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Title
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Aspetti della societa' italiana nell'Italia della Restaurazione
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Creator
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Franco Della Peruta
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Date Issued
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1976-04-01
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Is Part Of
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Studi Storici
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volume
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17
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issue
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2
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page start
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27
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page end
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68
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Publisher
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Fondazione Istituto Gramsci
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Storia della follia nell'età classica, Italy, Rizzoli, 1963
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Rights
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Studi Storici © 1976 Fondazione Istituto Gramsci
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Source
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https://web.archive.org/web/20230921182337/https://www.jstor.org/stable/20564422?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoyNiwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjYyNX19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Ada9cf5becd96e8af36e9ffbebed9d40a
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Subject
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surveillance
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discipline
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confinement
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biopower
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normalization
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pathological
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extracted text
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ASPETTI DELLA SOCIETÀ’ ITALIANA NELL’ITALIA DELLA RESTAURAZIONE *
Franco Della Perula
L’esame dei caratteri e dell’andamento di una serie di fenomeni che caratterizzarono in maniera determinante la realtà sociale italiana nei decenni della Restaurazione, mentre conferma il giudizio largamente accettato della estrema crudezza della situazione materiale delle masse popolari, le classi « le più numerose e le più povere », porta a concludere per un aggravamento delle loro condizioni di vita e di lavoro le cui conseguenze si sarebbero proiettate ben oltre la nascita dello Stato unitario: quadro oscuro nel quale si cercherà di individuare, accanto alle persistenze del passato, le spinte alla modificazione e i fattori innovatori. Alcuni elementi di valutazione emergono già dalla cornice generale, ben nota, dell’economia italiana del periodo.
Nell’età della Restaurazione l’Italia si presentava come un paese essenzialmente agricolo, la cui variegata struttura agraria era riconducibile ad alcune tipologie essenziali, quelle cioè della montagna e della collina del Settentrione, della Valle padana, della fascia mezzadrile (Toscana, Umbria, Marche, Emilia-Romagna), del Mezzogiorno. In ciascuna di queste grandi zone, sullo sfondo diseguale del processo di espansione dei rapporti capitalistici, nella prima metà dell’800 operarono in maniera più o meno profonda sollecitazioni al cambiamento dei rapporti sociali delle campagne che basterà richiamare sommariamente.
Cosi nelle montagne e nelle vallate alpine della Lombardia e del Veneto una sovrana risoluzione del 16 aprile 1839 impose la vendita dei beni comunali incolti, che fino ad allora avevano rappresentato — con gli usi civici che su di essi venivano esercitati — « la scorta del fondo privato » del proprietario particellare; e i modi con cui fu condotta l’operazione avvantaggiarono quasi esclusivamente i proprietari più fa-
* Relazione presentata al 47° Congresso di Storia del Risorgimento italiano (Cosenza, settembre 1974). Ringraziamo l’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano per averci consentito la pubblicazione della relazione.
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coltosi e gli speculatori sul legname, deteriorando cosi la condizione del piccolo contadino: « Nelle circostanze attuali — constatava Stefano Jacini, che pure era in linea di principio favorevole all’alienazione — ... il bosco ed il pascolo del Comune rimarranno oggetti di prima necessità per il montanaro, e ciò che non gli verrà accordato per tolleranza, egli sarà costretto a rubarlo » \
Sempre in Lombardia, nella fascia collinare e della pianura asciutta un rincrudimento delle sorti dei contadini fu provocato dal graduale passaggio dalla forma contrattuale della « masseria » a quella del contratto misto di fitto in grano e mezzadria; tale contratto, che spezzava la grande unità lavorativa formata da quattro o cinque famiglie coloniche imparentate tra loro, indebolendone la capacità di resistenza all’introduzione di clausole piu gravose, obbligava il colono a corrispondere al proprietario (un nobile o un borghese) una quota di grano fissa, che poteva essere ottenuta soltanto coltivando a quel cereale una porzione del fondo sempre superiore alla metà, con il che veniva meno quella ripartizione a metà dei prodotti del suolo che aveva invece contraddistinto la masseria, mentre il tendenziale accrescimento della misura del canone in grano rendeva sempre piu dure le condizioni di esistenza dei contadini.
Nella « bassa » padana, intanto, dalle zone risicole del Vercellese e del Novarese fino al delta del fiume si accentuava la penetrazione di elementi capitalistici, con l’allargamento della fascia delle grandi aziende condotte in generale da fittabili, la conseguente espropriazione di mezzadri e coloni e l’accelerazione della formazione di quel bracciantato di massa che negli anni ’70-80 avrebbe fatto il suo ingresso dirompente nella vita politica e sindacale del paese.
Quanto alle regioni mezzadrili dell’Italia centrale, ai vecchi connotati di quell’agricoltura stagnante (staticità produttiva e tecnica, dipendenza personale della famiglia colonica dal padrone in forme di cui offrono significativa testimonianza le « Istruzioni » di Bettino Ricasoli ai suoi coloni2, isolamento e « solitudine » del contadino favorita dall’insedia-
1 S. Jacini, La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia, Milano-Verona, 18573, p. 171.
2 Si vedano ad es. le « Massime imprescrittibili ed essenziali ad ogni colono della Amministrazione », nelle quali si legge tra l’altro: « Saran prese di mira [dall’Am-
ministrazione] quelle famiglie dove i capocci non si dieno premura di fare istruire i loro figliuoli nei doveri della cristiana religione, ove i padri e le madri invece di educare i loro figliuoli al bene ed al lavoro, non li conducono di buon ora al campo... Saranno prese di mira quelle famiglie ove sia il vizia del bestemmiare, ed anche quello di parlare disonestamente e senza educazione, oppure vi sia il vizio e l’uso del giuoco... Saran prese di mira quelle famiglie i di cui individui non va-
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mento poderale, suo indebitamento diffuso) si aggiunsero gli effetti di una situazione demografica caratterizzata da una crescente sovrapopola-zione relativa, primi tra tutti la disoccupazione e la sottooccupazione diffuse e la creazione di uno strato di « pigionali »: fenomeno, quest’ultimo, che non mancava di allarmare gli osservatori toscani, preoccupati che la comparsa di questo nuovo tipo di lavoratore potesse turbare gli equilibri sociali del mondo mezzadrile. Il ceto dei pigionali — osservava nel 1832 Leonida Landucci, una delle voci principali del celebre dibattito sulla mezzadria avviato in quegli anni in Toscana — « riempie queste campagne di miserabili, che vanno accattando di porta in porta, e rubando dai campi i prodotti di pronta consumazione »; e aggiungeva: « Questa classe di pigionali, che ogn’anno viene aumentata da quella parte di mez-zaioli, che non trova, chi loro affidi un podere, se presto non diviene eccedente attribuir devesi alla stessa miseria, che ne distrugge tanto numero »3. E di lì a non molti anni, subito dopo le esperienze del ’47-48, Marco Tabarrini avrebbe scritto a sua volta che quel ceto rappresentava in Toscana « il pauperismo agricolo, fra noi che grazie al Cielo non dobbiamo deplorare, altro che in piccola proporzione, il pauperismo manifatturiero »; ed era il pigionale che « al primo flagello del bisogno... si gettò sui campi dai quali era uscito, non piu come cultore, ma come ladro; tumultuò sui mercati per avere il grano a vii prezzo; chiese elemosina e lavoro colla violenza; e vittima di qualche ciurmatore d’osteria partecipò, forse senza saperlo, a commuovimenti politici »4.
Venendo infine al Mezzogiorno, storici e studiosi della questione meridionale hanno fatto luce piena sulla durezza delle condizioni di esistenza di quelle popolazioni, formate in larga parte di contadini (piccoli proprietari, coloni, braccianti, figure i cui tratti spesso sfumavano e si fondevano) al limite della sussistenza, il cui disagio era stato accentuato dall’eversione della feudalità e dalla vendita dei beni demaniali. L’abolizione del regime feudale portò infatti al rafforzamento della proprietà terriera borghese, senza che però questo comportasse una modificazione sostanziale delle arretrate strutture agrarie e un rinnovamento dei metodi produttivi, che continuarono invece a incentrarsi sulla cerea-
dano vestiti con quella semplicità e risparmio, qual si conviene al contadino » (A. Gotti, Vita di Benino Ricasoli, Firenze, 1894, p. 38; e cfr. anche le istruzioni per gli «ufficiali» della fattoria di Brolio del 1843, ibid., pp. 30 sgg.).
3 L. Landucci, Considerazioni sulla povertà del contado toscano, in « Giornale agrario toscano », Firenze, 1832, pp. 510-511.
4 M. Tabarrini, Sui pigionali di campagna, in « Atti dell’Accademia economico-agra-ria dei Georgofili », Firenze, 1849, pp. 59 e 61.
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licoltura estensiva praticata nel latifondo; quanto all’alienazione dei demani, di essa profittarono prevalentemente e quasi esclusivamente i ricchi proprietari borghesi e nobili, mentre i contadini non soltanto non poterono aumentare in misura sostanziale la loro partecipazione al possesso fondiario, ma dovettero subire le conseguenze negative della rottura del precario equilibrio della loro piccola azienda nella quale una componente non secondaria era stata costituita fino ad allora dagli usi civici sulle terre demaniali. Si apriva cosi quella secolare questione demaniale che, come dirà nel 1879 Giustino Fortunato, avrebbe avvelenato i rapporti sociali nelle campagne meridionali acuendo le tensioni e provocando massicce e subitanee esplosioni: « Ogni moto politico — scriveva il meridionalista lucano — non fu distinto se non dal desiderio della borghesia di aver libere, una buona volta, le mani; e que’ moti, immancabilmente, finirono uno per uno, specialmente nel 1848, tra le grida selvagge delle reazioni sociali de’ contadini »5.
Un altro elemento che contribuì poi ad aggravare la pressione sui contadini di alcune zone del Mezzogiorno fu la generalizzazione dei contratti di miglioria e di godimento che, se favorirono la piantagione di agrumeti in Calabria e di olive ti, vigneti e mandorleti in Puglia, costringevano però il colono a lasciare la terra sulla quale aveva lavorato rendendola produttiva dopo otto, dieci, quindici anni, e lo condannavano alla disoccupazione e alla miseria. Alla scadenza del rapporto, questa l’amara conclusione di una acuta analisi del contratto di godimento pugliese fatta da Carlo De Cesare nel 1859, « l’infelice [colono] diventa più misero di prima; perché ei non ha più gli anni freschi della giovinezza, non più la vigoria d’un tempo, distrutta da dieci o quindici anni di lavoro assiduo, non più il desiderio ardente di lavorare, non più le speranze dell’avvenire. La spossatezza, il disinganno, la miseria s’impossessano di lui, ed ei non è più buono a nulla; è un infelice cui manca il desiderio e la forza di lavorare! »6.
Un altro fenomeno nuovo che nell’ultima fase dell’età della Restaurazione cominciò a interessare plaghe più o meno vaste dell’Italia settentrionale (ma non solo di quella) introducendovi i fermenti di modificazioni che si sarebbero fatte via via più rapide e tumultuose fu quello del-l’« industrialismo », termine con il quale i contemporanei intendevano
5 G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano. Discorsi politici, Bari, 1911, I, p. 84.
6 C. De Cesare, Delle condizioni economiche e morali delle classi agricole nelle tre provincie di Puglia, Napoli, 1859, p. 50.
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l’avanzare di più moderni rapporti di produzione di tipo capitalistico nei settori produttivi manifatturieri e industriali e l’insorgere di quei problemi di natura sociale su alcuni dei quali ci si soffermerà più avanti.
Fatti questi rapidi richiami, si cercherà ora di definire nei loro contorni essenziali — nella maniera approssimativa consentita dallo stato delle ricerche — alcuni dei problemi e dei processi che nel periodo considerato assunsero un rilievo particolare nel tessuto della società italiana e che interessarono più da vicino la vita delle classi popolari. Si tratta di fenomeni a volte vecchi, a volte nuovi, altre volte ancora risultato di una compenetrazione tra vischiosità del passato e spinte alla modificazione, ma tutti comunque rivelatori di quello stato di malessere delle classi lavoratrici e popolari dal quale si sono prese le mosse.
Nel quadro di una vecchia struttura economico-sociale in corso di erosione e caratterizzata dalla ristrettezza dei mercati si collocano le due carestie del 1815-17 e del 1846-47 che marcano l’inizio e là fine dell’arco di tempo qui preso in esame. Nei primissimi anni della Restaurazione una successione di cattivi raccolti portò con sé in buona parte del paese il consueto corteggio di mali tradizionali: il rincaro del prezzo dei grani, l’incetta e le speculazioni su larga scala, l’aumento della disoccupazione, i tumulti popolari e il saccheggio di mercati e forni, l’esasperazione del pauperismo con la conseguente impennata del tasso di mortalità, la fame fisiologica. La documentazione sul fenomeno è larghissima, e le testimonianze relative all’Italia settentrionale insistono concordi sulle drammatiche conseguenze di una alimentazione che per vasti strati delle popolazioni si riduceva spesso alle « erbe selvatiche » o alle ghiande. « La carestia nella primavera del 1815 fu al sommo grado, non cibandosi li poveri agricoltori presso che di sole erbe, mischiate con un poco di crusca », si legge in una cronaca relativa alla Valcamonica7; a sua volta una relazione del parroco di Andreos (Udine) del 6 giugno 1815 informava che la popolazione si cibava di fusti di pannocchie macinati e conditi con erba senza sale e in alcuni casi perfino di sterco8; e un anno più
7 G. A. Guarneri, Avvenimenti in Valcamonica dal 1796 al 1817, in appendice a B. Rizzi, Illustrazione della Valle Camonica, Pisogne, 1870, pp. 253 sgg.
8 G. Monteleone, La carestia del 1816-1817 nelle province venete, estr. da «Archivio veneto », 1969, p. 42. E sempre nell’ambito del Veneto, a proposito della stessa carestia si legge in un’altra fonte: « I montanari soprattutto, a cui era più incommodo e impossibile il trovare chi loro desse da non morire, si davano a mordere l’erba de’ campi, siccome capre, e coll’erba fra’ denti morivano » (A. Cesari, Nelle solenni annue esequie fatte a" benefattori della Casa pia del ricovero di Ve-
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tardi un osservatore annotava da Ancona che « i poveri, che sono la massima parte della popolazione, si nutriscono malamente di ghiande, che pur per disgrazia poche se ne trovano »9. In questo quadro di fame generalizzata si comprende il fiorire di quella letteratura di taglio catechistico-esortatorio che invitava i contadini a dedicarsi alla coltura delle patate, di cui si magnificavano i pregi, o impartiva consigli di dubbia praticabilità sugli accorgimenti da seguire per calmare i morsi della fame: pubblicistica il cui documento più rappresentativo è forse il « Manuale di carità » del medico marchigiano Giuseppe Casagrande che suggeriva, oltre al consumo delle ghiande, delle bucce di agrumi e di meloni seccate, di erbe secche, anche quello delle carni di vipere e serpi, assicurando che « per la sostanza alimentare ogni libra di essi equivale almeno a tre libre di carne »10. E a questi mali ricorrenti le autorità centrali e locali si affannavano a porre qualche insufficiente riparo con i palliativi consuetudinari: divieti di estrazione dei grani, lavori pubblici, potenziamento della carità legale, appello alla carità privata.
Da caratteri analoghi fu caratterizzata la replica del 1846-47, l’ultima grande carestia della storia italiana, nella quale fu però presente una novità di ordine politico, cioè il tentativo di utilizzare strumentalmente la crisi annonaria in funzione liberal-nazionale condotto da gruppi di oppositori ai regimi esistenti in Lombardia, in Romagna e in altre parti del paese 11 : tentativo che fu abbozzato anche in Toscana, dove prevalse però tra i liberali il preoccupato timore per le dimensioni assunte dai movimenti popolari in reazione al caroviveri12.
rona, Verona, 1828, p. 48). Quanto al Piemonte si rimanda a A. Fossati, Orìgini e sviluppi della carestia del 1816-17 negli Stati sardi di terraferma, Torino, 1929.
9 M. Petrocchi, La Restaurazione romana (1815-1823), Firenze, 1943, p. 20.
10 G. Casagrande, Manuale di carità e di pratiche istruzioni ai poveri famelici opportune sempre, ma specialmente nelle circostanze di carestia, Verona, 1816.
11 Per la Lombardia v. F. Della Peruta, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Roma, 19732, pp. 67 sgg. Quanto alla Romagna cfr. ad es. L.C. Farini, Epistolario, I, Bologna, 1911, pp. 629, 634, 653.
12 Si vedano tra l’altro le stampe clandestine intitolate « Toscani! » e « I liberali al popolo italiano » (degli inizi del 1847) edite in G. Montanelli, Memorie sull’Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850, Torino, 1853 2, I, pp. 335-340 e 344345. Un’altra stampa clandestina, datata Borgo a Buggiano, 6 gennaio 1847 e indirizzata « Al popolo », alludendo all’armamento della guardia civica per reprimere i tumulti annonari cosi scriveva: «Gli uomini che tu vedi con le armi, vogliono impedire che si rinnovino le ruberie, e i saccheggi che a tuo nome si sono operati fin qui (mentendo il pretesto di darti del pane) da pochi individui oziosi e ladri: vogliono unicamente tutelare le proprietà dei cittadini ingiustamente manomesse nei fatti accaduti... Che giustizia è la tua? Credi forse o popolo che dallo spoglio della casa del ricco, del magazzino del negoziante, della taberna del venditore, ne venga la tua opulenza? T’inganni, la ricchezza viene dal solo lavoro, se di questo
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Dalle carestie il discorso dovrebbe portarsi sull’alimentazione delle classi popolari, un tema questo al quale gli studi storici italiani hanno finora dedicato una attenzione insufficiente e che costringe a ricorrere ancora a lavori vecchi di più di un secolo come ad esempio quelli relativi al « popolo minuto » di Milano e Napoli. L’analisi, che non è possibile fare qui per la carenza delle ricerche locali e generali, dovrebbe essere assai articolata, e questo non soltanto per la distinzione tra città e campagna, ma anche per la differenziazione di tipi sociali esistente nelle campagne. Assai diverse erano infatti le possibilità alimentari di un bracciante della Valle padana, privo di terra e compensato con un salario in natura e in denaro in generale al disotto delle sue esigenze vitali, rispetto a quelle più elevate di un obbligato della zona della « cascina » della bassa lombarda, al quale spettava il « diritto di zappa », cioè la compartecipazione al prodotto su un piccolo appezzamento che gli permetteva di integrare il salario con un certo quantitativo supplementare di derrate; e differenze, quantitative e qualitative di un qualche rilievo potevano verificarsi tra i mezzi di sussistenza di un mezzadro dell’Italia centrale, che l’aspirazione a ricavare dal podere tutto il necessario alla vita spingeva alla promiscuità delle culture, e il colono meridionale vincolato da un contratto miglioratario, costretto a vivere del ricavato delle stentate culture tra i filari e a fare assai spesso ricorso alle anticipazioni usurarie del proprietario. In linea generale si può comunque affermare che il bilancio nutritivo degli appartenenti alle classi popolari fosse più o meno carente dal punto di vista dell’apporto proteico, vitaminico e calorico, donde una condizione di sottoalimentazione endemica che avrebbe avuto uno dei suoi indici più evidenti, negli anni postunitari, nelle elevate percentuali di non idonei alla leva.
Per dare comunque un’idea sommaria di qualcuno dei regimi alimentari del tempo si può ricordare quello delle popolazioni rurali dell’alto milanese e del comasco come ce lo descrivono gli osservatori coevi. La nota fondamentale era il ruolo del mais, che dominava nei pasti quotidiani del lavoratore rurale. A colazione il contadino consumava un pane misto di granturco, segale e miglio (panificato rudimentalmente in grosse forme che dopo pochi giorni inacidivano e ammuffivano), mangiato da solo o
tu manchi, o popolo, chiedilo legalmente al governo costituito che deve dartelo, ed ha solo i mezzi per dartelo, non spogliare i tuoi concittadini che non possono darti di più di quello che ti danno. Chiedi lavoro, e gli uomini che tu vedi in armi si uniranno alle tue dimande» (Archivio di Stato di Firenze, Buon governo segreto, anno 1847, fascio 48, aff. 303, parte II).
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bagnato in acqua salata e condita con olio di ravizzone o lino. Il pranzo consisteva in una polenta di mais arricchita con fagioli e cavoli e insaporita con olio di semi o lardo accompagnata da una piccola porzione di formaggio; e alla cena si replicava la polenta con un magro companatico. Assolutamente marginale era il consumo delle carni fresche, utilizzate in generale in occasione delle grandi festività religiose. Quanto all’alimentazione dei ceti popolari nelle città lombarde essa somigliava nei suoi tratti essenziali a quella delle campagne, caratterizzata com’era dalla prevalenza di cereali e legumi e dalla scarsità di carne, anche se va detto che a Milano e nei maggiori centri urbani diminuiva nell’apporto nutritivo la parte spettante al mais a vantaggio di altri grani, non escluso il frumento 13.
Ed ecco il pasto-tipo di una famiglia popolare romana nella descrizione che ce ne ha lasciata lo studioso della carità nella capitale pontificia, Carlo Luigi Morichini: « La colazione è un poco di pane, con qualche frutto e formaggio o carne salata. Il pranzo nei giorni ordinarli è minestra col lardo, pane, frutta e formaggio, e per bevanda per lo più l’acqua: la cena un poco d’insalata, pane e vino » 14.
Passando ora ad un altro caso tipico di alimentazione, quella del « popolo minuto » di Napoli, le testimonianze sono pressoché unanimi nel sottolinearne le carenze. Se le paste alimentari comparivano sei giorni su sette nella mensa della famiglie della borghesia, per il lavoratore e l’artigiano quello dei « maccheroni » era un desiderio soddisfatto soltanto nelle festività; lo scarso consumo delle carni si limitava generalmente a quelle dei suini in inverno (nella caratteristica forma del « soffritto ») e degli ovini in primavera-estate, mentre dei bovini il livello dei prezzi rendeva accessibile soltanto le parti di scarso pregio (la trippa o « capezzale»); così pure erano esclusi dal desco dei poveri i pesci, eccezion fatta per il baccalà e le alici salate, mentre invece era relativamente largo il ricorso alla frutta e alla verdura15. Quanto alla razione-standard giornaliera del contadino pugliese essa consisteva, a detta del De Samuele Cagnazzi, in un rotolo e 1/3 di pane, condito con sale e olio e bagnato nell’acqua, accompagnato da verdure cotte e crude, « alimento minore di quello, che aveano gli antichi servi da catena, addetti all’agricoltura »16.
13 Amplius v. F. Della Feruta, Per la storia della società lombarda nell’età della Restaurazione, in « Studi Storici », 1975, pp. 313 sgg.
14 C. L. Morichini, Degli istituti di carità per la sussistenza e l’educazione dei poveri e dei prigionieri in Roma, Roma, 1870, p. 86.
15 Sull’alimentazione del popolo minuto in Napoli, Napoli, 1863, passim.
16 L. De Samuele Cagnazzi, Saggio sulla popolazione del Regno di Napoli ne’ pas-
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E a queste sommarie indicazioni sono infine da aggiungere due notazioni: la prima sulla funzione tradizionalmente svolta dalla castagna nell’alimentazione delle popolazioni di montagna; e la seconda sul ruolo sempre più rilevante che andò assumendo una cultura nuova, quella della patata, che guadagnò progressivamente terreno nei primi decenni dell’800.
In un panorama complessivo delle condizioni di esistenza delle classi popolari un adeguato risalto dovrebbe essere dato ai problemi igienico-sanita-ri, per tanti versi legati a precedenti di un passato più o meno lontano; ma la carenza di lavori preparatori consiglia anche a questo riguardo di tenere l’esposizione entro i limiti di rapidi accenni tematici.
I caratteri delle strutture urbane e la tipologia delle dimore dei ceti subalterni nelle città e nelle campagne tingono il quadro di colori scuri. E si prenda uno dei tanti casi, scelto nel più ricco Settentrione, quello di Brescia; qui si sommavano gli effetti funesti di una serie di elementi quali l’altissima densità di abitanti all’interno della cinta muraria, l’elevato indice di agglomeramento per vano, la strettezza delle strade e la mancanza di spazi liberi, l’umidità e la sporcizia delle vie e delle abitazioni, le disastrose condizioni della rete dei canali nei quali si convogliavano le sostanze di deiezione che contaminavano la falda freatica inquinando pozzi e fontane; donde le punte assai alte della mortalità in connessione con il carattere endemico assunto dal tifo e dalle malattie intestinali17. Quanto alla vicina Milano ancora alla vigilia dell’Unità in numerosi borghi e contrade le case erano « catapecchie... indegne di accogliere gente viva », mentre anche il riassetto delle zone più popolose aveva una contropartita negativa, perché il « martello demolitore » costringeva le famiglie più disagiate ad abbandonare le loro vecchie abitazioni alla ricerca di un tetto più caro 18. Venendo a Genova, la degradazione igienica della città ligure fu oggetto di insistenti deplorazioni di osservatori e studiosi; una testimonianza del 1819 parla della sua « aria umida, tepida e sopraccarica di emanazioni escrementizie di ogni specie », e a sua volta un testo del 1855 lamentava la « stragrande quantità di popolo minuto ridotto ad abitare in ristrettissimi spazii », l’insalubrità delle case, « addossate le une alle altre, umide, mancanti di aria, di luce, di acqua », la sporcizia dei carrugi e dei « piccoli cortiletti che a guisa di pozzi si trovano d’ordinario al cen-
sati tempi e nel presente, Napoli, 1839, parte II, pp. 36-38, cit. in D. Demarco, Il crollo del Regno delle Due Sicilie, I, La struttura sociale, Napoli, 1960, p. 129.
17 F. Della Peruta, Per la storia della società lombarda, cit., p. 332.
18 Ibid., passim.
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tro di quelle altissime case a cui non forniscono che un’aria viziata » e le « esalazioni pestilenziali delle fogne che innumerevoli scorrono sotto il suolo stradale non tutte ben conosciute dalla edilità, neglette od imperfettamente e raramente pulite »19. Una situazione limite era poi quella di Napoli, la città dei fondachi e dei bassi, nelle cui abitazioni « la cucina, il pozzo, il luogo immondo e il letto » erano in una stessa stanza; la città in cui, alla metà dell’800, i canali che convogliavano le acque luride (spesso scoperti) si immettevano in mare attraverso 54 sbocchi tra il porto della Maddalena e Mergellina e in cui circa 5.000 pozzi neri dalla manutenzione primordiale costituivano un perenne tramite di inquinamento. Sempre nella capitale del regno una delle principali fonti di approvvigionamento idrico, il canale di Carmignano, scorreva a cielo aperto nel tratto da Maddaloni a Casalnuovo, ricevendo lungo il percorso le acque di vari torrenti melmosi e servendo tra l’altro ai contadini per la macerazione della canapa20.
Per quel che riguarda le campagne, alla situazione desolante della fertile Lombardia — dove i limitati ammodernamenti delle abitazioni rurali furono dovuti alle premure dei proprietari per l’allevamento dei bachi da seta e dove i contadini continuarono a utilizzare le stalle come principale locale di ritrovo nelle lunghe serate delle stagioni fredde21 — corrispondeva quella dei centri del Mezzogiorno e delle isole, la cui promiscua degradazione fu rivelata al paese da pagine incisive dei primi meridionalisti22. Stando cosi le cose, nel quadro sanitario dell’Italia della Restaurazione predominarono le tinte fosche: componenti di quel quadro erano il tasso elevatissimo della mortalità e la presenza endemica ed epidemica di malattie infettive come la tubercolosi, il tifo e le varie forme tifoidee (incluso quello petecchiale, e basti pensare all’epidemia che infierì in tutta la penisola tra il 1815 e il 1817, e le cui conseguenze furono drasticamente aggravate dalla carestia23), il vaiolo (lungi dall’essere debellato nonostante
19 G. B. Montaldo, La teoria della dissenteria, cit., in « Biblioteca italiana », Milano, 1819, XV, p. 409 e A. M., Società ligure per la costruzione di case pei poveri in Genova, in « Annali universali di statistica », Milano, 1855, CXXHI p. 289.
20 O. Caro, Devoluzione igienica di Napoli, Napoli, 1914, pp. 101-102, e S. De Renzi, Topografia e statistica medica della città di Napoli, Napoli, 1845 4, pp. 306-307.
21 F. Della Feruta, Per la storia della società lombarda, cit., pp. 329-330.
22 Si veda ad es., per la Sicilia, S. Sonnino, I • contadini in Sicilia, Firenze, 1877, pp. 87-88.
23 L’epidemia di tifo petecchiale del 1816-18, che si diffuse in quasi tutta l’Italia, colpì in Lombardia — secondo le statistiche del tempo che sottostimavano il fenomeno — circa 38.000 individui (1’1,7% della popolazione, con punte del 3,09% nella provincia di Cremona); nell’udinese si toccò la percentuale dell’11,8% dei
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ia diffusione della vaccinazione), la difterite, la « grippe », la tubercolosi, il gozzo e il cretinismo (nelle vallate alpine). Tra i vecchi morbi endemici faceva poi spicco la malaria, la cui diffusione —- determinata dalla presenza di vaste plaghe impaludate — fu favorita dai progressi della risicoltura 24. La malaria, al di là della sua impressionante incidenza (ancora alla fine dell’800 circa 19 milioni di italiani erano esposti al rischio del contagio; mentre, per quel che riguarda uno dei casi limite, quello della Maremma toscana, il Salvagnoli-Marchetti in un lavoro del 1844 stimò la percentuale dei malarici nel 54% a Orbetello, nel 59% a Grosseto, nel 66% a Gavorrano, nel 70% a S. Fiora25), continuò ad agire — come è stato scritto di recente dal Bonelli — quale « fattore cumulativo di sottosviluppo » nel Mezzogiorno; essa infatti, respingendo le popolazioni dalla pianura verso le colline e le zone più elevate, provocò il loro sfruttamento irrazionale in funzione di un’economia di autoconsumo, con il conseguente aggravamento del disboscamento e del dissesto idrogeologico.
In questi decenni assunse un rilievo drammatico un fenomeno relativamente nuovo nel triste panorama sanitario italiano, quello della pellagra, il morbo che insinuatosi nel Veneto e in Lombardia tra la fine del ’600 e gli inizi del ’700 prese a propagarsi più rapidamente nella seconda metà del ’700 ed infierì poi endemicamente per tutto il corso dell’800 tra le popolazioni rurali dell’Italia settentrionale. Dopo che intorno alle origini della malattia, divenuta oggetto di studio sistematico nel tardo ’700, ebbero corso le opinioni più fantasiose (l’esposizione ai raggi solari, il clima, i venti, la sporcizia, ecc.), si consolidò progressivamente l’ipotesi che andava nella direzione giusta, quella delle carenze e delle caratteristiche del regime alimentare. Già nel 1779 il medico milanese Gherardini prendeva in considerazione l’alimentazione dei contadini lombardi notando che essi si cibavano quasi esclusivamente di un pane che era il più delle volte fatto con un « impasto di formentone, o grano turco, con segale e con miglio »26 e che sulle loro mense non compariva quasi mai la carne. Pochi anni dopo era la volta di Gaetano Strambio (l’ispiratore
colpiti rispetto alla popolazione; a Livorno ci furono circa 2.000 casi, e a Vasto pare che i malati toccassero i 4/5 della popolazione. Cfr. A. Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850, III, Bologna, 1973, pp. 150 sgg.
24 Cfr. L. Faccini, Uouimin e lavoro in risaia. Il dibattito sulla risicoltura nel ’700 e nell'800, Milano, 1976.
25 A. Salvagnoli-Marchetti, Saggio illustrativo le tavole della statistica medica della Maremma toscana, Firenze, 1844, passim.
26 M. Gherardini, Della pellagra, Milano, 1779, pp. 53-54.
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del pellagrosario di Legnano, che individuò per primo la triplice sintomatologia — cutanea, gastro-intestinale e nervosa — del male) a chiamare in causa in modo più articolato le carenze dell’alimentazione prevalente nell’alta pianura e nella collina del Milanese27. E che alla base del male fossero l’indigenza e l’alimentazione inadeguata era anche la convinzione largamente dominante nelle risposte fornite da un gruppo di medici condotti della Lombardia a un’inchiesta avviata nel 1819: « Dove ha famiglie che si nutrono di buoni, variati e salubri cibi e specialmente carne e in convenevol copia, colà è sconosciuta la pellagra. Essa non segue un andamento topografico, ma lo stato economico dei popoli e delle famiglie: vibra i suoi strali là dove regna la povertà »28. Non è qui il caso di attardarsi sui dati statistici del tempo, infidi e in generale largamente inferiori alla realtà per l’imperfezione delle rilevazioni inficiate dalla ostinata ritrosia dei contadini colpiti dal male a denunciare il loro stato (per cui le statistiche finivano con il tener conto dei soli pellagrosi « conclamati », trascurando i malati nel primo stadio) e, in minor misura, dalla difficoltà di distinguere i pazzi pellagrosi dagli altri. Basterà ricordare che secondo le stime dei delegati nel 1818 i pellagrosi sarebbero stati il 10% della popolazione della terraferma della provincia di Venezia, il 4,5% della popolazione del Vicentino e circa 40.000 nel Trevisano29. E in Lombardia, stando a un’inchiesta del 1830, nei 1253 comuni infetti i pellagrosi erano più di 20.000, pari allT,4% della popolazione, con un massimo del 2,90% nella provincia di Brescia e del 2,28% in quella di Bergamo (qui la statistica dava percentuali dell’11,6 nel distretto di Trescore, dell’8,6 in quello di elusone e del 7,7 in quello di Martiengo ^. Val piuttosto la pena di insistere sulla localizzazione del morbo. Esso colpiva infatti con larghissima prevalenza i contadini delle zone collinari e della pianura asciutta della Lombardia e del Veneto, e cioè le zone dove regnava l’alimentazione maidica, alla quale quelle popolazioni rurali erano costrette dalla miseria e, nel caso della Lombardia, da un regime contrattuale che riservava ai proprietari la produzione del grano, lasciando ai coloni il granturco; e a questi contadini non si poneva se non in piccola misura l’alternativa del riso, ricco di vitamina PP (la miacina, « Pellagra Pre-
27 G. Strambio, De pellagra annus secundus, Milano, 1787, p. 82.
28 Come introduzione alla storia del morbo è ancora utile G. Strambio jr., La pellagra, i pellagrologi e le amministrazioni pubbliche, Milano, 1890.
29 M. Berengo, L'agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica all'Unità, Milano, 1963, pp. 89-92.
30 L. Balardini, Della pellagra, del granoturco quale causa precipua di questa malattia e dei mezzi per arrestarla, Milano, 1845, pp. 132 sgg.
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venting »), che limitava invece i danni della pellagra tra i lavoratori della pianura irrigua, consumatori di quel cereale.
Alla metà degli anni ’30 fece poi la sua comparsa in Italia una epidemia fino ad allora sconosciuta, il colera, che con i suoi effetti devastatori prese il posto della peste, ormai scomparsa31. Il morbo, del quale si ignoravano allora l’agente e il meccanismo diffusivo, tanto che molti medici ne negarono a lungo la contagiosità, dopo aver raggiunto nel 1835 gli Stati sardi di terraferma si propagò nel Lombardo-Veneto e prosegui poi la sua lenta marcia verso il sud, toccando Roma alla metà del ’36 e la Sicilia un anno più tardi. Il terribile male fece sentire la sua presa soprattutto sugli strati più miseri della popolazione, che pagarono il tributo di vite proporzionalmente più alto, in conseguenza dei depressi livelli delle loro condizioni igienico-sanitarie e dalle difficoltà che incontravano a riparare in località meno esposte ai rischi del contagio. E valgano a dare un’idea sommaria alcuni dati indicativi, iniziando dagli Stati sardi. Qui la provincia più colpita fu quella di Bobbio, dove su 28.427 abitanti si ebbero 1.463 casi, di cui 973 mortali (e cioè un caso ogni 19 abitanti, con le punte più elevate a Pietra Gravina, 1 caso ogni 5 abitanti). A spiegazione dell’incidenza dell’epidemia i documenti ufficiali chiamarono giustamente in causa le « pessime » condizioni dell’igiene e dell’alimentazione della popolazione agricola, che favorirono l’« inferocire del morbo » e l’elevato tasso di mortalità. « Le abitazioni campestri, come quelle ancora de’ contadini abitanti nei paesi, — si legge in una relazione medica coeva — sono infelicissime, mal costrutte e non difese dall’intemperie, umide, a cagione delle stalle, a pian terreno, sucide e fumicanti, spesso d’un solo piano ed anguste; sicché sono costretti a giacere molti in luoghi ristretti e bassi, non raro sulle scranne dei focolari, negli ovili, ed anche sullo strame. I contadini, costretti ad alimentarsi di ciò che producono i terreni ove dimorano, vivono di polenta di melica, o di castagne; di pane composto con melica, legumi ed altri cereali ordinari; di minestra per la maggior parte di patate o di rape. Questi cibi si rendono anche più insalubri per essere spesso immaturi, non condizionati a dovere, mal conditi; anche le frutta concorrono ad alimentarli, e per essere selvatiche, e spesso acerbissime formano una sorgente d’innumerevoli incomodi, specialmente per i fanciulli »32. Nella triste graduatoria seguiva la città
31 L’ultima grave epidemia di peste in Italia sembra sia stata quella di Noja (l’odierna Noicattaro), sulla quale v. A. Corradi, op. cit., Ili, pp. 125 sgg.
32 Informazioni statistiche raccolte dalla R. Commissione superiore per gli Stati di S. M. in terraferma. Statistica medica, parte II, Torino, 1849-1852, p. 635, passim.
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di Genova, che su circa 98.000 abitanti noverò più di 4.000 casi, con 2.163 decessi33.
Quanto alla Lombardia, che fu una delle regioni nelle quali il colera fu meglio tenuto sotto controllo, su una popolazione di circa due milioni e mezzo di abitanti ci furono 57.000 casi (1 su 43 abitanti). A Milano, dove una più rigorosa osservanza delle misure sanitarie prescritte dalle autorità favori un decorso relativamente mite dell’epidemia, la proporzione dei colpiti fu di 1 per 103 abitanti, mentre nel comune dei Corpi Santi (che abbracciava una fascia di territorio suburbano concentrica alla città e dove si concentravano lavoratori a basso reddito) la proporzione si elevò a 1 su 40. Nella provincia di Brescia, particolarmente provata, la proporzione fu di 1 a 15, ma nella città (al cui dissesto igienico si è già accennato) si ebbe un coleroso ogni 7,5 abitanti; e anche qui, constatava un medico, « i miserabili correvano più rischi dei ricchi, massimamente quelli che abitavano luoghi sporchi e poco ventilati ». Anche nelle province venete l’incidenza dell’epidemia fu elevata (1 caso ogni 48 abitanti), con punte più elevate in quella di Verona (1 caso ogni 23 abitanti circa) e di Venezia e Vicenza (1 caso ogni 33 abitanti)34.
Alcune cifre assolute (che hanno un valore puramente indicativo, data la scarsa attendibilità delle statistiche del regno delle Due Sicilie) aiutano infine a dare un’idea delle proporzioni assunte dal contagio nel Mezzogiorno, dove l’estrema degradazione delle condizioni igieniche è le carenze delle strutture sanitarie offrivano un terreno particolarmente favorevole alla propagazione dell’epidemia. A Napoli i colpiti dal male furono circa 10.000, e più di 5.000 i morti; ma dimensioni assai più catastrofiche assunse il male in Sicilia, dove nella sola Palermo ci sarebbero stati più di 26.000 casi, mentre nella valle di Palermo i colpiti sarebbero stati oltre 40.00035.
E ai lutti tenevan dietro i fenomeni economici tradizionalmente legati alle grosse epidemie; l’avvilimento del commercio, la disoccupazione di artigiani e operai, il rincaro del costo della vita; a tutto questo si aggiungevano infine le istintive e incontrollate reazioni delle popolazioni urbane
33 Ibid., p. 644.
34 G. Ferrarlo, Riassunto statistico comparativo dei casi del contagioso cholera-morbus asiatico notificati nelle provincie lombarde..., in « Atti dell’Accademia fisio-medico-statistica di Milano», Milano, 1855-1856, pp. 448-449.
35 A. Sansone, Gli avvenimenti del 1837 in Sicilia, Palermo, 1890, passim, e Corradi, op. cit., Ili, pp. 520-521. Quanto a Napoli, un’altra delle città in cui colera infierì con maggior virulenza, si sarebbero avuti circa 22.000 malati e 14.000 morti (ibid., p. 519).
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e rurali, inclini ad attribuire l’insorgere e il propagarsi del contagio all’azione perversa dei medici e piu ancora di quelle autorità che sentivano come proprie nemiche.
Si è già accennato in precedenza a un altro fattore di profonde modificazioni del tessuto economico-sociale, il nascente e progrediente « industrialismo », fenomeno che cominciò ad attrarre su di se l’attenzione di studiosi e pubblicisti all’inizio degli anni ’40 e che si manifestò in forme più corpose nelle regioni settentrionali, dove si concentrarono alcuni dei principali settori trainanti dello sviluppo industriale italiano, come quello serico e quello cotoniero.
Manifattura e industria tessili implicavano, come è noto, l’utilizzazione su larga scala delle donne e dei fanciulli, serbatoio di una forza-lavoro che era possibile utilizzare con salari assai tenui. E le dimensioni del processo presero alla vigilia del ’48 dimensioni così preoccupanti da sollecitare gli interventi di un I. Petitti di Roreto, di un L. Valerio, di un G. Sacchi e da divenire oggetto di dibattito nei congressi degli scienziati. E anche a questo proposito siano consentite alcune cifre indicative. Negli Stati sardi di terraferma intorno al 1840 su circa 40.000 lavoratori delle filande di seta si contavano 36.000 donne, e tra esse 18.000 erano fanciulle al di sotto dei 14 anni; su 15.000 addetti alla tessitura serica 10.000 erano di sesso femminile, con 2.600 fanciulli e fanciulle di meno di 15 anni; nell’industria del cotone su 17.000 adulti la metà erano donne, cui si aggiungevano circa 3.300 fanciulli. Quanto alla Lombardia, secondo calcoli assai prudenziali gli addetti ai grandi opifici di età tra i 6 e i 14 anni erano più di 54.00036.
L’avanzata sulla via dell’industrialismo fu accompagnata da quella serie di conseguenze negative sulle condizioni del lavoro e sulla salute degli operai che erano state lumeggiate da un’ampia letteratura in Inghilterra e in Francia, letteratura che ebbe un significativo riscontro — e sia pure più tardo e meno nutrito — anche in Italia.
Una attenzione particolare fu portata (com’era naturale date le dimensioni che il settore andava assumendo) all’« igiene e moralità degli opera] di seterie », come suona il titolo del noto scritto del Valerio, il quale sottolineava l’incidenza che sulla salute delle « trattrici » avevano la man-
36 Cfr. il Voto della Commissione nominata nel V Congresso degli scienziati italiani per riferire sul lavoro dei fancuilli negli opifici italiani, in « Annali universali di statistica», 1844, LXXXII, pp. 301 sgg. V. anche G. Sacchi, Sullo stato dei fanciulli occupati nelle manifatture, ibld., 1842, LXXIII, pp.' 9 sgg. e 233 sgg. e 1843, LXXV,
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canza di riposo derivante dagli orari estenuanti di 15-16 ore, l’azione del forte calore che si sprigionava dalle bacinelle, rimmersione continua delle mani in un’acqua quasi bollente (che provocava le dolorose infiammazioni chiamate « mal della caldajuola »), le esalazioni dei bachi macerati nell’acqua e ivi imputriditi, l’abuso di cibi scadenti37. Quanto ai lavoratori dei filatoi lo stesso autore metteva in rilievo i guasti che al loro fisico arrecavano la scarsità della luce (« perché la luce spessisce l’olio impiegato a rendere più lieve ed uguale il moto del meccanismo nelle varie parti de’ filatoi, e perché spoglia la seta della lucidità e del colore »), la mancanza d’aria (« siccome l’aria troppo viva nuocerebbe alla seta disseccandola di soverchio e ne romperebbe i fili»), la vita sedentaria38. Tutti mali che erano destinati ad aggravarsi con il passaggio dalle piccole filande annesse alle case coloniche o alle dimore padronali di campagna — attive nei soli mesi estivi e nelle quali le lavoratrici godevano ancora di una relativa libertà e le « maestre » erano aiutate dalle « aspie-re » — agli opifici che utilizzavano la forza del vapore: « Grandi edifici a tale scopo furono eretti in prossimità o nel mezzo dei borghi e di città, — così un osservatore della condizione di fabbrica sintetizzava acutamente nel 1861 gli effetti di quel processo iniziatosi appunto negli anni della Restaurazione — onde avere la sufficiente mano d’opera, contenenti un proporzionato numero d’operai, ristretti nelle loggie nel minore spazio possibile; il lavoro, oltre l’estate, si protrasse alle altre stagioni; la durata giornaliera ne fu prolungata; le soste diminuite; la fatica della maestra accresciuta per la voluta esattezza dei titoli dei fili, per aggiunta di congegni, pel governo del naspo, non avendo più aspiera che la coadiuvi »39.
I primi studiosi italiani dei problemi dell’« industrialismo » misero presto in rilievo anche l’alto grado di nocività degli opifici per la filatura del cotone e le dolorose conseguenze che ne derivavano alla salute dei fanciulli, costretti a turni di 12-15 ore in ambienti malsani con mercedi
pp. 237 sgg., e C. Correnti, Sul lavoro dei fanciulli negli opificii italiani, in « Rivista europea »JMilano, 1844, II, pp. 577 sgg.
37 L. Valerio, Igiene e moralità degli operai di seterie, in « Annali universali di statistica », 1840, LXVI, pp. 333 sgg. V. anche C. Castiglioni - G. Melchiori, Osservazioni igieniche sulla trattura della seta in Novi, in « Spettatore industriale », Milano, 1845, III, pp. 213 sgg., e G. Melchiori, Le malattie delle mani delle trattore di seta, osservate in Novi (Liguria), in « Annali universali di medicina », Milano, 1857, CLX, pp. 5 sgg.
38 L. Valerio, Igiene e moralità degli operai di seterie, cit., passim.
39 G. Melchiori, Sulla insalubrità delle filature da seta, in « Annali universali di medicina », 1861, CLXXV, p. 58.
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giornaliere che andavano dai 24 ai 50 centesimi: « Anche su questi sgraziati — aveva modo di osservare nel 1842 G. Sacchi — i medici tutti ne assicurarono che il polverio del cotone esercita sulla vita organica un’azione deleteria, massimamente sugli organi della respirazione, per cui i fanciulli vanno spesse volte soggetti a infiammazione polmonare, a tossi, e spesso finiscono la vita per emoftisi cronica. Il soverchio lavoro protratto anche a notte inoltrata, la poca ventilazione dei locali, il disagio continuo del corpo costretto a pochissimi movimenti, il pericolo del vicino contatto colle macchine, l’assordare che queste fanno, la stessa monotonia del lavoro, stanca, intristisce, logora la vita dei poveri fanciulli, che entrano nella filatura a sette ed otto anni vispi ed allegri e ne escono larve d’uomini »40.
Egualmente sconsolanti erano i dati che gli studiosi ricavavano dall’osservazione delle condizioni di lavoro nelle industrie minori, che impiegavano anch’esse elevate aliquote di fanciulli. Tra le varie testimonianze disponibili vai la pena di ricorrere a quella di Fernando Tonini, medico della delegazione di Como, di poco successiva a quella del Sacchi. Nelle fabbriche di maiolica e terraglia i giovinetti impiegati, notava il Tonini, « pel costume che hanno i rispettivi proprietari di far levare i vari pezzi dai ragazzi dal forno, ancora caldo, debbono entrare nel forno stesso e quindi facilmente riportano scottature e patiscono cefalee per le facili congestioni sanguigne e coliche saturnine »; in quelle di vetro gli addetti erano soggetti ad « oftalmie più o meno gravi » che erano spesso causa di cecità; nelle cartiere « i ragazzi adoperati... oltre alle malattie proprie a coloro che vivono continuamente in luoghi umidi, vanno soggetti alla tisi polmonare che respirano durante la scernita degli stracci, alla convergenza delle tibie e delle fibule per l’obbligo che hanno di tenersi costantemente in questi luoghi umidi onde rivoltare di frequente i fogli posti sopra i telaretti per essere asciugati »; e quanto alle miniere « è cosa veramente compassionevole e che fa agghiacciare il cuore il vedere fan-ciulletti di sei, sette anni o poco più farsi del pallore di morte, destinati a fungere le veci del giumento e nel disimpegno delle loro incombenze grondanti di copioso sudore »41.
40 G. Sacchi, Sullo stato dei fanciulli, cit., in « Annali universali di statistica », 1842, LXXIII, pp. 244-245.
41 F. Tonini, Relazione sullo stato degli stabilimenti manifatturieri e di industria esistenti nella provincia di Como e sulla condizione fisica, morale ed intellettuale degli operai e specialmente dei ragazzi di ambo i sessi che vi vengono impiegati, in Archivio di Stato di Milano, Commercio, p.m., cart. 177 (cit. in L. Mungo, Il lavoro
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Gli osservatori coevi furono anche colpiti dalle conseguenze di ordine psicologico che derivavano dal carattere ripetitivo e parcellare delle mansioni nel nuovo sistema di fabbrica; a tale riguardo la commissione permanente nominata nel V Congresso degli scienziati italiani per riferire sulle condizioni dei fanciulli negli opifici osservava in una sua relazione che « le minuzie e la monotona invaribalità dei lavori » producevano « un’attonitagine morale, un impicciolimento di pensieri, una specie d’ebetismo », e che quindi tra gli operai adolescenti non erano infrequenti « la tristezza, l’ipocondria, il disamore della vita »42.
Il tema richiederebbe altre specificazioni sulla struttura del salario, sugli orari, sulla disciplina, sulle multe, sulle prime elementari forme previdenziali (dalle « collette » alle società di mutuo soccorso) ; ma nell’ambito di queste note sommarie ci si limiterà a dare un’idea complessiva del « clima » di fabbrica facendo ancora ricorso a un testimone qualificato come il Tonini che vergò sulla base della sua esperienza questa descrizione assai significativa:
Gli intraprenditori richiedono che i loro giornalieri abbiano a trovarsi allo stabilimento nel prefisso ed invariabile orario, il quale è sempre di buonissimo mattino, onde porre in azione ed attendere al meccanismo, occupazione che si mantiene fino a sera avanzata. La cattiva stagione, un certo mal essere dell’individuo od altra plausibile scusa non valgono a giustificare il piu piccolo ritardo di taluno. Tutti debbono, sotto comminatoria della perdita della giornaliera mercede, trovarsi all’orario prestabilito, ep-perciò si i vecchi che i novelli operai innanzi tempo abbandonano il proprio letto per sollecitamente andare allo stabilimento. I giovani poi tengono l’obbligo di recarvisi prima per dare ordine e pulizia ai locali e a^ taluno degli ordigni del meccanismo, né all’idea del pericolo di perdere il giornaliero meschinissimo provento prevalgono i sentimenti di figliale affetto nel cuore di sconsigliati genitori. Appena giunti all’opificio ciascuno deve porsi al proprio posto ed accingersi al travaglio, né viene ad alcuno accordato il tempo di asciugarsi e di riscaldarsi nei giorni piovosi o di maggior freddo... Si ponga mente... che l’operaio arriva allo stabilimento non ancora compiutamente rifocillato dalla stanchezza del lavoro sostenuto nei giorni precedenti, coi piedi inumiditi e coi panni zeppi di acqua, e spesso intirizzito dal freddo, e che in tale stato deve tosto darsi al lavoro e continuarlo per tutta la giornata; e si giudichi dello stato suo miserando 43.
dei fanciulli in Lombardia: 1830-1859, tesi di laurea discussa nella Facoltà di Lettere dell’Università degli studi di Milano nell’anno accademico 1969-70).
42 In « Annali universali di statistica », 1844, LXXXII, p. 309.
43 F. Tonini, Sugli stabilimenti manifatturieri e d'industria della provincia di Como, in « Gazzetta malica lombarda », Milano, 31 gennaio 1848, p. 54.
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Un collegamento diretto, per lo meno in alcune zone dell’Italia settentrionale, pare si possa istituire tra i progressi deH’industrialismo e la crescita quantitativa di un altro fenomeno che, sebbene ripetesse le sue origini da secoli remoti, assunse tuttavia connotati patologici proprio nell’ultimo periodo della Restaurazione. Si intende qui parlare dell’infanzia abbandonata, e soprattutto della pratica dell’esposizione infantile attraverso il sistema della « ruota » o « torno » che permetteva di lasciare in modo anonimo bambini in tenera età — illegittimi e legittimi — agli ospizi dei trovatelli. Al di là delle differenze nelle norme e negli usi locali il sistema dell’esposizione si articolava secondo questo schema: i piccoli esposti, in generale di pochi giorni o poche settimane di vita, erano allevati nell’interno dell’istituto da balie appositamente pagate; a questo baliatico interno seguiva quello esterno, cioè l’affidamento degli infanti a nutrici contadine, allettate da un tenue compenso, che si riduceva progressivamente con il crescere dell’età del bambino; il bambino, una volta svezzato, o rimaneva presso la famiglia della sua nutrice, che dai 5 anni in su poteva eventualmente utilizzarne la capacità lavorativa, oppure tornava all’ospizio che cercava di riaffidarlo subito a un’altra famiglia artigiana o contadina.
L’aumento numerico dell’esposizione risulta più elevato nella regione maggiormente toccata dal processo di incipiente industrializzazione, la Lombardia. Così a Brescia sino al 1798 gli esposti non superarono mai i 400 all’anno, ma la media annua toccò i 551 (con un massimo annuale di 601) nel decennio (1830-1839 44; a Pavia la media annua degli entrati nella casa degli esposti fu di circa 95 nel 1778-97, per salire a 210 nel ventennio 1798-1817 e a 250 nel ventennio successivo45; venendo al brefetrofio di Cremona, esso accolse nella seconda metà del ’700 circa 6.000 esposti, mentre i trovatelli raccolti nei primi 50 anni del secolo XIX furono più di 22.000, il che significa che il loro numero si quadruplicò46. I dati più impressionanti sono però quelli di Milano, dove la media annua passò dai 790 del 1785-89 ai 3.300 del 1841-50 e infine ai 4.384 del 1851-60, cifre che corservano la loro drammaticità anche tenen-
44 A. Buffini, Ragionamenti intorno alla casa dei trovatelli in Brescia, Brescia, 1841, p. 17. x
45 P. Magenta, Sui pubblici stabilimenti di beneficenza della città di Pavia, Pavia, 1838, allegato 1.
46 F. Robolotti, Storia e statistica economico-medica deirOspitale maggiore di Cremona, Cremona, 1851, p. 60. V. anche A. F. Tassani, Saggio di topografia statisticomedica della provincia di Cremona, Milano, 1847, p. 307.
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do presente che il brefotrofio di S. Caterina alla Ruota raccoglieva oltre agli esposti della città quelli del circostante contado47.
Una tendenza ascendente è dato osservare anche nei domini sabaudi, come risulta non tanto dai dati della Statistica medica degli Stati sardi, che coprono un periodo troppo breve (in 16 dei 32 ospizi speciali esistenti nelle province di terraferma tra il 1828 e il 1837 il numero dei trovatelli passò da 1.385 a 1.606) 48, quanto da quelli delle serie secolari, come quella dell’Ospedale Maggiore della Carità di Novara; in questo istituto si passò infatti dai 489 esposti ricoverati nel quinquennio 1766-1770 ai 716 del quinquennio 1821-1825, con una progressione destinata ad accentuarsi nei quinquenni successivi (861, 994, 1.068, 1.147, 1.225, 1.419 ecc.)49. E l’incremento del fenomeno si ripete nel Gran ducato di Toscana; qui gli esposti in carico al brefotrofio di Firenze salirono infatti dai 3.809 del 1818 ai 6.032 del 1832, mentre in tutto il territorio dello Stato la « famiglia gettatella » passò dalla media di 15.767 degli anni 1831-1840 ai 21.486 del 1852 (1 esposto sopra 83 abitanti)50.
Un andamento più statico sembra invece ipotizzabile nel Mezzogiorno, dove pure il fenomeno appare rilevante in cifre assolute, soprattutto nella capitale (i «proietti » immessi nella ruota nell’Annunciata furono 2.290 nel 1816, 1.998 nel 1825, 2.167 nel 1831)51.
La diversità che pare osservabile tra nord e sud induce a credere — come si è accennato — che nel ritmo più serrato assunto dal fenomeno nelle regioni settentrionali giocassero una parte, oltre al pauperismo generico, le conseguenze dell’ingresso delle donne nel lavoro della manifattura e della fabbrica, che rendeva assai difficile alle madri lavoratrici poter accudire alla propria prole: ipotesi che trova conferma nell’aumento numerico dell’esposizione dei figli legittimi e, correlativamente, in quello dei ritiri degli esposti legittimi arrivati a 5 e più anni di età.
47 A. Buffini, Ragionamenti storici economico-statistici e morali intorno all’Ospizio dei trovatelli in Milano, Milano, 1844-1845, passim; v. anche il recente M. Gorni -L. Pellegrini, Un problema di storia sociale. L’infanzia abbandonata in Italia nel secolo XIX, Firenze, 1974, passim.
48 Informazioni statistiche, cit., parte II, p. 573.
49 A. M. Martinengo, Un problema di storia sociale: ruota ed esposti nel Novarese (1800-1870), tesi di laurea discussa nella Facoltà di Lettere dell’Università degli studi di Milano nell’anno accademico 1973-74, pp. 185 sgg.
50 O. Andreucci, Della carità ospitaliera in Toscana. Studi documentati, Firenze, 1864, pp. 314-315.
51 C. Della Valle, Della miseria pubblica, sue cause ed indizi. Considerazioni applicate allo stato attuale del Regno citeriore di Napoli, Napoli, 1833, p. 58.
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La piaga dell’esposizione infantile si sfaccettava poi in una serie di aspetti dolorosi che andrebbero studiati analiticamente, primo tra tutti quello deiraltissima mortalità dei fanciulli ricoverati negli ospizi, che toccava punte dell’80-90% nel primo anno di vita. E il dato non meraviglia più qualora si abbiano presenti le tristissime condizioni igienico-sanitarie dei brefotrofi che documenti ufficiali toscani definirono « sepolcri », condizioni delle quali ci si può fare un’idea da qualche citazione tratta dalle fonti del tempo. « È necessario condensare persino cinquanta bambini in tre sole non molto grandi stanze [dell’Ospedale Maggiore di Milano] — scriveva nel maggio 1772 il medico Bernardino Moscati al Kaunitz in una lettera che, sebbene di qualche decennio anteriore al periodo qui preso in esame, è opportuno utilizzare perché la situazione in essa descritta continuò a caratterizzare molti ospizi di trovatelli anche nel periodo della Restaurazione — e tenerli quattro per letto..., ristrettezza che è sempre funesta e che poi maggiormente si rende tale allora quando qualche contagiosa malattia si sparge sopra questi troppo condensati corpi; s’aggiunge che non essendo comodo di prato o giardino... essi sono costretti a rimanersene quasi che tutto il giorno conficcati sopra una piccola seggiola ed a respirare la medesima non rinnovata aria corrotta e dalla lunga abitazione di tanta gente e dalla permanenza degli escrementi di tutti questi bambini i quali sono costretti a soddisfare a tutti i bisogni della vita entro alle medesime stanze »52. Ed ecco del resto come nel 1851 descriveva le sue esperienze nell’ospedale di Cremona il medico Francesco Roboletti: « Mi ricorda, e ne raccapriccio, quando posi i primi passi entro il brefotrofio, la lugubre scena, che mi si offerse allo sguardo e mi strinse il cuore. Imperocché quegli infelici stipati in vere mude erano condannati a respirare tutto il giorno un’aria contaminata dalle sozzure si frequenti in quell’età, a sedere sopra incomodi scanni... I più grandicelli, cioè dai 5 ai 10 anni, si abbandonavano di giorno a se stessi ne’ cortili e nelle stanze dell’Ospizio, spesso mal vestiti e puliti, con capelli, unghie, occhi e pelle indecenti, ignari delle prime pratiche del cristiano, e sino del nome e cognome loro imposto e insegnato, e privi d’ogni sentimento morale »53.
Lo stato di degradazione fisica degli esposti era poi aggravato da altri elementi, come gli stenti cui erano sottoposti nei viaggi che li portavano all’ospizio e dall’ospizio alle famiglie presso le quali venivano
52 Archivio di Stato di Milano, Luoghi pii, p.a., cart. 389.
53 F. Robolotti, op. cit., pp. 49-50.
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collocati, la facilità dei contagi, le carenze dell’alimentazione sia nella fase dell’allattamento che in quella successiva (« Il vitto deve essere... magro, — prescriveva l’intendente generale del brefetrofio di Novara — poiché qualunque ne sia il sesso, sono queste creature più di ogni altra specie umana miserabili e gioverà perciò accostumarli dall’adolescenza ad un vitto frugale, frugalissimo »M), la condizione di abbandono in cui erano generalmente tenuti dalle famiglie alle quali erano affidati durante il baliatico esterno (« Abbandonate quelle misere creature alla discrezione di coteste donne [le nutrici esterne] — si legge in una testimonianza relativa a Napoli — ... o finivano in breve la vita, o tale vivean-la, che sarebbe stato meglio non averla »55). A tutto questo si aggiungeva poi la loro emarginazione sociale, messa in evidenza fino al periodo napoleonico dall’uso di imporre ai trovatelli cognomi fissi che risultavano di per sé infamanti (Colombo a Milano, Esposito a Napoli, ecc.): altro aspetto doloroso del fenomeno che trovò un riflesso letterario nei romanzi di un Ranieri e di un Mastriani.
Si tratta, come si vede, di un importante capitolo di storia sociale che attende ancora una adeguata ricostruzione storica, che dovrebbe essere attenta, oltre che alle implicazioni di demografia storica, anche a un altro aspetto del problema, e cioè il nesso tra esposizione infantile e fondazione e sviluppo degli asili per l’infanzia56.
La manifestazione più appariscente delle tensioni e degli squilibri che nei decenni della Restaurazione marcarono la società italiana con il loro viluppo di vecchio e di nuovo e nella quale si assommarono molti degli elementi ai quali si è già accennato fu il « pauperismo ». Questa presenza dalle secolari radici preoccupò però governi, amministrazioni, intellettuali, opinione pubblica in misura più accentuata che nel passato: preoccupazione che ha lasciato corposo documento in una ricchissima pubblicistica che soltanto di recente si è cominciato a utilizzare 51 y e la cui fioritura non è soltanto un riflesso dei dibattiti che già da tempo si erano aperti nei paesi più avanzati d’Europa.
Molte pagine di questa letteratura, insieme a quelle dei documenti gover-
54 A. M. Martìnengo, op. di., p. 134.
55 G. Petroni, Della casa santa deir Annunziata in Napoli. Cenno storico, Napoli, 1863, p. 47.
56 M. Gorni - L. Pellegrini, op. cit., passim.
57 V. ad es. R. Pozzi, Un filantropo cattolico di Lucca: Luigi Fornaciari (17981858, estr. da « Critica storica », settembre 1969.
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nativi, ci pongono sotto gli occhi la visione non nuova, ma egualmente conturbante, di folle di mendicanti e di vagabondi che battevano le strade dei centri urbani e sciamavano nelle campagne, nelle regioni settentrionali come in quelle meridionali: tanto che la scelta delle citazioni riesce assai agevole. Cosi per i domini sabaudi l’anonimo estensore dell’opuscolo Qualche cenno sulla mendicità e sui mezzi di estirparla (1834) descriveva le torme di accattoni che funestavano « col loro cinico e ributtante aspetto le vie delle più ricche e popolose città dello Stato », mentre più in particolare per Genova F. Isnardi insisteva nel 1838 sui « tanti accattoni girovaghi » che gremivano « le piazze, le strade, le passeggiate, le chiese stesse »58. Il quadro non cambiava, pur se con tinte attenuate, nei centri urbani lombardi, dove gli osservatori notavano la presenza di un vasto strato di « accattoni » e di « postulanti » presso i privati e presso le botteghe59. Ed ecco una delle tante citazioni possibili per il Veneto, del 1845: « V’hanno gli abitatori montani della Carnia, dell’alto e basso Cadore, de’ sette Comuni, e d’altre vallate del Tirolo italiano, del Veronese e del Vicentino che nella stagione invernale massimamente si rovesciano sopra i paesi e le città soggette, e fanno del vagabondar mendicando un mestiere »60. Mentre per lo Stato pontificio basterà rimandare alle pagine relative al pauperismo del Dal Pane e del Demarco61, il fenomeno appariva radicalizzato nel regno delle Due Sicilie, come risulta da una letteratura nella quale figurano testi assai rappresentativi. Così nel 1816 Saverio Scrofani in un suo scritto dedicato a La mendicità a Napoli si soffermava sulle migliaia di accattoni che « scorrono la città intera giorno e notte, e fino nei luoghi più appartati di essa » e sulle questue istituzionalizzate: « In fine, chi non vede girare giornalmente per Napoli uno sciame di persone uomini e donne con le lor borse aperte e chiedere il lunedì per le anime del Purgatorio, il martedì per l’arcangelo Raffaello, il mercoledì per la Vergine Santissima del Carmine... e così di seguito! ed oltre a questi, lunghe processioni di donzelle condu-
58 F. Isnardi, Le cagioni dell'accattoneria in Genova, in « Annali universali di statistica», 1839, LIX, p. 218.
59 L. Ambrosoli, Della pubblica e privata beneficenza, Milano, 1845, pp. 5-6. Per un quadro del pauperismo in Lombardia v. G. Sacchi, Sulla pubblica beneficenza in Francia e in Lombardia, in «Annali universali di statistica», 1848, s. 2a, XVII e sgg. (in particolare 1849, s. 2a, XXI, pp. 216 sgg.).
60 J. Bernardi, La pubblica beneficenza ed i suoi soccorsi alla prosperità fisicomorale del popolo, Venezia, 1845, p. 143.
61 L. Dal Pane, Economia e società a Bologna nell'età del Risorgimento. Introduzione alla ricerca, Bologna, 1969, pp. 484 sgg. e D. Demarco, Il tramonto dello Stato pontificio. Il papato di Gregorio XVI, Torino, 1949, pp. 95 sgg.
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centi una statua e precedute da un crocifisso, fermarsi nelle strade, alle porte dei caffè e delle bettole, nei cortili dei signori ed elemosinare cantando »62. Studiando il pauperismo nella sua terra, l’Abruzzo citra, il De Novelli rilevava in un lavoro del 1840 lo straordinario accrescersi del male, fattosi tanto diverso da quello di un tempo63 ; mentre per quel che concerne la Basilicata il duca della Verdura in un discorso del 1844 al consiglio provinciale lamentava che ogni raccolto fallito costringeva a vedere « una numerosa classe del popolo ridotta senza mezzi di sussistenza pitoccare, intristirsi ed assuefarsi a vivere una vita di onta a sé e di peso alla società »64. E quanto alla Sicilia, le fonti pubblicistiche parlano della « numerosa famiglia de’ mendicanti » che « va sempre più popolando tutti i comuni » o della « classe miserabile » dei quartieri malsani di Palermo, « la quale ora riempie le pubbliche vie importunando i passeggeri, ora assedia il domicilio dei cittadini accattando, ora formicola affamata in quei luoghi ove distribuisconsi soccorsi in alimenti »65.
Il fatto sta che anche in Italia, pur se in forme spesso dissimili da quelle proprie ai paesi europei già entrati nel cammino della rivoluzione industriale, operavano fattori che contribuivano ad un abbassamento del tenore di vita di larghi strati delle classi popolari incancrenendo la piaga del pauperismo. Realtà, quella del pauperismo, di cui si può affermare la presenza massiccia ma che si sottrae ai tentativi di una precisa definizione quantitativa per la mancanza di moderne ricerche criticamente condotte sulla vasta gamma di fonti disponibili. Ma a parte la carenza degli studi un’altra difficoltà, più intrinseca, è costituita dalla natura non nettamente determinabile della nozione di povertà e dal carattere sfuggente dei suoi contorni, intorno alla cui definizione si affaticarono del resto gli stessi contemporanei, come dimostrano i loro insistenti tentativi di arrivare a distinguere, quasi in via amministrativa, i bisogni reali da quelli camuffati, la povertà ostentata oltremisura da quella « vergognosa ». Gli « sforzi degli uomini di carità intelligente » — ammoniva C.L. Morichini già nella prima edizione del suo lavoro sugli istituti di carità romani — andavano indirizzati « a sceverare il vero dal falso
62 S. Scrofani, La mendicità a Napoli, in « Archivio storico per la Sicilia orientale », 1967, pp. 146 sgg.
63 R. De Novelli, Sul pauperismo e le cagioni del suo rapido accrescimento nella provincia di Abruzzo citra, Chieti, 1846, passim.
64 T. Pedio, Note ed appunti per la storia economica e sociale del Mezzogiorno d'Italia. La Basilicata durante la dominazione borbonica, Matera, 1961, pp. 101-102.
65 Citazioni da scritti di V. Nunziante e M. Rizzari riportate in D. Demarco, Il crollo del Regno delle Due Sicilie, cit., p. 130 e p. 150.
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povero » e a non confondere i vagabondi con i veri « pauperes », « esseri infelici, ma sacri », e immagini viventi del Cristo66. « Ninno ignora — faceva rilevare a sua volta nel 1838 l’accademico labronico B.P. Sanguinetti in un suo discorso — come spesso la carità mal diretta valga ad incoraggiare l’infingardaggine, ad alimentare il vizio, a promuovere la colpa, anziché a sollevare la vera indigenza »67. E il già menzionato abate Bernardi ribadiva di li a poco la necessità di « sbandire quella scioperata, falsa, insolente indigenza che sotto il manto della reale nascondesi, e ne usurpa i diritti »68.
Della difficoltà di giungere a individuare con precisione l’insieme dei fatti e delle situazioni genericamente inclusi nel termine « pauperismo » danno prova anche gli sforzi per arrivare a classificazioni empiriche, del tipo di quella del Massei. Lo scrittore bolognese nella sua Scienza medica della povertà, definito il pauperismo come il « nome moderno col quale vuoisi significare l’indigenza che invase classi intiere, ed in ispecialità le classi operaie in quelle nazioni che sono le più avanzate nel progresso materiale », distingueva infatti tra proletari (quanti possiedono solo «le proprie forze e i profitti del giornaliero lavoro »), poveri (gli afflitti da « ogni ordine e condizione di miseria»), indigenti (coloro che sono privi in modo permanente e totale « del necessario alla vita, e de’ mezzi di procacciarselo ») e mendici elemosinanti69.
Agli ostacoli che si oppongono al conseguimento di risultati quantitativi validi e probanti si deve infine aggiungere quello costituito dalla differenziazione tra coloro che di recente sono stati chiamati rispettivamente poveri « strutturali » e poveri « congiunturali », ossia tra malati, inabili al lavoro, disoccupati più o meno permanenti, vecchi, vedove da una parte, e lavoratori costretti a varcare la soglia della povertà dalla congiuntura economica avversa70.
Sulla base di queste considerazioni non si può attribuire altro valore che quello di una indicazione di massima alle cifre fornite dalle fonti: il più che mezzo milione di indigenti su una popolazione di 2 milioni
66 C. L. Morichini, Degli istituti di pubblica carità e d'istruzione primaria in Roma, Roma, 1835, pp. XL-XLI.
67 B. P. Sanguinetti, Sulla carità. Discorso letto il 6 maggio 1838 all'Accademia Labronica, Livorno, 1838, pp. 4-5.
68 I. Bernardi, op. cit., p. 5.
69 G. Massei, La scienza medica della povertà ossia la beneficenza illuminata, I, Firenze, 1845, pp. 4-8.
70 J. P. Gutton, La société et les pauvres en Europe (XVI -XVIII siècles), Paris, 1974, pp. 72-73.
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e mezzo riportato dal Sacchi per la Lombardia nel 1848 71; i 19.000 mendicanti della Statistica degli Stati estensi del Roncaglia72; i 5.000 poveri censiti dal Fornaciari su 24.000 abitanti di Lucca73; i 13.000 mendici e sussidiati contati nel 1844 dalla magistratura comunale di Bologna sui 75.000 abitanti della città74; e infine i 237.000 e passa mendicanti attribuiti per il 1832 al Mezzogiorno continentale (esclusa Napoli) dal Rotondo75.
Dopo aver cosi accennato ad alcuni degli aspetti e delle manifestazioni del disagio e della deteriorata « qualità » della vita di tanta parte dei ceti subalterni saranno a questo punto opportune alcune rapide considerazioni sulla variegata tipologia degli interventi — pubblici e privati — che miravano a contenere in qualche modo le espressioni più evidenti del pauperismo, cioè su quella complessa struttura caritativo-assistenziale concresciuta nei secoli e che l’urgere di problemi vecchi e nuovi minacciava di mettere in crisi e sollecitava nel senso del cambiamento e dell’innovazione.
Per quel che attiene all’atteggiamento e alle misure delle autorità pubbliche, va anzitutto ricordata la radicale modificazione delle idee sulla povertà che si era verificata a partire dal XV-XVI secolo. Alla concezione dominante nel Medio Evo che vedeva nei poveri i « vicari » di Cristo, i suoi rappresentanti in terra, le sue « membra sofferenti » si era venuta gradatamente sostituendo un’altra immagine nella quale il povero (il mendicante, il vagabondo, il brigante) era visto essenzialmente come un ozioso impenitente e infingardo, un elemento di tensione sociale e un motivo di disonore per il prestigio dello Stato, un portatore di contagi epidemici, insomma una presenza ostile e minacciosa alla quale si doveva fare fronte con la repressione e la segregazione. Di qui quella che Marx chiamò la « legislazione sanguinaria » contro i poveri, che celebrò i suoi trionfi in Francia e in Inghilterra ma che ebbe una sua lunga storia anche in Italia. A tale proposito basterà ricordare, a titolo esemplificativo, il bando dato alla mendicità in Torino nel 1628 e rinnovato da Vittorio Amedeo II nel 1716, in occasione dell’apertura della nuova sede dello
71 «Annali universali di statistica», 1849, s. 2a, XXI, p. 217.
72 C. Roncaglia, Statistica generale degli Stati estensi, Modena, 1849-1850, II, pp. 88 sgg.
73 L. Fornaciari, Dei poveri e delle figlie della carità, Lucca, 1842, p. 5.
74 D. Demarco, Il tramonto dello Stato pontificio, cit., p. 96.
75 M. L. Rotondo, Saggio politico su la popolazione, e le pubbliche contribuzioni, Napoli, 1834, cit., in « Annali universali di statistica », 1834, XLI, pp. 259-260.
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Spedale di Carità, destinato al ricovero coatto dei poveri inabili al lavoro e dei malati indigenti: « Difendiamo ad ogni, e qualsivoglia persona valida, ed invalida — intimava l’editto —... di mendicare... tanto di giorno come di notte, publicamente o in segreto, con qualunque specie, o pretesto, sotto le medesime pene che si vedono lodevolmente imposte in altri paesi..., cioè della carcere per la prima volta, ed altra più grave, eziandio corporale, ad arbitrio del Senato nostro in caso di recidiva »76. Quanto alla Lombardia, spagnola prima e austriaca dopo, ci si trova di fronte a un vero fuoco di fila legislativo che minacciava a poveri e vagabondi i tratti di corda, il marchio a fuoco, la frusta, la galera sino a cinque anni, la deportazione ai lavori forzati nelle lontane terre d’Ungheria, in un accavallarsi di norme tra le quali basterà citare, per dare un’idea del loro spirito informatore, un editto del 22 agosto 1744: « Ordiniamo a tutte le comunità dello Stato che capitando li suddetti vagabondi, oziosi, sospetti malviventi o ladri... debbano immediatamente con previo suono di campana a martello unirsi, prendere le armi, inseguirli e fermarli, consegnandoli alle carceri del luogo... con far fuoco sopra li medesimi in caso di resistenza ovvero di fuga »77. E disposizioni di analogo tenore furono emanate anche negli altri Stati italiani nella linea di una tradizione che, dopo la ribadita condanna della mendicità del periodo napoleonico, fu codificata negli anni della Restaurazione. La questua fu infatti proibita e punita con il carcere fino a tre mesi (aggravato con il digiuno e le « percosse » per gli incorreggibili) nel regno Lombardo-veneto; anche il codice penale di Parma del 1820 vietava la mendicità; e così pure faceva quello napoletano (art. 300-304): ma erano tutte disposizioni la cui attuazione aveva scarso successo, come dimostra il fatto stesso della ripetuta iterazione di una normativa tanto afflittiva nell’enunciazione quanto poco efficace nell’applicazione.
L’ispirazione repressiva che muoveva l’azione delle autorità appare evidente in uno degli obiettivi che quelle si posero a partire dal ’600 e che caratterizzò ancora la loro politica « sociale » nella prima metà dell’800, cioè la segregazione e l’internamento dei poveri e dei miserabili, il « grand renfermement » (la definizione è del Foucault), che ebbe nelle « workhou-ses » inglesi il suo simbolo tipico. Tale politica, che mirava a depurare città, borghi e campagne da mendicanti e indigenti dei due sessi e di
76 A. Guevarre, La mendicità sbandita col sovvenimento dei poveri..., Torino, 1717, pp. 26 sgg.
77 Archivio di Stato di Milano, Giustizia punitiva, p.a., cart. 16.
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tutte le età attraverso la loro concentrazione volontaria o coatta in appositi edifici, trovò larga applicazione anche in Italia, specie nel corso del ’700, nel periodo napoleonico e della Restaurazione. Spiccano in questa vicenda per le loro dimensioni i casi del genovese Albergo dei Poveri alla Carbonara (istituito nel 1539 e allargato poi a più riprese, che tra il 1830 e il 1840 arrivò a contenere circa 2.000 ricoverati giornalieri), del già menzionato Spedale di Carità di Torino e dell’Albergo dei Poveri di Napoli che, iniziato per volere di Carlo III nel 1751 per riunire, come scrisse L. Bianchini, « in istraordinario e grandioso edifizio quanti più si potessero mendichi e vagabondi, fornendoli di cibo e vesti-menta, e rendendo utili in cose d’arti e d’industria e sani e robusti » 7\ raccolse tra il 1830 e il 1850 fino a 6.000 ospiti al giorno.
Più capillare e decentrata appare durante la Restaurazione la trama di questo tipo di istituzioni nella Lombardia e nel Veneto, dove il loro mantenimento era in parte a carico dell’erario statale e in parte a carico delle finanze comunali. Più in particolare le « case d’industria » lombarde avevano il loro precedente nell’attivazione voluta da Giuseppe II nel 1784 di una « casa di lavoro » volontario in Milano e di una « casa di lavoro » coatto per questuanti recidivi o inabili in Pizzighettone. L’intenzione del sovrano austriaco di dotare di istituti che si ispiravano alle « workhouses » i principali centri della regione fu ripresa dalle amministrazioni del periodo napoleonico (nel 1812 risultano esistenti case di lavoro anche a Cremona, Crema, Casalmaggiore, Lodi, Bergamo, Brescia) e fu poi sviluppata nei primi anni della Restaurazione, anche sotto la pressione della carestia (1817 a Pavia, 1819 a Mantova, 1823 a Como, 1831 a Monza; ed organismi analoghi sorsero anche nel Veneto e a Trento). Negli Stati sardi « case di ricovero » iurono invece create negli anni ’30 per iniziativa di privati e di singole amministrazioni comunali (Chambéry, Vigevano, Novara, « ricovero di mendicità » di Torino, che si affiancò allo Spedale di Carità); e la materia trovò una regolamentazione sul piano legislativo con le lettere patenti del 29 novembre 1836: queste, espresso il risoluto diniego sovrano che i provvedimenti per la eliminazione della mendicità potessero mai avere nulla in comune con il sistema della « legge dei poveri » inglese (perché la tassa avrebbe pesato sulla « classe la più numerosa e la più vicina all’indigenza », identificata in quella dei piccoli proprietari), subordinavano la creazione delle case di lavoro all’approvazione reale e minacciavano a ogni indi-
78 L. Bianchini, Della storia delle finanze del Regno di Napoli, Napoli, 1859 3, p. 355.
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viduo sorpreso a mendicare in una provincia in cui fosse aperto un ricovero l’arresto e l’internamento in quella istituzione79. In quello stesso torno di tempo Maria Luisa fece aprire a Borgo S. Donnino (Fidenza) un « deposito di mendicità » che ospitò presto più di 300 persone; mentre in Toscana tra il 1815 e il 1833 furono impiantati, con il prevalente concorso finanziario di privati, la Pia Casa di Lavoro di Firenze, lo Stabilimento di mendicità di Siena, la Pia Casa di Lavoro di Arezzo, e cosi via.
La tipologia di questi istituti quale risulta dalle loro tavole di fondazione era quella di un organismo ibrido, che teneva contemporaneamente del reclusorio, dell’ospizio e dell’opificio. Là dove, come in Lombardia, i criteri di gestione furono più umani e l’amministrazione più oculata, le « case di lavoro » ebbero un certo ruolo nel contenimento della disoccupazione e della sottoccupazione, come pare risultare dall’esame del loro funzionamento. Cosi a Milano nelle due case di S. Vincenzo e di S. Marco, che oltre ad accogliere i « ricoverati » stabili (una media giornaliera di più di 500 nel 1835) davano lavoro in loco o a domicilio ai cosiddetti « intervenienti giornalieri », l’incidenza di questo tipo di assistenza fondata sull’assegnazione di lavori è dimostrata dal fatto che nel 1817, anno di carestia, si ebbero punte medie giornaliere di 1.263 lavoratori nell’interno e di 1.077 lavoratori a domicilio, assai elevate per una città di 150.000 abitanti; dati analoghi si ebbero in altri momenti critici (il colera nel 1836 e la carestia del 1846-47), senza che però le cifre superassero mai in misura patologica le medie degli anni « normali ». Questo giudizio sulla relativa funzionalità delle « case di lavoro » milanesi e più in generale lombarde (le cui attività ricalcavano le linee degli istituti della capitale) trova conferma nel fatto che della loro assistenza usufruivano in percentuali elevate disoccupati stagionali, come muratori, le-gnaioli, spazzacamini, materassai, e disoccupati congiunturali, in specie tessitori. Va anche tenuto presente che in queste « case » si cercò di non avvilire al di là di certi limiti la personalità dell’assistito, tanto è vero che la denominazione di « casa d’industria » che fini coll’essere preferita a quella di « casa di lavoro » fu scelta, come si esprimeva nel 1815 un esperto di quei problemi, « per allontanare qualunque idea di turpitudine e di umiliazione, per promuovere il maggior concorso a simili stabilimenti »80. Elementi negativi erano invece gli orari assai lunghi della
79 C. I. Petitti di Roreto, Saggio sul buon governo della mendicità, degli istituti di beneficenza e delle carceri, Torino, 1839, I, p. 443.
80 Sommariva, Memorie sull'istituzione di Case di industria e di ricovero negli Stati
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giornata lavorativa (impiegata nel tessere tela ordita, filare il lino, ordire fasce, cucire camicie, fare calze e scarpe, ecc.) e l’esiguità degli emolumenti (un assegno di « beneficenza » variante da 21 a 35 centesimi al giorno a seconda del sesso e della stagione, cui si aggiungeva la retribuzione del lavoro commissionato, le cui tariffe erano però cosi basse che di rado permettevano di raddoppiare l’entità dell’assegno)81.
Assai più scuro è il quadro, e più negativo il giudizio su quegli « Alberghi dei poveri » che la pratica prevalente dell’internamento stabile dei ricoverati rendeva simili a reclusori, producendo tutti quei guasti che sono conseguenza di una segregazione protratta. E valgano in proposito le impressioni esternate nel 1830 da G. Sacchi dopo una visita all’Albergo dei Poveri di Genova, che era si « la più grandiosa e popolare casa d’industria di tutta Italia », ma che gli appariva bisognosa di una radicale riforma: « Gioverebbe — osservava il filantropo lombardo — che i benefattori della pia casa si trovassero un po’ più a contatto co’ poverelli ivi ricoverati », perché « ricoverare de’ miserabili per segregarli in tutto e per tutto dall’umano consorzio » non era un atto di carità confacente agli scopi che ci si prefiggeva82. E ancora 16 anni dopo l’istituto genovese (che aveva la singolarità di ospitare un numero di femmine doppio di quello dei maschi, sproporzione dovuta essenzialmente a « due quasi costanti migrazioni di maschi, l’una per la navigazione, l’altra per le industrie di viticoltura, di facchinaggio, di spacca-legne, ecc., che in molti paesi d’Italia vengono pressoché esclusivamente esercitati dalle robuste braccia genovesi ») appariva bisognoso di tutta una serie di miglioramenti a una speciale commissione visitatrice le cui osservazioni è opportuno riprodurre con ampiezza come testimonianza diretta della vita all’interno dell’Albergo:
A chi si recasse a visitare quell’interessante e vario istituto... potrebbe per avventura nascere il desiderio di vedere aggiungersi alle molte e savie provvidenze che lo reggono, qualche lieve tocco: che, cioè, allo stato prospero del materiale benessere non fosse disuguale l’istruzione del leggere, scrivere, conteggiare e degli elementi del disegno, onde quei molti operaj riuscissero operaj intelligenti ed istruiti; che i molti telaj destinati al lavoro delle donne e specialmente delle fanciulle fossero riformati in modo da non costringere quasi in uno strettojo... per lo spazio di circa nove ore al
d'Italia amministrati dalla R. Cesarea Reggenza di governo, ms. del 1815 in copia in Archivio di Stato di Milano, Luoghi pii, p.m., cart. 75.
81 P. Testori, Origini e funzionamento delle Case di lavoro in Lombardia, tesi di laurea discussa nella Facoltà di Lettere dell’Università degli studi di Milano nell’anno accademico 1970-71.
82 «Annali universali di statistica», 1830, XXVI, p. 130.
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giorno quei prezioni abdomi che sono la prima cuna dell’uomo...; che le pie suore... avvisassero a quei petti curvi ed appoggiati l’intero giorno sui telai da ricamo: che i mezzi pecuniarj bastassero a procacciare a quella vasta e numerose famiglia quasi tutta composta di adolescenze uno spazio sufficiente ove ricrearsi...; che il lavoro, specialmente quelle della gioventù, venisse più spesso alternato coll’esercizio libero del corpo;... che ai canti religiosi si affratellassero delle altre cantilene, purché savie e ispiratrici di morale, affinché la religione troppo spesso e lungamente adoperata non riesca a noja e non perda in riverenza quel che guadagna in tempo ed in parole:... che finalmente si variassero maggiormente i generi di industria, e cosi agli artefici che usciranno di là a popolare gli opificj si preparassero più facili il lavoro ed il pane83.
Ma in questo genere di istituzioni il limite della degradazione era raggiunto dall’Albergo dei Poveri di Napoli, nel quale ai difetti strutturali propri a quel tipo di stabilimenti si aggiungevano le conseguenze di un disordine e di un malgoverno amministrativi sui quali avrebbero insistito le inchieste postunitarie. In un « parere » redatto all’inizio del 1861 da Luigi Settembrini per una Consulta voluta da L.C. Farini si legge infatti che un quarto delle entrate dell’Albergo era assorbito dalle spese per gli impiegati e per un numero imponente di medici, notai, avvocati e architetti, « tanta gente che son quasi un migliaio, che non sono poveri e mangiano coi poveri »; e lo stesso « parere » aggiungeva: « Come si entra nell’Albergo si vede chiaro che l’amministrazione opprime la carità... In camere spaziose, pulite ed esposte al sole stanno agiatamente gli impiegati con le loro famiglie e famiglie d’impiegati già morti; ed un centinaio di poveri vecchi sono come sepolti in una specie di carcere sotterraneo detto la correzione » M. Nello spazio che si faceva sempre più ristretto di quello che era stato presto soprannominato il « serraglio » convivevano a migliaia nella promiscuità più completa e in generale nell’ozio impotente i mendicanti spediti dalla polizia di tutte le province del Regno per dare attuazione al bando agli accattoni (un decreto del 1840 riservò l’Albergo ai soli poveri di Napoli, ma la misura restò sulla carta perché non furono mai costruiti gli altri quattro istituti previsti per i poveri delle altre parti dello Stato), i « proietti » di età superiore ai 7 anni, ciechi, sordomuti, infermi vari, donne « pericolanti », « discoli », oblate. E pienamente meritati apparivano il « tetro nome popolare » e la fama
83 Rapporto della Commissione incaricata della visita agli istituti di beneficenza della città di Genova..., Milano, 1846, pp. 5-6.
M R. Commissione d’inchiesta per Napoli, Relazione sulle istituzioni pubbliche di beneficenza di Napoli, Roma, 1903, V, pp. 23-25.
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sinistra dell’immenso edificio, che i documenti ci descrivono concordi come un immondo deposito di « famelici reclusi, in preda a mali scrofolosi e miasmatici di ogni maniera », alimentati talvolta solamente con pane e fave, giacenti spesso in due per letto, « scalzi, nudi,... e tra le continuate infermità cagionate dalla lordezza ed umidità di quelle mura », e come una sentina di vizi sulla quale allungava le sue mani la camorra85.
Un’altra questione di fondo che permette di studiare in modo determinato l’atteggiamento dei governi della Restaurazione, dei gruppi dirigenti e degli intellettuali nei confronti delle classi subalterne e delle loro condizioni di esistenza è quello della politica scolastica nel settore dell’istruzione primaria. E anche qui le forme di comportamento e di intervento presentano due estremi tipici, quello del Lombardo-Veneto e quello del Regno delle Due Sicilie.
Sul piano delle posizioni di principio già negli ultimi decenni del ’700 si era ormai fatta strada, non soltanto nelle élites intellettuali penetrate dalle idee illuministiche ma anche tra gli uomini di governo, l’esigenza dell’intervento pubblico nell’insegnamento primario motivata volta a volta con la necessità di togliere l’istruzione da «mani interessate e mercenarie» per diffonderla tra « la gente più povera... e più negletta », i lavoratori delle campagne e delle città (come si legge nel Metodo di insegnamento pubblicato a Napoli da quel Vuoli che nel 1784 era stato inviato da Ferdinando IV a Rovereto per studiarvi il metodo « normale »)86 o con l’opportunità di impartire a tutti i membri della comunità statale « la cognizione dei doveri di buon cristiano, cittadino e suddito » (come si esprimeva il Regolamento generale del 1774 per le scuole elementari lombarde). Nell’ambito di questi orientamenti si collocano i tentativi riformatori avviati nella Lombardia austriaca da Maria Teresa (creazione delle scuole « normali ») e da Giuseppe II e più timidamente nel regno di Napoli da Ferdinando IV, che sortirono però nel loro complesso risultati modesti; tentativi ai quali si sovrapposero poi gli impulsi innovatori
85 Cfr. tra l’altro P. Turiello, Degli stabilimenti di beneficenza nella città di Napoli, e de’ modi di renderli veramente giovevoli alle classi bisognose, in « Atti del R. Istituto di incoraggiamento alle scienze naturali, economiche e tecnologiche », Napoli, II serie t. 3°, pp. 210 sgg; T. Filangieri Ravaschieri Fieschi, Storia della carità napoletana, Napoli, 1875-1879, II, pp. 225 sgg; G. De Simone, Sul riordinamento delle opere pie della città di Napoli, Napoli, 1880, pp. 446 sgg.
86 A. Broccoli, Educazione e politica nel Mezzogiorno d’Italia (1767-1860), Firenze, 1968, p. 11. V. anche G. Carignani, Le scuole normali in Napoli nel secolo XVIII. Studi su documenti dell’Archivio centrale della città di Napoli, Napoli, 1875, passim.
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dei governi del periodo rivoluzionario e napoleonico, che neppur essi riuscirono a incidere in profondità nonostante la proclamazione dell’ob-bligo dell’istruzione elementare.
Dopo il 1815, mentre in generale i governi restaurati adottarono di fronte al problema dell’istruzione popolare un comportamento ispirato a chiusa indifferenza o a manifesta diffidenza — il che tra l’altro consenti al clero di recuperare buona parte delle posizioni perdute su quel terreno — nel Lombardo-Veneto invece l’Austria sviluppò con una sua coerenza l’azione avviata nello scorcio del ’700. Una sovrana risoluzione del 1818 stabiliva infatti che venissero istituite e mantenute a spese dei Comuni nella larghissima maggioranza delle circoscrizioni parrocchiali scuole elementari « minori » di due classi « per la prima necessaria istruzione di tutti i fanciulli di qualunque condizione »; oltre ai principi del carattere pubblico e gratuito dell’insegnamento era introdotto anche quello della frequenza obbligatoria per i fanciulli tra i sei e i dodici anni, sancito attraverso il pagamento di un’ammenda mensile di mezza lira a carico dei genitori inadempienti. A Milano, a Venezia e nei capoluoghi di provincia era inoltre prevista la creazione (poi estensibile agli altri centri piu importanti) di scuole elementari « maggiori » di tre o quattro classi, con corsi della durata di cinque-sei anni, per « l’istruzione della gioventù che intende di applicarsi allo studio delle scienze e delle arti ». E al dettato legislativo seguì una larga attuazione pratica. In Lombardia le scuole elementari minori, già 2.600 nel 1822, divennero 4.203 nel 1847, e nello stesso arco di tempo i maestri delle elementari pubbliche passarono da 2.738 a 4.729 e gli alunni dei due sessi da 107.765 a 216.253 87. Ritmi di incremento più bassi si ebbero nel Veneto; secondo una fonte statistica ancora nel 1852 le scuole elementari venete erano 1.792, con un totale di 94.713 alunni, il che voleva dire che mentre in Lombardia in quél-Panno il rapporto tra frequentanti delle elementari pubbliche e popolazione complessiva era di 1 a 14, nel Veneto il rapporto era di 1 a 26 88.
La rilevanza quantitativa di queste cifre della scolarizzazione non deve certamente far dimenticare i gravi limiti che dietro quelle si avvertono: consistenti aliquote di fanciulli e soprattutto di fanciulle in età scolare non frequentavano le scuole pubbliche (in Lombardia rispettivamente
87 G. Sacchi, Studi statistici sull’istruzione del popolo in Lombardia, in « Annali universali di statistica », 1858, CXXXIII, pp. 12-13.
88 Stato delle pubbliche scuole elementari nelle provincie venete durante l’anno 1852, ibid. 1854, CXVIII, pp. 306-309.
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1/3 e 2/5 nel 1846, mentre nel Veneto nel 1852 di contro a 86.587 scolari si avevano soltanto 8.126 alunne), dalle quali li teneva lontani la necessità di contribuire al bilancio familiare con il lavoro nei campi, nelle filande di seta e negli altri opifici; nei comuni rurali le elementari erano spesso « scheletri » di scuole, e in esse la frequenza si diradava drasticamente all’epoca dei lavori stagionali; le aule erano spesso troppo affollate, vere pluriclassi nelle quali si stipavano a volte più di cento alunni, molti dei quali privi dei libri di testo e del materiale didattico; la preparazione e le capacità pedagogiche degli insegnanti, pagati avaramente dai comuni e quindi spesso costretti a un secondo lavoro e strettamente sorvegliati dalla polizia e dal clero (che forniva i quadri superiori dell’amministrazione scolastica) erano generalmente inadeguate, anche perché per ottenere l’abilitazione all’insegnamento nelle elementari minori bastava aver frequentato la terza classe e un corso di metodica trimestrale; il carattere mnemonico dell’insegnamento, che tendeva a far apprendere meccanicamente i rudimenti della lettura e della scrittura e ad inculcare il rispetto per le autorità costituite, insieme con la lentezza dei risultati conseguibili con i metodi in vigore lasciavano aperti larghi spazi al semianalfabetismo e all’analfabetismo di ritorno89. Ma il rilievo delle mende e delle carenze non deve far disconoscere, in sede di giudizio storico, la sostanziale superiorità rispetto al resto del paese dell’istruzione primaria della Lombardia — e in minor misura del Veneto, che permise tra l’altro a queste regioni — grazie anche alle dimensioni assunte complemen-tariamente dall’istruzione privata — di arrivare all’Unità con percentuali di analfabetismo nettamente inferiori a quelle delle altre grandi circoscrizioni geografiche, elemento non indifferente nella diversificata dinamica dello sviluppo civile e sociale delle varie zone della penisola.
Un diverso andamento ebbero le vicende dell’istruzione primaria nel regno delle Due Sicilie. Qui la politica scolastica dei restaurati Borboni fu caratterizzata, come è stato scritto di recente, da una « profonda avversione » all’istruzione, che determinò la liquidazione dell’eredità del decennio francese e l’accettazione di un pesante controllo del clero nel settore90. Non mancarono, è vero, dichiarazioni di intenzione, come il regolamento per le scuole primarie del 1° maggio 1816, che stabiliva l’apertura di scuole elementari in tutte le parrocchie di Napoli e l’obbligo di presentare un
89 Sulla scuola elementare in Lombardia v. le periodiche rassegne di G. Sacchi, ibid.
90 A. Broccoli, op. cit., p. 118.
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certificato di frequenza alle scuole primarie per i giovani che avessero voluto intraprendere un’arte o un mestiere; o l’altro regolamento del 1819, che prevedeva la graduale sostituzione del metodo normale con quello lancasteriano del mutuo insegnamento e ribadiva l’obbligo dell’alfabeto per chi si fosse messo a esercitare un nuovo mestiere. Ma le affermazioni di principio stentarono a sostanziarsi nella pratica sia per la carente volontà politica delle autorità centrali, sia per le resistenze di moltissime amministrazioni comunali, dovute in parte a effettive difficoltà di bilancio ma anche in buona misura a una chiusura misoneistica di fronte alla prospettiva di un sia pur limitato innalzamento del livello di istruzione delle classi subalterne. Il che spiega come mai nel 1859, alla vigilia del crollo del regno, nelle province napoletane su 3.094 comuni e borgate soltanto 999 fossero provvisti dell’insegnamento primario maschile e femminile mentre 1.084 mancavano ancora di qualsiasi scuola elementare, e gli alunni frequentanti fossero poco piu di 66.000 (38.984 maschi e 27.547 femmine)91. Dati globali che al di là della loro piu o meno grande attendibilità trovano un puntuale riscontro nell’esame di alcune situazioni locali come ad esempio quella del Salernitano, dove nel 1835 su una popolazione intorno ai 450.000 abitanti gli alunni delle scuole pubbliche erano soltanto 5.000 circa92. A prescindere dai dati quantitativi anche la qualità dell’insegnamento era estremamente scadente, sia per le deficienze di una buona parte del corpo insegnante, reclutato senza alcuna seria garanzia di una preparazione adeguata, sia per i difetti e la promiscuità dei metodi pedagogici (l’affiancamento del sistema lancasteriano a quello normale non fu infatti una innovazione didattica ma soltanto un espediente cui si ricorse per cercare di alfabetizzare in maniera rudimentale gli alunni di classi troppo numerose). E specchio fedele di questo stato di cose può essere considerata la relazione stesa nel 1859 dal presidente degli studi Emilio Capomazza, inconsapevole suggello a 45 anni di malgoverno scolastico, nella quale si legge tra l’altro:
Molte delle scuole primarie hanno stanze male adatte o eccentriche. Moltissime si esercitano nell’abitazione de’ maestri con danno della morale e del costume, dovendo i fanciulli e le fanciulle esser sempre in mezzo ai famigliari, ai servi, ai lavoratori di campagna ed alle altre meno educate persone. Da per ogni dove, e forse esclusa la sola capitale, mancano di
91 G. Nisio, Della istruzione pubblica e privata in Napoli dal 1806 sino al 1871, Napoli, 1871, p. 31.
92 D. Cosimato, Note e ricerche archivistiche su l'istruzione pubblica nella provincia di Salerno (dal 1767), Salerno, 1967, p. 105.
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oggetti scolastici; non un libro, non un foglio di carta, non un lapis, non un quadretto si dà agli alunni, che quasi tutti sono sforniti di mezzi per provvedersene.
Non poche scuole poi mancano fino degli scanni e delle tabelle per l’insegnamento del leggere e dello scrivere...
Che si direbbe poi se si sapesse che moltissimi maestri sono rimunerati peggio di una fantesca, ricevendo soldi meschinissimi, che in taluni luoghi non oltrepassano i ducati dieci o dodici all’anno?...
E se a tutto ciò si aggiungesse che il soldo del maestro e della maestra è per il primo ad invertirsi ad altro uso, ad ogni più lieve bisogno del comune, anteponendosi il bene materiale al morale, chi non vedrebbe essere ben altra, che la poca vigilanza o il ninno incoraggiamento, la cagion vera dello scarso frutto delle scuole primarie?
E tutto questo senza tener conto delle intrusioni da parte de’ maestri, e talvolta dei sindaci, di sostituti abusivi, per lo meno ignoranti e mai sempre non curanti dell’insegnamento...93.
Situazioni intermedie tra quelle del Lombardo-Veneto e del Mezzogiorno si ebbero negli altri Stati italiani. Così nei domini sabaudi l’istruzione primaria fu sostanzialmente trascurata fino all’inizio degli anni ’40, nei quali soltanto prese l’avvio un vasto movimento rinnovatore. Prima di quella data l’istruzione elementare, affidata prevalentemente al clero, improntata a spiriti confessionali e finalizzata allo studio del latino, riguardò solo superficialmente le classi popolari; e sebbene un regolamento del 23 luglio 1822 avesse previsto l’istituzione di classi elementari nelle città, nei capoluoghi di mandamento e possibilmente in tutti i borghi e le terre, la scarsità di docenti, la mancanza di sanzioni a carico di quei comuni che non avessero proceduto all’attivazione delle scuole, la resistenza dei genitori (che preferivano inviare i figli al lavoro piuttosto che nelle aule) impedirono una realizzazione su vasta scala delle disposizioni governative. E a documento delle tristi condizioni della scuola elementare negli Stati sardi ci sembra che possano essere opportunamente riportate queste notazioni dal vivo del pedagogista piemontese Vincenzo Troya: « Entrando in queste scuole zeppe di vispi fanciulletti, voi vedevate d’ordinario regnarvi un’orribile confusione, un chiasso spaventevole... Quivi per primo libro la cosi detta charta latina, il catechismo della diocesi, libro ottimo e necessario, ma il meno confacente per materia di prima lettura ai fanciulli. E dopo parecchi anni di frequenza a queste scuole, quale ne era il profitto? Cercate nella classe del popolo, e soprattutto
$3 G. Nisio, op. cit., p. 30.
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nei villaggi, quanti sappiano leggere, scrivere, conteggiare...: troveremo l’istruzione primaria non lontana da una generale ignoranza »94.
Quanto al Granducato di Toscana, ai lenti progressi che si avvertivano nelle città faceva riscontro la stagnante arretratezza dei contadi (« La-gnansi là molto — osservava il Mittermaier nel suo noto scritto Delle condizioni d’Italia — che i parrochi di campagna non abbiano per le scuole interesse alcuno, le comuni alcuna voglia di fondarle; e quindi cosi spesso crescono i figli in campagna senza istruzione di sorte »95) tanto che negli anni ’40 su circa 280.000 fanciulli in età scolare i frequentanti erano poco più di 21.000 96. E il quadro volgeva al peggio nello Stato pontificio, dove le scarse scuole primarie, nelle mani del clero e imperniate sull’insegnamento religioso e su quello dèi rudimenti del latino, interessavano soltanto marginalmente gli strati popolari, sui quali continuava a gravare la coltre di una secolare ignoranza. Né il tono medio era di certo elevato dalle scuole elementari private, chiamate « scuole regionarie », per le quali può bastare questa descrizione del Morichini: « L’aspetto di molti di questi luoghi è piuttosto sconfortante. Imperrocché vedi ammassati alle volte in una sola stanza a pianterreno più fanciulletti tenuti con pochissima nettezza: chi piange, chi strepita, questi è penzolone al muro, cui è raccomandato da un nastro, quegli giace nel lezzo »97.
Più limitati di quelli relativi al pauperismo e all’istruzione primaria appaiono gli altri interventi dei governi e delle amministrazioni locali di fronte alle grandi questioni sociali alle quali si applicava in quei decenni il dibattito culturale; ma poiché non è qui possibile scendere ad una analisi approfondita delle misure pratiche, della strumentazione amministrativa e degli orientamenti ideali, ci limiteremo ad accennare ad alcune direzioni di ricerca.
Sarebbero anzitutto desiderabili lavori dettagliati sulla struttura sanitaria (medici, chirurghi, levatrici, farmacie) e ospedaliera e sulle condizioni dell’« igiene pubblica »98 delle città maggiori e minori e sul multiforme mondo dei contadi, sia in tempi normali che nelle stagioni di tensione
94 Sulle scuole elementari in Piemonte v. G. Griseri, L'istruzione primaria in Piemonte (1831-1856), Torino, 1973.
95 C. Mittermaier, Delle condizioni d'Italia, Lipsia-Milano-Vienna, 1845, p. 207.
96 Ibid., p. 207.
97 C. L. Morichini, Degl'istituti di pubblica carità, cit., pp. 245 sgg.
98 Una introduzione bibliografica sull’argomento è A. Corradi, Dell'igiene pubblica in Italia e degli studi degli italiani in questi ultimi tempi, Milano, 186^
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straordinaria (epidemie, carestie, ecc.) ". Lavori che non dovrebbero essere limitati al terreno istituzionale e amministrativo o di una storia della medicina puramente « interna » e specialistica, ma dovrebbero essere attenti a tutti gli aspetti più rilevanti ai fini di una comprensione intima dei modi di essere materiali e mentali di una società cosi varia come quella italiana della prima metà dell’800: quali ad esempio le forme d’impatto delle epidemie nella coscienza popolare (la credenza negli avvelenatori; la diffidenza verso i medici, temuti come agenti di governi interessati a decimare popolazioni esuberanti; l’ostilità per i ricchi, che la condizione economica metteva in grado di sottrarsi più facilmente al contagio); le manifestazioni della « medicina popolare » (fiducia nei cerretani e nei « conciaossa », abuso dei salassi e dei purganti, e cosi via 10°); la ripugnanza dei contadini e dei popolani in genere nei confronti degli ospedali, considerati anticamere della morte (« Egli è certo — scriveva nel 1834 il lombardo Folchino Schizzi, un esperto di questioni assistenziali — che negli spedali l’aria è affetta da morbifere evaporazioni, che il prospetto tristissimo di tanti infelici straziati da tanti e diversi malori, che l’aspetto di morte signoreggiante costantemente in questi asili della miseria umana, che i sonni interrotti dal pianto dell’infermo, dal lamento dell’agonizzante, dalla pia voce de’ sacerdoti che fanno coraggio al moribondo... e che pregano pace a’ trapassati, sono cause più che bastanti a rendere ragionevole l’avversione che il popolo sente nel recarsi a’ pubblici spedali » 101). E, di nuovo, anche nel settore dell’ordinamento sanitario la Lombardia appariva relativamente privilegiata, con la sua rete di ospedali cosi vantata dai pubblicisti del periodo, con il suo servizio di distribuzione gratuita di medicinali ai poveri, con la sua fitta trama di medici, chirurghi, chirurghi minori, ostetriche, farmacisti e veterinari (nel 1842 si contavano nella regione 284 medici in impieghi pubblici, 1.048 nelle condotte, 812 al servizio dei privati, oltre a 1.408 levatrici e 1.011 speziali)102. Anche se poi un’analisi minuta di questa situazione, che faceva pur sempre spicco in Italia, dovrebbe porre in evidenza pecche e carenze gravi, coirle le disfunzioni e il collasso amministrativo di molti ospedali e le limitazioni
99 Per la cronaca delle epidemie v. A. Corradi, Annali delle epidemie, cit.
100 V. ad es. G. Mora, Di alcuni vegetabili in uso medico presso il popolo della provincia di Bergamo, Pavia, 1850 e C. L., Sull'abuso dello spaccio dei purganti, in « L’Igea », Milano, 16 luglio 1863.
101 F. Schizzi, Cenni premessi a De Gerando, Visitatore del popolo, Milano, 1834.
102 G. Canziani, Ordinamento sanitario delle nove provincie di Lombardia, in « Il Politecnico », Milano, 1844, fase. 39°, pp. 223 sgg.
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che a un più efficace disimpegno delle mansioni dei medici condotti ponevano la tenuità dei loro stipendi, il carattere elettivo della carica (i me-cidi condotti erano eletti dai « convocati » o dai consigli comunali, donde — come lamentava un osservatore del tempo — « i brogli, la prepotenza, le parentele, l’interesse, la seduzione, il fanatismo che creano partiti nei casi di scrutini!...; per cui fra concorrenti bene spesso l’ignoranza trionfa prescegliendosi l’incapace ») 1(B, e la precarietà del rapporto, che scadeva ogni tre anni104.
In questo contesto andrebbero studiate tra l’altro le vicende della vaioliz-zazione e soprattutto della vaccinazione, una pratica che avrebbe alla lunga inciso in misura rilevante sulla struttura demografica deh paese contribuendo ad abbassare il quoziente di mortalità: del che si mostravano pienamente coscienti gli studiosi con temporanei, come il De Samuele Cagnazzi, il quale nel 1831 osservava che mentre nelle province del Mezzogiorno, dove la vaccinazione era scarsamente praticata, « di tutti quelli che nascono la metà ne resta all’età di sette in otto anni », nella città di Napoli, dove la vaccinazione era più diffusa, « di tutt’i fanciulli che nascono, la metà ne resta all’età di ventuno in ventidue anni »105; e come Giovanni Strambio il quale, studiando le epidemie di vaiolo verificatesi a Milano dal novembre 1829 al marzo 1834 (con un totale di più di 10.000 casi) metteva in rilievo la bassa percentuale di morti tra i vaccinati « con effetto » 106. Dalla constatazione dell’efficacia della vaccinazione i medici più impegnati traevano poi conforto per proseguire e intensificare la lotta contro i pregiudizi e le diffidenze che avrebbero ancora a lungo ostacolato la generalizzazione di quella pratica, specie nelle campagne. E sempre in tema di vaiolo e delle sue connessioni con la storia del pensiero sociale è doveroso ricordare la sdegnata replica del Romagnosi — proprio in alcune osservazioni allo scritto del De Samuele
103 Sulla condizione dei medici condotti, in « Gazzetta medica italiana - Lombardia », 6 maggio 1850, p. 89.
104 V. tra l’altro: G. Comolli, "Delle condotte mediche, chirurgiche ed ostetriche, in «Gazzetta medica lombarda», 11 settembre 1848; A. Marziali, Sui medici condotti, ibid., 8 luglio 1850; G. Strambio, Intorno alle condutte, ai medici condutti, ed alla opportunità di alcune fra le riforme che si invocano, in « Gazzetta medica italiana federativa. Lombardia», 6 gennaio 1851; L. Balardini, Intorno alle condizioni de’ medici condutti ed alle riforme delle condutte mediche, in « Gazzetta medica italiana. Lombardia», 2 luglio 1855; ecc.
105 L. De Samuele Cagnazzi, La vaccinazione giova o no all’aumento della popolazione?, in « Annali universali di statistica », 1831, XXVII, p. 159.
106 G. Strambio, Della necessità di praticare l’innesto della vaccina in ogni umano individuo..., in « Il Politecnico », 1839, I, pp. 341-342.
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Cagnazzi appena citato — a quanti sulle orme di Malthus si mostravano timorosi che l’uso del vaccino portasse a un ulteriore aumento della popolazione: « Coi principi, co’ quali taluni chiudono gli ospizi degli espostil e fanno guerra ad una temuta, crescente popolazione, si dovrebbe giungere all’orrenda e tifonica conseguenza di porre in disparte tanto la vaccinazione, quanto i cordoni sanitari, lasciando solamente sussistere le precauzioni contro le epizoozie »107.
Continuando a esemplificare in materia di sanità e politica sanitaria, una altra questione sulla quale si esercitarono a lungo le discussioni di medici, igienisti, filantropi e uomini di governo tra metà ’700 e metà ’800 è quella deU’allargamento della coltura del riso e dei suoi effetti sulla salute dei risicoltori e degli abitanti delle zone risate, divenute assai estese nella Val padana; questione di cui andrebbero seguiti anche i risvolti legislativi, concretatisi in una serie di interventi che si mossero nel senso di una limitazione della risicoltura che rifletteva la preoccupazione delle popolazioni di quelle plaghe per l’insidia delle febbri malariche (divieto delle risaie sui terreni posti all’interno di un certo raggio intorno ai centri abitati variabile da qualche centinaio di metri per i villaggi rurali a vari chilometri per le città) ma che si riveleranno pressoché impotenti di fronte alla logica del profitto cui obbedivano grandi proprietari e affittuari108.
Cosi pure un fecondo terreno di ricerca potrebbe essere quello dell’atteggiamento dei pubblici poteri, dei medici e degli studiosi di fronte al problema dell’esposizione infantile: e anche qui lo studio delle strutture amministrative e delle vicende patrimoniali dei brefotrofi (il cui finanziamento pesò in misura cospicua sui bilanci erariali e su quelli locali, costretti a colmare i deficit aperti nelle amministrazioni degli ospedali e dei luoghi pii dal mantenimento degli esposti) andrebbe raccordato a quello degli aspetti sociali del fenomeno e del lungo dibattito che si intrecciò anche in Italia, sulla falsariga della discussione francese, tra oppositori e fautori dei brefotrofi e della « ruota » (e vai la pena di ricordare qui che fra i primi fu anche Francesco Ferrara, il quale in un saggio del 1838 asseriva che gli ospizi dei trovatelli erano inutili in quanto facevano morire un numero di fanciulli non inferiore a quello che sarebbe perito senza di essi, dannosi perché corrompevano la morale domestica,
107 In « Annali universali di statistica », 1831, XXVII, p. 165.
108 Cfr. L. Faccini, L'economia risicola lombarda dagli inizi del XVIII secolo alla Unità, Milano, 1976, passim.
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ingiusti perché richiedevano il concorso di una spesa pubblica come se fossero stati utili) 109.
Un posto adeguato in questo tipo di indagini andrebbe assegnato anche allo studio delle vicende della « istituzione manicomiale », un settore nel quale in questi decenni si andarono allargando gli interventi della « carità legale ». Varie le cause di questo progrediente interesse pubblico: l’allarme suscitato un po’ in tutta Europa dalla presunta crescita del numero dei pazzi (il Morichini parlava di un aumento « progressivo e spaventevole » del quale faceva responsabili l’indebolimento del sentimento religioso e gli sconvolgimenti politici1I0), l’acquisita consapevolezza che i pazzi erano malati curabili come gli altri (e basti pensare a un precursore di fine ’700, il fiorentino Chiarugi) e non piu dei condannati senza speranza, la diuturna battaglia condotta da filantropi e riformatori per un piu umano trattamento dei malati mentali. Di conseguenza non soltanto i folli furono sottratti alla malsana curiosità di visitatori in cerca di emozioni, ma si avviò anche una profonda trasformazione dei sistemi usati nel trattamento di quei malati, spesso ancora tenuti in una reclusione comune con i carcerati; si ebbero cosi l’abbandono graduale delle segrete, delle catene, della sferza (nelle regole dettate nel 1635 e rimaste a lungo in uso per l’ospedale dei pazzi della Pietà in Roma si prescriveva al « maestro dei pazzi » di tener sempre con sé il « solito nervo », con l’avvertenza di esercitare l’ufficio della battitura « con carità e con discretezza » per evitare « errori gravissimi » nel somministrare le percosse)111 e l’introduzione, accanto a pratiche che si sarebbero dimostrate inefficaci (le « sedie ruotanti » e via dicendo), di metodi che testimoniavano una crescente sensibilità dei medici per i problemi psichici dei loro pazienti, primo tra tutti l’« ergoterapia ». E in questa prospettiva, pur tra esitazioni, errori e gravi insufficienze, furono rinnovati o vennero creati ex novo un buon numero di manicomi — le cui vicende andrebbero seguite dall’interno — come quelli di Genova e del Bonifazio a Firenze, la Sena-vra di Milano, il « morotrofio » di Aversa e l’ospizio dei Pazzarelli di Palermo.
Lungo le linee di ricerca qui indicate sarebbero infine da studiare la que-
109 F. Ferrara, Dei fanciulli abbandonati, in « Giornale di statistica di Sicilia », Palermo, 1838, serie la, III (ristampato in « Annali di statistica », Roma, 1890, serie 4a, XXXIX, pp. 46 sgg.).
110 C. L. Morichini, Degl'istituti di pubblica carità, cit., p. 57.
111 Q. Querini, La beneficenza romana dagli antichi tempi fino ad oggi, Roma, 1892, p. 255.
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stione delle carceri e il relativo dibattito, accesosi vivace negli anni ’30 e prolungatosi sino alla vigilia del ’48. Nell’ambito di queste discussioni, che affrontavano anche i problemi di ordine generale dei fondamenti del diritto punitivo, della natura della pena, del rapporto tra « crimine » e società (e molte furono le voci che chiamavano in causa le sperequazioni sociali, la povertà, la disoccupazione, la mancanza di istruzione), intellettuali, filantropi, medici e moralisti giunsero presto ad affermare la necessità di radicali modificazioni del vigente sistema carcerario. Alla base della spinta innovatrice stava la presa di coscienza dell’estremo degra-damento della condizione umana che si verificava nella generalità delle prigioni dei vari Stati italiani; all’insalubrità delle carceri, sia di quelle più vecchie allogate spesso — come si legge in un consuntivo tracciato nei primi anni dello Stato unitario — « in torri e casematte, a livello di fossi e paludi, e perfino a livello di mare, non ventilate, talora non ventilabili, basse, oscure, sepolcrali », sia di quelle più recenti, « non cosi abbominevoli, ma più o meno ripugnanti alla giustizia e alla umanità » 112, si accompagnava infatti la più completa promiscuità, derivante dall’ammassamento in locali comuni di detenuti rinchiusi per i titoli più vari e di tutte le età e giudicata concordemente come una sorta di « scuola scellerata del delitto » m. Di qui l’insistenza dei riformatori — al di là della divisione nelle opposte schiere degli auburniani e dei filadelfiani — sulla opportunità di giungere alla separazione individuale dei detenuti attraverso il sistema cellulare e di utilizzare il lavoro e l’istruzione come strumenti di emenda. Ma anche in questo caso le discussioni non furono seguite dalle realizzazioni: per cui i problemi derivanti da un sistema carcerario indegno di un paese civile furono ereditati dallo Stato unitario, la cui azione del resto continuò ad essere gravemente carente e disorganica.
L’elenco indicativo delle questioni aperte e dei temi di ricerca potrebbe essere ulteriormente allargato, ma quanto si è sin qui detto potrà forse apparire sufficiente per l’intento che ci si era proposto, quello cioè di invitare all’approfondimento di vicende e di aspetti della storia sociale del nostro paese ai quali si deve ancora applicare il comune impegno degli studiosi.
112 F. Bellazzi, Prigioni e prigionieri nel Regno d’Italia, Firenze, 1866, p. 19.
113 Ibid., p. 12.