Fra centrismo e centro sinistra: Olivetti e il Movimento di Comunita'

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Title
Fra centrismo e centro sinistra: Olivetti e il Movimento di Comunita'
Creator
Giuseppe Berta
Date Issued
1978-08-01
Is Part Of
Studi Storici
volume
19
issue
3
page start
545
page end
587
Publisher
Fondazione Istituto Gramsci
Language
ita
Format
pdf
Relation
Microfisica del potere: interventi politici, Italy, Einaudi, 1982
Rights
Studi Storici © 1978 Fondazione Istituto Gramsci
Source
https://web.archive.org/web/20230921173330/https://www.jstor.org/stable/20564570?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxOCwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjQyNX19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Acf7d9a57d7f94cf4134f54cfe1770d0d
Subject
specific intellectual
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FRA CENTRISMO E CENTRO SINISTRA: OLIVETTI E IL MOVIMENTO DI COMUNITÀ’
Giuseppe Berta
I. Industria e riforme negli anni cinquanta
Dovendo tracciare il profilo dell’evoluzione della sua impresa in occasione del centenario di essa, Adriano Olivetti scriveva nel 1958 che « il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea » era quello, « ancora del tutto incompiuto », di « creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo [...] » h Invece di assumere i valori quantitativi che testimoniavano della rapida espansione dell’azienda a metro del successo del proprio disegno industriale, Olivetti — in quegli anni del boom che sembravano sigillare nell’intensità del processo di crescita economica l’intera immagine dell’imprenditorialità italiana — non esitava a scegliere come criterio di giudizio in base a cui valutare i termini della sua iniziativa il principio della responsabilità sociale dell’impresa, la sua capacità di tradurre in progresso civile i risultati dello sviluppo industriale. Cosi egli esplicitava definitivamente le ragioni del suo rifiuto di riconoscersi nelle scelte sociali e politiche del ceto imprenditoriale di allora, per proporre il proprio progetto sociale, che solo credeva fosse adeguato a caratterizzare la strategia dell’Olivetti, come alternativa globale alla strategia del capitalismo italiano. Un’alternativa che era concepita innanzitutto come critica del rapporto che intercorreva tra accumulazione capitalistica e gestione moderata dello Stato, e che in Olivetti e nel movimento da lui promosso — il Movimento Comunità — acquisiva gli accenti di un piano di riforma istituzionale. La progettualità
1 A. Olivetti, Appunti per la storia di una fabbrica, in Olivetti. 1908-1958, Ivrea, 1958, p. 18. Per i fondamenti teorici e programmatici dell’opera di Adriano Olivetti, cfr. i suoi scritti: Lardine politico delle comunità, (1945) Milano, 1970 3; Società stato comunità. Per una economia e politica comunitaria, Milano, 1952; Città dell'uomo, Milano, 1960. Un profilo biografico di Adriano Olivetti si trova nel volume
di B. Caizzi, Camillo e Adriano Olivetti, Torino, 1962, che è però acritico é di taglio pubblicistico. Per indicazioni di ricerca piu aggiornate si vedano invece V. Castronovo, Il Piemonte, Torino, 1977, pp. 646-650 e Id., Imprese ed economia in Piemonte. Dalla « grande crisi » a oggi, Torino, 1977, pp. 87-93.
Il presente lavoro fa parte di una ricerca sull’argomento promossa dal Centro Studi della Fondazione « Adriano Olivetti ».



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della critica politica comunitaria insisteva precisamente nel collegare i nuovi contenuti sociali a cui avrebbe dato corpo un’azione riformatrice con il piano di rifondazione, di riarticolazione dello Stato che le riforme sembravano esigere. E poiché doveva trasformarsi la struttura dello Stato in conformità agli obiettivi politici di riequilibrio sociale, doveva mutare anche la base sociale delle istituzioni che, essendo ricondotta alle proprie dimensioni territoriali « concrete » (in quanto geograficamente e demograficamente limitate), avrebbe dovuto revocare le deleghe tradizionalmente concesse al sistema politico ed esautorare la necessità di una classe dirigente separata dal corpo sociale.
Olivetti recuperava, pur in una chiave fortemente eterodossa, la trama che connetteva tra di loro lavoro, capitale e cultura e che costituiva il filo rosso della tradizione più dinamica dell’industrialismo piemontese, della quale suo padre Camillo era stato uno degli antesignani2. Accanto al lavoro e al capitale (quest’ultimo ridotto però a semplice manifestazione della capacità imprenditoriale), che già venivano unificati all’interno di una strategia di impresa d’avanguardia, si inseriva quindi la componente della cultura, la cui responsabilizzazione — attraverso un modello di azione sociale mutuata da quell’ideologia dell’impegno degli intellettuali che conservava ancora una larga influenza nell’Italia degli anni cinquanta3 — si compiva nei termini moderni della committenza nei confronti della comunità, industriale sociale e politica. L’unità delle tre componenti si realizzava già per Olivetti entro la struttura dell’impresa industriale riformata che del progetto sociale e istituzionale era, ancor prima che il cardine, la molla.
L’ideologia del « piano organico »4 di riforma doveva perciò riuscire a dirigere con mano ferma lo sviluppo capitalistico, per separarne gli effetti positivi dalle conseguenze disgregative, per scindere la razionalità della produzione dall’irrazionalità delle forme di distribuzione del prodotto sociale predeterminate dall’asocialità del sistema politico e delle sue surrettizie escrescenze parassitarle. In questo senso — nel senso almeno che si postulava la funzione di modernizzazione dell’impresa industriale nei confronti delle strutture sociali e istituzionali — il progetto sociale di Olivetti, che per realizzarsi si reggeva inevitabilmente sulla condizione di potenza economica della Società Olivetti, può essere fatto rientrare nelle tendenze neocapitalistiche5. L’errore sarebbe però di ridurre tutta la complessa ideologia comunitaria a semplice disegno di
2 Cfr. V. Castronovo, Il Piemonte, cit., p. 154 passim.
3 Cfr. G. Pampaioni, Architettura e urbanistica negli Anni Cinquanta alla Olivetti, a cura dell’autore, Firenze, 1975.
4 Cfr. A. Olivetti, Un piano organico, in Città dell'uomo, cit., pp. 291-299.
5 Sul neocapitalismo, cfr. B. Trentin, Le dottrine neocapitalistiche e l'ideologia delle forze dominanti nella politica economica italiana, (1962) in Da Sfruttati a produttori, Bari, 1976, pp. 16-66 e A. Saisano, Il neocapitalismo. Progetti e ideologia, in Storia d'Italia, voi. V, t. I: I documenti, Torino, 1973, pp. 891-909.



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armonizzazione sociale, che in quanto tale presupponeva la necessità dello scontro col movimento operaio e della sua sconfitta. Dal momento che il termine di « neocapitalismo » è assunto comunemente a contenere entro di sé tanto la gestione vallettiana della Fiat quanto l’« olivettismo » che della prima ambiva costituire l’alternativa, è bene sgombrare subito il campo dagli equivoci. Ciò che era assente dal progetto comunitario di Olivetti era proprio l’intento di stabilizzazione repressiva del rapporto di classe che al contrario rappresentava l’asse della linea di Vailetta, prima e dopo il sostegno concesso dalla Fiat alla costituzione del governo di centro-sinistra. Mentre per la Fiat si trattava soltanto di suscitare un atteggiamento di passività da parte della classe operaia nei riguardi del sistema di comportamenti e di valori proposto dall’impresa, per Olivetti tutte le scelte di gestione dei rapporti col personale si dovevano tradurre in mezzi mediante cui guadagnarsi l’adesione attiva di tutte le componenti della forza-lavoro — dagli impiegati, agli operai, ai tecnici — a un modo nuovo di concepire i legami col lavoro di fabbrica, con le forme di vita associata, con l’assetto territoriale posto in essere dalla diffusione del processo di industrializzazione.
Se dunque la linea vallettiana ricercava un’integrazione passiva dei lavoratori che non poteva che avere come requisito la stabilizzazione del rapporto di classe e l’annullamento dell’organizzazione operaia, l’intenzione di Olivetti era di far sorgere un’integrazione attiva, consapevolmente accettata, dei lavoratori. Per la Fiat l’« egemonia della fabbrica » significava il trionfo dei meccanismi di controllo aziendali su tutte le forme della vita sociale; per Olivetti essa significava la possibilità di costruire in positivo un modello di integrazione tra organizzazione produttiva e organizzazione sociale attraverso il progressivo superamento, ma non la negazione a priori, della conflittualità.
L’aziendalismo, che pure agli occhi dell’opinione pubblica racchiuse la sostanza dell’esperienza di Olivetti, non era affatto l’intero spazio di azione che veniva assegnato a un movimento riformatore. Se la fabbrica razionalizzata, in quanto produttrice di ricchezza, si presentava come condizione, come base economica per l’iniziativa riformatrice, tuttavia non era posta come confine invalicabile per una strategia di modernizzazione sociale: la comprensione degli effetti dell’industrializzazione era troppo sviluppata in Olivetti, perché egli credesse di poterli controllare completamente entro la sfera di influenza della sua azienda. Se un movimento di integrazione tra fabbrica e società doveva consapevolmente dispiegarsi, ciò non si sarebbe ottenuto semplicemente rendendo l’organizzazione della società più compatibile con l’espansione dei fattori produttivi e sollecitando la formazione di meccanismi di consenso al rapporto di produzione sancito nel sistema di fabbrica. L’accento veniva cosi a cadere sulla necessità della trasformazione della società, secondo un programma che ne vedeva il riassetto in funzione del riequilibrio degli stessi fenomeni disgregativi scatenati dalla produzione industriale. Non



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a caso l’azione politica di Olivetti muoveva da un duro giudizio negativo sulle modalità con cui era stata condotta la Ricostruzione nell’Italia post-bellica.
Nel giugno 1953, la rivista «Comunità»6 aveva pubblicato una nota di Olivetti sulla situazione della società italiana dopo la Ricostruzione destinata ad essere successivamente diffusa dalla stampa nordamericana7. In essa veniva sviluppata una critica radicale della politica seguita dal blocco di governo centrista, delle scelte generali — di contenuto e di schieramento — del ceto imprenditoriale, dell’assetto sindacale e delle relazioni industriali allora dominante in Italia. Quella critica doveva destare scalpore, come apparve dalle stizzite repliche che — su piani distinti, ma in certa misura complementari — vennero opposte alle argomentazioni di Olivetti dal presidente della Confindustria Costa e dal segretario generale della Cisl Pastore8. Gli accenti aspri della polemica tradivano il fatto che, per la prima volta, era un industriale, un esponente della classe dirigente, a porre in discussione tutti gli indirizzi qualificanti della politica italiana dal ’47 in avanti e a scegliere per questo scopo, dando maggiore risonanza ai propri rilievi, il momento piu opportuno, cioè il mese stesso della scadenza elettorale che avrebbe segnato la fine del centrismo degasperiano.
Con quell’atto, Adriano Olivetti faceva mostra di volersi inserire attivamente nella crisi del sistema di governo del centrismo, dopo essersi alleato ai gruppi di terza forza che avevano contribuito alla sua sconfitta elettorale, per spingere risolutamente nella direzione dell’« apertura a sinistra » 9 che cominciava a delinearsi e sembrava preliminare alla definizione di un piano di riforme sociali. Per Olivetti non si trattava tuttavia della semplice constatazione del logoramento a cui era giunto, nel volgere della prima legislatura, il rapporto tra governo e società instaurato da De Gasperi, quanto l’ovvia conclusione del precedente rifiuto di aderire alla logica moderata con cui la quasi totalità della classe dirigente aveva impostato il processo di ricostruzione, rifiuto che aveva manifestato già all’indomani della Liberazione. I tempi gli parevano ormai maturi, con il superamento dello stato di necessità che aveva gravato di pesanti limiti lo spazio di movimento delle forze politiche nell’imme-
6 « Comunità », fondata come settimanale nel 1946 da Adriano Olivetti e interrotta nel 1947, aveva ripreso le pubblicazioni nel 1949, con diverso formato e con la periodicità di dieci numeri annui.
7 A. Olivetti, Corrispondenza per gli Stati Uniti, « Comunità », a. VII, n. 19, giugno 1953, pp. 1-4. Una versione ridotta e modificata di questo articolo sarebbe stata pubblicata dal settimanale statunitense « World ».
8 Le repliche di Pastore e Costa sarebbero apparse, con un commento di Olivetti, in « Comunità », a. Vili, n. 23, febbraio 1954, pp. XX-XXIV, sotto il titolo Due lettere.
9 Per una cronaca delle vicende politiche degli anni cinquanta, cfr. G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano e l'apertura a sinistra. La DC di Fanfani e di Moro. 1954-1962, Firenze, 1977.



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diato dopoguerra, per tentare una sintesi operativa — secondo un’espressione ricorrente nel linguaggio comunitario — di capitalismo e socialismo, di laburismo e New Deal. L’impraticabilità della gestione democristiana dello Stato come sistema di mediazione tra i ceti, messa in evidenza dalla sconfitta della « legge truffa », unitamente alle possibilità offerte dal nuovo slancio dell’apparato produttivo, potevano consentire dei margini ben più ampi del passato per l’avvio di un’azione riformatrice. È perciò che la vicenda dell’impegno politico diretto di Olivetti e della trasformazione del suo Movimento Comunità da organismo « metapolitico » di formazione sociale e culturale in struttura politico-organizzativa ed elettorale si iscrive quasi per intero nel periodo (1953-58) in cui emersero, sebbene contraddittoriamente, tutte le istanze che avrebbero condotto alla fuoruscita dagli schemi politici del centrismo e poste le premesse del centro-sinistra.
Quel che Olivetti imputava alla classe dirigente italiana, in particolare al ceto imprenditoriale, era — come avrebbe ancora avuto occasione di dichiarare a « Newsweek » nel 1954 — una « grave mancanza di responsabilità sociale [,..]»10. Nella sua opinione, la miopia del capitalismo italiano era tale da indurre gli imprenditori a preoccuparsi soltanto di conseguire il massimo profitto, senza darsi pena di perseguire nel contempo l’elevamento del tenore di vita dei lavoratori e senza nemmeno cercare una soluzione globale al problema della disoccupazione, che restava senza dubbio il più grave nel quadro sociale italiano dei primi anni cinquanta. Olivetti infatti insisteva nel sottolineare la complementarietà di una politica della piena occupazione con una politica cosiddetta di « alti salari », in grado quest’ultima di provocare un innalzamento complessivo della domanda interna. Egli lamentava inoltre l’assenza da parte del padronato italiano di un qualsiasi tentativo di delineare una strategia di relazioni sindacali con le rappresentanze della manodopera che non fosse la stipula di contratti sindacali di comodo, siglati con organizzazioni che erano « collaborazioniste » in via di principio con gli interessi imprenditoriali. Olivetti enfatizzava la natura rigorosamente antioperaia del centrismo, che escludeva programmaticamente i lavoratori dallo Stato11 : tra la centralizzazione del potere economico degli industriali nella società e la centralizzazione del potere politico della Democrazia cristiana nelle istituzioni, in direzione della classe operaia non c’era che la flebile mediazione di un sindacato — la Cisl — che era anch’essa emanazione del blocco dominante e non perseguiva altro se non il mantenimento dell’equilibrio politico esistente. Un equilibrio politico, aggiungeva, che da un lato paralizzava qualsiasi volontà di riforma sociale,
10 Intervista apparsa su « Newsweek » il 26 settembre 1954 e riprodotta in italiano dalla « Sentinella del Canavese » dell’8 ottobre 1954 con il titolo Lo spirito comunitario come soluzione dei problemi moderni.
11 Cfr. U. Romagnoli-T. Treu, I sindacati in Italia: storia di una strategia (19451976), Bologna, 1977, pp. 44 sgg.



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mentre dall’altro non poteva che accrescere la presa che i partiti marxisti e la Cgil esercitavano sui lavoratori e che il governo sosteneva invece di voler indebolire.
Questa contraddizione era il nodo attraverso cui Olivetti intendeva dimostrare, senza temere le forzature che tale obiettivo imponeva alle sue argomentazioni, l’inadeguatezza del monopolio democristiano del potere politico. Gli premeva soprattutto accreditare presso l’opinione pubblica internazionale il suo convincimento circa l’« incapacità della democrazia cristiana di concretare un programma moderno » e la sua « totale inefficienza nei riguardi del problema della disoccupazione »12. Fino a quando fosse durata la confusione di Stato e Chiesa che consentiva alla De di occupare senza contrasti tutte le funzioni di governo, e il movimento operaio fosse stato bloccato dall’alternativa paralizzante tra la Cgil, costretta ad assumere la difesa degli interessi immediati di classe nonostante la propria visione « catastrofica » delle sorti del capitalismo, e una Cisl che non poteva uscire dalla sua condizione di subalternità nei confronti del potere governativo e padronale a causa della sua origine scissionista, non sarebbero valsi a nulla gli aiuti americani, utili solamente a rafforzare le strutture di potere tradizionali. D’altra parte, concludeva Olivetti, sarebbero state inefficaci anche delle imitazioni passive delle politiche americane di sviluppo, giacché l’Italia per risollevarsi doveva poter contare sulla propria autonoma capacità di formulare un piano di sviluppo.
Le repliche, improntate a una logica meramente difensiva, che sarebbero venute alla sortita di Olivetti non avrebbero fatto che confermarlo nelle sue posizioni. Costa si limitò a sostenere che l’industria di Stato e non quella privata aveva tratto i massimi benefici dagli aiuti statunitensi, e che il tenore di vita nell’Italia del 1953 era nettamente superiore a quello vigente nell’Italia del 1938, trascurando il paragone, che invece Olivetti sollecitava, col tenore di vita delle nazioni occidentali piu sviluppate. Ancora piu propagandistica appariva la replica di Pastore, tutta centrata sul fatto che Olivetti — un padrone — rilasciava attestati di benemerenza alla Cgil e denigrava la Cisl, e che i lavoratori avrebbero dovuto trarre le loro conclusioni da atteggiamenti come questo. Nessuno dei due interlocutori di Olivetti si curò peraltro di far rilevare l’evidente strumentalità della sortita dell’industriale piemontese, che era null’altro se non una dichiarazione di ostilità al metodo e alla forma di governo del centrismo, mediante la quale Olivetti sanzionava la sua adesione allo schieramento di terza forza che aveva contribuito alla sconfitta democristiana del 7 giugno 1953. Insomma, non di una discussione si era trattato, bensì di una riaffermazione dell’appartenenza ad ambiti politici separati, che la crisi della formula di governo rendeva quasi incomunicabili.
Del resto, ciò che aveva spinto Olivetti a una presa di posizione antimo-
12 A. Olivetti, Corrispondenza per gli Stati Uniti, cit.



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derata cosi recisa era esattamente la constatazione dell’apertura di una nuova fase politica, necessariamente di transizione, in cui lo spazio praticabile da parte di piccole formazioni intermedie di ispirazione democratico-socialista — da Unità popolare all’Usi, ecc. —, rispetto all’egemonia dei due blocchi maggioritari cattolico e marxista, era considerevole. Uno spazio, inoltre, che non era più soltanto di mediazione tra istanze contrapposte, ma anzitutto di proposta, di elaborazione politica, di formulazione di piani di riforma, di aggregazione di forze intellettuali. Che questa fosse la prospettiva prescelta dal Movimento Comunità era detto da Olivetti quando, ancora su « Newsweek », lamentava l’inconsistenza della socialdemocrazia italiana, la sua funzione di copertura passiva della politica democristiana: « Disgraziatamente il partito socialdemocratico, che avrebbe dovuto rappresentare una guida, si è dimostrato vecchio e inadeguato ». L’area in cui le forze riformatrici si sarebbero dovute collocare era quella del « socialismo » in cui si trovava la maggioranza dei lavoratori italiani, benché — sottolineava Olivetti — ciò non significasse la loro adesione all’ideologia marxista e comunista, ma semplicemente « una spontanea adesione ad un mondo migliore »13. L’asserzione aveva implicazioni di portata più vasta di quel che potrebbe sembrare: era in primo luogo il riconoscimento che una politica di riforme sociali era impossibile finché si fosse mantenuta la preclusione verso il movimento operaio, del quale si doveva guadagnare il consenso attivo: ciò comportava la necessità di tener aperto il confronto con i lavoratori nonostante il ripudio del « marxismo » professato dalle loro organizzazioni. Poi, era la scelta di assumere come strumento di azione politica quel complesso di teorie sociali legate alle grandi esperienze di riforma sociale degli anni trenta, e dunque alla problematica del Welfare State, delle nuove dimensioni della pianificazione sociale imboccate dalle socialdemocrazie dopo la Grande Crisi, della stessa pianificazione sovietica che aveva offerto in materia un elemento di paragone imprescindibile. Infine, l’accettazione della prospettiva del « socialismo » come omogenea ai fini del Movimento Comunità stava a dire che l’apertura a sinistra, come soluzione alla crisi politica, poteva aver successo solo a patto di coinvolgere in un processo di aggregazione altre forze di estrazione socialista — fino a comprendere quello stesso Psi, di cui si criticava lo stalinismo — per rimediare all’intrinseca debolezza della socialdemocrazia italiana.
Il comunitarismo olivettiano non è perciò assimilabile all’ideologia dei gruppi laici che hanno lasciato qualche segno, pur se spesso sopravvalutato, nel dibattito politico degli anni cinquanta14, poiché il suo orizzonte era già costituito per intero dalla prospettiva dell’« unificazione sociali-
13 A. Olivetti, Lo spirito comunitario come soluzione, cit.
14 L’analogia tra la posizione di Olivetti e quella del gruppo del «Mondo» è invece sostenuta da E. Galli della Loggia, Ideologie, classi e costume, in L'Italia contemporanea. 1945-1975, a cura di V. Castronovo, Torino, 1976, p. 412.



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sta ». A dividere Olivetti dai liberali critici del « Mondo » o dai radicali, anche se in qualche occasione egli non esitò probabilmente a finanziarli, non stava tanto Patteggiamento tenuto di fronte alla « legge truffa », quanto la convinzione fermamente nutrita da Olivetti che il liberalismo fosse un sistema di valori tramontato e arretrato rispetto ai problemi della società industriale, e che quella che era convenzionalmente chiamata « società occidentale » potesse essere conservata solo a condizione di massicce iniezioni di socialità, soprattutto con l’intervento pubblico nell’economia. Non si trattava quindi di arginare le degenerazioni clericali del potere democristiano in nome della purezza dei principi laici, bensì di opporre alla « non politica » governativa una politica di grandi riforme sociali15. La qualificazione laburista assegnata da Olivetti al programma del Movimento Comunità è sufficiente di per se stessa a renderlo inassimilabile alla linea seguita dai gruppi degli intellettuali della fronda liberale. L’attenzione puntata costantemente in direzione delle grandi socialdemocrazie, la preoccupazione sempre rinnovata di guadagnare allo schieramento riformista un consenso massiccio da parte della classe operaia, rendevano inevitabile il distacco di Comunità da quanti sentivano in misura prevaricante l’esigenza di salvare un’immagine pura, « einaudiana » della società capitalistica.
Per Olivetti, al contrario, era lo stesso sviluppo capitalistico a imporre la necessità di alcune correzioni in senso socialista delle strutture sociali: «[...] la struttura della società capitalistica, lungi dall’esplodere per interne contraddizioni, si modifica, si affina, tende ad allargare la cointeressenza al sistema a strati sempre piu vasti; di qui la necessità di aggiornare la diagnosi socialista della realtà, e di trovare le basi reali di un’alleanza maggioritaria per la politica socialista ». Un’unificazione di tutti i socialisti, insisteva Olivetti, come polo di aggregazione politica capace di bilanciare la De da una parte e il Pei dall’altra, sottraendo masse di lavoratori alle loro sfere di influenza, poteva essere la premessa per un ammodernamento dell’organizzazione della società e delle istituzioni. « In questa sola prospettiva, — diceva — larghe avanguardie del mondo del lavoro e di intellettuali responsabili potranno essere investite di una reale rappresentanza politica e liberare la loro forza creativa in favore di una società in progresso e di uno Stato seriamente democratico » 16, adempiendo al compito che la socialdemocrazia non aveva assolto. Il legame di libertà politica e progresso sociale, che aveva motivato la scissione socialdemocratica del ’47, non aveva infatti avuto capacità di attrazione né sugli operai, che avevano trovato nel Pei l’unico valido strumento di difesa, né sugli intellettuali, poco sensibili all’immagine di un Psdi ridotto ad insignificante appendice di governi conservatori. Senza l’al-
15 Cfr. A. Olivetti, Ammodernamento dello Stato, « La via del Piemonte », 19 ottobre 1957. « La via del Piemonte », settimanale comunitario, uscì a Torino dall’ottobre 1957 al giugno 1958.
* Ibid.



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leanza delle forze del lavoro e della cultura attorno a un piano audacemente riformatore non si sarebbe delineata alcuna alternativa al monopolio del governo e dell’opposizione, né si sarebbe sospinta la De a prendere misure politiche che non fossero di semplice amministrazione dell’esistente. Condizione indispensabile perché il partito cattolico uscisse dall’immobilismo e superasse la funzione di mera mediazione tra i ceti sociali che componevano il blocco borghese 17, era la costituzione di un partito socialista unitario, con l’accettazione delle alleanze occidentali che era di Saragat ma con la base di classe che poteva auspicare Morandi. Certo sul versante economico il progetto sociale di Olivetti poggiava interamente su una visione ottimistica dello sviluppo industriale, spesso equiparato tout court al progresso civile18, sulla convinzione che fosse tangibilmente verificabile l’idoneità dell’accumulazione capitalistica a proporsi come fonte della ricchezza e fattore di moltiplicazione del benessere. Il consenso al sistema di impresa, all’ideologia dell’efficienza che essa impersonava, non poteva essere per Olivetti che totale, dal momento che la spinta alla riforma della società poteva scaturire solo dopo che le forze sociali avessero riconosciuto il ruolo propulsivo dell’impresa nella modernizzazione del Paese. Di qui il « fordismo » di Olivetti19, che non rifuggiva dall’uso dell’aziendalismo in tutte le sue manifestazioni. Nel tentativo stesso di creare un’impresa la cui vocazione alla responsabilità sociale era esaltata dalla staticità dell’organizzazione sociale circostante è da vedere l’implicita ammissione della sua centralità. Cosi non pochi tratti dello stereotipo del « neocapitalismo » hanno la loro origine storica a Ivrea e, più ampiamente, nelle realizzazioni del fordismo olivet-tiano. Ancora, può essere fatta rientrare nel fordismo la descrizione del processo di promozione di un benessere diffuso che era nel programma olivettiano: in esso lo scopo della piena occupazione non veniva posto in alternativa alla crescita salariale, ma quasi rappresentato come una proiezione lineare, una conseguenza matematica, di essa. Lungi dall’es-serci contraddizione tra l’incremento del benessere individuale e il perseguimento di grandi obiettivi economici collettivi, nel progetto sociale di Olivetti se ne postulava l’interdipendenza reciproca. Anzi, Olivetti attribuì a tutta la sua iniziativa imprenditoriale degli anni della maturità il compito specifico di esplicitare la correlazione tra la crescita dei consumi individuali e collettivi, contando molto sull’efficacia e sull’esemplarità delle scelte di sviluppo aziendali per ottenere consensi anche quantitativamente significativi al suo programma politico. La « centralità dell’impresa » cui era legato Olivetti, pur se apparteneva senz’altro al clima in-
17 Sulla De di De Gasperi come partito della mediazione, cfr. G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano al potere. La De di De Gasperi e Dossetti. 1945-1954, Firenze, 1974.
18 Cfr. P. Volponi, La Olivetti non ha mai guardato a Roma, ma al Sud si, a cura di G. Fontana, «Nuova Società», 4 novembre 1977, pp. 32-33.
19 Cfr. F. Compagna, Meridionalismo e «fordismo» di Adriano Olivetti, «Nord e Sud », a. VII, nuova serie, n. 3, aprile 1960, pp. 70-74.



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dustriale degli anni cinquanta, non era però l’ingenua fiducia negli automatismi dello sviluppo che era condivisa dalla maggioranza degli imprenditori dell’età del boom-. a mutarne il segno era soprattutto la decisiva dipendenza dal tema della pianificazione, che rappresentava lo spauracchio della Confindustria.
Per contro, va notato che l’organismo di rappresentanza degli industriali aveva anch’esso maturato dopo il ’53 un proprio disegno per il condizionamento politico ed elettorale della maggioranza governativa. Il riferimento ad esso è tanto più opportuno poiché serve a restituire un’impressione della cultura politica del padronato nel periodo in cui prese forza l’eresia capitalistica di Olivetti. Dopo il passaggio di mano dal « cattolico » Costa al « laico » De Micheli e la crisi del rapporto organico intercorso tra la De e gli industriali durante la prima legislatura, la Confindustria, per volontà del nuovo presidente, elaborò una strategia di intervento politico sfociata poi nella Confintesa20. L’obiettivo di condizionare da destra il quadro politico nazionale attraverso l’alleanza ratificata tra Confindustria, Confagricoltura e Confcommercio all’insegna dell’egemonia degli industriali, era sottesa nella spiegazione del carattere della Confintesa che De Micheli forniva nell’imminenza delle elezioni politiche del ’58: « Gli interessi che si vogliono definire particolari, rappresentati dalla Confintesa, riguardano agricoltori, commercianti, industriali, artigiani, armatori, trasportatori, professionisti e artisti, agenti di cambio, proprietari di fabbricati: sono quelli quindi di molti milioni di italiani che hanno lo stesso diritto di esprimersi sul piano nazionale di quanto ne hanno le varie confederazioni e unioni dei lavoratori ». Muovendo da questi presupposti, la Confintesa non poteva che configurarsi come una cieca e rozza difesa degli interessi del blocco borghese: « Con questo atto interconfederale — proseguiva De Micheli — i rappresentanti delle organizzazioni economiche si sono proposti di contemperare gli interessi talvolta contrastanti delle categorie allo stesso modo che tale funzione utilmente si esercita in seno ad ogni grande organizzazione sindacale o economica [...] »21.
Da un altro punto di vista, la linea di Valletta alla Fiat era paga di subordinare e di ricondurre al proprio blocco di potere urbano tutte le forze sociali interne alla fabbrica e presenti nella stratificazione dei ceti operata dalla città industriale; essa si teneva discosta da ogni velleità riformatrice e si accontentava di propagandare l’elevamento del tenore di vita degli operai e degli strati sociali a contatto del complesso
20 Cfr. G. Pirzio Ammassati, La politica della Confindustria, Napoli, 1976, pp. 67 s8g- . . . . .
21 Discorso pronunciato da A. De Micheli all’assemblea generale dei delegati delle associazioni aderenti alla Confindustria il 26 febbraio 1958, in Confederazione generale dell’Industria italiana, Annuario 1958, Roma, luglio 1958, p. 336.



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torinese22. Con simili premesse, si comprende come mai si sia scorto a volte nel movimento di Olivetti il disegno politico più raffinato del neocapitalismo, rintracciando in esso i lineamenti di un’organica proposta di alleanza tra lavoro, capitale e intellettuali « moderni », già collocati nell’ambito di una divisione del lavoro avanzata, contro l’arretratezza o, addirittura, la rendita di cui era costellata la società italiana23. L’interpretazione è forzata: non perché siano del tutto assenti dall’esperimento olivettiano accenni che ne autorizzino un’interpretazione condotta su questa falsariga, ma perché esso ebbe ambizioni di gran lunga maggiori. Si potrebbe dire che esso fosse caratterizzato da una volontà più complessiva e, insieme, più ingenua: più complessiva perché aspirava ad associare stabilmente le forze sociali avanzate espresse dalla società industriale e perciò giudicava necessario non solo abolire quelle che si sarebbero poi dette le « rendite parassitane», ma ridurre gli stessi profitti — quei « superprofitti », frutto della situazione politica degli anni cinquanta, che esaltavano la distanza tra le classi sociali. Più ingenua, poiché in fondo teneva ferma un’immagine dell’impresa, come produttrice ed erogatrice di ricchezza, che, sottolineandone solamente la funzione dinamica e di modernizzazione, appare oggi inequivocabilmente connessa alla coscienza che l’epoca del « miracolo economico » aveva di se stessa.
Ma è fuor di dubbio che ciò a cui Comunità essenzialmente tendeva era un’esperienza di collaborazione duratura tra i momenti più risolutamente innovatori del capitalismo industriale italiano e un settore non minoritario del movimento operaio. La politica delle riforme che Comunità richiedeva sottintendeva l’ipotesi di una collaborazione di lungo periodo col movimento sindacale — che a sua volta, coerentemente con l’assunto di partenza, si sarebbe dovuto riformare nelle sue articolazioni di base — e un’alleanza salda, non episodica, tra le forze sociali e culturali più vive. Era il disegno di un riformismo industriale che aveva l’audacia di puntare all’aggregazione sui suoi obiettivi di una base sociale che il riformismo in Italia non aveva avuto, e di contare per l’adempimento del suo programma sulla spinta dal basso che solo quella base avrebbe pot-tuto esprimere. Il primo programma di centro-sinistra, quello che non avrebbe mai visto la propria realizzazione essendo stato convertito anzitempo in una grande operazione di trasformismo e di stabilizzazione politica24, sarebbe stato debitore del riformismo olivettiano, aggressivo e anticipatore. Come è stato riconosciuto fin dalla prima metà degli anni sessanta da uno stretto collaboratore di Olivetti, « l’analogia tra il pro-
22 Cfr. V. Castronovo, Il Piemonte, cit., pp. 638-646 e S. Chiamparino, Le ristrutturazioni industriali, in Problemi del movimento sindacale in Italia, « Annali della Fondazione Feltrinelli, a. XVI (1974-75), pp. 469-494.
23 Anticipando cosi la linea che avrebbe seguito la Gonfindustria nei primi anni settanta. Cfr. G. Pirzio Ammassari, op. cit., pp. 176 sgg. e G. Provasi, Borghesia industriale e Democrazia cristiana, Bari, 1976, pp. 257 sgg.
24 Cfr. G. Provasi, op. cit., pp. 175 sgg.



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gramma politico di Comunità e il programma del centro-sinistra è storicamente ineccepibile [..J»25.
La differenza tra i due programmi però è che quello di Comunità fu elaborato ancora nel pieno della crisi politica e culturale degli anni cinquanta, allorché era nebulosa la prospettiva del superamento del centrismo, e aveva una notevole lucidità circa gli strumenti che per realizzarlo dovevano essere approntati. Un’ulteriore differenza è che l’ideologia comunitaria trovò un’applicazione su scala ridotta nella politica, inevitabilmente aziendale, che la Società Olivetti sviluppò nel periodo della propria crescita maggiore. Dunque, il programma comunitario ebbe un certo riscontro nelle attività sociali consentite dalla potenza economica dell’Olivetti e su di esse può essere parzialmente verificato. Ed è in particolare nelle sfere della fabbrica e della politica del lavoro, della pianificazione del territorio e dell’economia, della politica della cultura e del lavoro intellettuale, che si può rintracciare l’anticipazione di Comunità rispetto alla problematica delle riforme emersa alcuni anni più tardi in pieno rilievo. A questi temi bisogna rifarsi per un’analisi dell’attività politica di Olivetti e del Movimento Comunità che non si arresti alle vicende elettorali in cui furono coinvolti, ma ne possa valutare l’influenza sul dibattito sulle « riforme di struttura » che avrebbe impegnato i partiti nel decennio seguente.
II. La Comunità di Fabbrica tra Taylor e Friedmann
Non c’è scritto di Olivetti in cui a definire la fabbrica non compaiano i termini congiunti di lavoro, cultura, democrazia26. L’immagine stessa di una fabbrica riformata e socializzata — nell’accezione specifica con cui Olivetti usava quest’espressione — sembra anzi costituirsi come una risultante della combinazione dei tre elementi. Era una combinazione cosciente, da perseguire in una misura che travalicava la possibilità di un accostamento casuale quale poteva derivare dalla semplice specializzazione del processo produttivo. D’altro canto, l’esigenza della democratizzazione rinviava inevitabilmente ai problemi della gestione sociale esterna alla fabbrica, come momento di un processo riformatore che non poteva essere confinato nella sfera produttiva e trovava le proprie ragioni essenzialmente nell’organizzazione più generale della società.
La democrazia in fabbrica non era del resto rimandata a una fase ulteriore di sviluppo sociale: come ogni altra teorizzazione comunitaria anche questa ebbe nel Canavese il proprio banco di prova e nella Società Olivetti il proprio laboratorio sociale. L’affermazione del metodo democra-
25 Cosi G. Pampaioni, in una lettera pubblicata in « Comunità », a. XVII, n. 120, giugno-luglio 1964, p. 100.
26 Cfr. p. es. A. Olivetti, L'industria nell'ordine delle comunità, in Società stato comunità, cit., pp. 41-55.



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tico rispondeva immediatamente alla necessità di qualificare la responsabilità sociale dell’impresa, che doveva divenire uno degli esempi concreti delle realizzazioni comunitarie, e rappresentare la sua caratteristica di alternativa ai metodi vigenti del capitalismo italiano. Negli anni cinquanta ciò non poteva che tradursi nel rifiuto del modello Fiat e dei tratti più autoritari e coercitivi dell’aziendalismo vallettiano, e, in positivo, nell’accettazione a che la Costituzione entrasse in fabbrica, che i diritti del « cittadino », in attesa di svilupparsi in quelli del « produttore », non vedessero cancellata la loro validità di fronte ai cancelli della fabbrica.
Dal punto di vista pratico, l’adesione ai princìpi costituzionali significava che intorno alle organizzazioni di classe non doveva essere steso un cordone sanitario e che la libertà sindacale e politica non doveva essere posta in discussione. « [...] Voglio ricordare — diceva Olivetti in un discorso tenuto agli operai di Ivrea alla fine del 1955, anno della sconfitta della Fiom alla Fiat — come in questa fabbrica in questi anni, non abbiamo mai chiesto a nessuno a quale fede religiosa credesse, in quale partito militasse o ancora da quale regione d’Italia egli e la sua famiglia provenissero »27. Così venne da principio accantonata la via di impedire l’agibilità politica della fabbrica agli organizzatori della Cgil, la cui federazione metalmeccanica conservò per vari anni la maggioranza in commissione interna. A base di questo atteggiamento giocava anche la convinzione — già espressa nelle dichiarazioni rilasciate ai settimanali americani — che non fosse mediante dei mezzi repressivi che si poteva svuotare il sindacalismo di classe: fino a quando la Cgil avesse conservato una rappresentatività effettiva della forza-lavoro essa doveva essere riconosciuta come controparte, a costo di privilegiarla rispetto al sindacato cattolico, la cui matrice scissionista veniva giudicata da Olivetti come un forte limite alle sue possibilità di crescita. Insomma, dietro la formula della « Costituzione in fabbrica »28 stava la volontà, oltretutto estremamente realistica, di tenere aperto il confronto col movimento operaio cosi com'era, fino a che non si fossero prodotte nel suo tessuto organizzativo delle modificazioni che certo non potevano verificarsi a partire da una stabilizzazione autoritaria delle relazioni industriali.
Ma questo non pareva a Olivetti che il programma minimo e transitorio dello sviluppo della democrazia, dal momento che non era altro se non l’applicazione di princìpi già sanciti ufficialmente e che solo l’asprezza dei tempi poteva aver fatto mettere da parte. Per quanto concerneva l’estensione della democrazia, si trattava invece di dare vita a esperimenti arditi che dovevano giungere a spezzare, là dove era necessario,
27 A. Olivetti, Ai lavoratori di Ivrea (sei anni di vita della fabbrica), (1955) in Città dell’uomo, cit., p. 177.
28 Si veda l’inchiesta sulla Libertà in fabbrica (opinioni dei sindacalisti sulla legittimazione delle rappresentanze sindacali) promossa da « La via del Piemonte » nei numeri del 23 e 30 novembre 1957.



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l’assetto presente degli istituti proprietari. La democrazia non poteva quindi che completarsi in democrazia industriale, in riconoscimento di un intero e coerente sistema dei diritti dei « produttori ». Il discrimine era costituito in questo caso dall’assoluta certezza nutrita da Olivetti che la forma istituzionale della proprietà affermatasi col primo capitalismo fosse storicamente superata e inevitabilmente condannata a declinare. Era una convinzione espressa con toni che riecheggiavano da vicino le pagine dedicate al declino del capitalismo tradizionale dallo Schumpeter di Capitalismo socialismo democrazia, tradotto proprio in quegli anni dalle Edizioni di Comunità29. La critica era perciò rivolta al capitalismo « dinastico », alla contraddizione tra l’espansione delle imprese e gli istituti che ne regolavano l’assetto proprietario, tra le ingenti forze sociali scatenate dallo sviluppo capitalistico e la limitatezza delle forme di controllo e di corresponsabilizzazione previste dalle istituzioni capitalistiche. Se, come è stato osservato, la storia di Adriano Olivetti si situa sullo sfondo del processo di socializzazione delle forze produttive30, va aggiunto che essa è stata anche il continuo tentativo di fornire a tale processo una risposta all’altezza dei tempi, di trovare delle soluzioni che permettessero di armonizzare la mutata struttura della produzione alla dinamica dei rapporti sociali.
La democrazia industriale avrebbe consentito il superamento delle contraddizioni, distinguendo una volta per tutte la figura dell’imprenditore da quella del capitalista proprietario e ponendo in risalto l’essenzialità della prima rispetto alla superfluità della seconda. Per questa via, Olivetti era convinto di mettere fine anche alla contraddittorietà implicita nel concetto di « capitale », che veniva ridotto semplicemente a una funzione — la manifestazione dell’imprenditorialità — e vedeva sancito definitivamente il suo divorzio dalla proprietà. La fabbrica di conseguenza avrebbe potuto essere « socializzata », un’espressione con cui Olivetti intendeva designare il passaggio del capitale azionario di essa dai gruppi industriali e finanziari a un consorzio composto da una sorta di consiglio di gestione eletto dalle maestranze e dai dirigenti, dalla Comunità locale, dalla Regione e dall’Università31.
Questo gli pareva l’unico mezzo per garantire la rappresentanza degli interessi di tutti gli agenti sociali che erano stati coinvolti ed avevano finito con l’essere assorbiti dalla logica dello sviluppo delle grandi imprese. Forze del lavoro e del management, territorio e popolazioni ex-agricole, scienza convertitasi in tecnologia di fabbrica, dovevano divenire, da elementi resi funzionali e integrati nel meccanismo di crescita del-
29 Cfr. J. A. Schumpeter, Capitalismo socialismo democrazia, Milano, 1954, particolarmente pp. 385-394.
30 Cfr. A. Restucci, La dynastie Olivetti, in Politique industrielle et architecture: le cas Olivetti, (fascicolo speciale de « L’architecture d’aujourd’hui », 1976), p. 2.
31 Cfr. A. Olivetti, L'ordine politico delle comunità, cit., pp. 41 sgg. e Id., L'industria nell'ordine delle comunità, cit.



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l’impresa, componenti dei suoi istituti di gestione. Il contrasto tra forze sociali e sviluppo industriale avrebbe potuto essere composto solo a patto che le prime fossero consapevolmente cooptate nelle sfere decisionali che presiedevano al governo dell’indùstria. La « socializzazione » dell’impresa capitalistica era condizione necessaria al riequilibrio tra industria e territorio, per garantire la democraticità delle istituzioni economiche nell’integrazione con la rappresentatività delle istituzioni politiche locali. Di questo progetto di armonizzazione tra economia e politica la democrazia industriale era dunque solo una parte, ma una parte che era fondamentale per la definizione dell’intero progetto. Il dissidio maggiore e che restava il più difficile da comporre era infatti quello che permaneva tra l’organizzazione dell’industria e il lavoro operaio, secondo la forma con cui Olivetti percepiva il conflitto di classe. La « socializzazione » della fabbrica avrebbe dovuto fornire una risposta prima di tutto a questo problema, dimostrando che la sua soluzione era possibile creando delle forme di cogestione dell’organizzazione di fabbrica da parte dei lavoratori.
È bene precisare che l’interesse di Olivetti per la democrazia industriale non si può confondere con una sua inclinazione per l’autogestione. La democrazia industriale a cui egli pensava rimaneva pur sempre una democrazia « delegata », in cui il diritto che sarebbe stato riconosciuto a tutti i dipendenti dell’impresa — fossero essi impiegati od operai, tecnici o dirigenti — era quello di poter liberamente eleggere i loro rappresentanti nel consiglio di amministrazione, ma non certo quello di dirigere di per se stessi la produzione o di dare vita a forme di « controllo operaio »32.
Quando Olivetti sosteneva che bisognava restituire « dignità di fini » al lavoro operaio33, intendeva dire che al lavoro « in frantumi » tayloriz-zato si doveva attribuire non già la coscienza produttiva dell’operaio di mestiere, che lo sviluppo della tecnologia aveva disperso per sempre, bensì almeno lo scopo a cui era volto, cioè la destinazione che la ricchezza prodotta da quel lavoro avrebbe dovuto avere. Dalla consapevolezza sui fini — di progresso e di sviluppo assieme — che competevano all’industria, il lavoro operaio diviso e parcellizzato avrebbe tratto almeno il senso di avanzamento sociale complessivo a cui erano indirettamente indirizzati i suoi sforzi. Di qui gli operai avrebbero derivato anche l’impulso a migliorare le modalità e le condizioni in cui eseguivano il loro lavoro, quel senso di responsabilità che ne avrebbe aumentato la « dignità ».
Col legame tra lavoro operaio e democrazia si è giunti al nucleo centrale delle riflessioni e degli esperimenti di Olivetti, che cercò di riacco-
32 Utili chiarimenti su questo punto mi sono venuti da una conversazione con l’in-gegner Gino Martinoli, direttore tecnico dell’Olivetti fino al giugno 1946.
33 Cfr. A. Olivetti, Appunti per la storia di una fabbrica, cit., pp. 16-17.



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stare alla figura dell’operaio taylorizzato alcuni dei tratti che avevano composto la coscienza del produttore, che si adoperò per l’« umanizzazione » del lavoro senza che però si dovesse rinunciare a uno stadio progredito dell’organizzazione della produzione. È per questo che il percorso teorico di Olivetti si snoda tra Taylor e Friedmann M, tra la scienza dell'organizzazione industriale e ^ideologia del lavoro 35. Ciò rivela anche che, se egli in quanto manager era di solida cultura americana, come intellettuale guardava a temi ed esperienze tipicamente europee, al laburismo e a Weimar, a G. D. H. Cole e a Rathenau36.
Se il giovane Adriano era tornato entusiasta da Hartford nel 1925 37 e aveva trasformato l’ancor artigianale officina di Ivrea in un laboratorio per l’applicazione scientifica dei metodi tayloristici, mezzo secolo più tardi egli sarebbe stato quasi ossessionato dal problema di ristabilire un qualche contatto positivo tra l’operaio dequalificato, che era in fondo il necessario prodotto del progresso tecnico e del taylorismo, e il suo lavoro. Avrebbe anch’egli avvertito, come era già stato per il padre nei suoi ultimi anni, l’approfondirsi del distacco fisico dagli operai, la difficoltà di ristabilire dei modi di conoscenza dei loro comportamenti e delle loro attitudini che il solo rapporto di scambio tra capitale e lavoro era impotente a fornire.
A fondamento dell’atteggiamento che indusse Olivetti a cercare un rimedio alle conseguenze della frantumazione del lavoro operaio e della sua totale sottomissione al progresso tecnico, c’era certamente una valutazione della perdita della professionalità operaia come perdita di un intero universo di valori, che si condensava in fondo in uno scadimento generale delle relazioni sociali in fabbrica. Inoltre, dietro il processo di astrattizzazione del lavoro egli scorgeva l’assolutizzarsi del valore di scambio come unico tramite con gli operai, una condizione che implicava il venir meno della conoscenza della loro condizione e delle relative possibilità di modificarla.
A questa situazione Olivetti tentò di porre rimedio introducendo nella struttura dell’impresa tutta una serie di meccanismi volti a mutarne la collocazione istituzionale, ad esaltarne la socialità non più soltanto economica bensì anche politica. La modificazione dei caratteri istituzionali
34 Si tenga presente che le Edizioni di Comunità pubblicarono nel 1952 la traduzione degli scritti di Taylor sull’organizzazione scientifica del lavoro e, nel 1955, la traduzione di Dove va il lavoro umano? di G. Friedmann.
35 Sul rapporto tra scienza dell’organizzazione industriale e ideologia del lavoro, cfr. M. Cacciari, La nuova economia di Walther Rathenau, « Democrazia e diritto », a. XVII (1977), n. 2, pp. 347-360.
36 Rathenau in particolare era stato uno dei modelli a cui si era rifatto Olivetti, come fa fede il « Foglio d’informazione », n. 3, 15 aprile 1958, del Movimento Comunità. Sull’ideologia di Rathenau, cfr., oltre a M. Cacciari, art. cit., l’Introduzione di L. Villari a W. Rathenau, Ùeconomia nuova, Torino, 19762.
37 Molto importanti in questo senso le lettere inviate da Olivetti dagli Stati Uniti durante il suo viaggio del 1925, la cui raccolta mi è stata cortesemente messa a disposizione dalla signora Silvia Olivetti Marxer.



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dell’impresa doveva compiersi innanzitutto mediante la creazione di strumenti correttivi all’istituto proprietario, tali da garantire il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione della ricchezza che producevano. Gli organismi comunitari, che hanno reso storicamente così singolare l’immagine dell’Olivetti degli anni cinquanta, e che videro la presenza e la funzione di cogestori dei rappresentanti della forza-lavoro, facevano parte di un piano di socialismo distributivo, un disegno la cui maggiore preoccupazione era di responsabilizzare la forza-lavoro al controllo sull’erogazione in forma di servizi sociali di una quota del profitto realizzato. Si può quindi comprendere la funzione pedagogica del Consiglio di gestione, chiamato ad esercitare la capacità di amministrazione dei lavoratori e destinato a far crescere la loro corresponsabilizzazione nelle sorti dell’azienda, mostrando ad essi concretamente i vantaggi che potevano trarre da una strategia industriale di successo. Se è autentico il carattere di eccezionalità che ebbe il Consiglio di gestione all’Olivetti — scomparso solo alla fine degli anni sessanta — in una società dalla quale la restaurazione padronale si era preoccupata di far scomparire ogni traccia degli istituti di rappresentanza operaia dell’immediato dopoguerra, bisogna però sottolineare che dei compiti originari dei Consigli di gestione esso non ne rivestì mai propriamente alcuno. Infatti il suo ruolo era di amministrare i fondi che l’azienda destinava ai servizi sociali, fondi che furono — soprattutto per quei tempi — senz’altro ingenti, ma che erano il risultato di scelte produttive di cui era responsabile la sola Direzione aziendale.
Alla medesima logica distributiva si ispirava pure il progetto piu ardito a cui Olivetti pensò per realizzare una forma piena di cogestione della fabbrica, e cioè quel piano di partecipazione agli utili (secondo cui una cifra pari al 60 per cento dei dividendi distribuiti agli azionisti doveva andare ogni anno, divisa in parti uguali, a tutti i dipendenti dell’Olivetti) che sarebbe stato tra le cause della sua estromissione dalla carica di amministratore delegato della Società nell’autunno del 1958 M. Mezzi come questo avrebbero dovuto rendere evidente agli occhi degli operai la validità della loro collaborazione allo sviluppo industriale, della stessa accettazione temporanea dell’organizzazione tecnica dell’impresa capitalistica moderna.
Se dunque il taylorismo rimaneva, almeno in quella fase, una necessità tecnica che non poteva essere eliminata fino a quando lo sviluppo ulteriore della tecnologia non lo avesse permesso, non per questo — cercò di dimostrare Olivetti — era preclusa al lavoro operaio, per quanto diviso e frantumato, una funzione dirigente. Al contrario, nella possibilità di fare acquisire al lavoro un grado superiore di conoscenza dei fini dello sviluppo industriale nel suo complesso, della sua direzione di marcia in generale, stava in pratica l’unica via di salvaguardia della civiltà che aveva
33 Sul piano di partecipazione agli utili e la sua effettiva applicazione, cfr. « Comunità di Fabbrica », a. IV, n. 15, 22 luglio 1958.



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avuto avvìo dall’industrializzazione. Se il livellamento delle mansioni produttive aveva ridotto il livello di conoscenza degli operai, si trattava di sviluppare nella forza-lavoro un processo di riappropriazione delle nozioni sugli esiti e gli scopi del ciclo produttivo. Questo processo avrebbe potuto tramutarsi col tempo in adesione consapevole alle ragioni dell’industria e nella capacità di partecipare al suo orientamento verso obiettivi di progresso sociale.
A questo proposito, è importante ricordare la predilezione di Olivetti per le tendenze razionaliste nell’architettura industriale39, poiché anche le strutture fisiche della fabbrica dovevano rivelare visibilmente la centralità del lavoro produttivo e mostrare quanto più era possibile le fasi del processo di produzione, aprendole alla ricomposizione della conoscenza della fabbrica da parte del lavoro.
Il fine estetico che l’architettura industriale doveva perseguire appariva strettamente correlato all’intento della restituzione della dignità, culturale e civile, alla manualità del lavoro. Così di fatto finiva con l’essere postulata l’identità di lavoro e cultura, di produzione di manufatti e di produzione di sempre nuovi e più elevati livelli di conoscenza. La transitorietà dei metodi di controllo e di direzione della forza-lavoro era il corollario che discendeva da questa concezione: l’intento pedagogico con cui si guardava al superamento della subalternità culturale del lavoro produttivo sottintendeva la speranza della futura introiezione, dal lato della forza-lavoro, delle regole di disciplina che la produzione richiedeva, sicché il superamento del taylorismo sarebbe stato attuato anche mediante l’autocontrollo e l’autodisciplina del lavoro.
In questo modo, l’iniziale passione di Olivetti per le teorie dell’organizzazione industriale, per la « tecnica e l’organizzazione » ^ si era potuta via via stemperare in un’ideologia del lavoro che ad esso riconosceva un’indiscussa centralità e il ruolo preponderante nella destinazione sociale degli effetti dello sviluppo. Non di rado sembra che nei progetti comunitari riecheggino gli accenti del Piano del lavoro della Cgil, pur in un mutato contesto culturale e politico41.
Naturalmente, alla prospettiva di lungo periodo per il mutamento interno del rapporto di lavoro salariato, si accompagnavano rimedi più spiccioli, che introducevano dei meccanismi di compensazione alla natura non ancora « umanizzata » dell’attività lavorativa. L’arricchimento della forza-lavoro industriale si produceva al presente attraverso la riduzione del-
39 Per una rassegna dell’architettura industriale a Ivrea, cfr. R. Gabetti, Architettura e industria in Piemonte negli ultimi cinquantanni, Torino, 1977, passim.
40 « Tecnica e organizzazione » era il titolo della rivista di organizzazione aziendale edita dall’Olivetti tra il 1937 e il 1958.
41 Sull’ideologia del lavoro nel movimento sindacale italiano, cfr. L. Pennacchi, La concezione del ruolo del sindacato nella Cgil dal patto di Roma alla rottura dell'unità, in Problemi del movimento sindacale, cit., particolarmente pp. 257-286.



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l’orario lavorativo e l’ampliamento della fascia del tempo libero e delle attività ricreative e di formazione.
Anche in questo senso venne ribadito il ruolo di avanguardia dell’Olivetti, che aprì la strada tra il 1955 e il 1957 ai settori di punta del capitalismo italiano attuando le prime riduzioni della settimana lavorativa a parità di salario. Questa misura non poteva che essere complementare all’opera di incentivazione delle iniziative culturali e formative, le quali dovevano essere potenziate in un quadro di industrializzazione avanzata e di arricchimento delle doti di mobilità e di versatilità della forza-lavoro. Non a caso l’Olivetti fu la prima grande azienda a intuire le enormi possibilità formative dei mezzi di comunicazione di massa e della televisione in particolare.
Ovviamente, all’esperimento di agganciare la massa dei lavoratori all’impresa in una prospettiva di collaborazione sociale avanzata non potevano essere estranee forti suggestioni aziendalistiche, che, inevitabilmente in quel contesto industriale, finivano con l’attribuire al comunitarismo della fabbrica di Ivrea alcune colorature corporative. I servizi sociali dell’Olivetti parevano supplire, in un’isola di involontario ma automatico privilegio, alle deficienze delle strutture assistenziali dello Stato, e i non trascurabili vantaggi che erano in grado di procurare alla manodopera avevano una parte non indifferente nella pratica quotidiana di sollecitazione del consenso operaio.
Analogamente, era chiaro che nell’immediato il rimedio offerto alla razionalizzazione spinta del lavoro stava nella garanzia del consolidamento di un’area protetta di alti salari e di relativo benessere, così come nella struttura assistenziale assicurata sul territorio, piuttosto che in un mutamento dell’assetto istituzionale dell’impresa a cui si frapponevano peraltro i rapporti politici dominanti. Lo stesso tema delle Relazioni umane42 era interno a questa ambiguità: esse tendevano infatti alla realizzazione di quel fordismo che, piu che essere un’alternativa allo scientific management, ne costituiva lo sviluppo necessario. Le Relazioni umane, entro il complesso delle relazioni industriali di quel periodo, non potevano non assumere un tono apologetico ed elusivo nei confronti dei problemi della condizione operaia e della trasformazione dei meccanismi della contrattazione 43.
Ma erano, questi ultimi aspetti cui si è fuggevolmente accennato, marginali rispetto al dibattito intorno alla formazione di nuovi strumenti per l’azione sindacale, che fu causa per il Movimento Comunità di continue
42 Per il dibattito sulle Relazioni Umane e la contrattazione sindacale, si vedano gli scritti di F. Ferrarotti raccolti in Sindacato industria società, Torino, 1968. A questi scritti inoltre è indispensabile fare riferimento per cogliere il senso del sindacalismo comunitario.
43 Cfr. F. Momigliano, Economia industriale e teoria dell'impresa, Bologna, 1975, pp. 249-250. Si veda inoltre la voce Relazioni Umane del Dizionario di Sociologia di L. Gallino (Torino, 1978).



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polemiche e di non lieve disagio anche presso gli ambienti politicamente meno ostili ad esso 44. Eppure all’obiettivo della costituzione di un nuovo modello di organizzazione sindacale, largamente influenzato dalla fortuna AeWindustriai unionism durante il New Deal, il movimento attribuì incessantemente un valore determinante per la riuscita della sua esperienza politica. Esso giudicava indispensabile la creazione di un sindacato che anzitutto non fosse — come sarebbe stato il Sida alla Fiat — un semplice mezzo di corruzione e di intimidazione della forza-lavoro, ma un reale strumento di rappresentanza dei lavoratori. Un sindacato « autonomo » — autonomo certamente dalle ideologie e dalla linea delle forze del movimento operaio organizzato —, ma capace di contrattare tutti i problemi qualificanti della condizione operaia, con in piu un senso di solidarietà nei confronti dell’impresa industriale e un interesse profondo per la trasformazione della struttura istituzionale di essa45. Insomma, il sindacato — momento integrante e decisivo della « Comunità di fabbrica » — doveva essere il tramite mediante il quale si sarebbe dovuta compiere la « socializzazione » dell’impresa. La sua autonomia dai partiti politici, quindi, non coincideva con una professione di apoliticità. Anzi, ad evitare che apparisse come un sindacato « giallo », esso doveva caratterizzarsi come sindacato « socialista », come sindacato di « tutti i socialisti ». La sua fase costituente non avrebbe perciò potuto svolgersi se non sullo sfondo dell’unificazione socialista, che avrebbe potuto rinsaldare la sua base di classe. Questa è anche la ragione per cui Olivetti, fermo detrattore della Cisl che accusava di essere un sindacato padronale, era attento a valorizzare tutto ciò che di anche minimamente positivo poteva prodursi nella Uil, la cui origine era stata ancor più scissionista di quella della Cisl46. Ma recidere totalmente i legami con le Confederazioni avrebbe causato un ulteriore aggravamento dei sospetti che già pesarono dalla sua fondazione su Comunità di fabbrica-Autonomia aziendale, esasperando l’oggettiva ambiguità che era nelle sue origini. Invece, Autonomia aziendale doveva restare un sindacato che poteva scioperare, se necessario, a fianco della Fiom, per mantenere la credibilità di cui aveva bisogno una organizzazione impegnata nell’elevamento dei salari e per un’azione complessiva di stimolo della crescita industriale.
Difficile dire in quale misura Autonomia aziendale abbia riflettuto, anche nelle sue iniziative formalmente conflittuali verso l’Olivetti, i programmi di azione di Adriano Olivetti, che indubbiamente si servì in alcune situa-
44 Cfr. p. es. F. Patri, L'utopista positivo, « Il Mondo », 15 marzo 1960.
45 II rinvìo è ancora agli scritti di F. Ferrarotti: La protesta operaia, Milano, 1955 e Sindacalismo autonomo, Milano, 1958, ora in Sindacati industria società, cit.
46 II 26 aprile 1957 venne siglato un accordo tra il Movimento Comunità e la Uil, secondo cui quest’ultima si assumeva la rappresentanza nazionale dei gruppi sindacali comunitari. Cfr. « Comunità di Fabbrica », a. Ili, n. 8, 30 aprile 1957. Sullo scissionismo della Uil, cfr. invece I. Barbadoro-C. Daneo, La socialdemocrazia davanti al problema sindacale, «Problemi del Socialismo», a. Ili (1960), n. 1, pp. 24-39.



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zioni del sindacato come di un mezzo di pressione per forzare la mano a una dirigenza aziendale passiva od ostile alla sua volontà di innovazióne. Certo è però che Autonomia aziendale doveva diventare, nelle sue talvolta prevaricanti intenzioni, un sindacato industriale moderno, come poteva concepirlo un Walther Reuther47, capace di collaborazione e di momenti di conflittualità, altamente istituzionalizzato, cosi da potersi fare soggetto portante di un « piano organico » di riforme e di modernizzazione sociale. Nel contempo, se il progetto dell’unificazione socialista avesse potuto procedere, il sindacato sarebbe risultato complementare, nel sociale, alla creazione di una forza politica di alternativa nel sistema politico, dotandola di un’autonoma base di massa tale da esprimere una propria spinta sociale. Cosi Olivetti pensava che si sarebbe potuto spezzare il monopolio congiunto della Cisl, sindacato « governativo », e della Cgil, sindacato di « opposizione ». Ma l’iniziativa sindacale aveva un senso solo in quanto era essa stessa parte di un piano globale, che necessitava della formazione di una pluralità di soggetti sociali e di nuove istituzioni decentrate.
III. La forma politica del piano
Il piano nella proposta politica del Movimento Comunità costituiva il terreno fondamentale per la ricomposizione sul territorio di forze sociali e istituzioni48. Si badi che la pianificazione a cui faceva riferimento Comunità non deve essere identificata con ciò che veniva allora detto « dirigismo economico », cui guardava come al nemico principale una classe dirigente che avrebbe accolto pavidamente o addirittura opposto una fredda indifferenza al pur timidissimo Schema Vanoni. Il «piano» di Comunità era invece la forma stessa dell’agire politico, la dimensione in cui si realizzava la nuova funzione delle istituzioni decentrate, la simbiosi tra meccanismi tecnici e scelte politiche nello spazio delimitato di territori ecologicamente e culturalmente omogenei. Nella globalità che definiva il piano — nel suo intento risolutivo di questioni al contempo economiche, sociali e di assetto istituzionale — stava certo l’effetto della sua derivazione storica dal dibattito del 1945-48 sulla riforma dello Stato, e si rifletteva la genesi post-fascista e post-bellica dell’ideologia comunitaria, con in più l’ansia di utilizzare ai fini del programma riformatore il
47 Sulle affinità tra Olivetti e Reuther, si veda la testimonianza del sindacalista americano in Ricordo di Adriano Olivetti, Milano, 1960, pp. 99-101.
48 Come avrebbe scritto a questo proposito nel 1965 W. Dorigo, « la problematica della pianificazione democratica era in realtà [...] la problematica della trasformazione dello Stato e dei suoi rapporti profondi con la società e la scienza [...] perché implicava [...] un nuovo modo di affrontare il problema del potere, un salto di qualità nell’operare politico [...]». Che cosa resta?, «Comunità», a. XIX, n. 131, agosto 1965, pp. 38-39.



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nuovo slancio dell’apparato produttivo. D’altronde, il privilegiamento del piano come strumento di iniziativa politica si stagliava su un quadro istituzionale che non recava ancora i segni della tendenza al superamento del liberismo dell’epoca della Ricostruzione. Il piano era quindi l’espressione di una scelta conflittuale rispetto agli indirizzi del blocco della classe dirigente, anche se cercava di tener conto dei mutamenti che si stavano profilando all’interno dello schieramento governativo e ne sollecitava una più celere decantazione. Nel medesimo tempo, i contenuti e le metodologie della politica di piano apparivano complessivamente eterogenei alla battaglia politica delle forze di sinistra, che in pratica li avrebbero scoperti solo dopo la svolta del ’56 49. Cosi, su questa come su altre questioni, la politica di Comunità finiva col trovarsi spiazzata tanto nei confronti degli orientamenti governativi, quanto rispetto alla linea dell’opposizione di sinistra. Qui, per inciso, è da ravvisare la causa del carattere tanto spesso pedagogico assunto dal movimento comunitario, la cui preoccupazione maggiore diveniva in tale contesto di incentivare la propria funzione di strumento formativo-culturale sugli strati intellettuali e della popolazione con cui poteva entrare più agevolmente in contatto. Lo stesso ordine di considerazioni era alla base del prevalente interesse di Olivetti per gli organismi di gestione tecnica — è esemplare in questo senso il suo impegno nell’Istituto nazionale dì Urbanistica e nell’Unrra-Casas —, che antepose costantemente alle sedi di dibattito politico. La vocazione gestionale di Comunità nasceva dall’accentuazione degli aspetti di ingegneria sociale, che parevano autorizzare la coniugazione di democrazia ed efficienza, nei processi di controllo delle trasformazioni sociali.
Il « piano organico » a cui guardava Olivetti era il prodotto di un coerente raccordo tra le trasformazioni economiche e la loro dislocazione sul territorio, dell’interazione tra sviluppo economico e riassetto delle risorse ambientali: esso era in una parola la risultante della fusione di economia e urbanistica. A coloro che a tale fusione si opponevano o la ritenevano inattuabile, egli replicava che essa era « armonia tra vita privata e vita pubblica, tra centri di consumo e centri di produzione [...] ». Ma l’istanza della fusione delle due discipline telava in realtà il primato dell’urbanistica, come scienza chiamata a dare forma organizzata alla progettualità dei disegni di trasformazione sociale. Si affrettava ad aggiungere Olivetti: « solo l’urbanistica che si costituisca in dottrina avente una tradizione scientifica di studi ed esperienze, può dare forma a un piano economico » 50. Ciò esplicitava il principio, che avrebbe naturalmente trovato applicazione nella società canavesana, secondo cui l’analisi economica doveva rappresentare l’atto preliminare della politica di piano e indicare ad essa le coor-
49 Cfr. V. Spini, Il dibattito sulla programmazione all'inizio degli anni '60, in Trentanni di politica socialista. Atti del Convegno organizzato dall'Istituto Socialista di Studi Storici, Parma, gennaio 1977, Roma, 1977, pp. 187-225.
50 A. Olivetti, Ostacoli alla pianificazione, in Città dell'uomo, cit., p. 123.



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dinate di sviluppo da seguire, ma il momento gestionale della pianificazione doveva essere demandato agli urbanisti. Ciò è tanto piu comprensibile qualora si consideri che come obiettivo della pianificazione veniva assunto il riequilibrio tra le sfere della produzione e del consumo, e cioè il riequilibrio sul territorio tra gli spazi riservati alle attività produttive e gli spazi residenziali, dal momento che la concentrazione spaziale delle unità produttive e delle forze di lavoro era sempre stata nettamente avversata da Olivetti.
Posto che il valore che la metodologia di piano doveva interiorizzare era il decentramento, la sola forma tecnico-politica in grado di realizzare quel valore era l’urbanistica, i cui fondamenti culturali già avevano contribuito a condurre autonomamente alla valorizzazione del decentramento. La scelta dell’urbanistica e la sua superiorità nei confronti dell’economia derivavano in buona misura per Olivetti dal fatto che questa disciplina era giunta ad esprimere compiutamente i fini che era ora tenuta ad assolvere. L’urbanistica era il soggetto della pianificazione perché da tempo aveva assunto la dimensione progettuale, inerente all’organizzazione ottimale delle risorse, come la forma che le era propria51. La progettualità che l’urbanistica, prima tra le discipline sociali moderne, aveva eretto a suo metodo costitutivo faceva di essa il piu importante veicolo scientifico per l’azione politica. Di nuovo, ricompariva il problema storico della conciliazione della democrazia con l’efficienza, dell’abbinamento della capacità e della potenza della tecnica col consenso sociale. All’urbanistica era delegato il compito di rendere possibili le forme decentrate della democrazia, fino al punto in cui essa si trasformava da metodologia scientifica in strumento di partecipazione politica e momento catalizzatore del consenso. Per converso, non è necessario soffermarsi sul perché, muovendo da questi postulati, la teoria economica non fosse ritenuta idonea a rivestire analoghe funzioni, considerando inoltre che il suo approccio rimaneva saldamente neoclassico.
Quale dovesse essere il rapporto tra il momento dell’analisi sociale e quello progettuale vero e proprio del piano, è messo esemplarmente in luce dalle vicende relative alla definizione del Piano regolatore di Ivrea tra il 1952 e il 1956 52. Dopo le esperienze urbanistiche avviate da Olivetti nell’ultimo scorcio degli anni trenta, l’impresa di dotare Ivrea del piu moderno piano regolatore d’Italia fece sì che intorno ad esso venisse a comporsi un vasto arco di collaborazione interdisciplinare, che nelle intenzioni di chi ci lavorava doveva sfociare in un’innovazione metodologica sostanziale. Di qui l’affermazione della necessità di un’approfondita ricerca sulla struttura produttiva e sociale della città preliminare al lavoro di progettazione degli urbanisti. Finalità dell’analisi economico-sociale era
51 Cfr. M. Tafuri, Progetto e utopia. Architettura e sviluppo capitalistico, Bari, 1973.
52 Cfr. M. Tafuri, Ludovico Quaroni e lo sviluppo dell'architettura moderna in Italia, Milano, 1964, pp. 116-125.



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di decifrare le linee di tendenza lungo le quali si andava dipanando lo sviluppo della società locale, la portata dell’egemonia economica del-FOlivetti, lo stato reale e le possibilità di usufruire delle risorse esistenti: essa doveva insomma fornire uno spettro il più preciso possibile della realtà locale. Una volta posti i prerequisiti informativi che dischiudevano la via al piano, il compito di individuarne gli obiettivi e i valori spettava al lavoro degli urbanisti, che diveniva cosi la sistemazione razionale e l’organizzazione migliore possibile degli elementi dati. Il postulato neoclassico dell’allocazione ottimale delle risorse, ridefinito per il tramite del piano e liberato dalla spontaneità dei meccanismi del mercato, ridiventava perciò operante a un livello più moderno e avanzato. Esso subiva tuttavia una limitazione degna di nota, poiché veniva subordinato all’introduzione degli elementi di socialità che l’urbanistica era giunta a ritrovare. Per contro, l’ipotesi di una trasformazione generale della società attraverso la messa in discussione del rapporto di classe veniva ridimensionata: gli obiettivi del piano dovevano infatti risultare forzatamente compatibili con la struttura di classe già esistente, che poteva essere modificata soltanto attraverso la generalizzazione e l’estensione di forme determinate di consumo53.
La potenza economica della Società Olivetti era, ancora una volta, la condizione di partenza per l’elaborazione del piano; la fabbrica reggeva il peso più grande per l’espropriazione delle aree di uso pubblico e creava la situazione generale di sviluppo che permetteva di progettare una modernizzazione complessiva della città. Questa premessa condizionava implicitamente i meccanismi interni della trasformazione urbana, che non potevano non condurre a una sanzione aperta dell’egemonia della fabbrica. Eppure l’enorme influenza dei fattori economici, inerenti alla crescita della grande impresa, non era sufficiente a rivelare la crisi del ruolo progettuale della cultura urbanistica: al di là infatti della ricorrente affermazione dell’indispensabilità della ricerca economico-sociale, la definizione del piano andò in porto anche se solo una parte delle indagini sociali previste venne ultimata. Ma la verità era che l’urbanistica non aveva soltanto lo scopo di sintetizzare progettualmente e armonizzare le linee di tendenza dello sviluppo, ma conservava al più alto grado la funzione di riplasmare, con la forte tensione utopica che le era insita, le forme e i modi della vita associata in base ai valori che desumeva dalla sua tradizione umanistica54. Proprio per questo però l’urbanistica, che credeva di ricavare dalla sua funzione sociale anche la propria valenza politica, si trovò in contrasto con le istituzioni politiche locali, estranee per definizione a un progetto di rinnovamento che era stato elaborato senza il loro concorso. L’esigenza per il Movimento Comunità di trasfor-
53 Cfr. ibid. Importanti chiarimenti sull’argomento devo anche a una conversazione avuta col professor Quaroni.
54 Su questo aspetto, si rimanda ancora a M. Tafuri, Progetto e utopia, cit., pp. 5-25.



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marsi in struttura politico-amministrativa locale e di scendere dunque sul piano elettorale, venne quasi imposta dal conflitto tra le istanze tecniche e culturali che aveva sollevato e i rapporti politici sanzionati nelle istituzioni locali. La conquista del Comune di Ivrea e di altre trentuno amministrazioni minori del Canavese nel 1956 fu la conseguenza della necessità di superare quel conflitto e di attuare l’auspicata conciliazione tra l’efficienza tecnica e la democrazia politica55.
Ma il capitolo piu interessante degli esperimenti di pianificazione territoriale promossi da Adriano Olivetti nel Canavese è forse da ravvisare nella costituzione, nel 1954, dell’Istituto per il Rinnovamento urbano e rurale (I-Rur), che spezzando i confini eporediesi si preoccupava di orientare lo sviluppo e il riequilibrio di tutta l’area coinvolta dagli effetti dell’espansione dell’Olivetti. L’I-Rur si proponeva statutariamente « di studiare ed effettuare programmi [...] intesi a migliorare le condizioni sociali ed economiche del Canavese, lo standard di vita e il livello culturale della popolazione, in vista soprattutto di dare un contributo al pieno impiego della mano d’opera [...] »56.
La sua connotazione insieme tecnica e politica — in una complementarietà fattasi finalmente operante — era assai più accentuata che negli altri progetti comunitari. Innanzitutto, l’I-Rur sorgeva anche come proiezione dell’opera di formazione culturale che i centri comunitari costituitisi nei villaggi canavesani stavano già svolgendo da anni, e ne rappresentava lo sviluppo sul terreno delle concrete scelte di piano. In secondo luogo, esso non si presentava solo come un’operazione tecnica d’avanguardia che, pur se di alto livello, era sganciata da istanze culturali e da soggetti politici locali, ma si inseriva in una zona in cui la presenza del Movimento Comunità si era evoluta rapidamente, assumendo via via una dichiarata vocazione gestionale e reali responsabilità amministrative. Il centro comunitario, quando ancora non si identificava con l’amministrazione locale, aveva dato impulso all’emergere di esigenze relative alla specializzazione professionale di vari strati della popolazione, sensibilizzandoli all’opportunità di creare degli organismi di supporto tecnico in grado di conferire maggiore incisività alle attività degli enti locali. La Lega dei Comuni del Canavese, fondata nel 1955 ^ con gli strumenti cooperativi che poteva fornire in supporto all’azione degli enti locali, era del resto la premessa politica che garantiva l’attuabilità dei progetti di gestione sociale del territorio e ne verificava la congruenza lungo le fasi di attuazione agli interessi della popolazione locale. Nel comprensorio canavesano, l’iniziativa comunitaria sembrò effettivamente realizzare — negli anni in cui i profitti dell’Olivetti offrirono vasti margini al riformismo comunitario —
55 Sulla politica canavesana di Comunità, cfr. A. Meister, Comunità nel Canavese, Ivrea - Milano, 1957.
56 Ibid., p. 90.
57 Ibid., p. 42.



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momenti di compenetrazione tra democrazia ed efficienza amministrativa, e non fu per un caso che proprio a questo livello vi fosse una tacita non belligeranza col movimento operaio58.
Certo che se intorno alle attività di coordinamento dell’iniziativa intercomunale si dovettero registrare elementi di un successo non episodico della politica comunitaria, va detto che piu limitati furono i risultati raggiunti nell’ambito del riequilibrio tra le attività industriali e agricole del Canavese, specificamente per quanto riguardava il predominio dell’Olivetti sulle altre forme di attività economica. L’obiettivo della simbiosi tra i valori urbani e rurali, tra l’industria e l’agricoltura, venne raggiunta soprattutto nel senso che si riuscì a perpetuare la figura dell’operaio contadino, il quale non risiedeva in agglomerati adiacenti alla fabbrica e continuava a mantenere un rapporto con la campagna, con cui non voleva rescindere i legami. Dal punto di vista invece del raggiungimento dell’equilibrio tra l’occupazione all’Olivetti e le altre occupazioni i risultati furono assai piu scarsi, poiché l’assunzione all’Olivetti rimaneva in quegli anni l’aspirazione della popolazione canavesana, mentre le altre soluzioni non venivano considerate che un ripiego. Esperienze pur ardite nel campo della cooperazione agricola come quella avvenuta a Montalenghe59 erano destinate a consumarsi ben presto, senza poter incidere sul processo di depauperamento delle campagne. La conservazione nel Canavese di un quadro sociale tutto sommato tradizionale, all’interno di un forte movimento di crescita industriale, era legata a una scommessa politica che si reggeva su equilibri molto precari, ed era determinata in ultima analisi dal mantenimento di un rapporto tra l’Olivetti e le altre imprese decentrate promosse dall’I-Rur che poteva essere assicurato solamente dall’iniziativa personale di Adriano Olivetti, essendo il loro processo di auto-npmizzazione dalla grande impresa fondato su tempi lunghi e che comunque ben difficilmente si sarebbe compiuto per intero. Probabilmente, a causa della brevità dell’esperimento, il successo di esso va misurato essenzialmente sul fatto che la grande impresa non rese irriconoscibili né il volto né la composizione demografica del Canavese, anche se spostò inequivocabilmente a proprio favore il piatto sulla bilancia dell’occupazione. Considerata la durata dell’esperienza di Comunità, difficilmente si sarebbe potuto ottenere di piu, se si tiene presente inoltre che l’Olivetti stava divenendo in quel periodo una grande multinazionale e che non poteva di conseguenza, da un lato, aderire per forza di cose alla struttura del mercato internazionale e, dall’altro, rimuovere su scala regionale gli squilibri territoriali prodotti dallo sviluppo capitalistico. Il ruolo centrale giocato dall’impresa nell’accumulazione le impediva, come è stato
58 Cfr. Comunità e la politica di alleanze, « Il Tasto », a. IV, n. 22, 1° dicembre 1955. « Il Tasto » era l’organo dei lavoratori comunisti e socialisti dell’Olivetti.
59 Cfr. A. Meister, op. cit., pp. 31-32.



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osservato, di convertirsi in mezzo per l’emancipazione piena dalle contraddizioni della produzione capitalistica e del mercato60.
È interessante altresì notare come la pianificazione territoriale del Cana-vese avesse recepito temi che erano già stati al centro di una delle più qualificanti iniziative olivettiane nel Mezzogiorno, e cioè l’intervento del-l’Unrra-Casas a Matera all’inizio degli anni cinquanta61. Il progetto del villaggio agricolo della Martella era dominato, secondo un’osservazione che ha avuto parecchi riscontri, dall’intento di attuare una compenetrazione tra valori urbani e civiltà contadina. Su questa problematica veniva poi immessa una strumentazione tecnica che ricalcava quella degli interventi straordinari del New Deal (in particolare la Tennessee Valley Au-thority), in anni però in cui negli Stati Uniti si andava liquidando la cultura economico-sociale e urbanistica del New Deal e in Italia il neorealismo ne tentava il recupero « da sinistra ». Ma nel fascino del tentativo, peraltro ineffettuale, compiuto nel territorio lucano ebbe una parte importante allora la suggestione che derivava dal connettere con tecniche d’avanguardia una cultura anglosassone a delle forme spontanee di democrazia contadina. Anzi, a prescindere dalle ideologie del neorealismo, dalla letteratura di Carlo Levi e di Rocco Scotellaro, non si potrebbero intendere le ragioni politiche dell’intervento a Matera in quelle forme. La scelta stessa della città derivava dalla sua caratterizzazione di « capitale contadina »62, la cui degradazione economica era ritenuta inversamente proporzionale ai contenuti di democrazia di base, spontanea e an-tiistituzionale, presenti da sempre in modo informale nella civiltà contadina meridionale. L’ambizione dell’operazione che si volle tentare — immettere i valori tecnici avanzatissimi espressi dalle aree centrali dello sviluppo sui valori sociali che da sempre si incarnavano nella comunità contadina — era pari soltanto all’assenza di analisi sugli scopi che la riforma agraria attuata dal blocco centrista si prefiggeva. L’errata valutazione dei rapporti politici che fu all’origine dei progetti di sviluppo territoriale della Basilicata avrebbe pesato anche sull’attività politica successiva del Movimento Comunità, condannando all’insuccesso la gran parte delle sue iniziative. Ma essa chiarisce che la regionalità del Movimento era un’opzione profonda, che nasceva dalla negazione e dal disconoscimento della centralizzazione del potere, ed era funzione di una visione del potere che poteva essere solo locale, circoscritta, determinata da relazioni sociali sempre decifrabili immediatamente dall’analisi sociologica e urbanistica. Così i piani di sviluppo erano « regionali » soprattutto rispetto all’assetto del
60 Cfr. M. Fabbri, Le ideologie degli urbanisti nel dopoguerra, Bari, 1975, pp. 50-51.
61 Sull’intervento a Matera, cfr. M. Tafuri, Ludovico Quaroni, cit., pp. 105-116; M. Fabbri, Matera dal sottosviluppo alla nuova città, Matera, 1971, pp. 55-63; A. Restucci, Un réve américain dans le Mezzogiorno, in Politique industrielle et archi-tecture, cit., pp. 42-45. Si veda anche la testimonianza di L. Quaroni, ibid., pp. 46-47.
62 Cfr. R. Musatti, La via del Sud, Milano, 1955; in La via del Sud e altri scritti, Milano, 1970, pp. 23-139.



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potere centrale, volti a erodere la delega di rappresentanza concessa al sistema politico e tesi a far emergere un’aggregazione dal basso del potere che era estranea, ancor prima che alternativa, a quello centralizzato già esistente.
Ciò dà conto dei momenti di contraddizione che indubbiamente furono presenti all’interno dei vari piani di sviluppo del Sud e/o nelle redazioni successive di essi. Il piano di riforma agraria e il recupero della democrazia contadina che definiva l’intervento comunitario a Matera era ben diverso dalla rivendicazione di un piano organico di industrializzazione del Mezzogiorno che, ad appena qualche anno di distanza, Olivetti avrebbe sostenuto appoggiandosi alla creazione del suo nuovo stabilimento di Pozzuoli63. Ad entrambi i piani, tuttavia, erano comuni gli aspetti di modernizzazione della società meridionale pur entro un formale rispetto dei suoi tratti ambientali storicamente radicati.
In vari interventi politici del 1955-56, maturati entro un contesto di attenzione critica verso gli obiettivi proposti dallo Schema Vanoni, Olivetti si rivelò fautore di un’iniziativa industriale nel Sud che fosse squilibrante nei confronti dell’economia e del tessuto sociale meridionali, che fungesse da propulsore di una nuova dinamica dello sviluppo economico capace di abbattere tutte le caratteristiche di arretratezza e stagnazione. Sebbene Olivetti dichiarasse di condividere i fini dello Schema Vanoni, che potevano essere identificati nel raggiungimento della piena occupazione, egli affermava di ritenere inadeguati i parametri di sviluppo che esso aveva previsto. Se era indispensabile che lo Stato procedesse nel Mezzogiorno all’avvio di un ampio programma di opere pubbliche — con un’azione diretta nell’agricoltura, nella costruzione delle infrastrutture e nell’edilizia —, la svolta nell’economia del Sud non si sarebbe però prodotta che con l’inserimento in essa delle grandi imprese. Le grandi imprese avevano dato prova di poter determinare quell’innalzamento del tenore di vita che si traduceva in un forte ampliamento della domanda effettiva e dunque in un ulteriore fattore di crescita industriale. Il problema era perciò di indurre le grandi industrie a programmare i loro investimenti nel Sud, cancellandone cosi il sottosviluppo. Per Olivetti si dovevano rovesciare le indicazioni dello Schema Vanoni, dando luogo a « un’economia dei bisogni, un’economia di alti salari », che sola avrebbe consentito una rapida espansione64. La teorizzazione della politica degli alti salari come moltiplicatore per lo sviluppo di consumi e servizi e per il potenziamento stesso dell’artigianato e della piccola industria era la negazione pratica del vecchio meridionalismo salveminiano, che aveva posto in antitesi la crescita dei salari industriali alla soluzione
63 Lo stabilimento Olivetti di Pozzuoli venne inaugurato nel 1955.
64 Così si esprimeva Olivetti in un discorso pronunciato a Ivrea a conclusione della campagna elettorale per le amministrative il 25 maggio 1956. Il testo del discorso era riportato dalla « Sentinella del Canavese » del 26 maggio 1956.



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della questione meridionale65. Scriveva invece Olivetti: « La politica salariale dovrebbe essere lo strumento numero uno del piano, poiché in una prima fase essa dovrebbe essere rivolta a portare i salari minimi e medi nelle industrie meno progredite al livello di quelli dei gruppi industriali a più alto livello di remunerazione ». E precisava: « La politica dei sindacati e la solidarietà di questi nella marcia del piano è essenziale »66. Accanto agli alti salari dovevano aver posto un’attentissima opera di selezione della manodopera, ispirata anche in questo caso all’utilizzazione ottimale delle risorse umane disponibili, e la stimolazione dell’imprenditorialità con la formazione di moderne scuole di management.
Certo, interventi industriali squilibranti rispetto all’assetto sociale del Mezzogiorno sul genere di quelli proposti non avrebbero potuto innestarsi sulle forme spontanee di democrazia che alcuni comunitari avevano creduto di scorgere nell’arcaica civiltà contadina. Indeterminata restava dunque la conciliazione ideale tra efficienza economica e democrazia di base, dal momento che i tradizionali istituti di partecipazione popolare, ammettendo che potessero essere realmente ritrovati nelle comunità contadine, sarebbero stati necessariamente fagocitati dall’industrializzazione. In questa versione del piano organico del Movimento Comunità per il Sud era tuttavia implicita la sostituzione della democrazia contadina con le nuove élites protagoniste del processo di sviluppo: insieme con le forze del lavoro dei nuovi centri industriali, il ruolo di leadership democratica sarebbe andato alle componenti industriali formatesi attraverso la diffusione di una moderna cultura imprenditoriale. Il rapporto tra la comunità locale e i fini di efficienza propri del processo di sviluppo economico continuava a essere mediato dalle forze della cultura, che qui apparivano — più coerentemente che in altri progetti — integrate nella modernizzazione delle funzioni intellettuali. Ad essere riaffermata, comunque, era l’impossibilità della democrazia industriale — o, meglio, di un’azione di governo dell’economia industriale condotta attraverso la gestione democratica del territorio — senza indurre una trasformazione nell’organizzazione della cultura e uno sviluppo complessivo del lavoro intellettuale.
IV. Lavoro intellettuale e politica della cultura
Un discorso su Adriano Olivetti e la Olivetti degli anni cinquanta non può prescindere da un’analisi dell’immagine culturale che l’impresa riuscì a darsi e della sua indubbia capacità di attrazione sugli intellettuali. Per la prima volta nella storia dell’industria italiana, un’impresa esercitò in forme e modi svariati una sensibile forza di richiamo su sfere estremamente eterogenee della cultura, che precedentemente non avevano mai
65 Si veda a questo proposito l’intervento di F. Compagna in Ricordo di Adriano Olivetti, cit., pp. 60-61.
66 A. Olivetti, Un piano organico, cit., p. 294.



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avvertito la necessità di un contatto o addirittura di un rapporto organico col mondo della produzione industriale. Le cause che concorsero alla nascita di nuove figure di lavoratori intellettuali all’interno della grande fabbrica, determinando uno sviluppo di funzioni sociali che esorbitava dagli schemi usuali dell’organizzazione della cultura, sono intrecciate quasi inscindibilmente alle cause che conferirono al Movimento Comunità una presa su ampi gruppi intellettuali, indifferenti od ostili all’impegno e alla militanza nelle formazioni politiche tradizionali. La ragione di ciò sta in parte nel fatto che la proposta industriale e politica di Olivetti si rivolgeva a figure intellettuali complessivamente diverse da quelle tradizionalmente consolidatesi nella storia dei gruppi intellettuali italiani, e in parte perché, come si è detto, l’« identità politico-culturale [di Adriano Olivetti] non poteva [...] essere dissociata dal suo ruolo di capo d’azienda»67. Questa ambivalenza generò l’incertezza e la perplessità di molti osservatori sulla funzione reale degli intellettuali che si raccoglievano intorno a Olivetti, sia che essi fossero attratti dalle sue doti manageriali che dalle ambizioni politiche del suo movimento. Valga come esempio il giudizio di un attento osservatore politico del neocapitalismo come Raniero Pan-zieri che, mentre definiva secondo un uso corrente gli intellettuali che gravitavano nell’orbita della fabbrica di Ivrea una « corte feudale », ne imputava l’origine alla stratificazione delle funzioni gerarchiche e burocratiche promossa dall’impresa capitalistica moderna68. Giudizi come questo avevano il torto di confondere gli intellettuali che, a prescindere dalla loro appartenenza o meno al Movimento Comunità, erano entrati al-l’Olivetti per svolgervi mansioni specifiche entro gli schemi di divisione del lavoro previsti dall’organizzazione di fabbrica, con quegli altri intellettuali che ebbero modo di compiere opera di promozione culturale sollecitata dall’impresa o da Olivetti in prima persona, e infine con coloro che aderivano al programma politico di Comunità. Va aggiunto però che la confusione non era casuale, in quanto « per molti [intellettuali] l’accesso a un ruolo tecnico o direttivo nella fabbrica fu facilitato da una sosta diplomatica nel Movimento Comunità [...]. Il rapporto del movimento con l’azienda, già ambiguo nelle intenzioni del suo ideatore, era vissuto ancor più ambiguamente dai collaboratori di Olivetti » 69. Se queste considerazioni sono vere, è però altrettanto vero che risulta fuor-viante assumere indistintamente il rapporto stabilitosi, in modalità assai difformi, tra numerosi intellettuali e Olivetti come emblematico del rapporto intercorrente, in un determinato stadio di sviluppo, tra intellettuali e capitale. Le molte valenze di cui il movimento comunitario caricava la
67 Cosi G. Giugni, Critica e rovesciamento dell'assetto contrattuale, in Problemi del movimento sindacale, cit., p. 793.
68 Cfr. R. Panzieri, Relazione sul neocapitalismo, (1961) in La ripresa del marxismo-leninismo in Italia, a cura di D. Lanzardo, Milano, 1972, p. 195.
69 S. Piccone-Stella, Intellettuali e capitale nella società italiana del dopoguerra, Bari, 1972, p. 217.



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cultura organizzata come soggetto politico travalicavano ampiamente i limiti consentiti al solo scopo di aggiornare l’immagine di un’industria e di farla divenire a sua volta produttrice di cultura. Piuttosto, bisogna rilevare che spesso nuove funzioni tecniche del lavoro intellettuale si sovrapponevano a un interesse politico degli intellettuali simile a quello rappresentato dal Movimento Comunità. O meglio, molti dei compiti che Comunità rivendicava alla cultura derivavano da una valutazione politica — da una ideologizzazione, si sarebbe tentati di dire — delle modificazioni che stava subendo la professionalità degli intellettuali. Sarebbe erroneo pertanto sopravvalutare eccessivamente il calcolo opportunistico di molti degli aderenti al Movimento Comunità, senza tenere conto che la loro adesione al programma comunitario era stimolata dal fatto che esso rispecchiava in certa misura nuove ed emergenti valenze professionali del lavoro intellettuale.
La vicenda sociale e politica degli intellettuali olivettiani va inquadrata nel declino delle vecchie funzioni culturali e nell’ascesa di quella figura che Michel Foucault ha efficacemente chiamato « intellettuale specifico »70. La crisi dell’« intellettuale universale », come portatore di valori generali, divenuta completa col secondo dopoguerra, era una constatazione per Olivetti e il Movimento Comunità da cui era necessario muovere, per potere proporre agli intellettuali un nuovo ruolo politico. Un ruolo politico, si badi, che era in tanto contrapposto alle vecchie collocazioni e attitudini degli intellettuali, in quanto partiva dall’esigenza della loro compromissione diretta nella realtà, del loro inserimento attivo in tutti i gangli della vita associata. Mentre in passato l’intellettuale aveva dedotto i termini della propria funzione dal suo distacco dalle attività sociali concrete, ora si trattava di fare in modo che dispiegasse la propria capacità di impegno politico mediante la sua collocazione tecnico-professionale. Gli intellettuali di Comunità erano davvero gli eredi diretti dell’ideologia post-resistenziale dell’impegno, e non concepivano la loro politicità al di fuori da precisi vincoli — di lavoro e di solidarietà — con gli altri soggetti sociali. La politicità dei loro ruoli era effetto della specificità delle loro conoscenze professionali, era la manifestazione sociale di esse. La proposta di aggregazione politica della cultura di cui si fece carico Comunità voleva essere la traduzione sul terreno sociale e istituzionale, in forme di intervento radicalmente differenti da quelle delle altre formazioni politiche, delle loro capacità professionali. Il rifiuto del campo d’azione proprio degli altri raggruppamenti politici era motivato con le ragioni della sua inadeguatezza: gli intellettuali a cui guardava Comunità non potevano ritrovarsi negli ambiti stretti che i partiti molto spesso riservavano ai loro esponenti culturali. Certo non poteva andar bene il ruolo di garante dell’ordine sociale, che il blocco di potere governativo riconosceva a ma-
70 Cfr. M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Torino, 1977, pp. 20-28.



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lapena alla cultura, a intellettuali che nel dopoguerra avevano giocato tutte le carte del loro impegno politico su una scommessa che era, per quanto confuso possa oggi essere giudicato il loro atteggiamento, inerente alla prospettiva della trasformazione della società. Né ad essi, che avevano in larga parte subito il fascino del moralismo azionista, poteva attagliarsi il compito di semplici fiancheggiatori della loro linea politica che spesso le sinistre avevano delegato ai loro uomini di cultura.
La comparsa dell,« intellettuale specifico » in alcune sue importanti determinazioni era strettamente connessa al processo di sviluppo delle scienze sociali, che conoscevano allora una netta opposizione da parte delle tendenze egemoni nella cultura italiana. Le scienze sociali si poterono perciò affermare attraverso la penetrazione interstiziale in alcune articolazioni fondamentali della società italiana, come la sfera della fabbrica e delle relazioni industriali, soltanto mediante il veicolo che venne loro offerto da centri — come la Olivetti o, su un altro versante, la scuola di formazione sindacale di Firenze della Cisl — tutto sommato estranei al circuito di produzione e di distribuzione dei modelli culturali prevalenti. Questa è la causa che rende impossibile, facendo la storia della sociologia in Italia, non affrontare il ruolo che nella sua promozione ebbero la Olivetti e, in certa misura, il Movimento Comunità71. L’audacia delle innovazioni organizzative introdotte dalla fabbrica di Ivrea la spinse a immettere direttamente nei suoi confini la sociologia e la psicologia del lavoro, come proiezione e correzione insieme della scoperta del taylorismo degli anni trenta. La fondazione nel 1955, ad esempio, dell’Ufficio Studi e Ricerche sociologiche dell’Olivetti72 doveva assolvere allo scopo di portare nella fabbrica un’istanza analitica e critica verso l’organizzazione del lavoro, così come pure avrebbe dovuto essere — forse ancora più marcatamente — per il Centro di psicologia73. La sociologia del lavoro avrebbe potuto svolgere, mediante indagini critiche, una funzione di intervento correttivo riguardo ai mutamenti nell’organizzazione del lavoro, che non sarebbero più stati governati solo per il tramite delle tecniche, ma avrebbero rispecchiato i problemi di adattamento umano e sociale dei lavoratori alla produzione, accrescendo gli elementi relativi all’ottimizzazione della condizione lavorativa in un ambito più flessibile rispetto alle possibilità indotte dal progresso tecnico. Il fatto che la sociologia del lavoro all’Olivetti andasse per livello scien-
71 Cfr. G. Massironi, «Americanate », in L. Balbo-G. Chiaretti-G. Massironi, L’inferma scienza. Tre saggi sulla istituzionalizzazione della sociologia in Italia, Bologna, 1975, pp. 15-63. Ma cfr. anche L. Balbo-V. Rieser, La «sinistra» e lo sviluppo della sociologia, «Problemi del Socialismo», a. V (1962), n. 3, pp. 169-193.
72 Cfr. A. Carbonaro, L’impiego istituzionale dei sociologi nella Società Olivetti, in L’industria e i sociologi, a cura di L. Gallino, Milano, 1962, pp. 95-120.
73 Sul Centro di psicologia dell’Olivetti, in attesa di un riesame storico a cui stanno attendendo i suoi attuali responsabili, cfr. gli spunti critici contenuti in R.A. Rozzi, Psicologi e operai. Soggettività e lavoro nell’industria italiana, Milano, 1975, pp. 117-156.



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tifico oltre i limiti aziendali ha finito col farle assumere i tratti omogenei di una scuola, o comunque di una tendenza scientifica radicata, che non è stata di secondaria importanza nella « riscoperta della fabbrica » della seconda metà degli anni cinquanta. Essa ha acquisito un’immagine distinta anche in virtù della parallela divulgazione degli studi di Friedmann e di Touraine e di alcuni aspetti della sociologia americana, immagine che appare legata alla tendenza a desumere i contorni della condizione operaia dallo studio dei livelli tecnologici74. La prova di « disinteresse » e di scientificità esibita dalla sociologia di stampo olivettiano, di contro alle gravi accuse che le venivano mosse per la sua coincidenza con la sconfitta e l’emarginazione del sindacato di classe nelle fabbriche, così come la sua mancata assunzione di fini meramente apologetici e aziendalistici, contribuirono probabilmente a legittimare il programma politicosociale di Comunità agli occhi di molti intellettuali che stavano cominciando ad accostarsi alle scienze sociali. Né si può trascurare che alla metà del decennio 1950-60 — sotto l’urgenza, come si è detto, del rapido deterioramento del quadro sindacale — il marxismo ufficiale del movimento operaio tornava a ribadire la condanna della sociologia in quanto « ideologia dei monopoli » 75.
Il Movimento Comunità, al contrario, oltre a sostenere materialmente la diffusione delle scienze sociali facendo sorgere riviste e centri di studio, pubblicando ricerche e traduzioni, deputava alle scienze sociali un compito formativo e pedagogico nei riguardi dell’azione politica che istituzionalizzava la loro funzione critica e ne sanzionava la natura di discipline « democratiche ». La visione di socialismo istituzionale che sorreggeva il programma comunitario affidava inoltre alla sociologia la disamina del rapporto di potere tra i gruppi sociali e gli istituti economici e politici, dentro e fuori la sfera della produzione, indicando la sua relazione con l’obiettivo qualificante del riequilibrio dell’organizzazione sociale. Col problema del rapporto tra mezzi e fini dell’azione politica e sociale, della congruità del metodo rispetto allo scopo e ai valori perseguiti, veniva rinsaldato il nesso tra socialismo e sociologia in una portata che esorbitava anche dallo spazio politico del Movimento Comunità. Quando le scienze sociali sarebbero state coniugate col marxismo76, entro il dibattito politico sviluppato dal ’56 dalle riviste del « disgelo » e del « revisionismo socialista », l’esperienza olivettiana avrebbe potuto condizionare in senso accentuatamente pragmatico e riformista gli esiti di quel nuovo rapporto. Anzi, il condizionamento iniziale sarebbe stato tale da far sì che quegli elementi di nuova cultura, uscendo dall’Olivetti
74 Cfr. A. Accornero, Operaismo e sindacato, in Aa.Vv., Operaismo e centralità operaia, a cura di F. D’Agostini, Roma, 1978, pp. 32-33.
75 Cfr. Contro le ideologie dei monopoli. Risoluzione della Sezione Culturale del Comitato Centrale del Pei, «l’Unità», 2 agosto 1955.
76 Cfr. L. Gallino-A. Carbonaro, La sociologia tra scienza e politica, (1961), in L. Gallino, Questioni di sociologia, Milano, 19692, pp. 3-21.



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e dai centri comunitari, subissero, si può dire, una dilatazione e un’estensione al campo socialista più tradizionale, senza perdere nessuno dei propri caratteri specifici. E, anche in questo caso, è inutile sottolineare il legame — piuttosto: la dipendenza — della formazione del programma di centro-sinistra dal mutamento di orizzonti intervenuto nel dibattito socialista post-1956. È qui che si misura la validità della scelta olivettiana di non assimilare la sociologia alle ambigue Relazioni umane77 e alle tecniche (autoritarie) del consenso. Sbaglia chi ha visto nell’assegnazione di un ruolo critico alle discipline sociali unicamente il tentativo — riuscito — di cooptare dei possibili oppositori in momenti di gestione sociale del rapporto di produzione; nelle intenzioni di Olivetti doveva trattarsi invece dell’apertura di un ambito di ricerca e di discussione che non poteva che condurre, nel medio periodo, a un incontro tra il movimento operaio e i settori d’avanguardia dell’industria.
Certo, accanto alla crescita di autentiche mansioni lavorative per gli intellettuali di fabbrica stava anche un accorpamento, attorno all’impresa come luogo che produceva e — soprattutto — dispensava ricchezza, di intellettuali tradizionali, responsabili dell’atmosfera « curtense » che era avvertita un po’ da tutti coloro che guardavano all’« immagine » Olivetti. Era questo l’effetto del fascino che promanava dalla potenza economica dell’impresa, del clima di successo industriale che la circondava, e sono comprensibili l’attrazione e l’influenza sulle mode culturali esercitate da un’azienda che, contemporaneamente, era protagonista del boom e faceva mostra di non disprezzare la cultura letteraria. Giustamente è stato scritto che, pure quando gli uffici di pubblicità o di relazioni pubbliche dell’Olivetti si aprivano ai letterati, non si producevano nel loro atteggiamento verso l’industria e il lavoro inserito nelle strutture aziendali reali modificazioni, e molti videro nel contatto con l’organizzazione industriale soltanto un’esperienza o una parentesi nel loro abituale modo di vita. Una parentesi che, è superfluo aggiungere, era considerata di durata limitata, come poteva esserlo un’occasione favorevole78. Per alcuni, addirittura, il fatto che l’Olivetti producesse anche macchine per scrivere, oltre a fornire loro una cospicua fonte di reddito, non era che un accidente tanto banale quanto trascurabile.
Considerazioni analoghe non possono naturalmente essere fatte valere per la presenza attorno alla fabbrica di architetti e urbanisti, comunque si giudichino poi le loro realizzazioni. L’immagine Olivetti era infatti troppo dipendente dal rapporto con lo sviluppo dell’architettura industriale e dalla possibilità di innescare un meccanismo positivo di intreccio tra innovazione industriale e cultura architettonica79 perché non debba essere riconosciuto agli architetti la centralità nell’area del lavoro intel-
77 Cfr. F. Momigliano, Qualche considerazione sui rapporti tra ricercatori sociali e industria, in L'industria e i sociologi, cit., pp. 208-209.
78 Cfr. S. Piccone-Stella, op. cit., pp. 222-223.
79 Cfr. R. Gabetti, op. cit.



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lettuale che Olivetti e il Movimento Comunità avevano già in partenza assegnato loro. Innanzitutto, la centralità della cultura architettonica e urbanistica le derivava dall’essere stata la prima disciplina moderna ad assumere il principio e la forma del piano come propria condizione e regola organizzatrice interna80; poi essa aveva già realizzato per proprio conto l’ipotesi di fusione delle istanze tecniche con i fini di « umanizzazione » della società, di regolazione armonica delle relazioni sociali. Ancora, il recupero delle esperienze culturali più avanzate nel campo, che andavano dal Bauhaus a Frank Lloyd Wright ed erano non a caso intrecciate a gestioni politiche delle istituzioni anch’esse d’avanguardia, avvenuto nell’Italia del dopoguerra, sollecitava gli architetti a rivendicare una parte di soggetto attivo nella trasformazione sociale che sfuggiva, come ha colto acutamente Taf uri81, agli schemi della mobilitazione politica degli intellettuali previsti dai partiti ufficiali. Dagli architetti veniva più forte l’impulso a convertire immediatamente i valori della professionalità in valori sociali e politici, impulso che pareva non necessitare per affermarsi della mediazione della politica tradizionalmente intesa. La professionalità dell’architetto era vista di fatto come una funzione politico-sociale non istituzionalizzata, un ruolo che, muovendo da contenuti e temi tecnico-disciplinari, si universalizzava nell’indicazione di valori politici perché fondati su una etica sociale. Non è difficile a questo punto riconoscere nel principio, su cui si reggeva la proposta di Comunità, della necessità di progettare per sopravvivere come società politicamente organizzata e unitaria, il riflesso del primato detenuto dalla cultura architettonica e urbanistica a causa della sua progettualità. Non diversamente da come era avvenuto nel rapporto tra Rathenau e Peter Behrens, Adriano Olivetti era pronto ad affidare agli architetti che progettavano Ì suoi stabilimenti la missione di perseguire assieme fini estetici e valori di socialità. La coincidenza della finalità estetica con il modello di organizzazione sociale che l’architettura doveva prefigurare rimandava peraltro a una concezione del lavoro intellettuale come lavoro « concreto », produttore prima di tutto di valori d’uso82, che rivela come il processo di definizione sociale dell’intellettuale « tecnico » o « specifico » si trovasse ancora in una fase di transizione, lungi dall’essere attuato. L’ingegneria sociale che continuava ad essere sottesa al progetto architettonico era consegnata a mani la cui presa non era ancora cosi salda come la circostanza avrebbe imposto. Dall’altro lato però, le medesime ragioni facevano sì che la scoperta da parte dell’organizzazione di impresa del lavoro del designer rendesse possibile a questi di riscattare, nascondendola, la natura di merce del prodotto industriale, di cui venivano invece esaltati l’apparenza e il valore d’uso.
80 Cfr. M. Tafuri, Progetto e utopia, cit.
81 M. Tafuri, Ludovico Quaroni, cit., pp. 17-19.
82 Cfr. G. Ciucci, Ivrea òu la communauté des clercs, in Politique industrielle et architecture, cit., p. 8.



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Se non erano pochi i punti di intersezione tra il lavoro intellettuale, concepito come uno dei nuovi fattori portanti della grande impresa, e Vorganizzazione della cultura, che una rete di istituti decentrati doveva provvedere, il Movimento Comunità cercava tuttavia di non farsi fagocitare dalla dimensione aziendalistica. Esso si rendeva conto cioè che non era possibile raccogliere il consenso di ampi strati intellettuali semplicemente cercando di convogliarli in direzione dell’industria, né il movimento era a tal punto industrialista da trascurare modelli culturali e specificità professionali che non erano integrabili nella struttura di azienda. Il progetto comunitario tentava quindi di far leva sui compiti democratici della cultura, e sulla portata che avrebbe avuto il suo concorso alla gestione del mutamento sociale, per aggregare frange eterodosse di intellettuali che avevano creduto di poter svolgere una parte attiva nella promozione sociale del paese dopo la Resistenza, ed erano poi rimaste emarginate dall’irrigidimento dei blocchi politici successivo al 18 aprile ’48. L’ulteriore compressione dei margini di autonomia della cultura e la difficoltà ad esercitare un ruolo che non fosse di semplice organizzazione del consenso, convinsero Comunità a fondare la propria proposta agli intellettuali sulla distinzione tra la politica istituzionale, organizzata dai partiti, e la cultura, nel medesimo tempo in cui si faceva professione di fiducia nei confronti della carica politica spontanea di quest’ultima.
Che questo fosse l’indirizzo preso dalla linea comunitaria fin dall’inizio della sua partecipazione al dibattito politico, è avvertibile dalla dichiarazione di intenti del movimento, che aveva tenuto a distinguere la « politica della cultura » dalla « politica culturale »83. Alla prima espressione, Comunità dava il significato generale secondo cui gli uomini di cultura dovevano intervenire in quanto tali, come soggetti autonomi, nella vita politica; alla seconda attribuiva quello per cui erano lo Stato e le istituzioni politiche ufficiali ad essere soggetto attivo, e la cultura ad essere soggetto passivo, privo di libertà d’azione. Gli intellettuali dovevano al contrario poter svolgere attività sociali nelle istituzioni locali senza dover passare attraverso schemi di partito, ed essendo responsabili della loro azione solo di fronte alla società locale, che era in grado di giudicare la rispondenza o meno di essa ai propri obiettivi di progresso.
La proposta aveva allora un suo fascino, se si pensa che veniva dopo la vicenda del « Politecnico » e le polemiche vittoriniane, dalle quali mostrava di aver tratto qualche indicazione, anche se forniva una risposta estremamente parziale — locale — al problema dell’impegno degli intellettuali 84. Il maggior punto a suo favore, almeno entro l’incerto contesto ideologico dell’epoca, era l’aver assimilato cultura e politica, postulandone l’unificazione pratica. Ma l’unificazione era frutto della ridu-
83 Cfr. Movimento Comunità, Dichiarazione politica, Milano, 1953, p. 28.
84 Per il dibattito su politica e cultura, cfr. A. Asor Rosa, La cultura, in Storia di Italia, cit., voi. IV, t. 2: Dall'Unità a oggi, Torino, 1975, pp. 1596-1604.



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zione della politica a risultato dell’attività culturale, a suo momento di traduzione pratica, senza che fosse chiarito in che modo la « politica della cultura » avrebbe potuto infrangere la situazione di stagnazione che gravava sulla cultura italiana e garantirne la rivitalizzazione. La creazione di un circuito culturale alternativo, locale e regionale, non riusciva a intaccare l’indifferenza delle istituzioni e a reagire su di essa. L’alternativa che Comunità poteva offrire per una politica della cultura e di aggregazione delle forze intellettuali — al di fuori della condizione di potere economico che le poteva assicurare la Olivetti — era costretta in uno spazio forzatamente minoritario.
Minoritari erano anche i gruppi intellettuali a cui Comunità guardava con più interesse, in seguito alla loro autoesclusione dal gioco politico delle formazioni maggiori. Ma la trama di alleanze e di coordinamento che si voleva costituire intendeva ricucire proprio quei soggetti che avevano dovuto soccombere nella lotta con i modelli culturali dominanti, o che erano legati a forze sociali la cui ascesa appariva ancora lenta. Ciò basta a spiegare l’eterogeneità delle ispirazioni e delle matrici culturali che si raccolsero intorno a Comunità, pur senza riconoscersi spesso nella sua impostazione politica originaria. Dagli azionisti delusi per il mancato rinnovamento dello Stato post-resistenziale agli esponenti delle eresie socialiste o delle tendenze « revisionistiche » nella sinistra, fino ai nuclei che praticavano il lavoro sociale e l’impegno sul territorio, si verificò una saldatura informale che spesso era più la manifestazione di un dissenso sulla situazione presente che non il segno dell’individuazione di un terreno di iniziativa comune. D’altro canto, Comunità rifiutava per principio un’identificazione culturale dei propri aderenti, badando più frequentemente a recuperare tendenze politico-sociali a cui delegava un alto valore di testimonianza. Questo era il caso, per esempio, dei piccoli gruppi di ispirazione cristiano-sociale, tendenti a una sorta di laburismo italiano, che furono tra gli interlocutori sistematicamente privilegiati da Olivetti e dal suo movimento.
Gli sforzi fatti per aggregare tutte queste posizioni culturali, sovente assai difformi, sono documentati dalle scelte compiute dalle Edizioni di Comunità, nelle cui pubblicazioni — se è legittimo individuare un filone — il filo conduttore era quello della critica al capitalismo classico e alla sua forma liberale, parallelamente al tema della sua correzione sociale. Con accenti che andavano da Joan Robinson a Schumpeter, dal meridionalismo — come critica degli squilibri territoriali indotti dal capitalismo — alle problematiche dell’abolizione della miseria, Comunità tese a insistere sulle ragioni obiettive che imponevano una regolazione sociale, pianificata, dell’accumulazione capitalistica. Non contraddittoriamente poi, le suggestioni che provenivano da Simone Weil, dal cattolicesimo sociale francese e dai temi di critica del macchinismo servivano a tenere aperto il discorso sulla condizione operaia, interpretata per il tramite del contrasto tra l’uomo e la tecnologia. Infine, per completare



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il quadro di una cultura che si voleva indirizzata al superamento del capitalismo liberale, ecco comparire i temi del federalismo e dell’integrazione sovranazionale, a collegare le trasformazioni della società nazionale ed europea grazie al coordinamento di tanti processi di sviluppo regionale.
Esaminata da vicino, la linea culturale seguita dalle Edizioni di Comunità rivela non tanto un’estrema eterogeneità di interessi, quanto un gusto quasi compiaciuto per le soluzioni eterodosse, al limite dell’eresia e dell’utopia, la cui motivazione essenziale consisteva nella volontà di mantenere un quadro di riferimenti culturali il più possibile flessibile, pronto ad essere modificato e arricchito con l’evolvere dei tempi.
V. La crisi di un’utopia?
La storia dei rapporti del Movimento Comunità col sistema politico coincide con la storia dei tentativi olivettiani di far accettare ai partiti — segnatamente ai partiti socialdemocratico e socialista — almeno degli spezzoni del programma comunitario, di far passare nello Stato per loro tramite i principi della politica del lavoro, del territorio e della cultura che Comunità aveva cercato di prefigurare attraverso le sue iniziative locali. La rifondazione dell’area socialista, per mezzo della sua unificazione, rappresentava cosi per Comunità il momento politico indispensabile per conquistare una base di massa al proprio programma, la cui applicazione si sarebbe poi potuta contrattare da una posizione di forza. Singolarmente la vita del Movimento Comunità, in particolare per il periodo compreso tra il 1956 e il 1958, appare travagliata dalla preoccupazione di stabilire dei collegamenti nazionali, sindacali e politici, e di garantirsi un appoggio al livello centrale delle istituzioni, dopo aver sempre praticato una linea politica eccentrica rispetto ai capisaldi e all’organizzazione del potere politico. Lo spostamento fin dal 1957 della prospettiva dell’unificazione tra Psi e Psdi su tempi lunghi o indeterminati e dunque il conseguente fallimento dei contatti del Movimento Comunità con le direzioni dei due partiti, con cui esso era costretto a trattare tenendo fermo l’obiettivo dell’unificazione socialista anche quando divenne evidente che era stata temporaneamente accantonata, lo spinsero in una condizione di forzato isolamento. La difficoltà di conciliare gli approcci col sistema dei partiti con le proprie realtà ed esperienze locali, che si erano sempre presentate come alternative a quel sistema, precipitarono il movimento in una pratica incertezza sulle sue sorti future e, soprattutto, sulla sua speranza di poter presto incidere sensibilmente sull’indirizzo politico del paese.
Cosi, la decisione olivettiana del ’58 di partecipare autonomamente alla campagna elettorale per le politiche, nonostante il parere contrario pressoché unanime dei suoi collaboratori, sembra un gesto compiuto più che

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altro per uscire da una posizione di stallo e una reazione alla effettiva marginalizzazione politica di Comunità. L’accordo elettorale sancito dal movimento col Partito sardo d’Azione e col Partito dei Contadini doveva essere la replica, da parte di minoranze politiche che riflettevano però situazioni sociali locali, all’impermeabilità alle loro istanze del sistema politico e un’arma di critica alla centralizzazione dei meccanismi di governo che aveva compiuto rapidi passi in avanti in quegli ultimi tempi, in concomitanza alla ristrutturazione organizzativa del partito democristiano. La scelta di partecipare alla battaglia elettorale in quella forma era già in fondo un’accettazione della propria sconfitta sul terreno politico-istituzionale, e assegnava al Movimento Comunità un valore che poteva essere soltanto di presenza culturale e di testimonianza. I modi con cui Olivetti gestì la propria campagna elettorale, privilegiando le argomentazioni tecniche85, di ingegneria sociale, rivelano che la vera dimensione di Comunità continuava ad essere culturale e pedagogica, mentre risultava ingigantita la sua inefficienza in quanto strumento di lotta politica. I centosettantamila voti raccolti per la Camera dal movimento, che permisero l’elezione a deputato del solo Olivetti, non fecero che sancire una sconfitta politica manifesta già al momento della decisione di competere sul terreno elettorale nazionale86.
Con questi presupposti, la breve attività parlamentare di Olivetti non potè che essere molto limitata e di assai scarsa incidenza. Egli si schierò a favore del primo governo Fanfani nel luglio 1958 87, dichiarando di condividerne il programma più che l’assetto ministeriale, e dimostrando soprattutto di voler appoggiare un governo che doveva essere di « apertura a sinistra ». Il programma di Fanfani recava alcune innovazioni di non poco rilievo nei confronti dei governi della legislatura precedente: in materia di politica economica esso prevedeva « una legge sui monopoli, un riordinamento delle competenze rispettive dell’Iri e dell’Eni, l’azionariato operaio nell’azienda pubblica, la concentrazione di tutte le partecipazioni statali in campo elettrico in un unico ente al fine di esercitare una regolarizzazione dei prezzi dell’energia »88. Nella sua dichiarazione di voto, Olivetti, pur rimproverando al governo non lievi deficienze a proposito della definizione « delle strutture e dei criteri metodologici » per l’attuazione del programma, ne accoglieva per buone le intenzioni di rinnovamento, che considerava non preclusive per « un dialogo più aperto con altre forze che rappresenta [va] no politicamente
85 Cfr. R. Zorzi, Ricordo di Adriano Olivetti, in Ricordo di Adriano Olivetti, cit., pp. 32’33-. . . . .
86 La coalizione che faceva capo a Comunità ottenne complessivamente 171.708 voti per la Camera e 142.769 voti per il Senato.
87 II governo Fanfani si reggeva su una coalizione Dc-Psdi e doveva essere una formula di transizione al centro-sinistra. Cfr. G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano e l'apertura a sinistra, cit., pp. 133 sgg.
88 Ibid., p. 140.



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autentiche forze popolari »89. Cosi Olivetti ricordava a Fanfani anche la presa di posizione assunta dal dirigente democristiano a supporto dell’unificazione socialista come prerequisito all’attuazione di un piano di riforme sociali90.
È tuttavia sorprendente notare come Olivetti, che aveva centrato tutto il suo impegno politico sul tema del decentramento del potere statale, non si avvedesse che il programma di Fanfani era l’esplicitazione del processo di compenetrazione tra Stato e partito di maggioranza, tra economia pubblica ed egemonia del partito cattolico, come direttrice lungo cui lo stesso Fanfani aveva diretto la rifondazione organizzativa della De dalla successione di De Gasperi in avanti. Ciò doveva distanziare ancor più la posizione di Olivetti dalla linea dell’opposizione di sinistra: Togliatti infatti attaccò duramente, utilizzando persino alcuni degli argomenti del liberismo classico, la forma spuria di intervento dello Stato nell’economia che si realizzava sotto la direzione fanfaniana, bollandola come « corporativa » e sottolineandone l’artificiosità e la funzionalità alla perpetuazione del potere « clericale »91. Comunque, il governo Fanfani ebbe vita troppo breve perché si possa stabilire se l’intreccio tra macchina statale e potere democristiano, a lungo osteggiato da Comunità in periferia, ripresentandosi ora al vertice delle istituzioni sotto le spoglie di un progetto di modernizzazione sociale, abbia causato delle modificazioni nella politica del movimento. Del resto, il rapido deteriorarsi della politica riformatrice in seguito alla crisi della leadership di Fanfani nella De e alla costituzione di un governo « monocolore » capeggiato da Antonio Segni92 era destinato ad alimentare le perplessità di Olivetti sul senso della sua partecipazione al dibattito politico che si svolgeva in Parlamento. La sua rinuncia al seggio di deputato si trovava adombrata nel discorso in cui, manifestando il suo disorientamento di fronte alle ultime vicende parlamentari, egli annunciò la sua astensione. Dichiarando la sua « perplessità » per l’abbandono della formula di centro-sinistra, Olivetti rese nota la sua volontà di impegnarsi attivamente nell’Unrra-Casas, di cui il governo precedente gli aveva affidato la vicepresidenza93. Questa dichiarazione preludeva al suo abbandono del Parlamento nell’ottobre successivo, e rendeva ancor più inequivocabile la propensione olivettiana per l’azione negli istituti che realizzavano una mediazione tra la politica e l’amministrazione, e la sua insoddisfazione per il dibattito inter-partitico94.
89 A. Olivetti, Per il nostro paese riforme di struttura, « La Sentinella del Cana-vese», 25 luglio 1958.
90 Cfr. G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., pp. 120-122.
91 Cfr. p.t. [P. Togliatti], La sorte di Fanfani, «Rinascita», a. XVI (1959), n. 3, pp. 149-150.
92 Cfr. G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra, cit., pp. 165 sgg.
93 Cfr. Dichiarazione di voto dell’on. Adriano Olivetti, « Comunità », a. XIII, n. 68, marzo 1959, pp. VII-VIII.
94 Su quell’ultima esperienza olivettiana, cfr. G. Pampaioni, Un anno all’Unrra-Casas,



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Ma con l’abbandono del Parlamento, Olivetti si vide costretto a ridimensionare tutta la propria attività politica. Con le difficoltà elettorali del Movimento Comunità era stata infatti messa in discussione, all’interno del consiglio di amministrazione e presso alcuni quadri della dirigenza tecnica dell’azienda, la sua leadership industriale, e Olivetti si trovò a dover fronteggiare un’opposizione che, contrastando la sua collocazione politica e i suoi progetti sociali, era stata rafforzata dalla parziale crisi della sua immagine pubblica. Egli doveva dunque rilanciare se stesso in quanto imprenditore di successo, prima che come ideologo. Ciò volle dire accettare il ridimensionamento delle iniziative comunitarie, imporre una fase di stasi allo sviluppo previsto delle strutture sociali che necessitavano del pieno appoggio dell’azienda, appoggio subordinato al ripristino del pieno potere aziendale di Olivetti. D’altronde, la riduzione delle spese per i servizi sociali deliberata dalla maggioranza del consiglio di amministrazione dell’Olivetti doveva disorientare i comunitari canavesani e incrinare la loro fiducia nella fabbrica come propulsore delle riforme95.
L’operazione Underwood, con cui l’Olivetti subordinò a sé nel 1959 la fabbrica americana a cui essa aveva guardato come a un modello alle sue origini, doveva sigillare la riqualificazione di fronte agli azionisti e agli operatori economici della capacità imprenditoriale di Olivetti e, forse, costituire la premessa per un ulteriore rilancio di Comunità, a cui ben difficilmente egli avrebbe rinunciato. Paradossalmente, la morte improvvisa nel febbraio 1960 sarebbe sopraggiunta quando l’immagine come imprenditore di Adriano Olivetti era ancora al culmine, mentre era tutto sommato offuscata quella, a cui teneva di più, di riformatore sociale illuminato e di organizzatore di cultura. Dopo, nel giro di pochi anni, con la crisi dell’autofinanziamento e un certo vuoto di iniziativa dell’Olivetti, doveva calare, con l’avallo tacito della nuova direzione aziendale, un’ombra di dubbio anche sulla sua abilità di manager. La grave situazione dell’Olivetti venne inoltre portata a giustificazione della progressiva riduzione dei servizi sociali e per il ritiro del sostegno economico agli esperimenti comunitari (emblematico lo smantellamento dell’I-Rur), mentre tutti i programmi sociali di Olivetti vennero dimessi come utopistici. Il Canavese tornava ad assomigliare alle altre aree industriali, pur mantenendo i segni e alcuni degli effetti positivi della pianificazione territoriale che vi era stata attuata. Il mutamento dei modelli di relazioni industriali causato dal grande ciclo di lotte operaie esploso col luglio 1962 si incaricò di cancellare a Ivrea i metodi di gestione dei rapporti di fabbrica che erano stati proposti come innovativi nei cupi anni cinquanta, e fini col fare assumere a molti istituti sociali collaterali all’Oli-vetti un’esclusiva funzione di controllo di classe. A livello nazionale,
«Comunità», a. XIV, n. 82, settembre 1960, pp. 1-7.
95 Cfr. p. es. c. a. [C. Amat], Olivetti... come Lancia?, «Comunità di Fabbrica», a. IV, n. 19, 7 ottobre 1958.



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i governi di centro-sinistra facevano verbalmente propri alcuni degli obiettivi e delle soluzioni del programma olivettiano, mentre in realtà sopprimevano in seguito alla crisi del meccanismo di sviluppo qualsiasi seria intenzione riformatrice. Tutto ciò è parso consegnare al mondo dell’utopia la Comunità di Olivetti che, quando è stata ricordata con qualche benevolenza, lo è stata in virtù di una caratterizzazione innocua, quasi fosse una « città del sole » fondata su un’ingenua e improbabile etica sociale.
È questo un equivoco che non dovrebbe più sussistere: l’utopia di Adriano Olivetti, se è più prossima all’utopia di Walther Rathenau, non ha praticamente nulla in comune col vagheggiamento di un’impossibile comunità ideale. I lineamenti utopici a fondamento del comunitarismo olivettiano, se erano il frutto di una visione spesso non storicizzata dello sviluppo sociale, derivavano da una definizione della razionalità come processo di organizzazione delle forze sociali e di impiego ottimale delle risorse disponibili96. Il rigore geometrico del processo di razionalizzazione sociale aveva bisogno per realizzarsi dell’organicità e della generalità di un piano, la cui natura era necessariamente politica. L’utopia si costituiva dunque in modello esemplare, positivo e concreto, perché concepiva l’organizzazione delle forze produttive e della cultura in funzione dello sviluppo sociale. Di qui un progetto generale di società razionalmente organizzata che ha fatto spesso accostare la Comunità oli-vettiana ai progetti di Owen e del socialismo utopista inglese97, cui si deve il primo programma di riforma della società industriale attraverso la costruzione di modelli armonici di sviluppo sociale. Coerentemente con questi principi, era fondamentale la democraticità del piano, senza la quale sarebbe mancato il decisivo elemento del consenso dei soggetti sociali che dovevano concorrere alla sua realizzazione, svuotando di senso ogni progetto di riforma. Ma la democraticità degli strumenti per la realizzazione del piano presupponeva la ricomposizione dell’unità politica delle forze sociali — l’altrimenti incomprensibile « democrazia senza partiti » di cui parlava Olivetti98 —, conseguenza del superamento dei contrasti tra le esigenze di « umanizzazione » dello sviluppo, la tecnologia, l’obsolescenza delle istituzioni rappresentative classiche. Infine il piano metteva termine al contrasto tra città e campagna mediante l’estensione e l’universalizzazione dei valori urbani a tutta la società, al di fuori della disgregazione sociale che era l’effetto negativo della concentrazione posta in essere dalla città industriale. Da ciò traeva origine la costante valorizzazione del contesto urbano, all’interno di una determinazione
96 Si veda la utile voce Utopia di N. Licciardello, in Stato e politica, a cura di A. Negri, Milano, 1970.
97 Per questo paragone, cfr. da ultimo M. Fabbri, Le ideologie degli urbanisti, cit., pp. 52-53.
98 A. Olivetti, Democrazia senza partiti, in Società stato comunità, cit., pp. 133-174.



587 Olivetti e il Movimento di Comunità
storicamente concreta dell’utopia, che si manifestava in quella forma specifica della politica che era la pianificazione urbanistica.
Questi i tratti che compongono il disegno riformatore olivettiano. Giudicato con gli occhi di oggi, esso non risulta piu utopistico dell’ambizioso piano di integrazione della fabbrica nella società che fu il cardine della strategia di Vailetta. Nessuno potrebbe ora ritenere, dopo la dura lezione degli anni sessanta, il primo meno realistico o più improbabile del secondo: entrambi appartengono a un’epoca ormai chiusa della storia della società italiana di questo dopoguerra. Semmai, sono i progetti olivettiani a parlare, nonostante tutto, un linguaggio più vicino all’attualità: se non altro perché ricordano l’impossibilità di un processo generale di governo delle forze produttive che non sia fondato su un programma di mutamento sociale e istituzionale, in grado di prefigurare un riassetto complessivo dei rapporti di produzione e di potere esistenti.