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Title
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L'Alto e il Basso ovvero la Storia e il suo Rovescio
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Creator
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Giulia Calvi
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Sergio Bertelli
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Date Issued
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1981-01-01
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Is Part Of
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Archivio Storico Italiano
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volume
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139
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issue
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4 (510)
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page start
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551
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page end
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579
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Publisher
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Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Relation
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Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
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Rights
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Archivio Storico Italiano © 1981 Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230921184610/https://www.jstor.org/stable/26211555?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxMSwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjI1MH19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Aeb6e899e1ae8a0814a952eb52b74e46d
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Subject
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surveillance
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discipline
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governmentality
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state
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apparatus (dispositif)
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power
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extracted text
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L’Alto e il Basso
ovvero la Storia e il suo Rovescio
1. Bachtìn, il Carnevale e la Quaresima
È stato scritto che « le mode culturali in Italia divampano improvvise, bruciano rapidamente e si spengono senza lasciar traccia »? Una di queste mode (anche se c’è da augurarsi che non si esaurisca troppo presto, degna com’è di dibattito) sembra oggi rappresentata dalla lettura, finalmente in italiano (a oltre dieci anni dalla traduzione in francese) del saggio di Mi-chail Bachtìn: Fvorcestvo Fransua Rable i narodnaja kuVtura srednevekov’ja Renessansa (1965) (Uopera di Rabelais e la cultura popolare). Una lettura che già ci era stata indirettamente anticipata nelle opere dei più aggiornati studiosi in questo campo, ma che è da presumere amplierà ora di molto il dibattito sulla cultura popolare e la microstoria. Unico pericolo è che le tesi abbastanza nette (troppo nette) di Bachtìn vengano accolte acriticamente, spronando a facili imitazioni (e in questo una sua ‘moda’). Perché il successo che sta arridendo a questo libro sembra a noi provocato dal fatto che in esso si fornisce un’interpretazione ‘ onnivora ’ del mondo subalterno, attraverso una griglia abbastanza semplice di interpretazione della festa, intesa sempre e soltanto come ‘ rovescio ’ del reale e, di conseguenza, affermazione contestatrice di un ‘ basso materiale corporeo ’ di contro ad un ‘ alto ’ gerarchicamente e so-
1 C. Ginzburg, Introduzione a P. Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna, Milano, Mondadori 1980.
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cialmente inteso: « nei fenomeni della cultura comico-popolare ritroviamo soprattutto » — scrive Bachtìn - « la dialettica nella forma figurata ».
Vi è in questo metodo una forte connotazione ideologica (ritorneremo su questo più avanti), che consente subito il ritrovamento della trincea in cui collocarsi, da parte di una critica storica politicamente engagée, quale è rappresentata da non pochi degli studiosi attenti ai problemi della social history. Quel « dialogismo polifonico » che Bachtìn riprendeva da Dostoevskij (un autore da lui studiato prima di affrontare Rabelais e per colpa del quale, agli inizi degli anni Trenta, quando metteva mano a questa nuova impresa, scontava il confino a Kustana] in Siberia) assumeva i termini semplici (semplificati) della dialettica hegeliana filtrata attraverso il dibattito tra Lenin e Plehanov. Non a caso Carlo Ginzburg, nell’introdurre al libro di Peter Burke, parla di un « trionfo della Quaresima » in termini di « repressione della cultura popolare » e si serve dell’esempio della persecuzione della stregoneria in età moderna come dimostrazione « che tra la cultura delle classi dominanti e quella delle classi subalterne esistevano già da tempo forti elementi di tensione ».2 È così stabilito un nesso dialettico tra un Carnevale visto come genuina espressione di cultura popolare e di contestazione dell’ordine sociale e una Quaresima che giunge dall’alto a spegnere quel momentaneo fuoco di ribellione. Senonché autorevolmente Julio Caro Baroja ci ha da tempo spiegato come Carnevale e Quaresima siano tutt’uno, anzi come il Carnevale non possa esistere senza l’idea della
2 C. Ginzburg, Introd. cit., p. xm. Un suo apprezzamento di Bachtìn è già nella prefazione a II formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del "500, Torino, Einaudi 1976, pp. xiv-xv.
3 J. Caro Baroja, Le Carnaval, trad. fr., Paris, Gallimard 1979, in particolare le pp. 26 sgg. Ma cfr. anche Y.-M. Bercè, Bete et révolte. Des mentalités populaires du XVIe au XVIIP siècle, Paris, Hachette 1976, p. 25: « Il est vrai, en effet, que le Carnaval ne manque pas de résonnances chrétiennes. Il s’insère dans le calendrier liturgique qui fait succeder et contraster les jours de joie et ceux de pénitence. Son sacrifice à la fin des jours gras et son accompagnement du Carème s’accordent avec la nécessité dogmatique de la douleur et de la mort pour assurer le salut et la résurrection ».
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Quaresima, nel Medioevo europeo.3 Quanto alla persecuzione della stregoneria, occorrerebbe essere altrettanto cauti e distinguere, intanto, tra tempi e luoghi (città e campagna, pianura e valli montane); ma soprattutto bisognerebbe chiarire perché mai essa fu più intensa oltr’Alpe (forse che in Italia esistette, invece, una concordia tra le classi?); o chiarire, ancora, perché i tribunali fiorentini, per tutto il Quattrocento, tendessero a sottrarre i giudizi di stregoneria alla giurisdizione vescovile e li derubricassero in reati di truffa e millantato credito, quando, nello stesso periodo, nei paesi baschi e nella Navarra la stregoneria era considerata un flagello sociale così grande che le stesse popolazioni impetravano la sua persecuzione rivolgendosi al re Enrico IV di Castiglia;4 e occorrerebbe ancora chiedersi perché processi clamorosi come quelli studiati da Robert Man-drou per la Francia secentesca coinvolgessero non già appartenenti alle classi subalterne, ma religiose ed ecclesiastici non periferici: Madaleine Bavent e Urbain Grandier, o medici come Charles Poirot.5 Alla stessa stregua, quando Robert Muchem-bled, dopo aver a lungo e diffusamente riportato gli atti d’un processo per stregoneria avvenuto nel 1446, ne conclude che « la culture populaire s’exprime dans le monde rurale par une vision du monde superficiellement christianisée mais fonda-mentalment magique »,6 possiamo anche essere d’accordo; ma ci chiediamo se davvero questo mondo magico fosse limitato al solo mondo rurale e se non partecipassero dello stesso mondo e inquisitori e inquisiti. Forse che Heinrich Institor e Jakob Sprenger, quando stendevano il loro Malleus maleficarum (1486), pensavano di raccogliere materiale folklorico? Forse che Jean Bodin, con la sua Detnonomanie (1580) non credeva in quello stesso mondo magico? e non potrebbe dirsi altret-
4 J. Caro Baroja, Les sourcières et leur monde, trad. fr., Paris, Gallimard 1972, p. 163.
5 Cfr. in R. Mandrou, Magistrati e streghe nella Francia del Seicento. Una analisi di psicologia storica, trad. it., Bari, Laterza 1971.
6 R. Muchembled, Culture populaire et culture des élites dans la France moderne (XVe-XVIIIe siècles), Paris, Flammarion 1978, p. 117.
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tanto per Cotton Mather, quando stendeva le Memorable Pro-vidences Relating to Witchcrafts and Possessions (1689)? Vogliamo dire, con ciò, che se di fronte a delle realtà complesse, contraddittorie, ambigue, polisemiche, lo storico della società può trovare nella dialettica ‘ plehanoviana ’ di Bachtìn un allettante strumento interpretativo (« per molto tempo ancora » - afferma Ginzburg - « ci si dovrà nutrire delle splendide pagine di Bachtìn »; « un admirable livre » lo dice a sua volta Muchembled), non per questo quelle realtà cesseranno di essere complesse, contraddittorie, ambigue e polisemiche; anzi, continueranno a sfuggire a quanti vorranno disporle all’interno di una chiara e preordinata griglia dialettica degli opposti.
2. Cultura popolare e « Popular Culture »
Ma, innanzi tutto, è possibile delineare una storia della cultura popolare? e che cosa intendiamo per cultura popolare? Suggerisce Peter Burke: « un sistema di significati, atteggiamenti e valori condivisi, unitamente alle forme simboliche (azioni, manufatti) in cui essi si esprimono e si traducono ».7 Ma non stiamo semplicemente facendo dell’antropologia, studio d’un tempo immobile e diacronico, e non dinamico e perciò storico? È ben vero che lo studioso della cultura popolare deve avvalersi « di tutte le tecniche dell’analisi letteraria » (Thompson), così come dell’iconologia (Gombrich) e certamente e forse in primo luogo del metodo antropologico; ma deve stare attento a non farsi catturare da nessuna delle tecniche da lui poste in atto, se non vuole rischiare (è la critica di Thompson a Keith Thomas) « delle comparazioni manifestamente dissimili »8 o finire per teorizzare (in un novello pirro-
7 Burke, Cultura popolare cit., p. 1.
8 E. P. Thompson, Società patrizia cultura plebea, trad. it., Torino, Einaudi 1981, p. 261. Il pericolo d’un’antropologia astorica è stato denunciato da parte di C. Geertz, The ìnterpretation of Culture, London, Hutchinson of London 1975, pp. 35-36: «The image of a Constant human nature independent
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nismo storico) Phistoire immobile di Le Roy Ladurie. Quanti ‘ azanda ’ intralciano i nostri studi sulla stregoneria europea, dopo il saggio di Evans-Pritchard! Su questa strada si corre il rischio di fare della cultura popolare una categoria generale e onnicomprensiva. L’idea che si sia davanti ad una trasmissione continua e « immémoriale » di antiche usanze ha creato il mito, quanto mai deleterio, d’una filiazione millenaria, stroncata dal nostro tempo industriale e cittadino.9 Si è perso così lo studio della nascita e dell’evoluzione (della storia) della festa, del rito, in un appiattimento astorico.
Ma nemmeno si può accettare la riduzione della cultura popolare al solo momento ludico, come pretendono Castor e Werthman, nell’introdurre alla loro antologia, The History of Popular Culture. Dopo aver premesso che, per loro, « man’s culture is thè complex of all he knows, all he possesses and all he does: his law and his religious beliefs, his arts and morals, his customs and ideas », essi propongono di considerare cultura popolare solo ciò che distrae la mente dell’uomo dalle tristezze della vita: « popular culture may be seen as all those things man does and all those artifacts he creates for his own sake, all that diverts his mind and body from thè sad business of life. Popular culture is really what people do when they are not working; it is man in pursuit of pleasure, excitement, beauty and fulfillement ».10 Salvo, poi, all’atto pratico, ricono-
of time, place and circumstances, of studies and professions, transient fashions and temporary opinions, may be an illusion » (ma v. anche oltre, alle pp. 43-44: « The major reason why anthropologists have shied away from cultural parti-cularities when it carne to a question of defining man and have taken refuge instead in bloodless universals is that, faced as they are with enormous variation in human behavior, they are haunted by a fear of historicism, of becoming lost in a whirl of cultural relativism so conclusive as to deprive them of fixed lear-nings at all. »).
9 Bercè, Féte et révolte cit., pp. 9-10.
10 The History of Popular Culture, N. F. Castor-M. S. Werthman edd., New York, The Macmillan Co. 1968, pp. xxi-xxii. In questo senso più ampio di ‘ quotidianità ’ sembra collocarsi il tentativo di distinzione di F. Ferrarotti, Storia e storie di vita, Bari, Laterza 1981, p. 100: « la distinzione fra alta cultura e cultura popolare - o ‘ bassa ’ - obbedisce forse alla dicotomia fra cultura riflessa, ossia articolata e pienamente consapevole, e cultura immediatamente esistenziale, ossia antropologicamente intesa come modo di vita, insieme di espe-
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scere che questa cultura si manifesta in una serie di momenti di vie quotidienne (« vie de tous les jours » la definisce Mu-chembled), che accomunano sovrani, principi e nobili a borghesi, artigiani e contadini, in episodi della loro vita quotidiana e comportamentale.
Sarebbe forse più chiaro se, allora, sostituissimo alla parola ‘ cultura ’ la tedesca Kultur (di diverso segno semantico) e parlassimo di Kulturgeschichte (Gustav Klemm) anziché di storia della cultura popolare? Ma Kultur ha, innanzitutto, il difetto di essere una parola datata, almeno e altrettanto del termine folklore che Burke riconosce, appoggiandosi a Gramsci, come « manifestazione propria delle classi subordinate ».u Solo che, nel rintracciare le proprie ascendenze, Burke equivoca sul significato della scoperta del folklore nella Germania di Herder e dei Grimm, che non fu già scoperta di cultura popolare, ma ricerca dell’anima di una nazione (il Volks Geist e si lasci da parte il termine nazionalismo, che è ben altra cosa di come l’intende Burke). Quel Volksgeist Jacob e Wilhelm Grimm ritenevano di poterlo trovare nelle fiabe dell’infanzia, nonché nell’ ‘ invenzione ’ d’una comune lingua altomedievale del popolo germanico, nell’accezione totale e misticheggiante che viene attribuita al termine da alcune correnti ideologiche di quegli anni; press’a poco gli stessi in cui, in Francia, a sua volta, Jules Michelet parlava di un « peuple tout entier » che
rienze e di valori condivisi, essenzialmente legato alla quotidianità, rilevazione e interpretazione delle pratiche di vita e delle tradizioni, non sentimentalmente ripensate come mero folklore popolare, ma criticamente ripensate come visioni del mondo psicologicamente rassicuranti e nello stesso tempo costellazioni di valori cognitivi, legati e verificati dall’esperienza della vita d’ogni giorno ». Ma cfr. anche in W. H. Sewell, Work and Revolution in France. The Language of Labor from thè Old Regime to 1848, Cambridge, Cambridge University Press 1980, p. 10: « Ideas and beliefs are not limited to certain classes of acti-vities or to certain classes of people. They are woven into thè very fabric of thè everyday life of ordinary people ». Forse la fonte di Castor e Werthman sarà stata K. Kereny, di cui cfr. Morfologia e tematica della festa (1940), in La festa. Antropologia etnologia folklore, F. Jesi ed., Torino, Rosenberg e Sellier 1972, p. 46: « Il creare è atto festivo, di contro al fare quotidiano ».
11 Burke, Cultura popolare cit., p. 1. Per una più ampia discussione sul termine, cfr. Il concetto di cultura, P. Rossi ed., Torino, Einaudi 1970.
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aveva conquistata la Bastiglia, nella stessa valenza del Volks-geist germanico (quello stesso peuple, verrebbe da aggiungere, che partendo da Arles, 1’8 settembre 1792, giungeva a Tara-scona per distruggere la Tarasque e impedirne la festa, in nome dei nuovi ideali laici rivoluzionari ...).12
Datati dunque questi termini, dovremo accantonarli, avvertendo al tempo stesso la diversità di applicazione metodologica che il termine cultura popolare assume in Italia nel dopoguerra, rispetto alla Francia e al mondo anglosassone. In Italia la categoria cultura popolare è stata fin qui strettamente confinata agli studi antropologici e risente tutt’ora del dibattito aperto da Ernesto De Martino su « Società » del 1949 e dell’uso che da allora in poi è stato fatto del termine dalla sua scuola: lo studio del « mondo popolare subalterno » del Sud. Il significato di aggressiva e cosciente contrapposizione tra subalternità ed egemonia era stato tuttavia ambiguamente individuato da De Martino: egli risolveva lo scontro dialettico in una prospettiva di appiattimento, garantita dalla modernizzazione e dallo sviluppo industriale del Sud (di cui in quegli stessi anni si faceva sostenitrice la scuola di Portici). La cultura popolare entrava a far parte in uno stesso tempo di un mondo nostalgico e di un mondo ‘ barbarico ’, dal quale occorreva al più presto uscire: i Sassi di Matera divenivano il simbolo di questa ambiguità.
Dall’altra parte, invece, popular culture attribuisce nuova organicità contrappositiva alla frammentazione conservatrice della vecchia terminologia che aveva spezzato la totalità ‘ populistica ’ dell’Ottocento progressista nel residuo degradato della mob, crowd, canaille. Il termine popular culture opera inoltre due tipi di spostamenti: 1) estende l’ambito dell’analisi all’universo urbano e industriale; 2) riscopre in senso positivo le permanenze culturali come dato non-residuale, ma come leva di coscienza e di azione storica (Thompson, Moral Economy}.
Proprio E. P. Thompson, col saggio Patrician Society, Ple-
12 Cfr. in Bercè, Fète et révolte cit., pp. 120-121.
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beian Culture (1974) e con l’altro su Class Struggle without Classes (1978) suggerisce un’articolazione scandita cronologicamente del rapporto, per evidenziare il carattere euristico delle due categorie cultura popolare e classey che - altrimenti -cadrebbero nell’indefinitezza formale di ‘ contenitori ’ diacronicamente colmabili di contenuti indifferenziati. In modo analogo George Rude parla di « historical crowd ».13
Questa ‘ cultura plebea ’ ha in Thompson il vantaggio di essere individuata per periodi storici (nel caso specifico, il XVIII secolo); in secondo luogo può essere definita con migliore approssimazione, se non altro per via indiretta, conoscendo a che cosa e a chi si opponesse: « questa cultura plebea non era né una cultura rivoluzionaria né proto-rivoluzionaria; ma non la si potrebbe neppure definire come una cultura deferente. Produceva sommosse ma non ribellioni, azioni dirette ma non organizzazioni democratiche ».14 Era, insomma, una embrionale ‘ coscienza della folla ’.15 Ma con ciò, di sicuro, muterebbero di significato e uscirebbero dal concetto di cultura popolare come cultura subalterna molte manifestazioni (per-for mances le dice Burke), che Bachtìn e molti dei nostri storici della cultura popolare vorrebbero invece ricondurre nell’ambito della rottura dei rapporti gerarchici, della rottura dell’ordinamento sociale.
3. « FaCES IN THE CROWD »
Come recuperare, allora, quelle che Asa Briggs ha chiamato « thè faces in thè crowd » in età pre-industriale? In altri ter-
13 G. Rude, The crowd in History. A Study on Popular Disturbances in Trance and England, 1730-18481 London, Lawrence & Woshart 1981, p. 10.
14 Thompson, Società patrizia cit., pp. 296-297.
15 Cfr. in Bercè, Féte et révolte cit., pp. 82 sgg., laddove tratta degli attributi del carnevale divenuti emblemi di rivolta, come, ad es., il travestimento donnesco dei ribelli, « dames blanches » o « dames sarrasines », osservando che il linguaggio del folklore corrispondeva alla loro identità, faceva parte di loro stessi: «il était leur meilleure affirmation par rapport aux innovations des siècles modernes, mais de cela ils n’avaient certes pas conscience ».
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mini, come delineare l’individualità storica di una folla al di là della terminologia imposta dalle classi egemoni o dall’appiattimento del moderno storico quantitativo? L’articolarsi dell’identità dei soggetti sociali coinvolti in azioni di massa esprime categorie legate all’aspetto fisico (senzabrache a Bologna; straccioni a Lucca; va-nu-pieds in Normandia; black-legs in Inghilterra; sans culottes a Parigi; camisards ancora a Parigi); al mestiere (beccherini a Perugia; weavers nelle rivolte popolari inglesi); alla socialità corporativa (ciompi a Firenze; com-pagnons); alla condizione sociale (gueux nei Paesi Bassi).
Se queste si propongono per lo più come coordinate ‘ esterne ’ dell’identità sociale, in base a quali valori si esprime il rapporto individuo-gruppo per i protagonisti? Che pregnanza simbolica assume il nome di battesimo, il soprannome, la qualifica di mestiere? Quale significato intimo rivestiva l’autode-nominarsi di tali gruppi? I luddisti, ad es., derivavano il loro nome da King Ludd, il mitico loro capo nascosto nella foresta di Sherwood, la stessa che aveva ospitato Robin Hood, in un contesto millenaristico da Emperor of thè Last Day (Maurice Keen, Norman Cohn).
Lawrence Stone ha parlato di due correnti storiografiche: la qualitativa, volta a studiare le élites in una - diremmo noi -Namierish proportion e la quantitativa, indirizzata allo studio di aggregati sociali più ampi.16 Carlo Poni e Carlo Ginzburg, a loro volta, hanno proposto una prosopografia ‘ dal basso ’, mirando a conciliare le due correnti e facendo esempi concreti relativi a loro ricerche in corso.17 Alcuni suggerimenti metodologici in questa direzione, che ci sembrano importanti, ci vengono dal saggio di Clifford Geertz: Person Time and Conduci in Bali, laddove ci dice che « in Bali there are six sorts of labels which one person can apply to another in order to identify him as a unique individuai » che egli propone di considerare secondo schematizzazioni all’interno del quadro generale:
16 L. Stone, Prosopography, in « Daedalus », Winter 1971, n. 100, pp. 46-79.
17 C. Poni-C. Ginzburg, Il nome e il come: scambio ineguale e mercato storiografico, « Quaderni storici », XIV, 1979, p. 184.
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« 1) personal names; 2) birth order names; 3) kinship terms; 4) teknonyms; 5) status titles; and 6) public titles ».18 Allo storico, al contrario che all’antropologo, manca, è vero e lo hanno già osservato Poni e Ginzburg, la possibilità di interrogare oralmente le proprie fonti; ma è anche vero che esistono fonti scritte - verbali di interrogatori inquisitoriali, per la Firenze rinascimentale la profluvie di libri di ricordi ecc. - dalle quali è in definitiva possibile desumere questa stratificazione simbolica insita nel diverso articolarsi della nomenclatura.
Con questo torniamo al problema della ‘ cultura ’ nel senso di generalised beliejs (N. J. Smelser) e dell’individuazione per contrasto dei soggetti sociali, proposta da Thompson e sintetizzata da Stuart Hall nel binomio dialettico di containment/ resistance-. « thè study of popular culture has tended to oscillate wildy between two alternative poles of that dialectic - contain-ment/resistance (...) Yet, though formally these were thè cultures of thè people ‘ outside thè walls ’, beyond politicai society and thè triangle of power, they were not, in fact, outside of thè larger field of social forces and cultural relations. They not only constantly pressed on ‘ society ’; they were linked and connected with it, by a moltitude of tradition and practices. Lines of ‘ alliance ’ as well as lines of cleavage. From these cultural bases, often far removed from thè disposition of law, power and authority, ‘ thè people ’ threatened constantly to erupt; and when they did so, they broke on to thè stage of patronage and power with a threatening din and clamour (...) and often, with a striking popular ritual discipline. Yet ne ver quite overturning thè delicate strands of paternalism, deference
18 Geertz, Personal Time and Conduci in Bali, in The Interpretation of Cultures cit., p. 368: « In Bali, there are six sortes of labels which one person can apply to another in order to identify him as a unique individuai [...] These various labels are not, in most cases, employed simulianeously, but alternatively, depending upon thè situation and sometimes thè individuai. They are not, also, all thè sorts of such labels ever used; but they are only ones which are generally recognized and regularly applied. And as each sort consists not of a mere collection of useful tags but of a distinct and bounded terminologica} System, I shall refer to them as ‘ symbolic orders of persondefinition ’ » (il corsivo è nostro).
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and terror within which they were constantly if insecurely constrained ».19
La correzione della tesi thompsoniana d’una cultura non deferente apre un discorso a parte, forse qui troppo ampio per poter essere anche solo accennato, sul rapporto tra deference e egemonia. Quando Eugene Genovese, ad es., studia la defe-rencial society del Sud degli Stati Uniti20 utilizzando il ‘ grimaldello conoscitivo ’ gramsciano, non v’è dubbio come egli trasferisca in un momento storico diverso il quesito che Gramsci si poneva in carcere, distanziandosi e differenziandosi da Lenin: del modo in cui una classe subalterna avrebbe potuto trasformarsi in classe ‘ egemone ’, non solo conquistando « la Bastiglia », ma producendo e imponendo una propria cultura. Ma lo stesso Gramsci non crede in un popolo produttore autonomo di cultura: quando egli parla di « intellettuale organico » al servizio del moderno principe (il partito), egli annacqua, sì, il concetto leninista di avanguardia, ma non riesce ugualmente a delegare la produzione di cultura alle masse. Si mantiene, insomma, su di un piano elitario. A maggior ragione, dunque, in età preindustriale, il problema d’una cultura non deferente, che si contrapponga a quella che potremmo definire la cultura del potere, andrà storicamente verificato. Ancora una volta, insomma, come per il termine cultura popolare, dovremo stare attenti a storicizzare questa deference. Né basta: perché a que-
19 S. Hall, Notes on deconstructing ( thè popular’, in People's History and Social Theory, E. Samuel ed., History Workshop series, London, Routledge & Kegan Paul 1981, p. 227 sgg.
20 E. Genovese, The World of thè Slaveholders made, New York 1969. Per Gramsci si cfr. i suoi appunti Ai margini della storia, Criteri metodologici, in Q. 25 (xxiii), par. 5 (ed. Gerratana, p. 2283): « La storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica. È indubbio che nella attività storica di questi gruppi c’è la tendenza all’unificazione sia pure su piani provvisori, ma questa tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti, e pertanto può essere dimostrata solo a ciclo storico compiuto, se esso si conchiude con un successo. I gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria ‘ permanente ’ spezza, e non immediatamente, la subordinazione. In realtà, anche quando paiono trionfanti, i gruppi subalterni sono solo in istato di difesa allarmata ».
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sto punto sorge un nuovo ostacolo: se davvero e sempre questa cultura popolare possa essere individuabile attraverso la griglia dialettica proposta da Hall.
4. Autonomia e laicità del ‘basso ’?
In un mondo che misurava lo scorrere del tempo sul calendario religioso (Febvre, Le Goff), che viveva nella perenne irregolarità della giornata, della settimana, dell’anno lavorativo scanditi da fiere e feste tradizionali (Thompson), ci riuscirebbe difficile qualificare per cultura popolare (subalterna) cerimonie e feste quali Natale, Capodanno (inizio del periodo carnevalesco), Carnevale, Calendimaggio e Solstizio d’estate; considerare simili performances delle manifestazioni « proprie delle classi subordinate », come accade a Burke21 e, prima di lui, a Bachtìn: « Tutte le forme carnevalesche sono decisamente esterne alla chiesa e alla religione. Appartengono alla sfera del tutto particolare della vita quotidiana »,22 intesa come momento ‘ laico ’, in una totale ambiguità tra concetto di religiosità (anche popolare) e gerarchia ecclesiastica. La cultura popolare è, per Bachtìn, solo cultura laica e la festa di Carnevale ne diviene l’espressione più piena, non già « forma artistica di spettacolo teatrale, ma piuttosto una forma reale (benché temporanea) della vita stessa ».23 Di qui la sua polemica con Lucien Febvre, non perché egli ritenga Rabelais un ateo razionalista, ma perché per lui Rabelais, fondando tutto il suo poema sull’espressione carnevalesca del basso materiale corporeo, si sarebbe dimostrato un perfetto agnostico: « il pensiero artistico di Rabelais non ha a che vedere né con l’ateismo razionalista, né con la fede religiosa, sia essa cattolica, protestante o si richiami alla ‘ religione di Cristo ’ cara ad Erasmo. Il pensiero di Ra-
21 Burke, Cultura popolare cit., pp. 27 e passim.
22 M. Bachtìn, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, trad. it., Torino, Einaudi 1979, p. 9.
23 Bachtìn, L'opera di Rabelais cit., p. 10.
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belais è molto più vasto, più profondo e più radicale. Gli è estranea qualsiasi serietà unilaterale e qualsiasi dogmatismo ».24
Vi è già qui quella valenza ideologica dell’assunto bachti-niano che si era prima anticipato: la religione, per Bachtìn, è imposta dalla cultura seria, che è, allo stesso tempo, la cultura del potere. È contro le feste ufficiali (che « non distraevano dall’ordinamento esistente ») che si ergono i riti carnevaleschi, per lui « completamente privi di carattere magico e religioso » e retti « secondo le leggi della libertà ». Il Carnevale « non coincideva con nessun avvenimento specifico della storia religiosa e con nessuna festa per un santo, si svolgeva negli ultimi giorni che precedevano la grande quaresima»:25 festa ufficiale, quest’ultima e che avrebbe segnato il ritorno alla norma, il rientro nell’ordine gerarchico medievale. Sulla scìa di questa interpretazione Burke è giunto al punto di vedere, nel quadro di Breughel II combattimento tra il Carnevale e la Quaresima, la personificazione del Carnevale « come un simbolo della cultura popolare tradizionale » e la personificazione della Quaresima, « che sta dalla parte della Chiesa, come simbolo del clero, impegnato, in quel periodo (1559) nel tentativo di sopprimere molte festività popolari ».26
Quanto meccanica, errata e arbitraria sia questa contrapposizione si è già detto, ma varrà la pena di insistervi, dal momento che l’esempio è divenuto uno dei cavalli di battaglia della dialettica ‘ plehanoviana ’ dei nostri storici della cultura popolare. « Autrefois » - ha scritto Yeves-Marie Bercé - « tout le monde partecipait aux fétes. Les plus grand personnages de la ville ou de la province entraient dans la danse (...) Plus exactement les élites sociales donnaient le signal et le modèle des jeux collectifs et le commun peuple leur servait de public ou d’imitateur. Dans les beaux carnavals urbains, les cortèges et les scènes costumées étaient menés par les fils des plus gran-
24 Ivi, p. 145.
25 Ivi, p. 11.
26 Burke, Cultura popolare cit., p .203.
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des familles ».27 Nel 1393 Carlo VI di Francia partecipava lui stesso ad un charivari in occasione delle quarte nozze d’una dama d’onore della regina;28 nel Quattrocento a Ferrara, come riconosce lo stesso Burke, il duca « si univa al divertimento generale, girando mascherato per le strade ed entrando nelle case dei privati per danzare con le dame »;29 a Firenze, tra Quattro e Cinquecento, Lorenzo il Magnifico e Machiavelli partecipavano al carnevale, e nel 1559 veniva stampato un volume di canti carnascialeschi, dove tra gli autori, oltre a Lorenzo e a Machiavelli, troviamo Benedetto Varchi e il Lasca.30 Ma gioverà qui rammentare, anche, come tutta la tradizione antropologica abbia dimostrato il ritualismo obbligato delle manifestazioni carnevalesche (e si cfr. per questo quanto scrive Natalie Zemon Davis a proposito di riti di violenza, quali, ad es., lo charivari)31 e come la persecuzione degli eccessi carnevaleschi non sia solo legata ad un particolare momento storico (quello della Controriforma), come vorrebbe Burke. Intanto, il personaggio della Quaresima (una donna magrissima, alta ed emaciata) è uno degli elementi essenziali della stessa festa carnevalesca (ne è la sua conclusione); ma non può nemmeno riferirsi, come origini, al momento repressivo della Controriforma. Quanto alle restrizioni degli eccessi, le ritroviamo sia prima sia dopo Trento, né si limitano al momento del Carnevale, perché il discorso andrà allargato a tutti i riti di violenza,
27 Bercè, Féte et révolte cit., p. 63.
28 Ivi, p. 41.
29 Burke, Cultura popolare cit., p. 28.
30 Tutti i trionfi, carri, mascherate o canti carnascialeschi andati per Firenze dal tempo del Magnifico Lorenzo vecchio de Medici, quando egli hebbero prima cominciamento, per infino a questo anno presente 1^9: cfr. in S. Bertelli-P. Innocenti, Bibliografia machiavelliana, Verona, Valdonega 1979, sec. XVI, n. 126; XVIII, n. 63.
31 Sui riti di violenza si v. V. Turner, Humility and Hierarchy: thè Limi-nality of Status Elevation and Reversai, in The Ritual Process, London, Rout-ledge & Kegan Paul 1969 e, di contro, N. Z. Davis, Le culture del. popolo. Sapere, rituali e resistenze nella Francia del Cinquecento, trad. it., Torino, Einaudi 1980, pp. 133-136. Sul charivari (dal genovese chiavaruglio, in inglese: rough music) si v. anche il saggio di E. P. Thompson, in Società patrizia cit., pp. 137 sgg. nonché Bercè, Féte et révolte cit., p. 40 sgg.
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ai quali partecipavano — come testimonia nel IX secolo Agnello ravennate — « non solum illustres, sed homines diversae aeta-tis, iuvenes et ephoebi, mediocres et parvuli promiscui sexus » 32 e il cronista lo registrava con riprovazione. Così gli scabini di Lille, ad es., nel 1382, vietavano tutti i giochi che potevano causare turbolenze e il loro editto era periodicamente rinnovato nel 1397, 1428, 1483, 1514, 1520, 1544, 1552, 1559, 1573, 1585, 1601.33 Così nel 1523, Carlo V, su richiesta delle Cortes spagnole, promulgava una legge che proibiva i travestimenti e le maschere 34 e l’elenco potrebbe agevolmente continuare, sino a divenire tedioso, se questi esempi non comprovassero una cosa elementare: come alla festa - assembramento di folla - si dovessero accompagnare, ieri come oggi, provvedimenti cautelativi di polizia. Certo, dopo la data di chiusura dei lavori conciliari tridentini (dicembre 1563) questi' editti limitativi delle licenze carnevalesche sono diretti anche e direttamente contro l’essenza stessa della festa; ma essi si prolungano nel tempo, assai oltre i limiti temporali abbracciati dalla Controriforma. Julio Caro Baroja ha potuto rintracciare, per la sola Madrid, una quantità enorme di editti restrittivi, dal 1586 al 1816.35 Quanti altri editti simili ed emanati con altrettanta frequenza si potrebbero raccogliere, ad es., per i tanto celebrati carnevali di Roma e di Venezia? E chi può affermare che simili restrizioni avvenissero nell’Europa cattolica e non anche (e in ben maggior misura!) nell’Europa protestante?
Vorremmo aggiungere che è del tutto improprio vedere in rivoluzioni religiose quali Riforma e Controriforma delle mere
32 Agnello Ravennate, Cronaca, RIS1, I, II, Damiano vesc., xxxvi. La strada della contrapposizione sociale, tra cultura alta e cultura ‘ bassa ’ può giocare dei brutti scherzi. Come accade a Muchembled, quando, trovando che a Valenciennes, almeno sin dal 1510, si celebrava ogni maggio la festa della Principauté de Plaisance, scrive che « les habitants les plus notables tenaient à y figurer [...] et pourtant ces fétes organisées conservaient nombre de traits populaires, qualifiés d’excès dans les descriptions du temps » (op. cit., p. 185, sottolineatura nostra).
33 Muchembled, Culture populaire cit., p. 198.
34 Caro Baroja, Le Carnaval cit., p. 155.
33 Ibid.
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repressioni delle classi dominanti. Il concilio di Trento non fu certo convocato spontaneamente dal pontefice romano, gli fu anzi imposto ‘ dal basso ’ ed ebbe una meccanica ‘ rivoluzionaria ’, nel senso che le correnti ideologiche che lo imposero furono a loro volta stritolate e travolte in un crescendo di ortodossia. Dall’altra parte dello steccato, che dividerà d’allora in poi l’Europa, se Lutero autorizzava nel 1521 a Wittenberg un carnevale antipapista, è anche certo che presto il sentimento comune dei riformati avrebbe giudicato quella festa un relitto del passato, né più né meno di come la giudicarono i cittadini di Arles marciando su Tarascona: « Dans les cités gagnées à la Réforme, l’ordre évangélique fait tomber en désuètude le jeux du Carnaval ».36 Riforma e Controriforma furono in realtà - anche nelle loro espressioni più crude - sempre dei fenomeni di massa, non per questo necessariamente progressivi. Ricordiamoci che il carnevale fiorentino del 1495 fu sostituito da un popolare ‘ bruciamento delle vanità ’ e che - come scrive il piagnone Pasquale Villari — « i canti carnascialeschi cedevano il luogo alle laudi religiose ».37 Così, ancora, nelle Fiandre la rivolta dei gueux (pezzenti) fu accompagnata non a caso da un parossismo d’iconoclastia. Se allora vi fu un perdente, questa fu proprio la cultura élitaria dell’Umanesimo, quella cultura alla quale anche Rabelais apparteneva. È dunque vero il contrario di quanto si vorrebbe: le masse religiose risposero con la sopraffazione ideologica all’irenismo (al laicismo talvolta) della cultura umanistica. Erasmo soccombette davanti al càri-sma dei Lutero, dei Calvino, dei Loyola, che le masse seguivano fanatizzate.
Questa artificiosa contrapposizione dialettica tra Carnevale e Quaresima è la diretta conseguenza dell’aver voluto riconoscere nel Carnevale il rovescio - più politico che rituale - dell’ordine costituito, « l’abolizione dei rapporti gerarchici ». La
36 Bercè, Féte et révolte cit., p. 68.
37 P. Villari, La storia di Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi, Firenze, Le Monnier 1930, I, p. 365.
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festa, scrive Bachtìn, « consacrava l’ineguaglianza. Al contrario, nel carnevale tutti erano considerati uguali e nella piazza carnevalesca regnava la forma particolare del contatto familiare e libero fra le persone, separate nella vita normale - non carnevalesca - dalle barriere insormontabili della loro condizione (...) Sullo sfondo dell’eccezionale gerarchizzazione del regime feudale medievale (...) questo contatto libero e familiare era sentito molto acutamente e costituiva una parte essenziale della percezione carnevalesca del mondo (...) L’ideale utopico e il reale si fondevano provvisoriamente nella percezione carnevalesca del mondo »;38 di qui la « schiettezza reale della piazza col suo ‘ basso ’ ambivalente e grottesco ».39
5. Il RE DETRONIZZATO
Per Bachtìn le feste si spiegano risalendo ai valori insiti nella loro cultura (siano esse ufficiali e saranno allora espressione della cultura seria delle classi superiori; siano esse popolari, e pertanto esplosione di realismo grottesco). Ma proprio quando egli scrive che « le immagini grottesche, nel loro rapporto sostanziale con l’alternanza provvisoria e nella loro ambivalenza, diventano il principale mezzo di espressione artistico-ideologica del forte senso della storia e dell’alternanza storica che sorge con forza eccezionale nel Rinascimento »,40 egli finisce per attribuire alle feste popolari un carattere lineare e ‘ progressivo ’ opposto a quello ciclico tipico delle feste stagionali (da lui individuate essenzialmente come feste religiose), che tutta la ricerca antropologica moderna in gran parte smentisce. Ma questa linearità gli è essenziale per attribuire alle feste popolari un carattere di universalità alternativa (la vita della festa) alla quotidianità subalterna delle masse: « le forme della festa
38 Bachtìn, L'opera di Rabelais cit., pp. 13-14.
39 Ivi, p. 117.
40 Ivi, p. 31.
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popolare sono rivolte al futuro e rappresentano la vittoria di questo futuro, dell’ ’ età dell’oro ‘ sul passato: è la vittoria dell’abbondanza dei beni materiali, della libertà, dell’uguaglianza, della fratellanza. L’immortalità del popolo garantisce il trionfo del futuro ».41 In questa Weltanschauung bachtiniana il Carnevale sarà allora la festa popolare per eccellenza, nel suo significato di rovescio del reale, di ribaltamento dell’ordine gerarchico costituito. Il fulcro di questa interpretazione sta nella detronizzazione del re e nell’elezione del buffone a re della festa (l’episodio della detronizzazione di Picrocole nel Gargantua, seguito dall’altro della detronizzazione di re Anarco nel Pan-tagruèle)?1
Nelle busse « gioiose », nella finta morte e nella resurrezione del Mangiaprocessi battuto da fra’ Giovanni (1. IV, cap. 16) Bachtìn ritrova daccapo questa detronizzazione e spiega l’episodio come una serie successiva di « atti simbolici diretti contro l’autorità suprema, contro il re (...) il rituale dà il diritto alla libertà e alla familiarità, alla violazione delle regole correnti della vita sociale (...) le busse sono ambivalenti come l’ingiuria che si trasforma in lode. Nel sistema di immagini della festa popolare non esiste la negazione pura e astratta. Le immagini di tale sistema tendono a incorporare, nella loro unità contradditoria, i due poli del divenire ».43 Ma come aderire a questa ricostruzione, quando veniamo a sapere che alla corte di Filippo IV di Spagna, il giorno di martedì grasso del 1638, l’ammiraglio di Castiglia si travestiva da donna, la regina da uomo, il re da vecchio aiutante di campo, il conte di Mondava da vescovo benedicente delle nozze carnevalesche? 44 Ne dovremo concludere che i rituali carnevaleschi non erano affatto - o sempre - sentiti come contestazione dell’ordine gerarchico. Né basta. Perché quando Bachtìn vede nel buffone elevato a
41 Ivi, p. 280.
42 Ivi, pp. 217 sgg. e 424.
« Ivi, pp. 216, 219, 222.
44 Caro Baroja, Le Carnaval cit., p. 97.
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re il ribaltamento dell’ordine sociale, gli sfugge il significato profondo, religioso, che nel medioevo si attribuiva al folle o al bambino (Vepiscopus puerorum). Per bocca d’entrambi si esprimeva più facilmente, grazie alla loro ‘ innocenza ’, la verità divina: « le fou, comme le mystique ou le tout jeune enfant, est celui dont la tète vide, étrangère aux sollecitations du monde, peut recevoir le soufflé de l’Esprit Saint ».45
Il problema che semmai si pone è come ad uno stesso rito, in situazione di estrema tensione sociale, potessero partecipare gruppi umani contrapposti, con significati, valenze e finalità nettamente avverse. Come, in altri termini, il rito potesse essere socialmente piegato a usi diversi: di aperta contestazione sociale o politica e di reale scontro tra i ceti. Nel pieno delle guerre di religione, nel 1580, a Romans, ad es., ai reynages popolari del Montone e del Cappone si contrappongono quelli dei notabili del paese, dai nomi di animali - com’è stato osservato — alati e superiori: il Gallo-Aquila e la Pernice. L’estremo insulto dei superiori agli inferiori è l’editto del giudice Guérin, « maitre du folklore » di Romans, come lo definisce Le Roy Ladurie, il quale sancisce l’inversione dei prezzi: i generi più popolari vengono resi proibitivi, i generi di lusso venduti a vile prezzo. Giovani armati di archibugio affiancano i cortei dei borghesi, mentre gli artigiani, appoggiati dai contadini, alzano i rastrelli e le scope, simboli ambivalenti di fertilità e di festa, ma anche — secondo la relazione al re dello stesso Guérin, il cui partito scatenerà il massacro - di minaccia: « Le car-naval n’est pas seulement une inversion dualiste carnavalesque et purement momentanee du social, destinée en fin de compte à justifier de fagon ‘ objectivement ’ conservatrice le monde comme il va. Il est bien plutót un instrument de connaissance satirique, lirique, tipique pour les groupes dans leur complexité; un instrument d’action donc, éventuellement modificatrice, dans le sens d’un changement social et d’un progrès possible,
45 Bercè, Féte et révolte cit., p. 36.
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quant à la société dans son ensemble ».46 Vorremmo sottolineare, di questa citazione, l’insistere prudente di Le Roy Ladu-rie sull’eventuale possibilità modificatrice della festa nell’am-bìto della sua eccezionalità ciclica. Non la festa ha scatenato la rivolta di Romans, ma le tensioni sociali insite in quella società hanno trovato sfogo e sono esplose durante e attraverso la festa. Non è solo il significato esegetico del rito che va indagato, ma anche — e soprattutto — il suo significato operativo, e cioè l’uso che, in contesti diversi, il gruppo sociale ne fa.47 Nelle numerose rivolte e resistenze popolari di cui è costellata la storia moderna europea, tra XVII e XVIII secolo, potremo dire allora che « ces gens employaient dans leur manifestations collectives le langage du folklore, parce qu’il leur ofirait une gamme simple et riche de situations sociales avec leur réponses en actes fixées par la tradition ^
Ci si potrà a questo punto obiettare che l’episodio del carnevale alla corte di Madrid, citato più sopra, accadeva ad un secolo di distanza dal Gargantua; ma noi restiamo dell’idea che esso non denoti affatto una « statalizzazione della vita della festa », ridotta a « vita di parata » di cui parla Bachtìn per la seconda metà del XVII secolo,49 dal momento che lui stesso trova legittimo utilizzare la testimonianza goethiana sul carnevale romano, come festa genuinamente popolare.
6. Il nettaculo
Di detronizzazioni — oltre a quelle ricordate di Picrocole e di Anarco - è piena, com’è noto - la relazione sugli Inferi
46 E. Le Roy Ladurie, La Carnaval de Romans, Paris, Gallimard 1979, p. 349.
47 Cfr. V. Turner, Ritual Symbolism, Morality and Social Structure among thè Ndembu, in The Foresi of Symbols, Ithaca NY, Cornell Univ. Press 1967, p. 51.
48 Bercè, Réte et révolte cit., p. 87.
49 Bachtìn, L'opera di Rabelais cit., p. 40.
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fatta da Epistemone dopo la sua resurrezione (1. Il, cap. 30): Alessandro Magno rammenda calzette, Romolo fa il salaiolo, Numa Pompilio il ferravecchi ecc. ecc.; mentre, al contrario, i filosofi (Diogene ed Epitteto) se la passano regalmente. È il solito gioco del rovescio o è l’applicazione quasi letterale del Magnificat: et exaltavit humile s7 « Così, tutti quelli che erano stati gran signori quassù in questo mondo, si guadagnavano una vita da poveri vagabondi » - riferisce Epistemone - « mentre al contrario, i filosofi e tutti quelli che avevan dovuto lottare con la miseria quassù, toccava a loro stavolta fare i gran signori ». Volendo restare nella Francia quattrocentesca, il richiamo alla danza macabra (Huizinga, Tenenti) sarebbe quasi d’obbligo. Ma notiamo ancora come Rabelais abbia scelto a ragion veduta, tra i filosofi dell’antichità, Diogene ed Epitteto: sono i due filosofi stoici, famosi per il loro disprezzo per le ricchezze del mondo. Per Bachtìn, invece, essi « hanno il ruolo di buffoni del carnevale, eletti re » e, poiché siamo negli Inferi (il 4 basso ’ per eccellenza), con uno di quegli arditi ponti non infrequenti nel suo discorso, ma del tutto precari, subito egli riconduce l’episodio della morte e resurrezione di Epistemone alla filastrocca del nettaculo di Gargantua (1. I, cap. 13): « l’episodio del nettaculo ci porta direttamente agli Inferi », perché « la serie dei motivi e delle immagini del volto alla rovescia e della sostituzione dell’alto con l’immagine del ‘ basso ’ corporeo è legata alla morte e agli inferi ». Non solo, ma dal momento che tutta la filastrocca di Gargantua infante mira a spiegare al padre quale beatitudine si raggiunga pulendosi il deretano con un papero piumato, Bachtìn aggiunge: « È possibile che Rabelais abbia fatto riferimento alla dottrina della beatitudine di san Tommaso d’Aquino » (cosa tutta da dimostrare), per concludere perentoriamente: « la contraffazione parodica della topologia medievale è evidente ».50 Il risultato finale di questa analisi porta Bachtìn alla conclusione che « nel sistema di immagini rabelaisiane, gli inferi sono il punto cru-
50 Ivi, pp. 414-416.
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ciale, in cui si incrociano le arterie principali di tale sistema: il carnevale, il banchetto, le battaglie e i colpi, le ingiurie e le imprecazioni ».51
A questo risultato si arriva partendo dall’assunto che « il Rinascimento in genere, e il Rinascimento francese in particolare, è caratterizzato, in letteratura, soprattutto dal fatto che la cultura comica popolare nei suoi casi migliori si era elevata al livello della grande letteratura dell’epoca e l’aveva fecondata ».H Ma qui ritorniamo al punto di partenza del nostro discorso. Abbiamo già detto, infatti, come e quanto Bachtìn insista sulla vita della festa e certo il valore maggiore del libro suo sta nel tentativo di spiegare la cultura popolare dall’interno, come un insieme di rapporti omogenei, ma del tutto contrapposti alla cultura alta (anche se in parte assimilati da questa cultura, durante il Rinascimento). Questa spiegazione endogena finisce per teorizzare implicitamente l’autonomia della cultura popolare dalla cultura alta ed escludere la circolarità e l’interdipendenza tra le due. Bachtìn rischia, insomma, di ignorare tutti i passaggi e le figure che hanno mediato i contatti tra le due sfere culturali (si v. in proposito, invece, il discorso di Burke sui ‘ mediatori ’). Ma c’è di più: egli assume il grottesco, il ‘ basso ’ materiale corporeo come segno distintivo di cultura popolare, ma, con questo metro, noi dovremmo dedurne che anche i Ragionamenti (1536) dell’Aretino sono un testo letterario fecondato dalla cultura popolare. I dialoghi tra la prostituta Nanna e l’amica Antonia, tra la Nanna e la figlia, tra la balia e la comare, sono o possono considerarsi fonti di cultura popolare, soprattutto ora che l’edizione critica di Giovanni Aquilecchia ci ha messo a disposizione gli strumenti (a cominciare dal glossario) per la loro utilizzazione, finalmente al di fuori del campo della letteratura galante? Ora è ben vero che tanto Rabelais quanto Aretino sono a cavallo tra la grande libertà espressiva quattrocentesca e la pruderie cinquecentesca,
si Ivi, p. 424.
52 Ivi, p. 149.
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che instaura il canone della decenza verbale,53 ma essi vengono prima e non dopo la fissazione di quel canone. Ricordiamo alcune date: Il libro del cortegiano di Baldesar Castiglione appare a Venezia nel 1528; l’erasmiano De civilitate morum pue-rilium è del 1530; il Galateo di monsignor Giovanni della Casa è del 1558. Siamo ben sicuri che i giganti di Rabelais e le comari dell’Aretino, col loro linguaggio ‘ basso ’ e corporeo, si facessero portavoce d’una cultura ‘ popolare ’ fecondatrice della cultura alta? O quel linguaggio non circolava anche tra le classi superiori, in un’osmosi molto più grande di quanto noi oggi non si possa immaginare? Si pensi al Burchiello, si pensi allo stesso Machiavelli, alla sua lettera da Verona — più che una lettera, un raccontino — o al suo carteggio col Guicciardini, da Carpi: « Io ero in sul cesso quando arrivò il vostro messo ... ».
7. « ClVILISATION DES MOEURS »
Racconta il medico di corte che Luigi XIII, quando ha appena un anno, ride « à plein poumon quand la remuse lui branle du bout des doigts sa guillery », che il piccolo esibisce davanti a tutti, con sua grande soddisfazione, pretendendo addirittura che gli si baci il piccolo pene. Un giorno, già grandicello, davanti ad una « petite demoiselle », « il a retroussé sa cotte, lui a montré sa guillery avec une telle ardeur qu’il en était hors de soi. Il se couchait à la renverse pour la lui montrer »? Il pittore e incisore tedesco Hans Baldung, detto anche Grien (1480-1545) non trovava disdicevole incidere l’immagine della Madonna col bambino, con santa Elisabetta nell’atto di titillarlo con la punta delle dita.55 Così in Rabelais, i diminutivi
53 Ivi, p. 351.
54 Cit. in Ph. Ariés, L'enfant et la vie familiale sous l'ancien ré girne, Paris, Plon 1960, p. 102 sgg.
55 La riproduzione in M. Geiseberg, The German Single-leaf Woodcuts, 1500-1550, revised ed. by W. L. Strauss, I, New York, Hacker Art Books Ine. 1974, p. 74, n. G 84.
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coi quali Gargantua chiama il figlio appena nato « coglioncino mio, petuzzo d’oro » non è detto che fossero davvero considerati ‘ bassi ’ e volgari. Il segnale che Epistemone è resuscitato (1. II, cap. 30) è « un bel peto grosso da famiglia » ed Erasmo raccomanda, nel suo De civilitatex « compressis natibus ven-tris flatum retineat », ma attento!, perché potresti anche ammalarti: « reprimere sonitum, quem natura fert, ineptorum est, qui plus tribuunt civilitati, quam saluti ». Al più, se ne copra il rumore con un finto colpo di tosse!56
Il motivo dell’urina assume un’importanza particolare almeno tre volte nel poema rabelaisiano: quando Gargantua dà il suo saluto ai parigini (« sbottonò la sua bella braghetta, e brandendo la mentula in aria, li scompisciò con tal violenza che ne annegò duecentossessantamila e quattrocentodiciotto, senza contare le donne e i bambini »); quando ancora Gargantua inonda i pellegrini (« forsitan pertransisset anima nostra aquam intolerabilem »); infine quando Pantagruèle sommerge l’accampamento di re Anarco (« e ci fu un diluvio particolare per dieci leghe all’ingiro (...) certi dicevano che era la fine del mondo e il giudizio finale »). Queste alluvioni sono per Bachtìn « un vago ricordo di sconvolgimenti cosmici del passato e un’indefinita paura di sconvolgimenti cosmici futuri »; questa urina diverrebbe però « materia gioiosa che nello stesso tempo abbassa e solleva, trasformando la paura in riso (...) la materia fecale e Purina sono la personificazione della materia, del mondo, dell’elemento cosmico (...) Purina e la materia fecale trasformano la paura cosmica in gioioso spauracchio carnevalesco »5 Non v’è dubbio che Bachtìn, abituato come doveva essere ad un mondo di estrema pruderie quale quello sovietico, trovasse esplosivo, liberatorio il linguaggio rabelaisiano. Ma Patto del defecare e dell’urinare in pubblico erano comunissimi al tempo di Rabelais e non avevano certo tante implicazioni
56 N. Elias, La civilisation des tnoeurs, trad. fr., Paris, Calmann-Lévy 1976, p. 84.
57 Bachtìn, L'opera di Rabelais cit., pp. 367-368.
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escatologiche. Ancora Erasmo consigliava di non salutare chi stesse urinando o defecando; 58 monsignor Giovanni della Casa raccomandava al gentiluomo di non prepararsi davanti a tutti per andare a soddisfare i propri bisogni corporali e la Braun-schweigische Hofordung del 1589 prescriveva che nessuno lordasse, prima o dopo i pasti, gli ingressi, le scale, i corridoi e le camere di urine o d’altre immondezze.59
Altrettanto dicasi per le (pantagrueliche) scene di banchetti, che costellano l’opera rabelaisiana: « ore pieno vel bibere vel loqui, nec honestum, nec tutum »; non si intinga due volte, dopo averlo morsicato, lo stesso pezzo di pane nel piatto comune; non si gettino gli avanzi nel piatto comune, ma per terra; così non si sputi sulla tavola, ma sotto la tavola o contro un muro; non ci si pulisca le orecchie e il naso a tavola; se si sente il bisogno di grattarsi, lo si faccia col vestito, mai con la mano nuda ... raccomandavano i quattrocenteschi Tischzuchten e The Babees Book. Tutte raccomandazioni stupefacenti per noi, ma non dimentichiamo l’importanza che avevano i banchetti nelle relazioni sociali medievali e cerchiamo di comprendere come uomini che prendevano con le mani la carne dalla mensa comune, che sorbivano il brodo con lo stesso cucchiaio, che bevevano il vino dalla stessa coppa dovessero intrattenere rapporti d’intimità ben diversi dai nostri: « leur ‘ economie af-fective ’ était en fonction de relations et d’attitudes qui, com-parée au conditionnement émotionnel auquel nous sommes soumis, nous paraissent pénibles ou du moins peu attrayan-tes »,60 ma che dovevano essere, invece, parte integrante d’una società in cui i valori tattili e olfattivi erano predominanti rispetto alla politesse della successiva ‘ età dello sguardo ’.
Diciamo allora che, quanto il trattatello di Erasmo, altrettanto l’opera di Rabelais e quella di Aretino furono tutte « le
58 Cfr. in Elias, La civilisation cit., p. 186. Segue invece le tesi bachtiniane Muchembled, Culture populaire cit., pp. 94-95.
59 Questi esempi in Elias, La civilisation cit., p. 187 sgg.
60 Elias, La civilisation cit., p. 100.
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fruit d’une epoque de regroupement social (...) expression de cette feconde période transitoire succédant à l’assouplissement de la hiérarchie sociale moderne ».61 Fonti, dunque, d’autonoma cultura 4 popolare ’, o non piuttosto documenti d’una vita sociale più ampia, più vasta e che inglobava l’alto e il basso, la corte e la capanna?
8. Evento e rottura, nella dimensione tempo/storia
Abbiamo visto come alla ritualizzazione del Carnevale si assoggettassero tutti, nobili e plebei, notabili cittadini e uomini del contado, illetterati e gente colta. Perché allora non ritenere che dovesse essere in gran parte lo stesso per le immagini del corpo, per le funzioni naturali e quelle sessuali nel linguaggio quotidiano? Non perciò nel comportamento festivo o rituale dovevano variare i rapporti sociali, semmai nella cultura somatica, nel modo cioè in cui il corpo era 4 vissuto ’ (l’abito di seta o di sacco, il materasso o il pagliericcio); era 4 presentato ’ (il belletto, la parrucca e il loro contrario); era 4 adoperato ’ (la fatica fisica del laboureur e gli olia lifteraria dell’uomo di Chiesa o d’Università) ; era 4 collocato ’ (la Corte e l’abitazione privata, la capanna e il tugurio). Nell’^c^^ Régime esisteva una gerarchia dell’abitazione. NelVEncyclopédie è detto ancora esplicitamente: « le abitazioni assumono nomi differenti secondo il differente stato di coloro che vi abitano. Si chiama dunque maison quella d’un borghese; hotel quella d’un aristocratico; palais quella d’un principe o d’un re ».62 Ma vi era, anche, una minore privatizzazione del corpo stesso: la sua esposizione al supplizio, le mutilazioni inflittegli dalla giustizia dicevano già che quel corpo (quei corpi) erano 4 pubblici ’ nel senso che lo stesso supplizio aveva una funzione giuridico-
61 Ivi, p. 105.
62 N. Elias, La società di corte, trad. it., Bologna, Il Mulino 1980, p. 31 sgg.
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politica. I corpi dei condannati servivano alla ricostruzione della « souveraineté un instant blessée » (M. Foucault).
Il modello delle classi superiori era quello della serenità e del distacco dagli affari quotidiani (atarassia), di eleganza e di raffinatezza (gratta). Niccolò Niccoli (1364-1437) « vestiva sempre de bellissimi panni rosati, lunghi infino in terra » diceva il suo biografo, Vespasiano da Bisticci, e « non ebbe mai donna a fine non gli fussi impedimento a’ sua istudii »; di Andrea Gritti (1455-1538) prima ancora di divenire doge, si diceva che fosse « in ogni suà cosa signorile, gratissimo », che avesse « gran gratia ».63
Ciò che variava in funzione dello status era dunque la ‘ cultura materiale ’. Variava la percezione del gusto (un pasto che per il contadino era nutriente, poteva essere indigesto per un borghese); del piacere (l’amor cortese e lo stupro del soldato), del dolore (la perdita d’un congiunto era avvertita in modo diverso dall’umanista — l'epistola consolatoria — e dal pezzente), della morte (I’^h moriendi).^ Non variava, invece, in funzione dello status, la partecipazione alle credenze magiche, al rituale della festa, al linguaggio familiare. Gli esorcismi che seguivano gli ultimi tre giorni di Carnevale erano cerimonie espiatorie che dovevano servire ad espellere tutti i demoni che avevano invaso la città, il villaggio, la comunità durante il precedente periodo carnevalesco. Erano i demoni della personalità nascosta, i demoni dell’intera collettività repressa proprio da quegli atti.65 Il Carnevale muore quando quei demoni svaniscono dalla nostra società, non solo perché essa sia divenuta una società industriale, ma anche perché sono mutate le ragioni psicologiche e storico-culturali, alla stessa stregua per cui scomparvero, tra Cinque e Seicento, forme più libere di espressione
63 Per questi esempi e il discorso sul modello delle élites cfr. S. Bertelli, Il potere oligarchico nello Stato-città medievale, Firenze, La Nuova Italia 1978, pp. 161 e passim.
64 Spunti importanti in A. Tenenti, Il senso della morte e l'amore della vita nel Rinascimento, Torino, Einaudi 1957.
65 Cfr. Caro Baroja, Le Carnaval cit., p. 98.
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linguistica, travolte da una società con una ‘ economia affettiva ’ di segno radicalmente diverso dalla precedente.
Nonostante tutti questi appunti che la lettura de L'opera di Rabelais e la cultura popolare ha suscitato in noi, occorre dire che il merito di Bachtìn resta ugualmente grande. Non tanto in sede storica, quanto per il messaggio politico-culturale che egli ci comunica col suo libro. La sua analisi è indubbiamente marxista, ma non certo ‘ leninista ’ o sovietica (e si comprende perché egli sia stato così a lungo osteggiato ed emarginato in URSS). La sua concezione del popolo è corale e anti-avanguardistica: il popolo è qui massa e non esemplarità, ha una sua compatta individualità, che nessuna avanguardia è autorizzata ad interpretare: « il rito carnevalesco » - ci dice -« apparteneva, in primo luogo, a tutto il popolo » e, in questo senso, divengono importanti i suoi continui riferimenti alla libertà espressiva del popolo, all’ambivalenza delle sue manifestazioni (il Carnevale si regge sulle leggi della libertà). Per Bachtìn la coscienza è già del popolo e nel popolo: gli intellettuali progressisti (proprio così egli chiama, ad un certo punto, il suo Rabelais) se ne fanno solo i porta voci e la loro arte ne viene fecondata.
In fondo Bachtìn si rivela un altro Michelet: il suo popolo è ancora indistinto, ‘ universale ’ nel suo agire e nel suo sentire, all’interno di un sistema interpretativo troppo semplice per non divenire schematico e rigido. I sistemi culturali - ha scritto Geertz — devono offrire un minimo di coerenza interna per essere tali, ma nulla ha maggiormente screditato l’analisi culturale, quanto la costruzione di impeccabili rappresentazioni di ordini formali nella cui effettiva esistenza ben pochi sono disposti a credere.66 Il modulo espressivo del ribaltamento (nella festa, nella rivolta, nei testi teatrali, letterari ecc.) è assunto da Bachtìn a paradigma centrale della cultura popolare, intesa qui come sistema. Questa, in quanto forma espressiva, funziona alterando i contesti semantici in modo tale da attri-
66 Geertz, The Interpretation of Cultures cit., p. 447.
L'Alto e il Basso ovvero la Storia e il suo Rovescio
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buire le proprietà convenzionalmente ascritte ad alcuni aspetti del reale, ad altri che convenzionalmente possiedono le proprietà contrarie. Proprio l’individuazione del capo volgimento come regola semantica centrale della cultura popolare ha fatto convergere gli studi su di essa verso i due testi in cui questa si esprime più compiutamente: la rivolta e la festa. Assimilando queste due espressioni al comune denominatore del rito, le cui funzioni e finalità restano da discutere, rimane problematico il rapporto fra l’evento e la rottura che questo introduce nell’universo sistemico della cultura, esaltando la dimensione tempo/ storia.
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