico d’una nobiltà che rifiutava il commercio J.P. Brancourt, De la noblesse à l’élite, in «Vue de haut. Institut universitaire Saint Pie X», I, 1981, pp. 23-32.
125 D. Bitton, The French, cit., pp. 64-76.
126 Sui costumi dei germani Tacito scrive: «pigrum quin immo et iners videtur sudore adquirere quod possis sanguine parare» (La Germania, a cura di Scevola-Mariotti, Torino, Loescher, 1982, cap. XIV, p. 23).



99 L’ideologia nobiliare nella Francia di antico regime
commerciante immaginata da Coyer infatti conservava i privilegi fiscali creando una situazione di concorrenza imperfetta rispetto ai bourgeois commercianti, a differenza della gentry inglese che poteva darsi agli affari senza derogare proprio perché non godeva di privilegi fiscali. Perciò la proposta di commerciare senza derogare fu combattuta dagli stessi bourgeois che temevano l’entrata nel mercato di privilegiati fiscali. Con il che l’autore riprende le acute osservazioni di La Bignè sulla dérogeance intesa come strumento fondamentale di regolazione del sistema, in quanto essa faceva si che ogni suddito non potesse godere allo stesso tempo dei privilegi appartenenti a due status differenti127. Le gerarchie sociali erano cosi fondate su base funzionale. L’abolizione della de'rogeance avrebbe inevitabilmente significato quella dei privilegi fiscali e un’uguaglianza giuridica che era lungi dall’essere nelle intenzioni della nobiltà.
Sugli sviluppi della querelle R. Moro fornisce un utile quadro d’insieme128. Alla tesi di Coyer fecero seguito varie risposte; la più importante, quella antitetica, fu opera del cavaliere D’Arcq129. Questi si espresse in favore d’una nobiltà esclusivamente militare, fondamento d’una monarchia conquistatrice come quella francese. L’interesse del testo sta nel modello di nobiltà che D’Arcq presenta: una classe di servizio, completamente incorporatata negli apparati dello Stato e che fa pensare al modello prussiano. La polemica si spegnerà nel 1759 dopo una sterile radicalizza-zione delle posizioni.
Ampiamente trattata, la polemica sulla nobiltà commerciante sembra per il momento un soggetto esangue; ancora solo abbozzata è invece la posizione nobiliare verso il lusso.
Per Galliani la polemica contro il lusso fu uno dei tratti costituenti dell’ideologia nobiliare settecentesca. Assemblando citazioni di diversi autori, da Fenelon a Mirabeau passando per Boulainvilliers e Saint-Simon, egli ritiene di poter raccogliere in una formula l’ordine dei loro procedimenti argomentativi oltre che il loro contenuto. La formula è: «Vanite + émulation + usurpation de l’habit noble= luxe; Luxe + confusion des rangs= perte de l’Etat»130. Sforzo sintetico sorprendente e
127 M. La Bignè de la Villeneuve, Essai sur la théorie de la dérogeance de la noblesse considérée dans ses rapports avec la constitution sociale de Pandemie France, Rennes, H.Riou-Reuze, 1918 (rist. an., Paris, 1977). Sugli stessi problemi cfr. anche i più recenti G. Zeller, Une notion de caractère historico-social: la dérogeance, in «Cahiers internationaux de Sociologie», XI, 1957, pp. 40; E. Dravas, Vivre noblement. Recherche sur la dérogeance de noblesse du XIV au XVI siede, Bordeaux, 1965; O. Lemaire, L'imprescriptibilité de Pandemie noblesse et la dérogeance d’après la jurisprudence ancienne, Bruxelles, Pircoo, 19692.
128 R. Moro, Il tempo dei signori, cit.
129 P.A. de Sainte-Foix (Chevalier D’Arcq), La noblesse militaire, s.P., 1756. Su nobiltà ed esercito cfr. D. Bien, Tbe Army and thè French Enlightment, in «Past and Present», LXXXV, 1979, pp. 68-98.
R. Galliani, L’idéologie de la noblesse, cit., p. 54. Cfr. anche Id., Le débat en France sur le luxe: Voltaire et Rousseau, in Studies on Voltaire and thè Eighteenth Century France, cit., n. 161, 1976. In una lettera personale il prof. Galliani preannuncia per la fine del 1988 la pubblicazione d’un libro



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che lascia perplessi. Esso conferma tuttavia la dimensione phìlosophìque, cioè morale e politica, della polemica sul lusso, e quindi la sua importanza ideologica131. Per entrare nel merito della questione, se si riprende, intendendola come ipotesi di lavoro, la definizione di Weber secondo la quale il lusso è un orientamento non utilitario del consumo132, la polemica nobiliare contro il lusso potrà sorprendere ed essere interpretata - come fa Galliani - come la reazione stizzita del nobile impoverito che pesca argomenti nella tradizione moralistica e religiosa contraria al denaro e alle vanità connesse. In realtà la polemica settecentesca affondava le radici in un secolare atteggiamento sfavorevole, cominciato con gli attacchi cinquecenteschi contro gli italiani corruttori, in quanto adepti del lusso e proseguito con la difesa ossessiva del sangue e della virtù contro il denaro come criteri di distinzione. Per trovare gli apologeti del lusso bisogna rivolgersi alle nuove élìtes borghesi, dalla concezione del mondo materialistica e immanentistica, in quanto il consumo vistoso è l’unico segno distintivo di chi non possiede che la ricchezza133. Ma è ben vero che a differenza del duello e della dérogeance la nobiltà non oppose nella pratica alcuna resistenza contro il lusso, svuotando di valore il rifiuto ideologico. D’altra parte, l’emergenza d’una nobiltà commerciante e d’affari ricca e intraprendente nel cuore del secolo dei Lumi134, pone il problema del suo atteggiameiito verso il lavoro su cui sappiamo ben poco135. La contrapposizione fra lusso e frugalità ad esempio corrispondeva a quella tra ozio e lavoro?
Ciò potrebbe rappresentare un indice per misurare la consistenza delle tesi di Chaussinand-Nogaret sul «tradimento della nobiltà», cioè sulla trasformazione in senso nettamente liberale dei suoi strati superiori destinati, con analoghi gruppi «borghesi», a formare le élìtes d’antico regime, élìtes della ricchezza e del merito136. Lo stesso può dirsi per le reazioni nobiliari agli
su Rousseau, le luxe et ^ideologie nobìliaìre. Sulla concezione del lusso in Fénelon cfr. il recente P. Bonolas, Fénelon et le luxe dans le Télémaque, in Studies on Voltaire and Tbe Eighteenth Century France, cit., n. 249, 1987.
131 Per il valore philosophique del dibattito settecentesco sul lusso cfr. C. Borghero, La polemica sul lusso nel Settecento francese, Torino, Einaudi, 1974. Cfr. pure P. Retat, De Mandeville a Montesquieu: honneur, luxe et dépense noble dans tEsprit des lois, in «Studi francesi», XVII, 1973, pp. 238-249.
132 M. Weber, Wirtschafr und Gesellschafr, Tubingen, Mohr, 1922 (trad. it. a cura di P. Rossi, Economia e Società, Milano, Comunità, 19682: per Weber il lusso è «un rifiuto dell’orientamento del consumo razionale rispetto allo scopo», t. II, p. 415).
133 Su questi temi di derivazione sombartiana cfr. C. Borghero, La polemica sul lusso, cit., p. XXXII.
134 G. Richard, Noblesse d’affaire au XVIII siede, Paris, Colin, 1974.
135 Cfr. il breve articolo di De Valous, La noblesse et le travail au XVIII siede, in «Bulletin de l’Association de la noblesse fran^aise», XVI, 1948, pp. 3-13. In generale cfr. L. Febvre, Travati: évolution d’un mot et d’une idée, in «Journal de Psychologie», LXI, 1948, pp. 19-28.
136 G. Chaussinand-Nogaret, La noblesse au XVIII siede: de la féodalité au lumières, Paris, Hachette, 1976. Tale ispirazione informa anche i tentativi fatti per esibire i documenti ideologici del tradimento suddetto: cfr. Id., Un ajpect de la pensée nobiliare au XVIII siede: Fantinobilisme, in «Revue



101 L’ideologìa nobiliare nella Francia di antico regime avvenimenti rivoluzionari su cui si è appena cominciato a indagare137.
I lavori di scavo dell’ideologia nobiliare negli ultimi due decenni hanno fatto risalire alla superficie pagine dimenticate stimolando nuovi problemi e riproponendo interrogativi e dubbi. A cominciare da quello radicale di Tocqueville: esiste un’ideologia nobiliare? Un dubbio formulato a proposito del tardo Settecento, ma la cui ombra si allunga su tutto l’antico regime. Commentando l’inanità della risposta dei nobili all’attacco dei rivoluzionari, scrive: «Nessuno di loro aveva mai ricercato in che modo poter giustificare i propri privilegi agli occhi del popolo»138. Tocqueville ha ancora bisogno di molte e articolate smentite.
d’histoire moderne et contemporaine», XXIX, 1982, pp. 442-452. I protagonisti della dimostrazione sono il conte D’antraigues e René Louis D’Argenson. Non vi sono dubbi sull’atteggiamento antinobiliare del primo: le assonanze ^con Sieyés sono indiscutibili. Tuttavia proprio per il carattere radicale della sua critica, D’Antraigues può essere considerato a tutti gli effetti un transfuga: in quanto tale non rappresenta la nobiltà più di quanto Filippo Egalité potrà a suo tempo rappresentare la monarchia. Per quanto riguarda D’Argenson egli va considerato meno moderno e meno liberale di quanto Chaussinand-Nogaret voglia far credere. L’intervento di N. Johnson al citato congresso di Bruxelles nel fornire preziose indicazioni bibliografiche su un fondo di inediti conservato a Poitiers (N. Johnson, L’idéologie politique du marquis D’Argenson, d’après ses oeuvres inédites, in R. Mortier-H. Hasquin, Etudes sur le XVIII siede, cit., pp. 21-28), abbozza nello stesso tempo un’analisi di alcuni di essi, cronologicamente successivi alle opere più note del marchese. Ne emergono forti dubbi sul liberalismo economico di D’Argenson, sulle sue vene socialistiche cosi come sul suo antinobilismo. Un altro aristocratico è considerato da J. Garagnon il rappresentante di un recupero settecentesco di elementi culturali tradizionalmente antinobiliari: nelV Aline et Valcour Sade si riapproprierebbe della sensibilità rousseauviana per volgerla in favore del discorso ideologico nobiliare (J. Garagnon, La sensibilité contine ideologie de substitution de la noblesse dans «Aline et Valcour», ivi, pp.65-74).
137 Cfr. oltre al vecchio F. Baldensperger, Le mouvement des ide'es dans témigration fra^aise, Paris, Plon, 1924, R. Barny, Remarques sur la pensée aristocratique à Cepoque de la Revolution bourgeoise, in «Cahiers d’histoire de ITnstitut Maurice Thorez», XI, 1977, 23-45; M. Flandrin, La noblesse parisienne face à la convocation des Etats Généraux en 1789, in «Acta Poloni® Historica», XXXVI, 1977, pp.95-100; R. Barny, Les Aristocrates et Jean-Jacques Rousseau dans la Revolution, in «Annales historiques de la Revolution fran^aise», L, 1978, pp.534-568; N. Hampson, Tbe Enlightenment and thè Language of thè French Nobilita in 1789: thè Case of Arras, in D-J.Mossop - G.E.Rodmell-D.B.Wilson, eds., Studies in thè French Eighteenth Centuiy. Presented to John Lough, Durnham, 1978, pp.81-89.
*38 A. De Tocqueville, Anden Régime et la Revolution. Fragments et notes inédites sur la Révolution, in Oeuvres complétes, ed. J.P. Mayer, Paris, Gallimard, 1981, t.II, p.109. La nobiltà non sapeva «ce qu’il fallait dire pour montrer comment seule elle peut préserver le peuple de l’oppression du pouvoir royal et de la misère des révolutions, de telle sorte que les priviléges, établis en apparence dans l’intérèt seul de celui qui les possède, forment la meilleure garantie qui se puisse recontrer de la tranquillité et du bien-ètre de ceux-mèmes qui n’en jouissent pas: ils l’ignoraient. Tous ces arguments [...] leur étaient nouveaux et inconnus». «Au lieu de cela -prosegue la requisitoria di Tocqueville - ils parlent des Services qu’ont rendus leurs pères il y a six cent ans, du respect superstitieux qui est dù à un passe qu’on abhorre, de la necessitò d’une noblesse pour tenir les armes en honneur et maintenir la tradition du courage militaire» (ibidem).