Processi di comunicazione e forme di controllo sociale nell'età del diritto comune

Item

Title
Processi di comunicazione e forme di controllo sociale nell'età del diritto comune
Creator
Francesco Migliorino
Date Issued
1996-04-01
Is Part Of
Studi Storici
volume
37
issue
2
page start
445
page end
464
Publisher
Fondazione Istituto Gramsci
Language
ita
Format
pdf
Rights
Studi Storici © 1996 Fondazione Istituto Gramsci
Source
https://web.archive.org/web/20230921172629/https://www.jstor.org/stable/20566769?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxNiwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjM3NX19&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A8891a5c68f4f6c19db8c24e1454420ac
Subject
structuralism
extracted text
PROCESSI DI COMUNICAZIONE E FORME DI CONTROLLO SOCIALE NELL’ETÀ DEL DIRITTO COMUNE*
Francesco Migliorino
In un saggio apparso qualche anno fa col titolo Homo Hypotheticus Giorgio Prodi ha individuato i due cardini della specificità della struttura umana nella forma progettuale della conoscenza e nell’elaborazione di linguaggi1. Con la provocazione antiaccademica che è insita in ogni vagabondaggio interdisciplinare l’eminente biologo ha voluto cosi riproporre un’ipotesi di ricerca cara ai linguisti, agli antropologi e ai teorici della comunicazione sociale: i linguaggi, in senso lato, sono strumenti interpretativi di tipo sistematico e culturale che rendono possibile la conoscenza che l’uomo ha della realtà2. La vita dell’uomo, anzi, è propriamente
* Il presente saggio, dedicato alla memoria di Rosario Vittorio Castaidi, apparirà in traduzione tedesca nel volume Soziale Kommunikation im Spannungsfeld von Recht und Ri-tual, a cura di H. Duchhardt e G. Melville (Norm und Struktur. Studien zum sozialen Wandel in Mittelalter und Frùher Neuzeit, 6, Kòln-Wien, Bòhlau Verlag).
1 G. Prodi, Homo Hypotheticus, in «MicroMega», 1989, 2, pp. 97-122, che limita comunque il discorso ai quadri interpretativi «coscienti». Dell’eminente oncologo e biologo italiano va citato soprattutto il fondamentale Le basi materiali della significazione, Milano, 1977.
2 La letteratura in materia è tanto ampia da scoraggiare, in questa sede, anche un rapido sguardo d’insieme. Al più, mi pare utile ricordare la ricca e composita tradizione filosofica che ha saputo mettere in rilievo il ruolo della lingua nella specificazione dell’umano. Penso a Johann Georg Hamann, Johann Gotfried Herder, Wilhelm von Humboldt, Ernst Cassirer e, soprattutto, Martin Heidegger. Per quest’ultimo la sfera entro la quale le cose vengono ad esistenza è il linguaggio, che precede e condiziona ogni possibile senso della cosa stessa. Da tali premesse il grande filosofo tedesco poteva ben affermare, nel 1957, che «è il linguaggio che parla, non l’uomo» (Il principio di ragione, trad. it. Milano, 1991, p. 164). In ambito linguistico-antropologico si pongono, invece, le ricerche di Edward Sapir e di Benjiamin Lee Whorf circa la funzione attiva del linguaggio nel modellare l’immagine che l’uomo ha del mondo. In particolare, le indagini di Whorf sulla popolazione Hopi evidenziano il relativismo di un approccio che vede il sistema linguistico influenzare il modo in cui noi percepiamo, sperimentiamo e ci comportiamo. In tale prospettiva, lo studio del linguaggio è una sorta di guida alla realtà sociale e finisce quindi per essere assunto come «ricerca del significato»; E. Sapir, Cultu-



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«lettura e interpretazione del reale, individuazione selettiva e mirata di cose compatibili»3.
Si tratta di una suggestione intellettuale che merita qui di essere raccolta e approfondita. Anche il diritto, infatti, è un linguaggio: più precisamente, è un linguaggio speciale4 che da sempre celebra i suoi riti, custodito e difeso dalla sapienza dei suoi interpreti.
Lungo Titinerario che ci avviamo a percorrere, il ius commune, studiato da noi in quanto «discorso», farà valere con la sua mirabile architettura la dimensione più propria degli strati profondi della storia umana: la lunga durata. In tale linea di ricerca, la nostra indagine si indirizzerà a decifrare, sub
ra, linguaggio e personalità. Linguistica e antropologia, trad. it. Torino, 1972, pp. 55 sgg.; B.L. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà. Raccolta di scritti a cura di John B. Carrol, trad. it. Torino, 1970. Nella linguistica moderna l’impresa più ardua resta quella di situare il linguaggio senza dissolverlo o reificarlo. Gli esiti più radicali dello strutturalismo (Lacan, Althusser, Foucault, Lévi-Strauss) fanno coincidere il linguaggio con la realtà umana fondamentale, mentre gli opposti orientamenti della linguistica generativa (Chomsky) tendono ad ancorarlo ai processi mentali dell’organismo che l’ha inventato. Si rende perciò necessario ripensare in un quadro unitario i rapporti tra linguaggio, apparato neuro-cerebrale, psiche, cultura e società. In tale direzione si muove la suggestiva ricerca di Edgar Morin che riprende e sviluppa le intuizioni di Ferdinand de Saussure e di Roman Jakobson: per il filosofo francese, la lingua è una grande poli-macchina, la cui vita si dispiega liberamente e intensamente, ispirata da due principi indissolubili, quello generativo e quello fenomenico. Per questa via si salda la cerniera fra anelli concentrici (antropologia, biologia, cultura, neologia), sicché «tutto viene contenuto nel linguaggio, ma il linguaggio stesso è una parte contenuta nel tutto che esso contiene». Si ripropone cosi il paradosso cognitivo fondamentale (siamo chiusi da ciò che ci apre e aperti da ciò che ci chiude) (E. Morin, Le idee: habitat, vita, organizzazione, usi e costumi, trad. it. Milano, 1993, pp. 169-181).
3 Prodi, Homo Hypotheticus, cit., p. 101, che aggiunge: «Anche la conoscenza umana, estremamente più complessa e basata su tecniche linguistiche non distruttive segue questa fondamentale caratteristica. L’uomo può interpretare quella realtà per cui ha categorie adatte: anche se sua caratteristica è di produrre continuamente categorie interpretative (di inventarsele quando esse siano necessarie: tale è la competenza del linguaggio) la sua situazione rimane, anche per questo verso, di “internità”».
4 P. Costa, lurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (11001433), Milano, 1969, propone un avvincente itinerario di ricerca che si avvale del medium linguistico e delle sue leggi per la comprensione del pensiero giuridico medievale. Sul punto l’autore fa giustamente rilevare che «il tessuto linguistico di una società, in un tempo e in un luogo dati, non è uniforme. Ad una lingua comune, nelle sue varie caratterizzazioni, usata per una comunicazione, diciamo “a largo raggio”, fra i membri di quella società data, corrispondono lingue speciali a seconda delle necessità di comunicazione interne a raggruppamenti minori, più o meno chiusi all’esterno, o comunque animati da bisogni comunicativi loro peculiari» (p. 16). Più di recente, Pietro Costa è tornato su Semantica e storia del pensiero giuridico con un saggio pubblicato nei «Quaderni fiorentini», 1972, 1, pp. 45-87.



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specie communicationis5, le forme di controllo sociale nell’età del diritto comune. Sarà possibile apprezzare la lunga storia di fama e infamia nella dialettica tra i valori e i tabù che la società costruisce, modifica, abbatte per crearne di nuovi, ed il diritto con il suo formalismo neutrale e le sue teorizzazioni certe e rassicuranti.
Intanto fermiamoci a delineare i quadri di riferimento concettuale entro cui si colloca un approccio strutturale e semiotico. Con una avvertenza: il punto di osservazione prescelto non ha la pretesa di spiegare un fenomeno che, nella sua globalità, non è solo comunicazione e significazione.
Il diritto è per sua natura pervasivo, invade ogni sfera del sociale, ha un tipico potere di rispecchiamento di fenomeni altrimenti asintomatici6. Allo stesso modo della mentalità, il diritto è una struttura «che il tempo stenta a logorare e che porta con sé molto a lungo»7, ben oltre l’esaurirsi di una esperienza giuridica storicamente determinata. La nozione di struttura domina i problemi della lunga durata8.
Ordinare e strutturare è connaturato con il fenomeno giuridico, costituisce, anzi, il fondamento stesso della prassi umana, serve oggi allo scienziato sociale per definire «il modo umano di essere-al-mondo»9. Si può ben capire allora come il linguaggio sia il principale degli strumenti di cui si serve la cultura per conferire ordine e significato all’attività dell’uomo10.
I giuristi del diritto comune furono in ciò maestri impareggiabili. D’altronde, nell’età medievale la cultura filosofica aveva pienamente acquisito l’idea, oggi attualissima, che l’uomo si serve di due strumenti {manus et lin-
5 «Tutto ciò che accade può essere visto sub specie communicationis, può considerarsi rappresentato da un universo simbolico e divenire così il referente di un processo se-miologico totale» (Costa, lurisdictio, cit., p. 3).
6 M. Sbriccoli, Storta del diritto e storia della società. Questioni di metodo e problemi di ricerca, in Storia sociale e dimensione giuridica. Strumenti d'indagine e ipotesi di lavoro, Atti dell’incontro di studio, Firenze 26-27 aprile 1985, Milano, 1986, pp. 127-148, in particolare pp. 141 sgg.
7 F. Braudel, Storia e scienze sociali. La «lunga durata», in La storia e le altre scienze sociali, Roma-Bari, 1974, pp. 153-193, p. 162 per il passo citato.
8 Cfr. P. Grossi, Storia sociale e dimensione giuridica, in Storia sociale, cit., pp. 5-19.
9 Z. Bauman, Cultura come prassi, trad. it. Bologna, 1976, p. 91.
10 Bauman, Cultura come prassi, cit., si avvale dei contributi più significativi della teoria dell’informazione e della semiologia per rappresentare la cultura come attività volta alla strutturazione del mondo umano. Per questa via la cultura come prassi, di ispirazione marxiana, si incontra con l’antropologia e la sociologia, in particolare con la corrente ermeneutica inaugurata da Clifford Geertz. Il risultato è significativo: «La cultura non è un insieme di particolarizzazioni della funzione comunicativa incorporata nel linguaggio, ma è invece il linguaggio che si trasforma in uno dei tanti strumenti dello sforzo generalizzato di ordinare portato avanti dalla cultura come un tutto» (p. 146).



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gua) per maneggiare, in forma strutturante, se stesso e il mondo in cui egli vive11.
La struttura, per definizione, è il contrario di una condizione di disordine, perché, diversamente da quest’ultima, non è dominata dalla casualità e tende, viceversa, alla previsione di stati futuri dello stesso campo12. E quanto avviene nell’esperienza giuridica tutte le volte che si persegue una predizione possibile attraverso il controllo delle aspettative. Nei sistemi strutturati, infatti, i singoli eventi non sono ugualmente possibili né hanno mai la stessa probabilità di prodursi.
Ma v’è di più. Imporre dei limiti a quanto è possibile, oppure su quanto può accadere e sulla probabilità del suo verificarsi è la funzione precipua della comunicazione13.
Nella nostra prospettiva di ricerca la comunicazione non è un processo limitato allo scambio di messaggi, né può esser confusa con la mera «comprensione» o essere ristretta alla comunicazione verbale o scritta14. L’uomo medievale utilizzava allo stesso tempo vari canali informativi: la parola, il corpo, le azioni, il rituale, la festa, il gioco, il diritto. In questo senso, non solo il linguaggio verbale ma la cultura tutta si sostanziava in forme simboliche di cui si serviva l’individuo per racchiudere la sua esperienza e renderla interscambiabile15.
Siamo in un’età in cui prevaleva una sorta di cosmologia comunicazionista «che si esprimeva variamente nella teologia, nell’alchimia, nell’astrologia e nella “magia naturale”»16. Il simbolismo medievale, intriso di idee neoplatoniche, faceva dell’universo una mirabile Teofania e contribuiva a rappresentare le cose del Creato come un fedele signaculum di un Dio comunicativo che era insieme principio regolatore e cibernetico17. Per Filippo di Harvengt (m. 1183)18 i segni erano una forma di linguaggio e potevano es-
11 Per Bauman, Cultura come prassi, cit., pp. 91 sg., «questo “maneggiare” consiste da sempre nell’attingere energia e nel produrre informazione». In ciò sta appunto da sempre l’agonia della cultura, nella sua tensione volta a superare, senza risolverla, l’antinomia di spirito e materia, di coscienza e corpo, di creatività e dipendenza.
12 Cfr. Bauman, Cultura come prassi, cit., pp. 95 sgg.
13 Cfr. Bauman, Cultura come prassi, cit., pp. 146 sg.
14 Per un efficace quadro d’insieme cfr. A. Wilden, Comunicazione, in Enciclopedia Einaudi, voi. Ili, Torino, 1978, pp. 601-695, specialmente pp. 613 sgg.
15 Cfr. U. Eco, Il segno, Milano, 1973, p. 92: «[...] si instaura umanità quando si instaura società, ma si instaura società quando vi è commercio di segni. Con il segno l’uomo si distacca dalla percezione bruta, dall’esperienza dell’hic et nunc, e astrae. Senza astrazione non vi è concetto, ma senza astrazione non vi è neppure segno».
16 Wilden, Comunicazione, cit., p. 621.
17 Cfr. Eco, Il segno, cit., pp. 94 sgg.
18 Cfr. A. Erens, Philippe de Harvengt, in Dictionnaire de Théologie catholique, voi. XII, Paris, 1933, coll. 1407-141E



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sere usati, come le parole, per mostrare il segreto della volontà divina19. Nell’autunno del Medioevo - descritto magistralmente da Johan Huizinga - «nasce cosi quella grandiosa e nobile raffigurazione del mondo come di un grande sistema di simboli, una cattedrale d’idee, la più ricca espressione ritmica e polifonica di tutto il pensabile»20.
Un mondo di simboli che trovava la sua più coerente rappresentazione nell’iconografia. La pittura o scriptura ymaginaria, come la chiamava il decretista Uguccione21, era il libro degli illetterati, muoveva l’animo degli umili e faceva loro rivivere, «quasi ante oculos», le storie sacre22.
Quella società era un complesso sistema comunicativo che diffondeva e scambiava una pluralità di messaggi sia impliciti sia espliciti. Come avviene ancora oggi, il pensiero e i processi cognitivi avevano il loro fondamento e la loro ragion d’essere nella sfera sociale. In proposito, viene alla mente una bella immagine dell’antropoioga inglese Mary Douglas: «la reciproca colonizzazione delle nostre menti è il prezzo che paghiamo per pensare»23. I messaggi di cui si parla sono dei veri e propri indicatori semiotici. Ser-
19 «Sicut enim locutio que fit verbis [...] sic nimirum locutio que fit signis, invenitur in Scripturis aliquoties accusati, et in eisdem, nisi fallor, multoties commendati. Est ergo a signis quoque et silendum et non silendum [...] Sunt autem signa multa multeque di-versitatis, quibus utuntur homines ad ostendendum mutuo secretum voluntatis, inter que primum et precipuum locum verba videntur obtinere, et notitiam occultorum certius et manifestius exhibere. Verba enim signa sunt, et hi procul dubio qui loquuntur, significare Scripturarum testimoniis asseruntur, ut certum sit verba non nisi signa esse, quibus significamus ea que utcumque volumus nota esse» (Philippus de Harvengt, De institu-tione clericorum, VI, De silentio clericorum, 23, PL, CCIII, col. 982). Cfr. G. Constable, The ceremonies and symbolism of entering religious life and taking thè monastic habit, from thè fourth to thè twelfth century, in Segni e riti nella Chiesa altomedievale occidentale, Settimane del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 33, Spoleto, 1987, voi. II, pp. 771-834, p. 773 per la fonte citata.
20 J. Huizinga, Autunno del medioevo, trad. it. Firenze, 1991, p. 283.
21 Per gli essenziali riferimenti bibliografici su Uguccione e la sua Summa (ca. 1188) mi limito a segnalare: C. Leonardi, La vita e l'opera di Uguccione da Pisa decretista, in «Studia Gratiana», 4, 195 6-195 7, pp. 3 7-120; A. M. Stickler, Uguccio de Pise, in Dictionnai-re de droit canonique, voi. VII, Paris, 1965, coll. 1355-1362; R. Weigand, Huguccio, in Lexicon des Mittelalters, voi. V, Mùnchen-Zùrich, 1991, coll. 181 sg.; W. P. Mùller, Huguccio. The Life, works, and Thought of a twelfth-century Jurist, Washington, DC, 1994. 22 Huguccio, Summa Decreti (1188-90), de cons. D.3 c.27 (Admont, Stiftsbibliothek 7, fol. 447ra): «ipsa pictura vel ymago dicitur ymaginaria scriptura [...] ipsa pictura plus movet animum quam scriptura: per picturam enim res gesta quasi ante oculos ponitur unde animus movetur quasi videret rem presentem gerere ante oculos [...] set per scrip-turam res gesta quasi per auditum ad memoriam revocatur».
23 Cit. da P. P. Giglioli, Introduzione all’ed. di M. Douglas, Come pensano le istituzioni, Bologna, 1990, p. 11.



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vono propriamente per definire e distinguere le differenze24. Il termine «semiotica» era usato nella medicina greca e tardomedievale per indicare la pratica di decifrare i segni o i sintomi della malattia. La comunicazione è dunque parte della semiosi. La semiòtica, nella sua accezione moderna, è quella scienza, fondata nel corso di questo secolo, che ha ad oggetto «la vita dei segni nell’ambito della vita sociale»25.
Nella sua più elementare definizione segno è qualcosa che sta per qualcos'altro26. Va da sé che il segno, come elemento del processo di comunicazione, sia al contempo parte di un processo di significazione. La significazione, infatti, presuppone un codice comune che sia tale da rendere compatibile lo scambio di informazioni fra trasmettitore e ricettore del messaggio27.
La funzione segnica, però, non si limita alla sostituzione (aliquid stat prò aliquo}, né si ferma soltanto al contenuto del segno, ma ne allarga la comprensione attraverso l’interpretazione. La catena significante diventa dunque quell’operazione, teoricamente illimitata, che consente di decifrare l’informazione ricorrendo ad un segno diverso28. Il presupposto perché vi
24 Cfr. Costa, lurisdictio, cit., pp. 29 sgg.
25 F. de Saussure, Corso di linguistica generale, trad. it. Bari, 1967, p. 26. Il Cours de lin-guistique générale, raccolto e pubblicato da due allievi dopo la morte del solitario e severo maestro ginevrino, ha fortemente influenzato la cultura del nostro secolo, contribuendo a rinnovare le scienze umane e sociali: dall’antropologia alla sociologia, alla psicologia, alla fonologia, alla semantica. Come nel caso delle correnti strutturalistiche, i più disparati indirizzi di ricerca si sono avvantaggiati delle straordinarie intuizioni di Saussure. Pensiamo al brano in cui egli difende con vigore la necessità di un’autonoma scienza dei segni: «il problema linguistico è anzitutto semiologico e tutti i nostri successivi ragionamenti traggono il loro significato da questo fatto importante. Se si vuol capire la vera natura della lingua, bisogna afferrarla anzitutto in ciò che essa ha di comune con tutti gli altri sistemi del medesimo ordine [...] per questa via non soltanto si chiarirà il problema linguistico, ma noi pensiamo che considerando i riti, i costumi ecc. come segni, tali fatti appariranno in un’altra luce, e si sentirà allora il bisogno di raggrupparli nella semiologia e di spiegarli con le leggi di questa scienza» (p. 27).
26 Per Charles Sanders Peirce, padre del pragmatismo americano, «Un segno, o repre-sentamen, è qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità. Si rivolge a qualcuno, cioè crea nella mente di quella persona un segno equivalente, o forse un segno più sviluppato. Questo segno che esso crea lo chiamo interpretante del primo segno. Il segno sta per qualcosa: il suo oggetto. Sta per quell’oggetto non sotto tutti i rispetti, ma in riferimento a una sorta d’idea che io ho talvolta chiamato la base del representamen» (Peirce, Semiotica. I fondamenti della semiotica cognitiva, trad. it. Torino, 1980, p. 132).
27 Cfr. U. Eco, La struttura assente, Milano, 1968, pp. 15 sgg.
28 Peirce, Semiotica, cit., pp. 131-133. In disaccordo con Richard Rorty, Umberto Eco ha insistito di recente sulle differenze tra la semiosi illimitata di Peirce e varie forme di «deriva», in particolare quella celebrata dal decostruzionismo di Jacques Derrida (I limiti dell’interpretazione, Milano, 1990, pp. 329 sgg.).



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sia un’interazione sociale è che gli individui dispongano di significati comuni29.
Il risultato è notevole: per questa via l’attività primaria dell’uomo si sostanzia in una forma di ermeneutica. Secondo Clifford Geertz, l’individuo nelle sue azioni quotidiane si scopre «impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto»30. E un uomo interpretante che si serve di modelli culturali già confezionati (linguaggio, arte, mito, rituale, diritto) per dare ordine e significato al comportamento, all’esperienza, alla vita, al mondo31. Sono considerazioni che aprono nel nostro campo prospettive inedite di ricerca. Pensiamo ai prestiti reciproci tra il linguaggio comune, usato per una comunicazione ad ampio raggio, e il linguaggio giuridico32. Pensiamo, soprattutto, all’ermeneutica dei giuristi medievali, alla loro abilità nel costruire una ragnatela di simboli significanti a fondamento di un complesso sistema di controllo sociale33.
29 Per Mary Douglas, esponente di quello strutturalismo inglese che ha avuto il suo principale ispiratore in Evans Pritchard, diventa particolarmente importante decifrare i significati impliciti che sono scambiati nei rituali e nei comportamenti sociali. Anche negli aspetti apparentemente più insignificanti della vita quotidiana è possibile apprezzare lo sforzo degli uomini per dare un senso alla loro esistenza. Può ben capirsi allora il ruolo dei processi cognitivi nella formazione del legame sociale: Implicit meanings. Es-says in anthropology, London, 1975; In thè Active Voice, London, 1982. Cfr. anche Pu-rity and Danger. An analysis of concepts of pollution and taboo, London, 1966, in cui la Douglas assimila l’anomalo e il mostruoso alla categoria del sacro (Durkheim) e analizza, perciò, in una prospettiva unitaria e funzionale i riti relativi alla purezza e alla contaminazione, all’ordine e alla sporcizia.
30 C. Geertz, Interpretazione di culture, trad. it. Bologna, 1987, p. 4L
31 Cfr. Geertz, Interpretazione, cit., p. 89: «non diretto da modelli culturali - sistemi organizzati di simboli significanti - il comportamento dell’uomo sarebbe praticamente ingovernabile, un puro caos di azioni senza scopo e di emozioni in tumulto, la sua esperienza sarebbe praticamente informe. La cultura, la totalità accumulata di questi modelli, non è un ornamento dell’esistenza umana ma - base principale della sua specificità -una condizione essenziale per essa». Dall’avvincente ricerca di Nelson Goodman emerge una teoria generale dei sistemi simbolici su basi logiche che abbatte le classiche antitesi fra esperienza estetica ed esperienza scientifica, fra arte e intelletto, fra emotività e razionalità. Del grande filosofo di Harvard cfr. soprattutto Languages of Art. An approach to a theory of symbols, Indianapolis-New York, 1968; Ways of Worldmaking, Indianapo-lis-Cambridge, 1978.
32 Cfr. Costa, lurisdictio, cit., pp. 16 sg.
33 II termine di social control appare nella sociologia americana alla metà del secolo scorso per rappresentare i meccanismi di autoregolazione volti a perseguire uno stato di «armonia» in una società che si sentiva minacciata dalla grande ondata di immigrazione povera dall’Europa. In questo modo si tentava di perpetuare il conformismo sociale con forme diverse da quelle proprie del controllo coercitivo. Come vedremo più avanti, la dottrina giuridica medievale si è indirizzata proprio a realizzare una saldatura tra l’infa-



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L’oggetto del nostro studio non riguarda tanto il contenuto o la natura della comunicazione giuridica attraverso i segni, quanto il modo in cui l’informazione era definita, riconosciuta, orientata e utilizzata dagli interpreti del diritto comune. Alla fine sarà forse possibile disvelare, dietro l’ordito della tela, le regole del suo funzionamento.
La canonistica classica si mostra particolarmente sensibile alle materie dibattute nelle scuole di logica. Leggendo le fonti giuridiche medievali si resta ammirati dalla lucida coerenza di pensiero di quegli antichi maestri. Il segno è percepito come un’entità a due facce, esso si compone di un significante e di un significato, si costituisce anzi in totalità grazie al legame tra le sue due parti. Come per la linguistica moderna: da una parte l’immagine acustica, dall’altra il concetto34. Il significante serve cosi a rappresentare la parte fenomenica del segno e il significato la sua parte intelligibile.
Si tratta di un contributo teorico raffinato e acuto: lo ritroviamo in forma compiuta, sul finire del secolo XIII, nel Rosarium Decretorum di Guido da Baysio35. Il giurista commenta un canone del Concilio di Braga del 675, contenuto nel Decreto di Graziano, ove si prescrive ai sacerdoti di indossare la stola durante la celebrazione della messa. Per il nostro interprete, gli ornamenti sacerdotali «virtutes significant et bona opera [...] et ita poni-tur hic hoc significatum prò significante, sicut econverso ponitur significans prò significato»36. La natura oppositiva delle due componenti del segno si fa qui dialettica feconda di una simbologia liturgica e sacramentale.
Altrove, la citazione di Matteo 16.18 - Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam - coordinata con un controverso brano di Giovanni (1.42), dà ai canonisti l’occasione per un ampliamento semantico della coppia Petrus-Cepbas, destinata ad essere per lungo tempo il fondamento scritturistico di una teologia del primato papale37.
E sorprendente scoprire le somiglianze con la definizione di segno come entità a due facce (signifiant e signifié) data da Ferdinand de Saussure. Ma mia del sistema punitivo e l’ignominia che era insita in ogni condizione sociale di svantaggio.
34 Saussure, Corso, cit., p. 85, e con un’immagine di rara efficacia, p. 137: «La lingua è ancora paragonabile a un foglio di carta: il pensiero è il recto ed il suono è il verso-, non si può ritagliare il recto senza ritagliare nello stesso tempo il verso-, similmente nella lingua, non si potrebbe isolare né il suono dal pensiero né il pensiero dal suono; non vi si potrebbe giungere che per un’astrazione il cui risultato sarebbe fare della psicologia pura o della fonologia pura».
35 Per gli essenziali riferimenti biografici, cfr. F. Liotta, Baisio, Guido da, in Dizionario biografico degli italiani, voi. V, Roma, 1963, pp. 293-297.
36 Guido de Baysio, Rosarium decretorum (ca. 1300), D.23 c.9, Venetiis, 1577, fol. 30ra-b.
37 Cfr. B. Tierney, Foundations of thè Conciliar Theory. The contrihution of thè medieval canonists from Gratian to thè Great Schism, Cambridge, 1955, pp. 25-36; K. Pennington,



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non basta: quando il padre della linguistica strutturalista confrontava la lingua con la scrittura, i riti simbolici, le forme di cortesia e l’alfabeto dei sordomuti38, non poteva certo immaginare che sei secoli prima l’interpretazione di un linguaggio «altro» aveva avuto una sua rilevanza giuridica.
La questione dibattuta dai giuristi verteva sulla manifestazione della volontà dei sordomuti. Il problema si poneva in forme diverse fra i canonisti e i legisti. Nella materia degli impedimenti matrimoniali era intervenuto lo stesso Innocenzo III per affermare che, ai fini del consenso, «quod verbis non potest, signis valeat declarare», sicché chi era privato della parola o non riconosceva le domande del celebrante poteva comunque contrarre validamente il matrimonio39.
Assai più intricata, invece, si poneva agli interpreti l’ardua materia della certificazione di una volontà che non poteva ridursi ad un mero atto di assenso o di diniego. L’ipotesi è quella del notaio che è chiamato ad accogliere neW instrumentum l’accettazione di un lascito in favore di un erede sordomuto. Bartolo da Sassoferrato, nel suo commento AYlnforttatum, assegna ai soli consanguinei dell’erede il compito di prestare, ai fini degli effetti giuridici, una valida testimonianza. La soluzione è ragionevole e riguarda appunto l’ermeneutica dei segni. L’alfabeto dei sordomuti, infatti, non può essere letto dal notaio che non ne conosce il codice, ma da quei testimoni che «praesumuntur scire actus et consuetudines muti et ipsum intelligunt»40.
Lo stesso Bartolo dedica un trattato al tema degli stemmi e delle insegne41. Il problema riguarda, ancora, le forme della comunicazione sociale. L’opera, pubblicata dopo la morte del giurista, si attarda in una minuziosa descrizione di quei segni iconici che erano la forma figurata e simbolica di una società divisa in ceti. La cura con cui sono illustrati e disposti colori e animali è coerente con una cultura che costruiva, coi suoi riti, le sue feste e i suoi tornei, una metafora del potere e del suo funzionamento42.
Infatti, chi era stato cosi stolto da assumere arbitrariamente le insegne che erano proprie del titolare di una dignitas o di un officium si macchiava del
Pope and Bishops. The papal monarchy in thè twelfth and thirteenth centuries, Phila-delphia, 1984, pp. 45-58; F. Migliorino, In terris Ecclesiae. Frammenti di «ius proprium» nel «Liber Extra» di Gregorio IX, Roma, 1992, p. 41.
38 Cfr. Saussure, Corso, cit., p. 25.
39 III Comp. 4.1.3 = X 4.1.23: E. Friedberg, Corpus iuris canonici, voi. II, Leipzig, 1879; rist. anast. Graz, 1959, coll. 669-670.
40 Bartolus de Saxoferrato, Comm. Dig. 29.2.5, Venetiis, 1585, fol. 143ra-b.
41 Bartolus de Saxoferrato, Tractatus de insignis et armis, Venetiis, 1585, fol. 124ya-126ra.
42 Cfr. G. Ortalli, «... pingatur in Palatio...». La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma, 1979, p. 25 e nota 1.



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crimine di falso. Con pari rigore, era trattato il facinoroso che ledeva il buon nome altrui copiando lo stemma della famiglia di quest’ultimo43.
Negli stessi decenni, la criminalistica contribuiva ad inserire in un complesso quadro simbolico le insegne della maiestas e, in generale, le significazioni esteriori di essa. L’idea dello Stato-Corpus si accompagnava al si-gnum sanctitatis per eccellenza, la corona che cingeva il capo del monarca unto e consacrato44. I due corpi del re (quello terreno e quello immortale) condividevano una dimensione sacerdotale e liturgica della sovranità45.
Nella dottrina canonistica la problematica si arricchisce di ulteriori specificazioni. Nel secolo XV, Niccolò Tedeschi si chiede se sia lecito al vescovo che si reca extra suam diocesim usare le proprie insegne. Sul punto, è possibile apprezzare l’ampiezza d’impostazione del grande giurista catanese. Quando egli rileva la polisemia del termine insignia attribuisce la funzione della comunicazione sociale non solo ai simboli figurati quali l’anello e il vestiario, ma anche a quegli atti, connaturati con la dignità vescovile, che si sostanziavano nell’esercizio di una potestà. Il risultato è rilevante: l’atto di benedire e di rimettere i peccati veniali, se è esercitato fuori dalla diocesi, è vietato perché si pone «in praeiudicium aliorum praelatorum»46. Nell’ermeneutica giuridica la semiosi contribuisce a regolare gli assetti istituzionali del sistema.
Nell’età medievale signum viene dunque identificato anche nelle azioni umane, sicché una varianza dai modelli di comportamento mette a nudo una interiore non conformità. I segni sono etichette che stabilizzano il flusso sociale rendendo riconoscibili gli status, le diversità e le devianze47.
Come recita una glossa di Piacentino, ad ogni status un abito diverso: «cla-mis militum, purpura regum, stola clericorum vel sacerdotum, toga advo-catorum, birrus rusticorum, coculla monachorum»48.
Per una società cetuale attenta ai simboli il vestiario è un campo semiolo-gico privilegiato e non può ridursi ad una funzione di protezione e di ornamento. A giudizio di Roland Barthes, esso «è nel senso pieno del termine un “modello sociale”, un’immagine più o meno standardizzata di com-
43 Bartolus, de insignis, cit., fol. 124vb-125ra.
44 Cfr. M. Sbriccoli, Crimen laesae maiestatis. Il problema del reato politico alle soglie della scienza penalistica moderna, Milano, 1974, pp. 79 sgg.
45 Resta insuperata l’affascinante ricerca di E.H. Kantorowicz, The Kings Two Bodies. A Study in Medieval Politicai Theology, Princeton, 1957.
46 Nicolaus de Tudeschis (Panormitanus), Comm. X 5.33.23, Venetiis, 1569, fol. 189ra, da confrontare con Comm. X 3.1.15, Venetiis, 1569, fol. 10ra-ya.
47 Douglas, Come pensano le istituzioni, cit., pp. 141 sgg.
48 Ed. E. Conte, Tres Libri Codicis. La ricomparsa del testo e l’esegesi scolastica prima di Accursio, Frankfurt am Main, 1990, p. 158.



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portamenti collettivi attesi»49. Possono ben capirsi allora le parole dello statuto dei dottori bolognesi: quando si ordinava ai professori di «incedere in actu honestu et habitu condecenti honori et statui doctoratus», o di intervenire al publicum examen «cum caputeo vel bireto foderato vario»50. E altrettanto significativa la norma cittadina che estende ai doctores legum il privilegio tipicamente nobiliare della sepoltura con gli abiti scarlatti51. L’ideologia del ceto dei giuristi trovava il suo fondamento in quella miniera inesauribile di precetti e di rationes che era il Corpus iuris civilis. Fra quelle antiche norme gli interpreti medievali trovavano argomenti per farsi custodi e sacerdoti di una nuova liturgia mondana52.
Ci sono momenti in cui la società mette in scena se stessa, i suoi valori, le sue idee-guida, le sue gerarchie: valgano come esempi l’intronizzazione di un sovrano, l’ordinazione del sacerdote o del cavaliere, la laurea, l’ingresso dell’apprendista nella corporazione. Nell’ideologia cerimoniale la nozione di prestigio sociale conferisce legittimità allo status delle persone, ai loro titoli, ai loro ruoli53. Pensiamo al mondo studentesco, alle regole minuziose che accompagnano lo scolaro di diritto dalla sua immatricolazione fino all’esame finale. Lo studente delle scuole bolognesi deve indossare l’abito prescritto dagli statuti54, deve rispettare le precedenze nelle occasioni di pre-
49 R. Barthes, Storia e sociologia del vestiario. Osservazioni metodologiche, in La storia, cit., pp. 136-152, p. 151 per il passo citato.
50 Bologna, Statuti del Collegio di diritto civile (1397), ed. C. Malagola (Bologna, 1888; rist. anast. Torino, 1966) p. 372 sgg.: «De vita, moribus et honestate doctorum dicti col-legii. Rubrica iii.».
51 Cfr. E. Cortese, Intorno agli antichi «iudices» toscani e ai caratteri di un ceto medievale, in Scritti in memoria di Domenico Barillaro, Milano, 1982, pp. 3-38, in particolare pp. 20 sgg.
52 Cfr. Cortese, Intorno agli antichi «iudices», cit., p. 15.
53 Dagli studi antropologici emerge chiaramente come i comportamenti «cerimoniali» riflettano nella loro struttura l’ideologia dell’onore, della fama, della gloria: tanto più nelle società gerarchizzate dove si fa sentire più forte la necessità di mantenere l’equilibrio fra status. I cerimoniali,-non soltanto quelli propri della sfera religiosa, sono una forma di comunicazione che è funzionale al controllo sociale di gruppi e di singoli. Come si vede, ci si muove pur sempre all’interno del problema delle azioni rituali e del loro rapporto con la struttura sociale. Fra i numerosi contributi in materia vanno almeno ricordati: A. Radcliffe-Brown, The Andaman Islanders, Cambridge, 1922; S. F. Nadel, Nupe Religion, New York, 1954; C. Geertz, The religion ofjava, Glencoe 111., 1960; M. Gluck-man, ed., Essays on thè ritual of social relations, New York, 1962.
54 Bologna, Statuti universitari (1432), ed. Malagola (supra, nota 50), pp. 132 sg.: «De ve-stibus scolarium. Rubrica Ixxxiiii. Damnosis scolarium sumptibus providere cupientes, statuimus quod nullus scolaris in civitate Bononie vel eius districtu emat per se vel per alium pannum alium quam pannum qui vulgariter vocatur pannus de statuto, vel de panno coloris nigri; quem pannum prò habitu superiori, cappa, tabardo vel gabano vel consimili veste consueta prò tunc, longiore veste inferiori et clausa a lateribus ac etiam fi-



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ghiera e di studio, per conseguire la licentia segue un rigido cerimoniale che è anche un momento festoso di partecipazione comunitaria. L’anello, la toga e il berretto che egli riceve dalle mani dell’arcidiacono sono la raffigurazione simbolica della riproduzione del sapere giuridico55.
Fin qui abbiamo appena sfiorato la fitta ragnatela dei simboli significanti di cui si servivano gli interpreti medievali in uno scambio fecondo fra linguaggio giuridico e linguaggio comune. Si tratta ora di approfondire la coppia terminologica fama/infamia che fa della comunicazione uno strumento formidabile di controllo sociale. In questo quadro sarà possibile apprezzare alcuni segni che più di altri servivano ad etichettare la diversità e la devianza. Fama e infamia sono fra i problemi centrali della società medievale56: la stima di cui gode un individuo e, all’opposto, una condotta di vita riprovevole esprimono un continuum dell’agire umano, giudicato per il grado di conformità alle norme ed ai valori condivisi dagli appartenenti al gruppo, al ceto, all’ordinamento sociale. La buona e la cattiva fama influiscono in modo determinante sulla capacità giuridica delle persone, sulla mobilità sociale, sui rapporti politici ed economici, sulla vita quotidiana ed anonima della maggioranza degli uomini; servono ad imprimere a ciascuno un marchio, sono esse stesse segno e testimonianza della mentalità, del modo di sentire, delle certezze e delle debolezze di una comunità.
Ogni aggregato sociale ha le sue regole e il suo sistema di valori: l’apprezzamento per il lavoro e la partecipazione politica, propri dei ceti produttivi urbani, sono contrapposti all’ideologia cavalleresca del mondo signorile, mentre le spregiudicate attività finanziarie e commerciali di banchieri e mercanti suscitano le critiche preoccupate di zelanti e ascoltati predicatori57.
La fama non è un termine giuridico58, eppure essa suscita l’interesse dei giuristi che vi intravedono, oltre agli elementi di ambiguità, rilevanti possibi-
bulata seu maspillata anterius circa collum, portare teneantur intra civitatem, sub pena trium librarum Bonon.».
55 Cfr. M Bellomo, Saggio sull'Università nell’età del diritto comune, Roma, 19942, pp. 223 sgg.
56 Cfr. F Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII, Catania, 1985.
57 Chi è infame per alcuni, però, può essere persona dabbene per altri. Viene alla mente il disprezzo di Cino da Pistoia per il personale politico del suo tempo, rappresentato emblematicamente da quel tale capitano del popolo che «velut meretrix in medio lupa-naris se vendebat», ma che nella sua città d’origine, Lucca, «reputatur sapiens, sicut sa-gax fur apud fures» (Cinus de Pistorio, Comm. Cod. 2.6.5, Francoforti ad Moenum, 1578; rist. anast. Torino, 1964, fol. 71rb). L’opinione di Cino è riferita anche da M. Sbriccoli, L’interpretazione dello Statuto. Contributo allo studio della funzione dei giuristi nell’età comunale, Milano, 1969, p. 409.
58 Per un quadro completo della varietà dei significati cfr. A. Walde-J.B. Hofmann, La-teinisches etymologisches Worterbucb, voi. I, Heidelberg, 1938, pp. 450 sg.; Thesaurus



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lità di mediazione dei processi di interazione sociale. Il diritto, infatti, è fortemente interessato a strutturare e standardizzare le norme sociali con alto contenuto etico, in modo tale che esse funzionino come indicatori dei comportamenti sentiti come giusti dai membri della comunità59. Avviene cosi che gli interpreti medievali assumano progressivamente il concetto di fama all’interno della terminologia giuridica per rappresentare sia la reputazione di cui ciascuno gode nell’opinione degli altri, sia una conoscenza incerta e non garantita dei fatti: da una parte dunque la fama hominis, dall’altra la fama alterius rei inter homines existentis60.
Entrambi i significati sottintendono i concetti più ampi di opinio e di pu-blicum e si fondano sui processi di comunicazione attraverso la pubblica opinione: una pubblica opinione, però, che non può intendersi per quei secoli come attività razionale capace di giudizio critico, bensì come raffigurazione della realtà nelle opinioni di una moltitudine che si limita ad esprimere un tacito consenso attraverso abitudini di vita conformi alle norme61. E stato acutamente osservato che, nell’età medievale «finché ognuno teneva volentieri il suo proprio posto, nessuno si sentiva particolarmente colpito dalla singolarità degli altri»62. Quando, invece, la singolarità assume le forme inquietanti della malattia mentale, la diversità viene vissuta e rappresentata come estraneità dal corpo sociale: il demente diventa der Frem-de, «l’esterno che sta dentro», scompagina col suo comportamento l’ordine del «discorso», insinua nel prossimo il timore per una dimensione sconosciuta dell’esistenza.
I signa furoris si sostanziavano in gesti e azioni che sono descritti con cura dalla criminalistica del secolo XVI. Il folle, fra l’altro, era riconoscibile perché tirava sassi per la strada, rideva senza motivo, si comportava in modo sconcio, dilapidava il patrimonio come fanno i prodighi, pronunciava parole
Linguae Latinae, voi. VI.l, Lipsiae, 1902-1926, coll. 206 sgg. Nell’immaginario collettivo la fama è, a volte, simbolo ed esempio, serve a rappresentare il genio di un individuo eccezionale. Sul nesso tra il concetto di gloria e lo sviluppo dell’idea di individuo alle soglie dell’età moderna cfr. A. F. Mùller, Gloria Bona Fama Bonorum. Studien zar sit-tlichen Bedeutung des Ruhmes in der fruhchristliche and mittelalterliche Welt, Husum, 1977, pp. 7 sgg.; con riferimento soprattuto all’onore, F. Zunkel, Ebre, Reputation, in Geschicbtlicbe Grundb e griffe. Historisches Lexicon zar politiscb-sozialen Spracbe in Deut-schland, voi. II, Stuttgart, 1975, pp. 1-63.
59 Per un quadro dell’analisi sociologica sulla pressione verso l’uniformità attraverso i modelli normativi (folkways, mores, diritto, istituzioni) cfr. F. Leonardi, Forme e processi culturali, Milano, 1974, e letteratura ivi citata.
60 Cfr. Albertus Gandinus, Tractatus de maleficiis, ed. H. Kantorowicz, Albertus Gandi-nus und das Strafrecbt der Scolastik, voi. II, Die Lehre, Leipzig, 1926, pp. 51-75, 99-105.
61 Cfr. soprattutto J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, trad. it. Roma-Bari, 1971.
62 Bauman, Cultura, cit., p. 204.



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sconnesse, non ricordava il suo stesso nome. Ma, quel che più interessa, era folle chi come tale era rappresentato per famam nella pubblica opinione63.
La fama contribuisce dunque alla stabilità e alla coesione sociale: da una parte, essa è uno dei modi in cui si realizza la comunicazione, dall’altro è un efficace sistema di etichettamento. L’appartenenza ad un gruppo, ad un ceto, ma anche ad una compagnia di malfattori doveva essere riconoscibile a tutti. In un tempo in cui i motivi conflittuali e dinamici della società mettono in crisi continuamente gli assetti sociali ed istituzionali, con l’emersione di nuove figure professionali ed il consolidamento di repentine fortune patrimoniali, la rappresentazione nella coscienza collettiva dello stile di vita, dell’onorabilità, della potenza economica di un individuo serve a definire i contorni e le peculiarità del ceto sociale di appartenenza64.
Ciò vale soprattutto per i ceti emergenti che basano la loro ascesa sociale e la conquista di uno status più elevato sulle capacità tecniche ed imprenditoriali, sul monopolio della conoscenza delle leggi, su una affidabilità riconosciuta da tutti. Il fenomeno riguarda, però, anche i vecchi gruppi dirigenti che, «pur distinti da funzioni disparate e da diverse ideologie», tendono a ricollocarsi, nella gerarchia sociale, all’interno dell’unico genus della nobilitasi. La nobiltà di un personaggio si sostanziava nel suo mostrarsi nobile ed era provata dalla «fama di una floridezza e di .una connessa condizione di vita»66: per Bartolo, poteva dirsi nobile «qui nobilis appellatur vel reputatur»67.
Per questa via, la fama alterius rei inter bomines existentis diventa un rilevante istituto di diritto processuale: come strumento probatorio concorre con altre prove alla formazione della sentenza, a condizione che sia confermata da testi di provata fede e dirittura morale68.
63 Cfr. M. Boari, Qui venit cantra iura. Il furiosus nella criminalistica dei secoli XV e XVI, Milano, 1983, pp. 60-74.
64 Cfr. Migliorino, Fama, cit., pp. 11 sgg.
65 Cortese, Intorno agli antichi «iudices», cit., p. 23.
66 G. Tabacco, Nobili e cavalieri a Bologna e Firenze tra XII e XIII secolo, in «Studi medievali», 17, 1976, pp. 41-79, p. 48 per il passo citato.
67 II punto è giustamente sottolineato da C. Donati, Videa di nobiltà in Italia (secoli XIV-XVIII), Roma-Bari, 1988, p. 6.
68 Sulla dottrina giuridica medievale in materia di prova occorre ricordare almeno K. Gross, Die Beweistheorie im kanonischen Prozess, voi. II, Wien, 1867; A. Esmein, Hi-stoire de la procedure criminelle en France et spécialment de la procedure inquisitoire de-puis le XIIF siede jusquà nos jours, Paris, 1882; G. Saivioli, Storia della procedura civile e criminale, in P. Del Giudice, Storia del diritto italiano, voi. III.2, Milano, 1927 (rist. anast. Frankfurt a.M. e Firenze, 1969); J. Ph. Lévy, La hiérarchie des preuves dans le droit savant du Moyen Age depuis la renaissance du Droit Romain jusquà la fin du XIVe siede, Paris, 1939; Id., L’évolution de la preuve dès origines à nos jours, in Recueils de la Società Jean Bodin, voi. XVII, Bruxelles, 1965, pp. 9-70; Id., Le problème de la preuve



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Ci sono avvenimenti che non sono oggetto di esperienza diretta, eppure sono conosciuti da tutti, senza che se ne sappia indicare un’origine precisa; a volte non superano la soglia della diceria e del pettegolezzo o restano confinati nell’ambito del solo vicinato, altre volte si propagano rapidamente e raccolgono il consenso della pubblica opinione69. Ciò avviene quando la comunicazione sociale si avvale di una fitta rete di relazioni intersoggettive: lo scenario è quello della città, i giochi dello scambio riguardano non solo le merci ma anche le notizie e la conoscenza.
C’è, però, il pericolo di un ampliamento incontrollato dell’efficacia di una conoscenza che resta pur sempre incerta: i giuristi, perciò, preferiscono definire limiti e contenuti della fama, assegnandola ad un livello prestabilito nella gerarchia delle prove e distinguendola dai concetti simili di notorio, manifesto e pubblico.
Nelle loro opere i giuristi depurano il termine del suo significato di diceria e conoscenza fallace, per attribuirgli una connotazione tecnica: la fama è analizzata in rapporto alla sua origine e diffusione, alla natura e alla rilevanza dei fatti che contribuisce a diffondere e, assunta nel processo come prova semipiena, è sottoposta a regole rigorose prima di poter produrre i suoi non secondari effetti giuridici70.
Gli effetti dellaT^tf probata sono considerevoli. In campo .civile essa opera validamente come mezzo di prova dello status personarum: la sentenza emessa in giudizio in cui compare un filius familias senza il consenso paterno resta valida se questo è ritenuto pater familias per pubblica fama; analogamente è valido un testamento rogato davanti a sette testi, di cui uno
dans les droits savants du Moyen Age, in Recueds, cit., voi. XVII, pp. 137-167; P. Fio-relli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, voi. I-II, Milano, 1953-54; A. Giuliani, Il concetto di prova, Milano, 1961; R. C. Van Caenegem, La preuve au Moyen Age Occidental, in Recueils, cit., voi. XVII, pp. 691-753; W. Kùper, Die Richteridee der Strafpro-zessordnung und ihre geschichdiche Grundlagen, Berlin, 1967; P. De Lalla, Logica delle prove penali, Napoli, 1973; G. Alessi Palazzolo, Prova legale e pena. La crisi del sistema tra Evo medio e moderno, Napoli, 1979, soprattutto pp. 3-34; I. Rosoni, Quae singula non prosunt collecta iuvant. La teoria della prova indiziaria nell'età medievale e moderna, Milano, 1995.
69 Cfr. in proposito il Tractatus de fama del giurista bolognese Tommaso di Piperata (m. prima del 1282), in Tractatus criminales, cur. Giovan Battista Ziletti, Venetiis, 1563 fol. lr-14r; Tractatus Universi luris, voi. XI.l, Venetiis, 1584, fol. 8r-10r.
70 Nella prima metà del secolo XII prende corpo una teoria della notorietà che avrà come esito più rilevante la rigorosa definizione dei concetti che si richiamano alla categoria dell’evidenza e della pubblicità. In tale processo di elaborazione dottrinaria la fama, nel confronto col notorio ed il manifesto, appare spesso come conoscenza non garantita dei fatti (multum fallax et facilis) e finisce per essere assegnata ai livelli più bassi della gerarchia delle prove. Per i contributi più significativi di legisti e canonisti cfr. Migliorino, Fama, cit., pp. 49 sgg. e letteratura ivi citata.



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era servo ma reputato libero da tutti71. In campo penale la fama facti diventa il presupposto per Vinquisito ex officio e finisce per soppiantare l’istituto altomedievale della testimonianza collettiva giurata72.
Nel suo significato di buona reputazione, la fama viene definita dai giuristi come inviolata capacità giuridica di una persona73. L’infamia legale, viceversa, è una pena accessoria che rende più gravosa la condizione del condannato, ma può anche diventare uno stigma che si aggiunge al disprezzo per una condotta di vita turpe e indegna74.
L’infamia, ossia la mala fama, rende pubblica, visibile a tutti la trasgressione, esige una sanzione sociale che non esclude quella prevista dall’autorità, ma che ha efficacia e contenuti propri. Se vi è stata offesa grave o scandalo per la comunità, il sistema di controllo sociale comporta per l’infame la pubblica riprovazione, l’isolamento, l’emarginazione, mentre il potere legale appronta una serie di esclusioni e di incapacità giuridiche ed etichetta tali turpes personae con marchi e segni esteriori riconoscibili alla vista di tutti75. Avviene cosi che i meccanismi di autoregolazione della società e gli strumenti del sistema punitivo- concorrano a difendere una condizione di armonia assunta come valore.
In questo quadro, gli scambi reciproci tra linguaggio comune e linguaggio giuridico s’infittiscono e danno risultati rilevanti. Pensiamo alla dottrina del-
71 Thomas de Piperata, De fama, cit., fol. 7r-v. Sulla fama come mezzo di collegamento dell’immagine sociale con quella giuridica di ceto cfr. Cortese, Intorno agli antichi «iu-dices», cit., pp. 33 sg.
72 Per un quadro d’insieme del fenomeno cfr. G. Alessi, Processo penale (dir. interm.), in Enciclopedia del diritto, voi. XXXVI, Milano, 1987, pp. 360-401, in particolare p. 376.
73 Ancor meno preciso di existimatio, il termine fama ha il merito di esprimere, più di altri, una forte carica di suggestione emotiva: la riprovazione sociale, l’isolamento dalla comunità per la cattiva fama, colpiscono prima e spesso più duramente delle sanzioni approntate dal potere legale. La fama mantiene anche nel Corpus iuris civilis tale suo carattere indeterminato, sicché è sempre ricondotta all’infamia e alle pene di stima, senza rivestire mai una chiara, definita connotazione positiva. Gli interpreti medievali rilevano la somiglianza dei due termini (existimatio/fama), usati spesso nelle fonti come sinonimi. Essi, però, si sentono attratti maggiormente dalla duttilità e, forse, dai richiami simbolici di fama-, la preferiscono ad existimatio, perché ha uno spettro più amplio di applicazione e riesce, più di quella, a collegare l’infamia legale del Corpus all’infamia di fatto regolata dalle norme sociali. Per questa via, grazie all’accostamento ad un ben noto frammento di Callistrato sulle cognitiones extraordinariae (Dig. 50.13.5.1), la fama è definita «illesae dignitatis status moribus et legibus comprobatus» (cfr. Migliorino, Fama, cit., pp. 73 sgg.).
74 Sulle distinzioni dei glossatori (infamia ipso iure, per sententiam, ex genere poenae) cfr. Migliorino, Fama, cit., pp. 85 sgg.
75 In tale prospettiva è utile rinviare agli strumenti concettuali dei labeling theorists nel campo degli studi sulla devianza: per gli essenziali riferimenti bibliografici cfr. G. Gennaro, I diversi. Teorie sociologiche della devianza, Roma, 1979, pp. 169 sgg.



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Vinfamia factif che non è una pena vendicativa, né è necessariamente collegata alla colpa. In un tempo in cui gli intellettuali non nascondono le profonde disuguaglianze della società, ma anzi contribuiscono con le loro teorie a legittimare un sistema di gerarchie e di privilegi legali, l’infamia di fatto è il riconoscimento giuridico di una marginalità che appare naturale e necessaria all’equilibrio sociale.
Sull’infame ricade una serie rilevante di incapacità: perde dignità e uffici e non può rivestire incarichi onorifici; non può postulare in favore di altri; non può promuovere un giudizio in veste di accusatore, né prestare una valida testimonianza; perde il diritto di fare testamento; se è nominato erede, contro di lui spetta ai fratelli e alle sorelle del defunto una querela inofficiosi testamenti.
Proviamo ad immaginare quali effetti spaventosi produca l’infamia nel caso di individui che conducono la loro esistenza nel pieno godimento dei diritti civili e politici, che poggiano la loro fortuna economica sulla rispettabilità, che occupano nella gerarchia sociale un ruolo di comando: ciò vale nella realtà cittadina dove si afferma una nuova visione dei rapporti tra i privati, ma anche nel mondo feudale, dove la tutela della propria fama è un imperativo di vita per il signore e l’infamia è causa d’estinzione della nobiltà78. L’infamia è per i ceti abbienti l’equivalente della pena di morte per gli esclusi e i diseredati79.
Per questa via l’infamia svolge la sua funzione di regolatore dei rapporti di status. Per le persone di bassa condizione, per le meretrici, i lenoni o gli usurai, la marginalità sancita dalla pubblica opinione trova una conferma nell’intervento del potere legale; per gli appartenenti ai ceti dominanti, l’in-
76 Si tratta di una geniale innovazione terminologica e concettuale destinata per lungo tempo ad essere patrimonio della coscienza giuridica europea. L’infamia facti resta sempre una specificazione dell’infamia legale ma mantiene una significativa affinità con l’infamia sociale. Occorre però distinguere: quest’ultima rimane confinata nella sua sfera extragiuridica, mentre l’infamia di fatto riceve una sistemazione dogmatica ed attrae al suo interno ipotesi che altrimenti resterebbero soggette alla mutevole ed incerta valutazione della pubblica opinione (cfr. Migliorino, Fama, cit., p. 171). Per l’importante contributo dato dalla canonistica cfr. P. Landau, Die Entstehung des kanonischen Infamiebegriffs von Gratian bis zar Glossa ordinaria, Kòln-Graz, 1966, pp. 17 sgg.
77 Cfr. Migliorino, Fama, cit., pp. 139 sgg.
78 Cfr. Cortese, Intorno agli antichi «iudices», cit., p. 33.
79 L’eventualità di perdere la fama è per un individuo capace di diritti l’equivalente di un imminente e funesto pericolo di morte; a sottolinearlo è Accursio in una glossa ad un frammento di Marciano in cui l’intervento del servo a difesa del dominus «periculo vitae infamiaeve» diventa una giusta causa di manumissione. L’infamia, però, non appare cosi dannosa per chi ha poco o nulla da perdere; il giudice comminerà la pena dell’esilio a vita quando il condannato è cosi miserabile da non temere il «damnum famae» (Migliorino, Fama, cit., p. 140).



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famia diventa una sanzione vera e propria con conseguenze disastrose, perché li priva dei più rilevanti diritti civili.
La macchia del disonore è una raffigurazione esemplare e simbolica dei mali morali della società. In ciò si distinguono, per zelo, gli ordinamenti particolari quando impongono ai condannati pene crudeli e infamanti: cavalcare un asino a ritroso stringendo la coda fra le mani; portare un sasso appeso al collo; tenere una mitra sul capo o una sella sul dorso; restare per lungo tempo alla berlina con la catena o con la cosa rubata appesa al collo80.
Si può aggiungere ancora un esempio: la pratica, diffusa nell’Italia centrosettentrionale, di colpire l’individuo attraverso la sua immagine. Falliti e traditori, omicidi e falsari sono effigiati, con toni pesanti ed esasperati di scherno, in luoghi pubblici dotati di una forte carica simbolica: il postribolo, la piazza principale, più spesso il palazzo del podestà81. Ciò dà la misura del potere comunicativo che per lungo tempo i segni iconici hanno avuto sugli uomini: un potere inquietante che oggi facciamo fatica a comprendere, abituati come siamo a padroneggiare le immagini, a metterle a distanza, a valutarle nella loro dimensione più propriamente estetica82.
La nota d’infamia ha una sua pratica utilità: serve a distinguere, ai fini dell’imposizione della giusta pena, i ladri occasionali da quelli abituali, e nel caso delle meretrici si rende necessaria per riconoscere quelle donne con cui gli scapoli non rischiano di commettere un grave peccato o di incorrere nel reato di ingiurie o di stupro.
Vi sono casi in cui l’infamia si accompagna quasi sempre all’imposizione sulla persona del reo di marchi e segni esteriori che gli statuti comunali e le legislazioni regie vanno approntando con grande zelo, e insieme con questi assolve alla funzione di etichettamento dell’abituale propensione alla devianza.
Siamo in un’età in cui l’identità era privilegio di pochi onorati e onorevoli individui, né vi era modo, a parte la fama, per certificare ipotesi di recidiva e abitualità83. Siamo ancora ben lontani dall’istituzione dei registri di polizia e, soprattutto, dalla «prodigiosa estensione della nozione di individualità», realizzata nel secolo scorso grazie all’analisi delle impronte digita-
80 Cfr. A. Fertile, Storia del diritto italiano, voi. V, Storia del diritto penale, Torino, 1892, pp. 341 sgg.; C. Calisse, Svolgimento storico del diritto penale in Italia. Dalle invasioni barbariche alle riforme del secolo XVIII, Milano, 1906, pp. 424 sgg.
81 Cfr. Ortalli, «... pingatur in Palatio...», cit.; U. Santarelli, Mercanti e società tra mercanti, Torino, 1992, pp. 69 sgg.
82 Cfr. V. Valeri, Rito, in Enciclopedia Einaudi, voi. XII, Torino, 1981, pp. 210-243, in particolare p. 239.
83 Cfr. L. Lacchè, Eatrocinium. Giustizia, scienza penale e repressione del banditismo in Antico Regime, Milano, 1988, pp. 193 sgg.



463 Processi di comunicazione e forme di controllo sociale
li84. Ciò spiega perché per tutto il Medioevo e l’età moderna fu persistente la pratica di marchiare a fuoco i delinquenti sulla fronte, sulla spalla o sul braccio. A volte non era necessario arrivare a tanto, e allora si imponeva il sanbenito all’eretico che scontava la penitenza sulla soglia della chiesa o il copricapo con la campanella alla meretrice che si allontanava dal suo quartiere85.
Le categorie e le figure create dagli interpreti medievali hanno funzionato per lungo tempo come una sorta di contenitore ove accogliere e strutturare un paradigma indiziario della conformità e della devianza. Quelle antiche dottrine hanno legato la loro fortuna alla secolare vicenda del diritto comune, che ha contrassegnato la storia intellettuale e sociale europea fino alle codificazioni moderne.
I processi di comunicazione sociale che abbiamo fin qui descritto perdono la loro rilevanza giuridica nel corso del secolo XVIII, quando nell’appassionato dibattito sulle necessità di riforma del sistema penale si levano voci autorevoli per limitare l’efficacia dell’infamia o, addirittura, per espungerla dal sistema del diritto86.
I cambiamenti più significativi si riscontrano nella pandettistica tedesca che, nel suo indirizzo prevalente, considera ormai l’infamia come un istituto del passato senza alcuna incidenza sul diritto vigente. Nella valutazione della sua applicabilità, l’infamia arretra sullo sfondo della ricostruzione storica, per ricongiungersi, quasi indistintamente, a quella ignominia sociale le cui conseguenze sono lasciate al libero apprezzamento del giudice87.
La concezione dello Stato, come va delineandosi agli inizi del secolo XIX, fondata sull’unificazione del soggetto giuridico e sull’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, non può accogliere un istituto che, soprattutto nella linea interpretativa dei giuristi medievali, presupponeva la cristallizzazione di un sistema sociale fondato sull’ineguaglianza e sui privilegi legali. La rispettabilità borghese dispone ormai di segni di riconoscimento altrettanto indelebili ma meno umilianti di quelli imposti nell’età del diritto comune88.
84 Cfr. C. Ginzburg, Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Torino, 1986, pp. 186 sgg.
85 Bologna, Bando del Podestà (1382), cit. da Malagola (supra, nota 5 0), p. 3 73 nota 1: «Nulla meretrix vel femina male fame audeat aut presumat stare vel habitare in civitate Bon., burgis et suburgis aut aliqua parte diete Civitatis preterquam in loco ordinato, que dicitur Castellictus sive bordellum. Et quod nulla meretrix audeat ire per civitatem Bo-nonie nisi in die sabati cum caputio in capite in quo sit affisum vel ligatum sonaglium, et cum pannis sive tunica fissa a parte anteriori, sub pena etc.».
86 Cfr. A. Mazzacane, Infamia (Storia), in Enciclopedia del diritto, voi. XXI, Milano, 1971, pp. 386 sg.
87 Cfr. Migliorino, Fama, cit., pp. 21 sgg.
88 Cfr. Ginzburg, Miti emblemi e spie, cit., p. 187.



464 Francesco Migliorino
L’infamia viene cosi rimossa dalla coscienza giuridica, per lasciare il posto ad una incerta indegnità di fatto, ad una cattiva condotta sociale che non è priva di conseguenze, ma che perde definitivamente quella autonoma rilevanza giuridica che aveva mantenuto per molti secoli.
Eppure, l’affermazione, la rimozione o il mascheramento di un formidabile sistema di controllo sociale si intrecciano lungo un itinerario i cui dati cronologici superano i confini di un’esperienza, giuridica data e mostrano anche nell’età contemporanea i segni di un’inquietante continuità.
Ancora oggi la comunicazione sociale si avvale della fama per etichettare status, diversità e devianze. Ripensando a quello straordinario gioco speculativo di cui si serve Ludwig Wittgenstein per paragonare il linguaggio ad una città89, potremmo dire anche noi che «non vi è nulla nei sobborghi che non fosse prima nella vecchia città»90. Resta una differenza, decisiva: quanto permane dell’antica fama e infamia non appartiene piu al linguaggio giuridico, ma sopravvive stancamente in una società segnata da una esteriore e rassicurante omologazione.
89 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, trad. it. Torino, 1967, p. 17: «Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: Un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi».
90 C. Geertz, Antropologia interpretativa, trad. it. Bologna, 1988, p. 92.