-
Title
-
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna (1985-1995)
-
Creator
-
Sergio Bertelli
-
Date Issued
-
1998-01-01
-
Is Part Of
-
Archivio Storico Italiano
-
volume
-
156
-
issue
-
1 (575)
-
page start
-
97
-
page end
-
154
-
Publisher
-
Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.
-
Language
-
ita
-
Format
-
pdf
-
Relation
-
Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Italy, Einaudi, 1976
-
L'archeologia del sapere, Italy, Rizzoli, 1969
-
La volontà di sapere, Italy, Feltrinelli, 1968
-
Rights
-
Archivio Storico Italiano © 1998 Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.
-
Source
-
https://web.archive.org/web/20230921185752/https://www.jstor.org/stable/26227338?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxNiwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjM3NX19&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A086387dfef1be2d5f9a652a1af96a8f7
-
Subject
-
discipline
-
surveillance
-
confinement
-
biopower
-
sexuality
-
women and feminism
-
extracted text
-
Appunti sulla storiografia italiana per l’età moderna (1985-1995)*
Aprendo dieci anni or sono la relazione sulla produzione storiografica relativa all’età moderna, al Congresso degli Società degli storici italiani, non potevo che constatare come dal precedente congresso del 1967 1 il dibattito storiografico fosse proseguito in Italia sulle linee già in precedenza tracciate, in una persistente sordità verso quelle che venivano pomposamente definite «le nuove frontiere dello storico».2 Già allora, però, si sarebbe potuto notare un arricchimento delle precedenti tematiche, con una conoscenza più diffusa di Wirtschaft und Gesel-Ischaft. Benché quella grande opera fosse stata tradotta per le Edizioni di Comunità sin dal 1961, e nonostante gli studi di Carlo Antoni sull’importanza di Max Weber nella cultura tedesca, occorre riconoscere che a lungo, in Italia, di Weber circolò solo Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, tradotto in italiano, nell’immediato dopoguerra, da Piero Burresi e introdotto da Ernesto Sestan per le Edizioni Leonardo. Se ciò fosse dipeso dalla preconcetta ripulsa - specie fra gli intellettuali di sinistra - della sociologia, è azzardato affermarlo. Certo è che solo a partire dagli anni Ottanta e in coincidenza con la crisi del marxismo, l’opera di Weber finalmente si è imposta, modificando profondamente la discussione storiografica sulla nascita dello Stato moderno, spostando l’accento dallo studio delle finanze (sul modello di Ramon
* Anticipo qui il testo della relazione presentata al convegno internazionale su «Le storiografìe d’Italia e di Romania nel secondo dopoguerra», Milano, 26-28 gennaio 1996, organizzato dal Centro di Studi sull’Europa Orientale.
1 Cfr. i due volumi degli atti, La storiografia italiana negli ultimi ventanni, Milano, Marzorati 1970.
2 S. Bertelli, Il Cinquecento, in La storiografia italiana degli ultimi ventanni, L. De Rosa ed., Roma-Bari, Laterza, 1989, II, pp. 3 sgg.
7
98
Sergio Bertelli
Carande) e della struttura politico/amministrativa,3 all’analisi della formazione delle sue classi dirigenti, al problema della mediazione burocratica. dell’amministrazione della giustizia, allo studio dei concetti di nobiltà e di onore che permeavano le élites.
Quell’attenzione diffusa che sin dall’immediato dopoguerra gli storici italiani manifestarono per la formazione dello Stato moderno, credo vada innanzi tutto ricondotta al dibattito che si sviluppò attorno alla Costituzione del 1946. Erano anni in cui la passione politica aveva messo profonde radici, anni di fondazione di una nuova identità nazionale (non si dimentichi che dobbiamo a Chabod, primo presidente CLNAI, se la Val d’Aosta è restata all’Italia!). La ricerca si rivolgeva allora alla ricostruzione delle fonti del movimento operaio, visto come elemento fondante del nuovo patto costituzionale (coi lavori di Gastone Manacorda, Alberto Caracciolo, Ernesto Ragionieri ed altri), o, sull’altroversante, al formarsi della stato nazionale unitario, ai suoi primi passi nell’agone internazionale, ricostruendo anche i profili biografici dei suoi principali protagonisti (si ricordino per tutti i lavori di Federico Chabod, di Bruno Toscano, di Rosario Romeo e di Giuseppe Galasso). Contemporaneamente, a partire dal 1956, Giorgio Candeloro iniziava una rilettura del Risorgimento italiano, all’interno di una visione gauchista. Differenti binari tematici, ma un unico impianto metodologico - lo storicismo - accomunava tutte queste ricerche. Almeno fino a che furono salde determinate certezze. Ma quando l’onda lunga del rapporto Krusc’ev si fece sentire, e la crisi ungherese e la successiva crisi cecoslovacca, il concomitante espandersi dell’Europa delle piccole patrie fecero capire che un mondo nuovo era alle porte, allora anche l’attenzione dello storico moderno si è spostata verso nuove tematiche, verso nuove metodologie. Certo non è un caso che uno storico politico impegnato quale Rosario Villari, deputato e membro del CC del PCI, studioso della rivoluzione di Masaniello, rivolgesse adesso la sua attenzione al trattato di Torquato Accetto Della dissimulazione onesta.4
A distanza di trenta, di quarantanni dall’avvento del regime polilitico (e non più monolitico) rappresentato dai partiti che avevano formato il Comitato di Liberazione Nazionale (una nuova classe politica che aveva molti punti di contatto con la «nuova classe» descritta da Mi-loyan Gilas), gli storici italiani hanno cominciato a porsi nuovi quesiti. A
3 A Milano era stata fondata una specifica Fondazione per la storia amministrativa (FISA), che pubblicò un’importante collana di documenti.
4 R. Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Roma-Bari, Laterza, 1987. Ma si veda anche il volume da lui curato Uuomo barocco, ivi, 1995.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
99
sostituire a macrofenomeni quali, appunto, lo Stato moderno di genti-liana memoria, analisi strutturali specifiche sull’organizzazione degli antichi Stati regionali, a domandarsi non già come si fosse formato in Italia, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, lo Stato, ma come, piuttosto, gli antichi Stati avessero sviluppato i propri apparati burocratici, avessero amministrato la giustizia, quale fosse stata la consistenza e il grado di corruzione delle oligarchie locali. Essi sono attratti dallo studio delle oligarchie cittadine, prediligono oggi la ricostruzione del cursus honorum di singole personalità, ne seguono i percorsi formativi (i curri-cula studio rum), analizzano l’autorappresentazione fornita dalle nobiltà locali.
Stranamente, dallo scrittoio dello storico italiano continua a restare esclusa la storia del Rinascimento. Quasi si trattasse di un terreno di caccia riservato alla storia della letteratura o alla storia della filosofia. Benché l’Italia del pieno Quattrocento e dei primordi del Cinquecento sia stata un vero e proprio laboratorio politico (non si spiegherebbero altrimenti i Machiavelli, i Guicciardini, i Giannotti, i Paruta), se si eccettuano alcuni autori - quali un Paolo Prodi, studioso del «sovrano pontefice» o, su un registro diverso, Mario Caravaie - gli storici italiani hanno continuato a non essere attratti né dalle figure dei grandi papi rinascimentali, né dalle esperienze statuali repubblicane di Firenze e Venezia. Machiavelli, Guicciardini, e con loro la prima repubblica fiorentina, non hanno trovato spazio altro che nel campo della storia delle idee.5 Non a caso di «machiavellerie» si è occupato uno storico della letteratura quale Carlo Dionisotti, mentre si perdono nelle nebbie del tempo gli studi di Chabod sul «Segretario fiorentino». Se si esclude il bel libro di Rudolf von Albertini, che è del 1955,6 bisogna riconoscere che Quattrocento e primo Cinquecento sono divenuti da tempo un territorio di caccia quasi esclusivo degli studiosi angloamericani.7 Davvero pochi gli autori ita-
5 Un’eccezione di rilievo mi sembrò suo tempo il saggio di M. Rosa, Dispotismo e libertà nel Settecento. Intepretazioni «repubblicane» di Machiavelli, Bari, Dedalo, 1964. G. Procacci ha recentemente riaggiornato, ma senza apporti nuovi che meritino di essere segnalati, i suoi vecchi Studi sulla fortuna di Machiavelli (Roma, Ist. It. per l’Età moderna e contemporanea, 1965) col titolo: Machiavelli nella cultura europea dell'età moderna, Roma-Bari, Laterza, 1995; mentre G. Sasso ha raccolto in tre tomi tutte le sue «machiavellerie», sotto il titolo complessivo: Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Mi-lano-Napoli, Ricciardi, 1987-88.
6 R. von Albertini, Das florentinisches Staatsbeivusstein im Obergang von der Re-publik zum Prinzipat, Bern, A. Franche Verlag, 1955 (tr. it. Torino, Einaudi, 1970).
7 S. Bertelli, Il problema del Rinascimento, in Federico Chabod e la «nuova storiografia» italiana (1919-1950), Milano, Jaca Book, 1970, pp. 103-159; nonché II Cinquecento cit. Ma si veda anche il numero monografico di «Cheiron», Vili, 1991, n° 16: Sto-
100
Sergio Bertelli
liani che si possono qui rammentare: dopo i saggi di Angelo Ventura8 e di Innocenzo Cervelli,9 non saprei citare altri che Giovanni Silvano,10 Riccardo Fubini,11 Achille Olivieri.12
Né la maggioranza degli storici italiani è stata investita da tematiche e metodologie diverse, che si andavano invece sempre più espandendo oltr’Alpe e oltre Oceano. Ignorata quasi del tutto la cliometria, forti resistenze hanno trovato fra noi la storia sociale e la storia antropologica. L’ostilità nei confronti della sociologia - retta da massicce dosi di antiamericanismo - è stata una costante della nostra gauche, come ebbe a ricordare tempo fa Franco Ferrarotti. Del tutto assenti, nel campo degli studi storici, le tecniche della politologia. Per quel che riguarda gli studi d’antropologia, osserverò che essi sono stati a lungo dominati dallo storicismo e dal «gramscismo» di Ernesto De Martino. Il Sud ha offerto quella ricerca sul campo che Malinowski era andato a compiere alle Trobriand. Partendo da un breve scritto di Gramsci sulla questione meridionale - riproposto nell’ambito dei movimenti per l’occupazione delle terre - si sono raccolti e catalogati canti e testimonianze del mondo contadino meridionale,13 formando una pellicola impermeabile attorno all’antropologia italiana. Quando, infine, lo sguardo s’è rivolto altrove, i legami si sono stretti con l’antropologia francese (con lo stemma genealogico Durkheim, Mauss, Dumont),14 mentre si è vista come un «pericolo» la scuola antropologica americana, circoscritta al solo Clifford
rici americani e Rinascimento italiano, G. Chittolini ed., Mantova, 1992, e in particolare il saggio di A. Molho, Gli storici americani e il Rinascimento italiano, pp. 9-26.
8 A. Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneziana del '400 e ’500, Roma-Bari, Laterza, 1964.
9 I. Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, Napoli, Guida, 1974.
10 G. Silvano, «Vivere civile» e «governo misto» a Firenze nel primo Cinquecento, Bologna, Patron, 1985.
11 R. Fubini, oltre ad aver partecipato all’edizione del carteggio di Lorenzo il Magnifico promosso dall’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, è autore di numerosi saggi sull’età laurenziana.
12 A. Olivieri, Palladio, le corti e le famiglie. Simulazione e morte nella cultura architettonica del ’500, Vicenza, Ist. per le ricerche di storia sociale e di storia religiosa, 1981; Immaginario e gerarchie sociali nella cultura del ’500, Verona, Libr. Universitaria editrice, 1986.
13 Per De Martino, il rinvio è d’obbligo a Naturalismo e storicismo nell’antropologia (1941), oltre a Sud e magia (1959). Per Diego Carpitella, si veda il suo Conversazioni sulla musica (1955-1990), Firenze, Ponte alle Grazie, 1992.
14 Su questa filiazione, intellettuale e personale, si veda la conferenza di Dumont, tenuta a Oxford nel 1952, ora in L. Dumont, Saggi sull’individualismo, Milano, Adel-phi, 1993, pp. 195-219.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
101
Geertz,15 restando completamente ignorati Marshall Sahlins, James Clifford e tanti altri, nel cui elenco metteremo anche i britannici Evans Prit-chard e Mary Douglas. Non si è voluto capire che, pur senza rinnegare il filologismo storicista, l’antropologia apriva allo storico uno spettro di indagine molto più ampio, consentiva lo scavo stratigrafico del passato, evidenziava il gap culturale fra noi e gli antenati d’un mondo preindustriale.
Anche nell’ambito della storia economica, almeno per quel che riguarda l’età moderna, benché Braudel avesse messo solide radici in Italia, con le Settimane pratesi dell’Istituto Datini, quegli incontri - all’in-fuori dell’ambito della storia economica - non può dirsi abbiano portato fra noi una ventata rinnovatrice. Perché la nouvelle histoire penetrasse in Italia e gli storici del gruppo delle «Annales» colonizzassero almeno una parte della storiografia italiana, bisognò attendere che una casa editrice (la Laterza di Bari) e una rivista («Quaderni storici») stringessero saldi rapporti con la parigina Ecole des Hautes Etudes e se ne facessero zelanti portavoce.
Non solo Braudel e il gruppo delle «Annales»: vi sono altre pietre miliari del pensiero storiografico moderno che in Italia non hanno avuto e continuano a non avere diritto di cittadinanza. Non molti anni or sono, quando, nella mia doppia qualità di segretario della Società degli storici nord-americani e di coordinatore del gruppo seminariale di «Laboratorio di storia», volli mettere in cantiere un volume sulla storiografia nordamericana, chiesi a diversi miei colleghi di parlare della bibliografia statunitense che essi avevano sul loro scrittoio: alla fine, fui costretto a ripiegare sugli amici «americanisti», scoprendo la totale ignoranza, da parte degli storici italiani, del dibattito storiografico statunitense.16 Né basta. A proposito di lacune gravi citerò solo alcuni esempi: sir Lewis Namier e la sua proposta di una storia prosopografica; Percy E. Schramm e i suoi studi sulla cerimonialità e la sacralità imperiale e pontificia;17 Ernst Kantorowicz, conosciuto poco e tardi per la sua ricostruzione dell’insorgere dello Stato laico, ma non per gli studi sulla sa-
15 Cfr. G. Levi, I pericoli del geertzismo, «Quaderni storici», 5 8, 1985, pp. 269277.
16 Cfr. E. Fano ed., Una e divisibile. Tendenze attuali della storiografia statunitense, Laboratorio di storia, «Quaderni del Castello di Gargonza» 4, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991.
17 Percy Ernst Schramm (Amburgo 1894) è stato uno dei massimi medievisti germanici. Collaboratore dei Monumenta Germaniae Misterica, professore a Gottinga, ha scritto numerosi libri e saggi. Le sue opere più importanti sono Kaiser, Rom und Reno-vatio (1929); A History of thè English Coronation (1937); Der Konig von Frankreich (1939 e 1960); Kaiser, Kònige und Papste (1968).
102
Sergio Bertelli
oralità, che tanto lo accomunano a Schramm (di Kantorowicz si conoscono la biografia di Federico II e, solo dal 1989, The Kings Two Bo-dies). Nessuno dei libri di Namier è mai stato tradotto in italiano;18 lo stesso dicasi per i libri di Schramm, verso il quale l’ostracismo ha forse origini politiche. Ma chiunque, credo, potrebbe allungare questo elenco a piacere.
Un rinnovamento metodologico ci è giunto laddove meno l’avremmo atteso: sin dal 1981, appoggiata alla Fondazione Basso, usciva una rivista diretta da un gruppo di giovani storiche col proposito di affermare quella che sarebbe poi divenuta la gender history. «Memoria». Un’esperienza sulla quale tornerò. Vorrei qui solo anticipare che un grande merito di questo gruppo è stato quello di porre al centro dell’attenzione la sociologia, l’antropologia, attente agli esempi che venivano d’oltr’Alpe e d’oltr’Oceano. Tematiche che erano sino ad allora riservate a settori specialistici (quale, ad esempio, la storia sociale della medicina o la demografia storica) si sono aperte a indagini che applicano metodologie innovative, trasformandole profondamente.
Nella mia rassegna io terrò pertanto conto sia dei raggruppamenti per scuole, sia delle comunità di interessi tematici, dando di volta in volta la preferenza a l’una o all’altra esposizione. Non posso né intendo essere esaustivo. Spero comunque di aver individuato, nelle pagine che seguono, la maggiore produzione recente e le più importanti correnti della odierna modernistica italiana.
1. Patrizi, cortigiani e burocrati. Gli studi sullo Stato e la corte del Rinascimento. - Come dicevo, anche in quest’ultimo decennio il dibattito sulla formazione dello Stato moderno non si è assopito. Ha solo modificato il punto di partenza e, semmai, si è «regionalizzato». La scuola napoletana, gravitante attorno a Giuseppe Galasso (uno storico che è stato assai vicino a Chabod) e allo storico del diritto Raffaele Ajello, aveva fornito in questo settore studi notevoli. Avendo già parlato di questi lavori nella precedente rassegna dell’86, mi limiterò a ricordare qui solo i nomi di alcuni autori: Aurelio Cernigliaro, Roberto Mantelli, Aurelio Musi, Giovanni Muto, Carla Russo, Vittorio Sciuti Russi.
Galasso è anche il direttore di una grande impresa editoriale della UTET, che investe in pieno il nostro tema, concepita in modo cronolo-
18 In italiano esiste solo una raccolta di saggi minori, che non rende certo lo spessore dello storico anglosassone: La rivoluzione degli intellettuali e altri saggi sull'Ottocento europeo, Torino, Einaudi, 1957. Tra le sue opere fondamentali i due volumi su The Structure of Politics at thè Accession of George III (1929 e 1956).
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
103
gico e con una suddivisione per antichi Stati: la Storta d'Italia della UTET,19 giunta proprio ora a conclusione. Un impianto ben diverso da quello proposto da un’impresa parallela, curata da Ruggiero Romano e Corrado Vivanti.20 Mentre la prima, fatte salve ovviamente le differenze di preparazione e di metodo da autore ad autore, si muove secondo i binari della grande storia politico/diplomatica, l’impresa di Romano e Vivanti parte da un «gramscismo» rivisitato, con una particolare attenzione alle proposte della nouvelle histoire di marca braudeliana.21 Penso che un confronto fra le due iniziative editoriali sarebbe di estremo interesse, ma esula dai limiti di questa rassegna.
Nell’ambito delle ricerche «settoriali», va annoverato il grosso volume di Andrea Gardi sull’amministrazione della Legazione bolognese al tempo di Sisto V.22 Si tratta di un lavoro che rientra nei solchi già tracciati da Paolo Prodi e da Mario Caravaie.23 Il periodo preso in esame è uno di quelli cruciali per la formazione dello Stato (degli Stati) sotto sovranità pontificia, con sottrazione di risorse ai medievali Comuni per un disegno ambizioso di tesaurizzazione e di centralizzazione, perseguito nello stesso tempo con la diminuzione del peso del Collegio cardinalizio. Il volume, nella sua seconda parte, dà ampio spazio ai ritratti biografici dei legati: Antonio Maria Salviati, Enrico Caetani e Alessandro Peretti, ma quando poi affronta l’esame della politica del Senato bolognese non applica quel metodo prosopografico tanto caro a Namier e che qui si sarebbe rivelato un modello più che appropriato. Ma forse il limite maggiore di questo libro è di aver ristretto l’analisi ai soli cinque anni del pontificato sistino. Se l’autore si fosse spinto oltre, ne sarebbe probabilmente uscito un quadro diverso da quello che ci viene presentato: di un Comune, sia pure importante, ma comunque sottomesso a Roma. Quando, invece, Bologna appare sempre più, nel corso del Cinquecento e poi del Seicento, vera capitale di una parte non indifferente degli Stati pontifici, visivamente e concretamente rappresentata dagli ampliamenti di Palazzo d’Accursio e dall’elevazione (1566), sull’antistante piazza, della statua del Nettuno dispensatore d’acque e dunque «pontifex».
19 G. Galasso ed., Storia d'Italia, 24 voli., Torino, UTET, 1979-1995.
20 Storia d'Italia, 6 voli, in 10 tomi, Torino, Einaudi, 1972-1976; seguita da una serie di Annali (9 voli, in 10 tomi usciti fra il 1978 e il 1986, con ripartizione tematica).
21 Questi propositi metodologici sono stati pubblicamente espressi dai due curatori, in apertura del primo volume, su I caratteri originali.
22 A. Gardi, Lo Stato in provincia. L'amministrazione della Legazione di Bologna durante il regno di Sisto V (1585-1590), Bologna, Ist. per la storia di Bologna, 1994.
23 Si cfr. la mia precedente relazione, Il Cinquecento cit., pp. 18-24.
104
Sergio Bertelli
Una respublica stans de per se, pur all’interno di uno Stato sovrano, come affermava il giurista Vincenzo Sacco, nelle Observationes politico-legales ad statuta Bonomae (1743). Del patto di sottomissione del 1278 e del mito della Libertas cittadina parla Angela De Benedictis,24 in uno studio dall’arco cronologico forse troppo ampio, estendendosi sino alla miticizzazione di quel medievale pactum deditionis, da parte dei rivoluzionari del 1831, che lo trasformavano in un contratto sociale, non rispettato da Roma. Ma non è un caso che quest’opera esca dall’Istituto italo-germanico di Trento: come spiega l’autrice nell’introduzione, il modello metodologico cui ella si è ispirata è stata la grande opera di Otto Brunner, Land und Herrschaft, della cui Sozialgeschichte l’Istituto si è fatto da tempo il propugnatore, sotto l’impulso precipuo di Pierangelo Schiera. Ricorderò a questo proposito che, dopo un primo seminario tenuto a Trento nel dicembre 1977, questo studioso è tornato sullo stesso tema, pubblicando di recente gli atti di un convegno, curati assieme a Giorgio Chittolini e ad Anthony Molho, sulle Origini dello Stato.25 Il volume ha saputo riunire assieme i migliori storici di queste tematiche.
Il nome di Giorgio Chittolini si incontra di nuovo, accomunato questa volta a quello di Elena Fasano Guarini, nei due volumi da loro curati su signorie cittadine e stati regionali.26 Un tema sul quale entrambi sono più volte ritornati27 provocando, a loro volta, altri studi riconducibili al loro insegnamento.
Credo però che sia importante segnalare qui, l’apparizione, fra il 1986 e il 1991, del primo e del secondo volume della grande Storia di Prato, curati rispettivamente da Giovanni Cherubini ed Elena Fasano
24 A. De Benedictis, Repubblica per contratto. Bologna: una città europea nello Stato della Chiesa, Annali dell’Istituto storico italo-germanico, 23, Bologna, il Mulino, 1995.
25 Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera eds., Bologna, il Mulino, 1993.
26 G. Chittolini ed., La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, Bologna, il Mulino, 1979; E. Fasano Guarini, Potere e società negli stati regionali italiani del ’500 e ’600, ivi, 1978.
27 Cfr. i volumi della serie della Federazione delle Casse di Risparmio dell’Emilia Romagna, «Le sedi della cultura nell’Emilia Romagna»: L’epoca delle signorie. Le corti, Milano, A. Pizzi, 1985, e L’epoca delle signorie, Le città, ivi, 1986. Per Chittolini si veda ancora il volume su La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado. Secoli XIV e XV, Torino, Einaudi, 1979. Per la Fasano il saggio Principe e oligarchie nella Toscana del ’SOO, in S. Bertelli ed., Forme e tecniche del potere nella città (secoli XIV-XVII), «Annali della Facoltà di Scienze Politiche. Materiali di storia», 4, 1979/80, pp. 105-126, nonché la sintesi conclusiva del secondo volume dell’opera diretta da Fer-nand Braudel, Prato, storia di una città, Comune di Prato - Le Monnier, 1986, pp. 827-875.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
105
Guarini.28 Forse proprio il fatto di trovarsi di fronte ad una «storia immobile» ha trasformato questa ricerca in un «laboratorio di storia» fortemente influenzato dalle scelte programmatiche impostate sin dall’inizio da chi della scuola delle «Annales» fu il massimo esponente, dopo Marc Bloch e Lucien Febvre. Non a caso questo secondo volume dell’opera si intitola Un microcosmo in movimento, quasi in larvata polemica proprio col celebre saggio di Le Roy Ladurie che, come si sa, di Braudel è stato il successore alla guida della prestigiosa rivista francese. Come scrive uno dei collaboratori, Sergio Raveggi: «Lo studio della cosiddetta “vita materiale” consiste, secondo una definizione ormai classica, nell’analisi delle azioni e delle abitudini dell’uomo comune nel corso della sua vita quotidiana. A questa storia si chiedono testimonianze che ci parlino della vita della moltitudine, della ritualità di usi e gesti degli uomini del passato, del loro rapporto con l’ambiente circostante - naturale ed umano, dei loro ritmi di lavoro e di riposo, delle cose che li circondavano e anche, conseguentemente e necessariamente, della mentalità e dei sentimenti caratterizzanti la loro dimensione quotidiana. Una storia attenta al plurale - anche se non di rado può giovarsi per i secoli più lontani solo di frammentarie testimonianze singolari -, pensata in contrapposizione (o in integrazione) ad altri più tradizionali generi di storia nei quali raramente si scorgono quadri di vita degli uomini, malgrado che da uomini comuni sia da sempre composta la maggioranza dell’umanità».29
Veniamo ora a Venezia. Qui, attorno alla Fondazione Cini e condizionata dalla presenza di uno storico del valore di Gaetano Cozzi, si è formata un’altra vera e propria scuola, attenta sia alla storia delle idee, sia alla storia giuridica, e che ha prodotto numerose monografie sulla Serenissima e una grossa impresa editoriale, presso l’editore Neri Pozza: la Storia della cultura veneta, con una prima serie Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, e una seconda Dalla Controriforma alla fine della repubblica, suddivisa per secoli. E probabile che nasca proprio da questa impresa la nuova iniziativa di una Storia di Venezia, coordinata sempre da Gaetano Cozzi, avendo al fianco Gino Benzoni e finanziata dall’Istituto dell’Enciclopedia italiana.
Altro incontro sulla genesi dello Stato moderno è quello organizzato nell’ottobre del 1984 presso l’Ecole frangaise de Rome, da Jean-Claude
28 Prato. Storia di una città. I. Ascesa e declino del centro medievale (dal Mille al 1494), G. Cherubini ed.; IL Un microcosmo in movimento (1494-1815), E. Fasano Guarini ed., Comune di Prato - Le Monnier, 1986.
29 S. Raveggi, Le condizioni di vita, in Prato. Storia cit., I, p. 479.
106
Sergio Bertelli
Maire Vigueur, Charles Pietri e Jean Philippe Genet, i cui Atti uscirono tempestivamente l’anno seguente.30 Fra i contributi italiani ritroviamo anche qui nomi conosciuti: da Attilio Bartoli Langeli ad Armando Pe-trucci, a Carla Frova, a Cesare Mozzarelli, a Diego Quaglioni, a Claudio Finzi.
Più di recente nuovi argomenti si sono affiancati alle precedenti ricerche sulle relazioni internazionali, sulle politiche fiscali, sull’organizzazione giuridica e quella ecclesiastica (temi tutti presenti nel volume trentino), spaziando dalla corte e dal cortigiano alla burocrazia nascente e alla nuova figura del segretario del principe.31
A proposito di corte e di cortigiani, Cesare Mozzarelli, della Cattolica di Milano, ha saputo raccogliere attorno a sè un nutrito gruppo di collaboratori, pubblicando a partire dagli anni settanta, con l’editore romano Bulzoni, una collana di oltre sessanta titoli. Emanazione del Centro studi sulle società di antico regime «Europa delle corti».32 si tratta però di una tipica collana accademica, con una spiccata attenzione per la storia della letteratura (forse per la forte presenza nel gruppo di Carlo Ossola), e quasi nessuna curiosità verso gli aspetti del cerimoniale, della ritualità (basti dire che a lungo questo gruppo ha totalmente ignorato la produzione di Norbert Elias). Alcuni fra i suoi titoli sono atti di convegni organizzati dal centro,33 altri presentano riesumazioni di testi antichi,34 frammischiati a raccolte di saggi e monografie prive d’ogni legame fra loro, d’ogni progettazione.35 Benché emanazione di un Centro che programmaticamente ha come propria finalità lo studio delle corti di an-
30 Culture et idéologie dans la genèse de l’état moderne, Rome, École frangaise de Rome, 1985
31 Roberto Mantelli aveva già aperto la strada a questi studi, col suo libro su II pubblico impiego nell’economia del Regno di Napoli: retribuzioni, reclutamento e ricambio sociale neirepoca spagnuola (sec. XVI-XVII), Napoli, Ist. It. per gli studi filosofici, 1986. Due saggi importati mi sembrano quelli da me accolti nel volume su La Mediazione, S. Bertelli ed., «Laboratorio di storia», 4, Firenze, Ponte alle Grazie, 19. Mi riferisco a quelli di G. Trebbi, Il segretario veneziano, ivi, pp. 32-58 e di R. Mancini, I persuasori. Discussioni sulla formazione del burocrate moderno, ivi, pp. 70-102.
32 Cfr. C. Mozzarelli, G. Olmi eds., La corte nella cultura e nella storiografia, Roma, Bulzoni, 1983.
33 Si vedano i due volumi dedicati a Le corti farnesiane di Parma e Piacenza, 15451622, M. A. Romani e A. Quondam eds., Roma, Bulzoni, 1978; o i tre volumi su Federico di Montefeltro. Lo Stato, Le arti, La cultura, G. Gerboni Baiardi, G. Chittolini, P. Floriani eds., Roma, Bulzoni, 1986.
34 Come l’anastatica di A. Ferrajoli, Il ruolo della corte di Leone X (1514-1516), Roma, Bulzoni, 1984.
35 Ad esempio, La «ratio studiorum». Modelli culturali e pratiche educative dei Gesuiti in Italia fra Cinque e Seicento, G. P. Brizzi ed., Roma, Bulzoni, 1981; oppure M.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
107
tico regime, ai propositi spesso non corrispondono i contenuti dei libri pubblicati. Com’è il caso, ad esempio, del saggio di Flavio Rurale sulle scuole gesuitiche nella Milano borromaica,36 uno dei libri più soporiferi che mai mi sia stato dato leggere, da accomunare, per restare in tema, al Baronio storico di Stefano Zen.37 Siamo di fronte - per dirla con Giorgio Falco - a tanti baitraghini.
Per la comprensione dei meccanismi del potere oligarchico, un tema importante è quello della disponibilità dei beni ecclesiastici da parte delle oligarchie locali. Lo ha affrontato Roberto Bizzocchi (ne ho già parlato nella precedente mia relazione del 1986),38 mentre Gigliola Fra-gnito e Massimo Firpo hanno scelto di studiare la figura del cardinale e della sua corte.39
In questo ambito, la traduzione e conoscenza della trilogia di Nor-bert Elias Uber den Prozess der Zivilisation (1937) ha giocato per molti un ruolo importante. Il gruppo di «Laboratorio di storia» è stato il primo in Italia a discutere le tesi del sociologo tedesco, fornendo anche una sua prima biografia intellettuale.40 Della tardiva recezione della trilogia sul processo di civilizzazione (anche nella stessa Germania) si è occupato in quella sede Giuliano Crifò.41 Certo stupisce che l’opera sia stata completamente ignorata anche da Claudio Donati.42 Il suo libro - uscito
Fantoni, La corte del granduca. Forme e simboli del potere mediceo fra Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni, 1994.
36 F. Rurale, I Gesuiti a Milano. Religione e politica nel secondo Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1992.
37 S. Zen, Baronio storico. Controriforma e crisi del metodo umanistico, Napoli, Vi-varium, 1994.
38 R. Bizzocchi, Chiesa e potere nella Toscana del Quattrocento, Bologna, il Mulino, 1987.
39 G. Fragnito, Il cardinale Gregorio Cortese nella crisi religiosa del Cinquecento, «Benedictina», XXX, 1983, pp. 129-171; La trattatistica cinque e seicentesca sulla corte cardinalizia, «Annali dell’Istituto storico italo germanico», XVII, 1991, pp. 135-185; Cardinali Courts in Sixteenth-Century Rome, «Journal of Modem History», 65, 1993, pp. 26-56; M. Firpo, Il cardinale, ristampato in E. Garin ed., L'uomo del Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 75-131.
40 Rituale, cerimoniale, etichetta, S. Bertelli, C. Crifò eds., Milano, Bompiani, 1985.
41 G. Crifò, Tra sociologia e storia. Le scelte culturali di Norbert Elias, in Rituale, cerimoniale, etichetta cit., pp. 261-280. Pur uscendo dai limiti cronologici di questa rassegna, non possono qui non segnalare l’importante volume di saggi appena apparso nella Collection de l’Ecole Frangaise de Rome, raccolti da M. A. Visceglia e C. Brice, Cérémonial et rituel à Rome (XVIe-XIX siècle), Roma, 1997. Tematiche che dieci anni or sono erano del tutto sconosciute in Italia, giungono ora al centro della ricerca storica nostrana.
42 C. Donati, L'idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari, Laterza, 1988.
108
Sergio Bertelli
a distanza di otto anni dalla traduzione italiana di Die hofische Gesell-schafi^ - è un esempio eloquente delle resistenze della storiografia erudita italiana di cui si diceva. Eppure proprio Donati si richiama, sin dall’Avvertenza premessa al volume, all’opera di Otto Brunner. Ma sorge il dubbio che essa sia stata letta con gli occhiali di Ernesto Sestan, il quale, presentando Adeliges Landleben und Europdischer Geist al lettore italiano, definiva l’autore «costituzionalmente storico [scilicet: storicista], fino al midollo».44 Così Donati, che intende studiare il modo in cui una classe dirigente si concepì, invece di delinearne i tratti sociologici, di evidenziarne i legami parentali e clanici, si affida alla lettura della trattatistica. Si direbbe che non a caso, al contrario della De Benedictis, abbia scelto come proprio modello la biografia di Wolf Helmhard von Hohberg e non il testo più teorico di Brunner, Land und Herrschaft. Così ne risulta un ennesimo libro di kulturgeschichte, ma non nel senso originario del termine, bensì secondo i binari sui quali ha viaggiato la storia delle idee in Italia: riassumendo che cosa si legge nei trattati del tempo, poco scavando nelle biografie dei vari autori, per capire da che passioni, interessi essi fossero mossi, sopra a tutto verso chi si indirizzassero. Si ha l’impressione che questo autore abbia visto nella biografia di Wolf Helmhard von Hohberg un modello non diverso dalle tante biografie intellettuali che andavano per la maggiore in Italia negli anni cin-quanta/sessanta.45 Tanto per essere più chiari, si metta a confronto questo libro con gli scritti di José Antonio Maravall46 o col più recente saggio di Linda Levy Peck47 e si comprenderanno le manchevolezze di simili ricostruzioni. Più ancora stupisce che le tesi eliasiane sulla curializ-zazione dei guerrieri, e più in generale sulla corte, non vengano mai discusse in uno studio di Lucia Ricciardi, pur introdotto da Franco Car-
43 N. Elias, La società di corte, Bologna, il Mulino, 1980, terzo volume della trilogia. A questa traduzione è seguita a ritroso, l’anno successivo, quella del primo volume, sui Wandlungen des Verbaltens in den weltlichen Oberschichten des Abendlandes (La civiltà delle buone maniere, ivi, 1982) e infine quella del secondo, Wandlungen der Gesellschaft. Entwurf zu einer Tbeorie des Zivilisation (Potere e civiltà, ivi, 1983).
44 O. Brunner, Vita nobiliare e cultura europea, Bologna, il Mulino, 1972, p. xm.
45 Eccellenti esempi di questo tipo di storiografia possono ritrovarsi nella collana, diretta da Federico Chabod, dell’Istituto italiano per gli studi storici. In essa, anche il lavoro di un mio omonimo, su Lodovico Antonio Muratori.
46 È qui pertinente il richiamo ad J. A. Maravall, Potere, onore, élites nella Spagna del Seicento (1979), Bologna, il Mulino, 1984.
47 L. Levy Peck, Court Patronage and Corruption in Early Stuart England, Boston, Unwin, 1990.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
109
dini (ma forse nella sua veste di massimo storico della cavalleria medievale).48
D’impianto metodologicamente assai più ricchi gli studi raccolti in volume da Maria Antonietta Visceglia,49 limitatamente alla nobiltà napoletana. Centrati sulle strategie dotali e sull’atteggiamento dinanzi alla morte dei nobili napoletani fra XVI e XVII secolo, sono saggi che debbono molto alle ricerche di Michel Vovelle.
Potrebbe accostarsi alle tematiche discusse da Donati e dalla Visceglia l’ultima fatica di Roberto Bizzocchi, dedicata alle immaginifiche genealogie costruite da storici di corte di pieno Cinquecento. L’autore ci avverte subito che non si trattò di una «ventata di follia collettiva», che investì più generazioni di scrittori,50 ma di un qualcosa di più profondo, che non chiamerei tuttavia «epidemia» (un termine che evoca direttamente la malattia),51 anche se poi egli nota che «il contesto delle genealogie non può essere la mentalità primitiva degli uomini del Cinquecento» e chiede aiuto, per comprendere, al pensiero antropologico di Wittgenstein e a Paul Veyne, di cui dichiara di voler prendere a modello il libro Les Grecs ont-ils cru à leurs mythes?52 La sua conclusione è che l’estinguersi di questa produzione sia dovuto a quella che Paul Hazard chiamò Crise de la conscience européenne” e che io proposi, molti anni or sono, di correggere in «crisi della coscienza religiosa europea».54
Che i temi della corte stiano sempre più raggiungendo il centro del dibattito - almeno per la modernistica - è provato dalla recentissima proposta, avanzata congiuntamente da Marzio Romani e Maurice Aymard, di un seminario di studi su La Cour comme institution économique, da tenersi a Siviglia nel 1998. C’è solo da augurarsi che i relatori non restino ancorati al mero dato finanziario, ma recepiscano l’importanza politica (e diplomatica) del «superfluo», come avrò occasione di dire più avanti, a proposito del saggio di Enrico Stumpo sulle finanze sabaude.
48 L. Ricciardi, Col senno col tesoro e colla lancia. Riti e giochi cavallereschi nella Firenze del Magnifico Lorenzo, Firenze, Le Lettere, 1992.
49 M. A. Visceglia, Il bisogno di eternità. I comportamenti aristocratici a Napoli in età moderna, Napoli, Guida, 1988.
50 R. Bizzocchi, Genealogie incredibili. Scritti di storia nell'Europa moderna, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico», Bologna, il Mulino, 1995, p. 19.
51 Ivi, p. 263.
52 Ivi, pp. 78-79.
53 P. Hazard, La Crise de la conscience européenne, 1680-1715, Paris, Boivin, 1935.
54 S. Bertelli, Erudizione e crisi religiosa nella coscienza europea avanti l'opera mu-ratoriana, «Atti e Memorie della Dep. di Storia Patria per le antiche Provincie Modenesi», IX, II, 1962, pp. 1-31.
110
Sergio Bertelli
Un’altra microstoria, questa legata alla costruzione d’una nobiltà, è quella narrata da Sara Cabibbo e Marilena Modica.55 Si ricorderà il passo del Gattopardo: «La beata Corbèra, antenata del Principe, aveva fondato il convento, lo aveva dotato, santamente vi aveva vissuto e santamente vi era morta. Il monastero di Santo Spirito era soggetto ad una rigida regola di clausura e l’ingresso ne era severamente vietato agli uomini. Appunto per questo il Principe era particolarmente lieto di visitarlo, perché per lui discendente diretto della fondatrice, l’esclusione non vigeva, e di questo privilegio, che divideva soltanto col re di Napoli, era geloso e infantilmente fiero [...] si edificava nel sentir raccontare per la ventesima volta dalla badessa gli ingenui miracoli della Beata, nel vedere com’essa gli additasse l’angolo del giardino malinconico dove la santa monaca aveva sospeso nell’aria un grosso sasso che il Demonio, innervosito dalla di lei austerità, le aveva scagliato addosso». La vicenda terrena di suor Maria Crocifissa (al secolo Isabella dei duchi Tornasi), ricostruita con grande finezza dalle due autrici, rientra nel sistema simbolico di costruzione del prestigio nobiliare e può ben essere ricondotta alle tematiche affrontate da Donati e da Maria Antonietta Visceglia. Siamo di fronte alla costruzione d’una santità tutta interna ad una dinastia. Una santità capace di fornire quella superiorità che altre famiglie traevano ab antiquo, e che la dotasse in una patrona in celestibus, capace di vegliare sulle sue sorti future. Per controllare che l’ascetismo di Maria Crocefissa fosse al riparo da ogni sospetto, le sorelle e in un secondo tempo la stessa duchessa avevano preso i voti, a fianco della santa viva. Tutte intente a osservare, seguire, controllare la predestinata; pronte a trascriverne ogni motto, a registrare ogni azione, ogni estasi, ogni deliquio. Lei stessa obbligata a registrare in un diario dell’anima le proprie esperienze mistiche, le proprie visioni. Da Roma, invigilavano lo zio e poi il fratello cardinali. Perfino il nome da religiosa non era stato scelto da Isabella, ma dallo zio Carlo. La posta in gioco era alta, il pericolo di scivolare dalla santità alla stregoneria ancor più alto. Questa cautela aveva buoni motivi. Nel 1621 Palermo aveva assistito all’autodafé di suor Francesca Spitalieri, terziaria francescana, che si era dichiarata «una gran serva di Dio, che parlava con Dio con familiarità [...] e aveva sparso diversi scritti con vari errori». Ancora: suor Cristina Rovere da Palermo, tra il 1669 e il 1676, aveva dato segni di eccezionale religiosità, sostenuta dal suo confessore, che ne aveva divulgato la vita edificante. Inquisita, aveva finito per confessare di essere stata ingannata dal Demo-
55 S. Cabibbo, M. Modica, La santa dei Tornasi. Storia di Suor Maria Crocifissa (1645-1699), Torino, Einaudi, 1989.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
111
nio e di aver avuto un commercio carnale con lui. Ancora: una terziaria carmelitana, suor Teresa di san Geronimo (che sin dal nome si richiamava all’esperienza mistica di Teresa d’Avila), era stata accusata di quietismo. Che altro era, se non un pericoloso avvicinarsi all’orazione di quiete, lo stato estatico descritto dalla stessa Maria Crocifissa? Il materiale sul quale Sara Cabibbo e Marilena Modica hanno lavorato appare di un estremo interesse. L’impressione finale è che le autrici abbiano avuto timore a sfruttarlo sino in fondo e che, soprattutto, siano rimaste ancorate al mondo siciliano. Mancano comparazioni fondamentali con esperienze coeve di altre "sante vive’. Esse ignorano, inoltre, un libro fondamentale sull’anoressia monastica, come quello di Rudolf Bell.56 L’impressione è, insomma, di un libro che avrebbe avuto bisogno di un maggior respiro e, soprattutto, di un disancoraggio dalla Trinacria, alla quale le autrici, invece, sono rimaste abbarbicate.
2. Guerrieri e feudatari. - Tornando alle tesi eliasiane sulla corte, queste sono ben presenti in altri recenti lavori come, ad esempio, nei saggi raccolti a cura di Daniela Romagnoli,57 e in quelli via via pubblicati e adesso riuniti assieme da Marcello Fantoni.58 Sullo stesso diapason si collocano molti dei contributi apparsi negli atti di un convegno sugli Estensi, tenutosi a Ferrara nel marzo 1992.59 In particolare, due libri recenti consentono una verifica puntuale dei limiti della trilogia eliasiana, che ha pur sempre il grandissimo merito di aver aperto un terreno d’indagine sino ad allora vergine e che continua a mostrare ampie possibilità di sviluppo. Mi riferisco, nell’ordine, ad un profilo biografico di Fabrizio Spada, nunzio in Francia nel 167460 e ad uno studio, di tutt’altro impianto, sulla corte sabauda di Carlo Emanuele I.61
56 R. Bell, Santa Anoressia, Milano, Mondadori, 1990; ma si vedano ancora i saggi raccolti assieme in un unico volume da A. Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae». Santità e società femminile nell'Italia medievale, Roma, Herder, 1990; nonché C. Wal-ker Bynum, Holy Feast and Holy Fast, The Religious Significance of Food to Medieval Women, University of California Press, 1987, lavori che, seppur riferiti ad un’età precedente, avrebbero tuttavia dovuto essere conosciuti.
57 D. Romagnoli ed., La città e la corte. Buone e cattive maniere tra Medioevo ed Età Moderna, Milano, Guerini, 1991, riproposto in francese da Fayard nel 1995.
58 M. Fantoni, La corte del Granduca cit.
59 Alla corte degli estensi. Filosofia, arte e cultura a Ferrara nei secoli XV e XVI, Atti del Convegno int. di studi, Ferrara 5-7 marzo 1992, Univ. degli Studi, Ferrara, 1994.
60 R. Ago, Carriere e clientele nella Roma barocca, Roma-Bari, Laterza, 1990.
61 P. Merlin, Tra guerre e tornei. La corte sabauda nell'età di Carlo Emanuele I, Società Editrice Internazionale di Torino, 1991.
112
Sergio Bertelli
Il saggio di Renata Ago ci coinvolge subito in un problema di etichetta. Giunto a Parigi, il giovane Spada si era accorto con stupore che tutte le signore, presso le quali si recava in visita, lo ricevevano facendosi trovare a letto. Ben presto capì: in tal modo le dame sfuggivano ad ogni formalità, non erano obbligate né ad andargli incontro per riceverlo, né ad accompagnarlo all’atto del congedo. Evitavano così di creare dei precedenti nel cerimoniale della visita; ma era una precauzione eccessiva perché, come osservava lo stesso Fabrizio scrivendo al padre, essendo donne, non erano tenute alle stesse formalità («impegni») dei loro mariti, ministri e dignitari del re. Visitare le dame e incontrare nella loro stanza, casualmente, il marito, aggirava però l’ostacolo della visita formale e il conseguente reciproco riconoscimento di status. Se il cerimoniale e le norme di precedenza che esso regolava erano il linguaggio della gerarchia, come ha giustamente osservato Antonio Maravall, se ne deduce che in un mondo altamente gerarchizzato, come quello di ancien ré girne, creare precedenti era quanto mai pericoloso. L’uso di ricevere stando nel (o accanto al) letto di parata dovette nascere anche da questa esigenza primaria.
Avviarsi verso la carriera ecclesiastica (o scegliere la professione del cortigiano) richiedeva dunque disciplina, autocontrollo, capacità di dissimulazione, dovendo costruire la propria immagine in funzione degli altri. Occorreva vigilare e rintuzzare gli attacchi degli emuli, saper attendere il proprio momento, godere delle grazie del principe. Sopra a tutto, non scendere mai dalle posizioni raggiunte. Di qui quello che veniva definito «il puntiglio delle preminenze». Poiché i rapporti sociali sono sottoposti ad un continuo bricolage, ecco perché tutti erano attenti a non creare nuovi «obblighi». Il rischio delle «innovazioni» era sempre presente. Così fortuna e invidia stavano alla base di questa cultura della carriera. Il cerimoniale diveniva allora la necessaria mise en forme de l’ordre politique
Al tema della corte, come dicevo, si è volto anche Pierpaolo Merlin. Al contrario di Donati, per Merlin studiare la corte sabauda tra Emanuele Filiberto (1553-1580) e Carlo Emanuele (1580-1630) diviene un buon lesi per verificare le tesi enunciate da Elias sulla «curializzazione dei guerrieri», la trasformazione, cioè, del nobile feudale in cortigiano -un processo che si sarebbe accompagnato alla centralizzazione del potere - e sul «senso di angoscia» che avrebbe còlto il nobile davanti al-
62 È il titolo di una bella raccolta di saggi di recente apparsa in Francia, a cura di Y. Deloye, C. Haroche, O. Ihl, Le protocole ou la mise en forme de l’ordre politique, Paris, L’Harmattan, 1996.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
113
l’incalzare della borghesia, sino a costringerlo a complicare le regole dell’etichetta per differenziarsi. Quella sabauda, infatti, è una corte relativamente giovane, di medie proporzioni, che emana da una dinastia sempre tesa a raggiungere un riconoscimento regale, in perenne competizione con un’altra dinastia, press’a poco di identiche dimensioni, anch’essa sbocciata a cavallo tra la prima e la seconda metà del Cinquecento e di uguali ambizioni: quella medicea, che con Cosimo I aveva ottenuto dal pontefice il titolo granducale al posto di quello, agognato, di re d’Etru-ria. Le corrispondenze diplomatiche di fine Cinquecento e pieno Seicento traboccano di notizie sulle liti di precedenza che periodicamente scoppiavano tra ambasciatori piemontesi e ambasciatori toscani, punto d’onore per il riconoscimento pubblico, presso le corti estere, delle prerogative dei rispettivi signori.63 In assenza di spazi politici autonomi, in una società fatta di gerarchie e di onori quale quella barocca, i riconoscimenti esteriori divenivano atti sostanziali. Se i Medici avevano subito, etologicamente, Vimprinting imposto loro da Carlo V, i duchi sabaudi, schiacciati tra Francia e Spagna, non potevano che attuare una politica oscillatoria - a pendolo - subendo l’influenza di entrambe le potenze egemoni, persino sui loro costumi, avendone condizionati comportamenti ed etichetta di corte.
Merlin ha calcolato gli alti costi di mantenimento della corte e della foresteria di Carlo Emanuele I evidenziando il gravame riversato sui sudditi. Se Enrico Stumpo, nel suo studio sulle finanze sabaude,64 aveva giudicato che le entrate ordinarie della corte non superassero il 2% dell’intero bilancio statale, Merlin fa notare che nel primo ventennio del secolo le spese ordinarie aumentarono del 161%, quindi molto più delle entrate e che nel calcolo di Stumpo non sono comprese né le spese per la corte della duchessa (oltre 20.000 scudi, più gli interessi della dote), né, sopra a tutto, le spese straordinarie. A giudicare dai costanti prestiti domandati dal duca, nel corso di tutta la sua vita, se ne deduce che il costo della corte fu molto, ma molto più alto di quel piccolo 2% e comportò conseguenze che smentiscono la tesi di Norbert Elias sulla «curia-lizzazione dei guerrieri». Osserva giustamente Merlin che «non erano le spese ordinarie, necessarie al mantenimento della corte e al pagamento degli stipendi, quanto quelle straordinarie, più propriamente di piacere
63 Cfr. quanto scriveva l’ambasciatore veneziano Tommaso Contarmi, nel 1588, in Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, reprint Roma-Bari, Laterza, 1976, II, p. 319.
64 E. Stumpo, Finanza e Stato moderno nel Piemonte del Seicento, Roma, Ist. Storico per l’età moderna e contemporanea, 1979.
8
114
Sergio Bertelli
e di prestigio, a incidere maggiormente sulle uscite».65 Il fabbisogno continuo di danaro che assillò Carlo Emanuele ebbe pesanti conseguenze anche sulla propria politica assolutista. E vero che, davanti a feudatari troppo potenti o poco sicuri, il duca cercò sempre di stanarli dai loro feudi e di averli con sè a corte o di distruggerli. Ma, a parte l’episodio limite del conte di Boglio Annibaie Grimaldi, arrestato e giustiziato per lesa maestà nel 1621, i suoi feudi confiscati e riassegnati ad altri nobili,66 assistiamo ad una continua alienazione di autorità e di giurisdizione (come il privilegio di esercitare la giustizia nelle cause civili e criminali), a cessioni di redditi demaniali, a vendite di feudi coi relativi titoli, a cessioni pluridecennali di riscossioni di tributi in favore di nobili nei confronti dei quali il duca era debitore di somme così alte, da essere incapace di restiturle. Non mi sembra perciò di poter accettare l’affermazione di Merlin, secondo il quale la nobiltà piemontese venne sottoposta da Carlo Emanuele «ad uno stretto controllo».67 Ciò è in palese contraddizione con quanto egli stesso poco oltre dice, e cioè che «tramite l’acquisto di feudi e la concessione di privilegi giurisdizionali, la nobiltà ottenne in primo luogo il proprio rafforzamento in sede locale».68 La corte è uno spaccato completo della società esterna, vi convivono grandi feudatari come piccola nobiltà e persone di più umili natali, tutti però con accesso ai favori del signore. Insomma: la documentazione raccolta induce a ripensare profondamente alle schematizzazioni - sia pur suggestive, ma troppo manualistiche - della trilogia eliasiana. Merlin apre nuove prospettive di ricerca, invita ad ampliamenti e raffronti con altri studi che si vengono estendendo alle altre corti italiane della prima età moderna.
Di patrizi e cavalieri, questa volta per l’Italia meridionale, si è occupata anche Maria Antonietta Visceglia, curatrice di un volume colletta-neo.69
A questo proposito osservavo prima come nella storiografia italiana si notino delle lunghe persistenze. Posso aggiungere: anche delle lunghe assenze. Ad esempio, dal dibattito sul sistema feudale. Un tema che ha appassionato gli storici d’Oltr’Alpe e che è stato ricostruito da Renata
65 Merlin, Tra guerre e tornei cit., pp. 81 sgg.
66 Ivi, pp. 129 sgg.
67 Ivi, p. 131.
68 Ivi, p. 142.
69 M. A. Visceglia ed., Signori, patrizi e cavalieri in Italia centro-meridionale nell’età moderna, Roma-Bari, Laterza, 1992.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
115
Ago, in appendice ad un suo lavoro più recente sull’argomento.70 Il dibattito sul feudalesimo come «modo di produzione» era sorto negli anni cinquanta, ad opera di due economisti d’impianto marxista: Maurice Dobb e P. M. Sweezy.71 Ma presto quel «sistema» si era trasformato in una «categoria» e lo si era andato a rintracciare un po’ dappertutto, in Europa come in India, in Mesopotamia, in Giappone. E vero che, in una relazione trasmessa al Consejo de las Indias agli inizi del Seicento si diceva che i signori giapponesi «tienen jurisdi^ión y dominio sobre sus va-sallos a la semejan^a que los potentados de Ytalia»,72 ma questi sono i difetti del dibattito macrostorico. Non per nulla uno dei titoli di questa bibliografia porta la firma di Immanuel Wallerstein, il più convinto assertore delle tesi braudeliane di una «economia mondo»! Un dibattito nel quale si sono presto inseriti anche gli storici sovietici (in particolare A.D. Lublinskaya), portando loro proprie tipologie.
In Italia, alla discussione aveva preso parte solo Pasquale Villani, che si era a lungo occupato del Catasto onciario e che nel 1968 aveva pubblicato un libro sull’argomento, rimasto a lungo solitario nel panorama storiografico italiano.73 Non a caso si trattava di uno storico napoletano allievo di Nino Cortese, né a caso i successivi interventi sarebbero giunti da altri storici «regnicoli»: da Giuseppe Galasso74 e da Rosario Villari.75 Ma vorrei osservare (visto che non lo fa Renata Ago) che si tratta si studiosi che erano fortemente legati - specie Villani e Galasso -
70 R. Ago, La feudalità in età moderna, Roma-Bari, Laterza, 1994. In appendice una preziosissima bibliografia.
71 Cfr. in G. Bolaffi ed., La transizione dal feudalesimo al capitalismo (1954), Roma, Savelli, 1973.
72 L’autore è identificato da Juan Gii in Juan de Cevicos, capitano di nave: Cfr. Hidalgos y samurais. Espana y Japón en los siglos XVI y XVII, Madrid, Alianza Editoria!, 1991, p. 231.
73 P. Villani, Feudalità, riforme, capitalismo agrario, Roma-Bari, Laterza, 1968. Per le precedenti ricerche sul catasto onciario cfr. Mezzogiorno fra riforme e rivoluzione, Bari, Laterza, 1962, pp. 85 sgg.
74 L’opera prima di G. Galasso era stato un volume su Economia e società nella Calabria del Cinquecento, Napoli, L’arte tipografica, 1967.1 suoi interventi successivi in Il Mezzogiorno nella storia d'Italia, Firenze, Le Monnier, 1977; e il tema era stato ripreso in due saggi apparsi in volumi collettanei: Studi in memoria di Federigo Melis, Napoli, Giannini, 1978 e E. Fasano Guarini ed., Potere e società negli stati regionali italiani fra '500 e '600, Bologna, il Mulino, 1978.
75 Se non erro Villari è stato il primo ad usare, nel dibattito italiano, il concetto di «rifeudalizzazione». Cfr. Note sulla rifeudalizzazione del Regno di Napoli alla vigilia della rivoluzione di Masaniello, «Studi storici», 4, 1962.
116
Sergio Bertelli
a Rosario Romeo, autore di un celebre confronto con Alexander Ger-schenkron.76
Ricostruire questo dibattito consente anche di rintracciare i diversi percorsi di storici che, prima di essere italiani, denunciano la propria appartenenza agli antichi Stati preunitari. Mi sembra che certi silenzi siano in questo senso davvero sintomatici. Si prenda il numero monografico di una rivista «settentrionale» come «Quaderni storici»: Aziende agrarie e microstoria. Osserva giustamente Renata Ago che dai saggi che lo compongono «è difficile capire se una delle aziende oggetto di studio sia o no inserita in un complesso feudale e in che maniera ciò eventualmente incida sulla gestione, sulla rendita, sui rapporti con affittuari e coloni. L’interesse degli autori è infatti rivolto soprattutto alle pratiche agronomiche e ai criteri di gestione aziendale, rispetto ai quali il regime giuridico della proprietà risulta irrilevante».77
Feudalità, rifeudalizzazione sembrano dunque dei temi riservati alla storia del Mezzogiorno d’Italia. Aurelio Lepre li definisce senz’altro «problemi della società meridionale».78 Come se non fossero esistite persistenze di feudalità sia nella Padania che nella Toscana granducale. Di quest’ultima e della sua feudalità si era occupata, in anni giovanili, Elena Fasano Guarini, pubblicando con il Consiglio Nazionale delle Ricerche una mappa della regione al 1574, corredata da commento.79 Purtroppo una così promettente ricerca è stata interrotta, né mi risulta sia stata mai più ripresa. Dunque, feudalità solo meridionale. Daccapo se ne occupa -e non possiamo non ricordarlo, anche se l’autore è di nascita francese -Gérard Delille, in un importante volume su Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli.80 Considereremo Delille un nostro storico, perché si tratta di uno studioso che ha messo ormai salde radici fra noi, apportando l’enorme contributo di esperienza della scuola d’oltr’Alpe.
Alla discussione sui rapporti fra corona e feudalità hanno recato naturalmente il loro valido apporto anche gli storici iberici; né a caso, si di-
76 A. Gerschenkron, Il problema storico dell'arretratezza economica (1962), Torino, Einaudi, 1965. Ma si veda la rassegna di G. Pescosolido, Lo sviluppo industriale italiano nel dibattito dell"ultimo ventennio, «Clio», XIII, 1977, 3. Su Romeo, ancora Pescosolido, Rosario Romeo, Roma-Bari, Laterza, 1990.
77 Ago, La feudalità cit., p. 177.
78 A. Lepre, Feudi e masserie. Problemi della società meridionale nel '600 e nel '700, Napoli, Guida, 1973.
79 E. Fasano Guarini, Lo Stato mediceo di Cosimo I, Archivio dell’atlante storico italiano dell’età moderna, Firenze, Sansoni, 1973.
' 80 G. Delille, Famille et propriété dans le Royaume de Naples (XVe-XIX siècle),
Ecole fran^aise de Rome, 1985 (tr. it. Torino, Einaudi, 1988).
Appunti sulla storiografia italiana per l’età moderna
117
rebbe, anche in questo settore, il contributo italiano è venuto da uno storico di area «iberica», anzi regnicola: Francesco Benigno, un allievo di Giuseppe Giarrizzo.81
3. Corpi sacri. - Ma, naturalmente, parlando di corti, non sono solo questi gli aspetti che interessano la ricerca storica. Né Elias può essere il solo punto di riferimento. Altri ve ne sono, che investono la ritualità e la sacralità del monarca. Basti qui solo rinviare, per intendersi, agli studi di Marc Bloch sui re taumaturghi; a Ernst Kantoro-wicz, non solo al suo libro su i due corpi del re, ma in particolare al saggio sulle Laudes regiae; a E. P. Schramm in relazione al papato e al Sacro Romano Impero; a F. Dvornik e al nostro Agostino Pertusi per Bisanzio. Si tratta di ricerche che non possono non essere diacroniche, e che trovano un eventuale limite cronologico nei regicidi del 1649 e del 1793. A tutti questi autori io mi sono ispirato, quando ho affrontato il tema del corpo regale.82 Osserverò che al mio lavoro si è ora affiancato Agostino Paravicini Bagliani,83 con un libro curioso perché, pur seguendo passo passo la mia documentazione (eccettuati i due ultimi capitoli sulla medicina), l’autore sposa le tesi - da me criticate -di Reinher Elze, senza mai esplicitarlo.
Parallelamente alle mie ricerche, il gruppo di «Laboratorio di storia» ha svolto un seminario su Potere sovrano e sacralità del corpo da Alessandro Magno a Ceau^escu^ proprio partendo da Marc Bloch (Cristiano Grottanelli), e analizzando in modo diacronico forme di sacralità legate alla persona del capo: da Alessandro (Monica Centanni), passando per il corpo del pontefice (Alain Boureau), Cosimo I de’ Medici (Susanna Pietrosanti), la regina Vittoria (Giovanni Aldobrandini), il Milite ignoto (Vito Labita), Mussolini (Caterina Bianchi e Mario Isnenghi), Jim Jones (il capo della setta del Pepole’s Tempie, studiato da Enrico Pozzi), per giungere infine al dittatore romeno e al suo palazzo (Bianca Valota). In questo stesso volume è ospitato un importante saggio di Ralph Giesey su Kantorowicz, del quale egli fu allievo.
81 F. Benigno, L’ombra del re. Ministri e lotta politica nella Spagna del Seicento, Venezia, Marsilio, 1992.
82 S. Bertelli, Il corpo del re. Sacralità del potere nell’Europa medievale e moderna, Firenze, Ponte alle Grazie, 1990 (seconda ed. 1995).
83 A. Paravicini Bagliani, Il corpo del papa, Torino, Einaudi, 1994.
84 S. Bertelli, C. Grottanelli eds., Gli occhi di Alessandro. Potere sovrano e sacralità del corpo da Alessandro Magno a Ceau^escu, Laboratorio di storia 2, Firenze, Ponte alle Grazie, 1990.
118
Sergio Bertelli
In questo settore di studi, un contributo di valore mi pare sia venuto da Ilaria Ciseri.85 Il suo libro si colloca sul displuvio tra la storia sociale dell’arte alla André Chastel, e gli studi di storia della ritualità che vanno dal vecchio Percy Schramm alla più aggiornata scuola storica britannica, di un Simon Price e di un David Cannadine, ad esempio, passando per Bloch e Kantorowicz. Il percorso del corteo papale è qui ricostruito con gli strumenti dell’antropologia storica, dimostrando come si trattasse di un itinerario lungo l’antico perimetro di fondazione del castro romano. Si trattò, dunque, come spesso avveniva in questi casi, di un percorso lustrale, di una ricognizione del territorio all’interno dei suoi confini sacrali.
Possiamo accostare a questo lavoro i contributi - anch’essi di argomento fiorentino - di altre due giovani studiose: Susanna Pietrosanti86 e Silvia Mantini.87 La prima ritorna sulle tematiche care a Kantorowicz e a Ralph Giesey, analizzando l’entrata di Cosimo I in Siena nel 1560, nonché il funerale del primo granduca, coincidente con l’intronizzazione del figlio Francesco; la seconda prende dichiaratamente a modello Richard Trexler, storico statunitense di grande ricchezza e vivacità intellettuale, con spiccati interessi indirizzati all’antropologia. Ilaria Ciseri aveva destrutturato l’ingresso di un pontefice; Susanna Pietrosanti un trionfo principesco (quello senese del 1560) e un funerale (quello di Cosimo I, presente il figlio Francesco); Silvia Mantini non si limita all’analisi degli ingressi, ma allarga lo sguardo alla morfologia della città: coi suoi conventi e monasteri; coi palazzi sui cui portoni viene collocato il busto apotropaico del principe; coi tabernacoli che ne punteggiano i crocicchi. Né questa città è immobile, ferma nel tempo. Anche la sua sacralità ha una storia, uno svolgimento ed è questo mutamento, dall’età comunale al principato mediceo, dalla Madonna dell’Impruneta (protettrice della repubblica) all’Annunciata (patrona del granduca), a rendere dinamica la ricostruzione storica.
Una ricerca di questo tipo, ma nella quasi totale assenza dell’aspetto socio/antropologico, era stata già fatta, per Venezia, da Edward Muir.88 Un libro che, tra l’altro, per lo scavo delle fonti, molto dipendeva dalla nostra erudizione ottocentesca. Ad ampliare e talvolta a correggere Muir
85 I. Ciseri, L'ingresso trionfale di Leone X in Firenze nel 1515, Firenze, Olschki, 1990.
86 S. Pietrosanti, Sacralità medicee, Firenze, Firenze Libri, 1991.
87 S. Mantini, Lo spazio sacro della Firenze medicea, Firenze, Loggia de’ Lanzi, 1995.
88 E. Muir, Civic Ritual in Renaissance Venice, Princeton UP, 1981.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
119
giunge adesso Matteo Casini, con un importante studio, non a caso introdotto da Richard Trexler89 e che dimostra un’ottima conoscenza di testi fondamentali, da van Gennep a Kantorowicz, al nostro Pertusi. Casini mette a confronto due «theatres of State» (per dirla con Geertz): quello dogale veneziano e quello granducale fiorentino, andando alla «ricerca o scoperta dell’elemento divino “in terra”, in fenomeni o momenti anche al di fuori dei normali luoghi culturali, in peculiari comportamenti privati o eccezionali riscontri pubblici, e pure in espressioni formali di gruppi e poteri laici».90 La differenza fra i due campi d’indagine prescelti è notevole. Mentre per Venezia si elabora un cerimoniale che, arricchendosi via via, in modo distinto dal grande modello bizantino (proprio per marcare un’indipendenza dall’impero d’Oriente), finisce «ben presto a caratterizzarsi come unicum cerimoniale in grado di riflettere lo sviluppo affatto peculiare della città lagunare»,91 ben diversamente il cerimoniale mediceo è costretto ad importare da modelli esterni, in una «continua tensione fra esibizione di carisma pubblico ed esibizione di carisma privato, fra la sfarzosa cerimonialità delle famiglie più potenti e il desiderio del governo di compattare una ritualità a lui peculiare».92
Ancora di Firenze, ancora di rituali e di percorsi «sacri» si occupa un altro recentissimo libro: Cristo e Giuda. Rituali di giustizia a Firenze in età moderna, di Filippo Fineschi.93 Qui il discorso verte sul rapporto fra la città e il reo, che va espulso da essa, secondo elaborati cerimoniali tesi ad impedire il ritorno del morto nel regno dei vivi. Daccapo, risulta fondamentale il cerchio sacro delle mura e se per gli ingressi studiati da Ciseri, Pietrosanti e Mantini il modello era quello dell’entrata in Gerusalemme del profeta, qui è la gita verso il patibolo ad assumere i caratteri sacrali della via crucis. Il libro di Fineschi è un grande affresco, nel quale compaiono come attori il re, il boia e la folla, tutti, contemporaneamente, partecipi di un macabro cerimoniale, che saremmo portati a inserire, seguendo Eugenio D’Ors, nella categoria del barocco: «sia la violenza del boia e della folla, sia la patientia del condannato alimentavano la potenza del rito della esecuzione capitale».94
89 M. Casini, I gesti del principe. La festa politica a Firenze e Venezia in età rinascimentale, Venezia, Marsilio, 1996.
90 Ivi, p. 21.
91 Ivi, p. 33.
92 Ivi, p. 74.
93 Firenze, Bruschi, 1995.
94 Ivi, p. 215.
120
Sergio Bertelli
Se guardiamo alle date di stampa di tutti questi lavori, possiamo agevolmente accorgerci come si sia di fronte ad un notevole sviluppo di ricerche in campi che erano stati, sino a non molti anni fa, del tutto trascurati e che giungono adesso al centro della ricerca storica.
4. Microstorie di mugnai, di esorcisti, di scienziati eretici e di maschi maliziosi. - Partito sotto la direzione di Alberto Caracciolo come gruppo legato all’esperienza braudeliana (e cioè essenzialmente macrostorica), i successori editoriali subentrati alla testa della rivista «Quaderni storici», invece di sviluppare il filone della ricerca seriale, alla Wal-lerstein, si sono indirizzati verso la microstoria, seguendo del resto un percorso che è stato comune a molti allievi e seguaci del gruppo delle «Annales».
Il n° 86 dell’agosto 1994 ha ospitato due saggi, rispettivamente di Carlo Ginzburg e di Edoardo Grendi, di autopresentazione del proprio gruppo («una sorta di coterie»), definito «scuola microstorica italiana», nonché un intervento di supporto firmato da Jacques Revel. Alla ricerca di antenati, Ginzburg scopre di avere insospettate e in precedenza ignorate affinità con George R. Stewart (autore, fra molti altri scritti, di una ricostruzione della battaglia di Gettysburg del 3 luglio 1863), con Luis Gonzàlez y Gonzàlez (scrittore messicano autore di una monografia dal titolo sintomatico: Pueblo en vilo. Microhistoria de San José de Grada, 1968); nonché con l’olandese F. R. Ankersmit, studioso di storia della storiografia e assertore della priorità del frammento.95 Historta matria, cioè una storia adattata alla dimensione materna, al «sentimentale della madre», ha definito la propria ricerca Luis Gonzàlez, ricorrendo addirittura al taoismo, allo yin, evocatore di tutto ciò che vi è di «femminile, conservatore, terrestre, dolce, oscuro e doloroso».96 Accanto a questi autori, Ginzburg rintraccia antenati ancora più illustri: Fabrizio del Dongo, narratore della battaglia di Waterloo in Stendhal; il principe Andrej testimone partecipe della battaglia di Austerliz; Pierre di quella di Borodino in Guerra e pace di Tolstoj; per finire con Sigfried Kracauer (anche se le sue pagine «non hanno avuto alcun peso nell’emergere di questa tendenza storiografica») e il Que-neau de Les fleurs bleues.97
95 C. Ginzburg, Microstoria: due o tre cose che so di lei, «Quaderni storici» 86, XXIX, 1994, pp. 511-539.
96 L. Gonzàlez y Gonzàlez, El arte de la microhistoria, in Invitación a la microhistoria, Mexico, 1973, pp. 12-14.
97 Ginzburg, Microstoria cit., pp. 523 sgg.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
121
I due corni del dilemma in cui si dibattono Ginzburg e i suoi amici sono: la «discontinuità della realtà» - secondo la definizione di Kra-cauer, evidentemente scoperta in un secondo momento98 - e «l’insistenza sul contesto». Tra tanti autori, più o meno astrusi, non troviamo citato una sola volta quell’aureo libro che è Ylstorica di Johann Gustav Droysen, nel quale la «discontinuità» è con più esattezza individuata nella «narrazione catastrofica» e il secondo corno del dilemma è riassunto, con una critica a Lessing, nel problema del «testimone»: «La descrizione diventa sempre tanto più incerta, quanto più è particolareggiata; o, meglio, la verità delle cose non sta nei particolari e nella loro evidenza. Non sono, come vuole il Lessing, i testimoni oculari e auricolari a garantire la verità delle cose; è già abbastanza se riferiscono esattamente quanto, dal loro posto, potevano vedere e udire».99
Che uso fare delle fonti e come trasformarle in altrettante «storie-casi»? 100 Perché tutti sanno (o dovrebbero sapere) che ogni carta d’archivio non è di per sè documento storico, se non inserita, appunto, in un contesto. Al di là del dibattito teorico, nel quale certamente la coterie di «Quaderni storici» eccelle, i risultati sembrano infatti alquanto modesti.
Partiamo, per il nostro esame, proprio da alcuni dei parti del caposcuola di questo gruppo: Carlo Ginzburg. La sua prima microstoria risale al 1966: I benandanti™ ricostruzione di un processo inquisitoriale istruito tra il 1575 e il 1580 a Cividale del Friuli contro un esorcista che si vantava pubblicamente di appartenere ad una setta di stregoni benefici, combattenti nelle notti di giovedì delle Quattro tempora, brandendo canne di finocchio selvatico, contro le streghe, armate a loro volta di rami di sorgo. Arrestato assieme ad un altro contadino e messi entrambi in una unica cella, i due perfezionano questa storia immaginaria, di quelle che dovevano raccontarsi «a veglia» nelle sere d’inverno, nel caldo delle stalle. Quando Ginzburg studiava quel processo nell’Archivio arcivescovile di Udine, Gustav Henningsen non aveva ancora ammonito sull’importanza capitale per gli inquisitori di evitare che i prigionieri dividessero insieme la cella, proprio ad evitare che potessero con-
98 S. Kracauer, History. The Last Things Before thè Last, P. O. Kristeller ed., New York, 1969.
99 J. G. Droysen, Istorica. Lezioni sulla Enciclopedia e Metodologia della storia (1858/1867), Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, p. 74. Per la narrazione catastrofica ivi, pp. 308 sgg.
100 E. Grendi, Ripensare la microstoria?, «Quaderni storici», 86, XXIX, 1994, p. 541.
101 I benandanti. Stregoneria e culti agrari nellTtalia del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1966.
122
Sergio Bertelli
cordare assieme le risposte.102 Ebbene, Ginzburg non si accorge che Paolo Gasparotto e Battista Moduco dichiarano espressamente all’inqui-sitore di essersi vicendevolmente confidati, finendo per prender tutto per oro colato e concludere che «in questo periodo i benandanti costituiscono, a quanto risulta dalle loro confessioni, una vera e propria setta», il cui «preciso rituale» (?) farebbe riemergere «un rito agrario conservatosi straordinariamente vitale quasi alla fine del ’500».103 Con una di quelle glissades (come ebbe a definirle George Dumézil)104 alle quali Ginzburg e la sua scuola fanno sovente ricorso, si fa presto a scoprire in quel rito la radice del sabba.105 Di «mere ipotesi» il libro è pieno, anche se esse «potrebbero essere confermate soltanto sulla base di testimonianze, che attualmente mancano, su fasi precedenti del culto».106 Ma poco importa: con un materiale così labile Ginzburg, le cui capacità letterarie sono indubbie, è riuscito a costruire una brillante «storia».
Dieci anni più tardi, egli tornava su altro materiale inquisitoriale furiano, pubblicando il libro che lo avrebbe reso famoso, col significativo sottotitolo: Il cosmo di un mugnaio del "500. Come diceva il risvolto di copertina, si trattava di una «analisi della visione del mondo di un mugnaio friulano mandato al rogo dall’Inquisizione», ossia dello studio di due processi intentati, nel 1584 e nel 1599, a Domenico Scandella da Monreale, soprannominato Menocchio.
Come già precedentemente per i «benandanti», egli riteneva di trovarsi di fronte ad «una tradizione orale verosimilmente antichissima», che faceva riemergere «uno strato oscuro, quasi indecifrabile di remote tradizioni contadine». Si trattava di «un filone profondo di radicalismo contadino», «uno strato culturale profondo», «un filone irriducibile di cultura orale», «uno strato ancora non scandagliato di credenze popolari, di oscure mitologie contadine».
102 G. Henningsen, The Witsches' Advocate. Basque Witchcraft and thè Spanish In-quisition (1609-1614), Reno, Nevada UP, 1981 (la trad. italiana, Milano, Garzanti 1990, inspiegabilemnte condotta sulla traduzione spagnola, è pessima).
103 I benandanti cit., p. 36.
104 G. Dumézil, Science et politique. Réponse à Carlo Ginzburg, «Annales ESC», XL, 1985, pp. 985-989. L’attacco (politico) di Ginzburg a Dumézil, concordato col correligionario Arnaldo Momigliano, apparve in «Quaderni storici» 57, 1984, pp. 857-882, ed è stato ristampato in Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Torino, Einaudi, 1992, pp. 210-238.
105 «I benandanti dunque battono con rami di finocchio le streghe armate di rami di sorgo. Perché il sorgo sia l’arma delle streghe non è chiaro: a meno di non identificarlo con la scopa, loro tradizionale attributo [...] É un’ipotesi quanto mai suggestiva [...] da avanzare evidentemente con estrema cautela»: 1 benandanti cit., p. 39.
106 Ivi, p. 41.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
123
Le origini «antichissime» di un tale «strato profondo», Ginzburg andava a cercarle, in un comparativismo alla Frazer, tra i pastori dell’Aitai e nel cosmo del mito indiano vedico, laddove si parla del coagularsi delle acque marine, battute dagli dei creatori. Ginzburg faceva presto ad arrivare a scoprire «coincidenze inquietanti», tracce che l’avrebbero portato - da una «scivolata» all’altra - sino ^exploit della Storta notturna107 e alla pretesa di aver scoperto «la matrice di tutti i racconti possibili».
Disponiamo oggi, grazie alle eccellenti cure di Andrea Del Col, del testo completo dei costituti di Scandella108 e possiamo agevolmente controllare il lavoro ginzburghiano: Menochio è un relitto cataro! Domenico non è un mugnaio «semianalfabetizzato». Non solo possiede libri e manoscritti, ma risulta essere stato anche maestro di scuola («ho tenuto scolla di abacho et di legere et scrivere a’ putti») e scopriamo che sa citare a memoria correttamente dal latino. Quest’uomo, pervaso da un forte panteismo, conosceva i Viaggi dello pseudo Mandeville e dal Supplementum supplementi delle croniche potè dedurre il concetto di caos.
Se le sue idee, rintracciabili nei testi a stampa, «appartengono quasi tutte al filone della Riforma», nell’introdurre i costituti Del Col giustamente sottolinea «la complessità e l’articolazione della cultura religiosa del mugnaio», trovando in essa affermazioni che «si rifanno alle concezioni degli anabattisti e antitrinitari: negazione della divinità di Cristo e della Trinità, riduzione della vita religiosa alla morale, negazione dei sacramenti, esaltazione della tolleranza, critica alla ricchezza della Chiesa e all’autorità della gerarchia». Non dimentichiamo inoltre che, con ogni probabilità - lo fa supporre una sua citazione -, Menocchio ha avuto per le mani anche il Corano. L’equivalenza delle religioni da lui asserita stava forse nella novella boccaccesca dei tre anelli, ma certo esisteva già nelle correnti catare bolognesi di fine Duecento. Insomma, conclude Del Col, con il mugnaio siamo di fronte ad «un caso di persistenza di una parte cospicua di dottrine catare nel tardo Cinquecento».
La complessità delle idee ereticali del mugnaio doveva lasciare perplessi i suoi inquisitori, che avevano come punto di riferimento l’eresia luterana e non riuscivano più a seguire nei suoi ragionamenti l’inquisito. Non già dunque, come supponeva Ginzburg, un riaffiorare di «remote
107 Storia nottura. Una decifrazione del sabba, Torino, Einaudi, 1989. Su di essa si vedano le perplessità esternate da G. G. Merlo in «Rivista storica italiana», CII, 1990, pp. 212-228.
108 A. Del Col ed., Domenico Scandella detto Menocchio, Pordenone, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 1990.
124
Sergio Bertelli
tradizioni contadine», di saperi archetipici, bensì un difficile dialogare da posizioni distanti, con gli inquisitori adusi a cercare tracce di luteranesimo e interdetti di fronte a enunciazioni di un’eresia a loro ormai sconosciuta. Quel «profondissimo fossato» che, secondo Ginzburg, divideva inquisito e inquisitori, era causato semplicemente dal fatto che i giudici si trovavano spiazzati di fronte ad un reperto archeologico di eresie che si ritenevano scomparse. Insomma, se coi «benandanti» Ginzburg ci aveva dato prova di un uso abbondante di glissades, qui abbiamo a che fare - come ebbe a osservare Giorgio Spini in sede di recensione di questo libro109 -, con una serie di «erudite agudezas», che si rivelano altrettante incomprensioni dei testi inquisiroriali.
Glissades e agudezas possono ritrovarsi, e qui faremo punto, anche in un altro saggio ginzburghiano, quello dedicato a Piero della Francesca.110 Sfruttando un’ipotesi suggerita dalla Tanner,111 secondo la quale nel Battesimo i due angeli che si stringono la mano (ma è la mano sinistra!) rinvierebbero alla Concordia augustorum (dunque alla dextrarum iun-ctio?) e andrebbero riferiti al tentativo di unione delle Chiese del 1439, Ginbzurg si è spinto oltre, supponendo (altra agudeza priva di riscontri) che il dipinto - databile attorno al 1451 - fosse destinato alla chiesa di Badia e fosse (nuova agudeza) un omaggio all’umanista Ambrogio Traversar!, superiore dei camaldolesi e autore del decreto conciliare d’unione. A suo parere confermerebbe la connessione col concilio fiorentino la presenza, sullo sfondo del dipinto, al di là del fiume, di quattro personaggi con vesti e copricapi «antichi» e che egli scambia per dei preti orientali (quando giunse la delegazione da Costantinopoli, capeggiata dall’Imperatore, gli italiani ritennero che così vestissero nell’antichità). Peccato che tutte queste - come ha osservato Carlo Bertelli - risultino ipotesi «non necessarie», se si considera «che gli angeli stanno cantando; che si tengono per la sinistra; [...] che coloro che sono al di là del fiume, lontani dal celebrare l’unione fra le Chiese, sono giudicati da meno del neofita che s’inarca per spogliarsi e così facendo quasi li nasconde». In realtà, «chiusi nei loro abiti vistosi», quei quattro «sono i leviti che interrogano Giovanni sottoponendolo al loro miope giudizio («Che dunque? Sei Elia? Sei tu il profeta?»). L’opposto dei fratelli separati e riuniti nel patto del 1439. Le loro presenze erano ritenute piutto-
109 G. Spini, Noterelle libertine, «Rivista storica italiana», LXXXVIII, 1976, pp. 792-802; ma si vedano anche le critiche mosse da P. Zambelli, Uno, due, tre, mille Mo-nocchio?, «Archivio storico italiano», CXXXVII, 1979, pp. 51-90.
110 C. Ginzburg, Indagini su Piero, Torino, Einaudi, 1981.
111 M. Tanner, Concordia in Piero della Francesca Baptism of Cbrist, «The Art Quarterly», XXXV, 1972, p. 120.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
125
sto secondarie, tanto che l’uomo che è più vicino a san Giovanni, e che si volta verso quello che indica il cielo, fu aggiunto dopo che il paesaggio era già stato dipinto».112 Cosa di cui Ginzburg non s’è nemmeno accorto.
In generale, le fonti privilegiate da questi «microstorici» sono le carte criminali. Ma esse, singolarmente prese, hanno un grave difetto: ci informano dell’antefatto, del delictus (il prima), fotografano il momento (il processo, l’adesso), fornendoci i verbali degli interrogatori. Spesso mancano però del dispositivo della sentenza, non ci informano sul destino futuro del/degli inquisito/inquisiti (il poi). A queste lacune si può supplire - secondo questi «microstorici» - ricorrendo al «paradigma indiziario».113
Prendiamo il caso di Giovanni Levi, esponente di punta di questo gruppo. Egli ha a lungo frugato fra le carte degli Archivi di Stato di Alessandria e Torino, nonché dell’Archivio Arcivescovile torinese, fra atti notarili e carte processuali, con le quali ha preteso di costruire delle «storie-casi» (di far emergere «ciò che è rilevante scrivendo una biografia»). La prima volta si era trattato di un patrizio di Felizzano, nell’Alessandrino: Francesco Sibaldi.114 L’assenza di un archivio di famiglia («ciò che presenta gravi problemi per gli storici») non ha fermato l’autore, teso ugualmente a ricostruire la «strategia del prestigio» che avrebbe dominato la vita di Sibaldi. Un programma esistenziale ben curioso che consiste nella costruzione del palazzo di famiglia (un’impresa per lui finanziariamente rovinosa) e in un viaggio a corte a Torino, nel tentativo di infeudare il proprio paesello. Poco importa che questa inconsistente biografia venga costruita ammassando «prove flebili» (sic!). Il vuoto verrà riempito andando a pescare laddove si ritrovano documenti, e cioè ricostruendo la vita di un affittuario di Sibaldi: l’oste Orazio Barberi, trasformato, applicando meccanicamente l’insegnamento di J. Boisse-vain, in «un tipo speciale di imprenditore, che controlla risorse di secondo livello» (!). Ma che modo è questo di scrivere una biografia?
Recidivo, Giovanni Levi affronta un secondo caso, ancor più «immateriale»: la storia di un povero prete semianalfabeta («affatto ignorante» lo definisce un’informazione della Curia torinese), figlio di un al-
112 C. Bertelli, Piero della Francesca. La forza divina della pittura, Milano, Silvana editoriale, 1991, p. 60.
113 Questa disinvolta metodologia è teorizzata dallo stesso Ginzburg in un testo più e più volte ristampato, ultimamente in Miti, emblemi, spie cit., pp. 158-209.
114 G. Levi, Strutture familiari e rapporti sociali in una comunità piemontese fra Sette e Ottocento, in Storia d'Italia, Annali, I, Torino, Einaudi, 1978, pp. 617-660.
126
Sergio Bertelli
trettanto disgraziato notaio. Incapace di vivere con le briciole del piatto di una parrocchia «non grande» (le rendite andavano infatti al titolare, residente fuori sede) Giovan Battista Chiesa (questo il nome del prete) si mette a esorcizzare senza alcuna autorizzazione della Curia (l’esorcista è il terzo degli ordini minori), utilizzando un diffusissimo e ben noto manuale (che Levi non è nemmeno capace di riconoscere115) e girando per le piazze dei paesi («si metteva a giocare del violino in compagnia di altro sonadore che seco era e comandava a dette creature che diceva oppresse e liberate di dover ballare e saltar in honore di Santo Antonio e di altri santi al di loro suono», narra un testimone). Farà presto a destare allarme nei superiori. Anche di questo processo restano labili tracce, né ci è pervenuta la sentenza. Ma anziché richiudere l’incartamento e restituirlo alla polvere degli scaffali, Levi è capace di trasformare il notaio Chiesa in «un tipo nuovo di specialista politico» e far assurgere l’ignorante vicario a «mediatore» della sua comunità.116
Non meno labile un’altra microstoria piemontese: quella imbastita da Simona Cerutti sulla nascita delle corporazioni torinesi. Anche qui colpisce la pretesa di far assurgere a «storia-caso» un materiale archivistico frammentario. Nessuna paura: se manca la documentazione, si fa presto a costruire una teoria ad hoc, poco importa se porterà a scoprire l’acqua calda: «La logica del privilegio, più che quella dell’omogeneità professionale, sembra guidare le scelte in città di questo gruppo di individui. Essa ritaglia affinità differenti e allontana altre che dal punto di vista della pratica produttiva hanno forse più punti di contatto. In questo senso l’idioma di mestiere - inteso come criterio di classificazione sociale, catalizzatore delle aggregazioni - doveva apparire poco significativo agli occhi dei nostri protagonisti. Non stupisce quindi che, per quante ricerche io abbia fatto, non sia riuscita a trovare alcun riferimento nelle loro biografie alla partecipazione a gruppi o associazioni che a esso si ispirassero».117 E perché mai dovremmo stupirci? Ma, viene da chiedersi: se era così ovvio, perché darsi tanta pena e svolgere tante inutili ricerche? Di florilegi di questo tipo, il libro è pieno. Per cui sembra quasi ironica l’osservazione (che nelle intenzioni vorrebbe essere elo-
115 Lo ha fatto notare O. Niccoli, Esorcismi ed esorcisti fra Cinque e Seicento, «Società e storia», 32, 1986, pp. 409-418.
116 Su questo libro, L'eredità immateriale. Carriera di un esorcista nel Piemonte del Seicento, Torino, Einaudi, 1985, si veda, oltre alla recensione di Ottavia Niccoli sopra rammentata, anche la mia, in «Bibliothèque d’Humanisme et Rénaissance», XLVIII, 1986, pp. 297-302.
117 S. Cerutti, Mestieri e privilegi. Nascita della corporazioni a Torino nei secoli XVII-XVIII, Torino, Einaudi, 1992, p. 54.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
127
giativa) di Jacques Revel, sulla «scommessa metodologica» dell’autrice, la quale consisterebbe «nell’annullare certezze».118
Nel novero di questi microstorici spicca Pietro Redondi, autore di un’incredibile biografia di Galileo Galilei,119 dallo stesso autore baldanzosamente definita «una preziosa lezione metodologica», ma che ha provocato una dura e ampiamente argomentata nota recensoria di Vincenzo Ferrone e Massimo Firpo.120 Partito da un consulto nel quale si postula la possibilità di accusare Galileo di eresia eucaristica, quel testo diventa la «spia», la «traccia» capace di «capire dal didentro», rovesciando come un guanto quanto sino ad ora sapevamo. Sono le tecniche alle quali questi microstorici ci hanno abituato. Quelle dell’affastellamento e dell’incastro di fonti eterogenee. Scrivono Ferrone e Firpo: «Quando Redondi confonde abilmente prove e possibilità, ardite congetture e certezze filologiche, giocando sulla fiducia e a volte sulla disattenzione del lettore, tutto abbacinato dal potere evocativo del suo narrare [...] allora è necessario riflettere attentamente sul procedere della trama, sulle connessioni autentiche sottese al rapido fluire delle immagini, e svegliarsi dalla fascinazione ipnotica che tutte le fictions - se di buona qualità - producono, per tornare sollecitamente di fronte al tribunale del documento e dell’accertamento filologico».121
Di biografia in biografia, altrettali equilibrismi si rintracciano in un altro, più recente parto microstorico: la vita di una vedova ticinese, ricostruita da Raoul Merzario, sulla base di un processo rintracciato negli archivi di Bellinzona.122 Non può negarsi che anche lui non sia caduto nella tentazione di amplificare oltre i loro limiti obiettivi i verbali delle confessioni rese da una vedova già in là con gli anni (al momento del processo dovrebbe aver superato la cinquantina) originaria di Mende, villaggio del Canton Ticino dalle parti del lago di Lugano. Il caso è presto detto: nel 1678 Anastasia Provino compare avanti i giudici cantonali. La donna, che il giorno prima è già stata sottoposta ai «tormenti», riconosce di aver intrattenuto rapporti sessuali con più uomini del suo paese. L’inquisitore vuol capire «in che modo» i suoi amanti, in particolare il signor Antonio Oldello, abbiano fatto «che non la sia
118 J. Revel, Microanalisi e costruzione del sociale, «Quaderni storici», 86, agosto 1994, p. 559.
119 P. Redondi, Galileo eretico, Torino, Einaudi, 1983.
120 V. Ferrone, M. Firpo, Galileo fra inquisitori e microstorici, «Rivista storica italiana», XCVII, 1985, pp. 177-238. Ma si veda ancora la loro Replica, ivi, pp. 956-968.
121 Ivi, p. 190.
122 R. Merzario, Anastasia, ovvero la malizia degli uomini. Relazioni sociali e controllo delle nascite in un villaggio ticinese, 1650-1750, Roma-Bari, Laterza, 1992.
128
Sergio Bertelli
restata gravida. Respondit quando s’accorgeva, come ho detto, che io mi corrompevo, e che dubitassi della gravidanza, mi disse non havere paura e così lasciò correre la semenza fuori del vaso naturale». L’accusa è dunque di quelle bibliche: Onan che sparge inutilmente il seme sulla terra. La confessione è troppo ghiotta per chi, come Merzario, si occupa di demografia storica e può vantare adesso una «priorità» italiana su una tecnica anticoncezionale che era stata sino ad ora attribuita ai francesi del XVIII secolo. Ed eccolo subito buttarsi ad analizzare l’età dei vari partners (risultato deludente, perché non si hanno dati aggregabili, si va dai diciannove ai cinquant’anni), per poi correre alla conclusione (altra glissade\) che la «varietà di situazioni anagrafiche non fa a pugni con l’omogeneità dei comportamenti sessuali perchè - e questo è il punto fondamentale - l’uno insegnava all’altro. Lo dice Anastasia». Già, ma dopo essere stata più volte sottoposta a tratti di corda! Sta di fatto che, in paese, le confessioni susciteranno un’ondata di sdegno. L’assemblea degli uomini della pieve di Riva San Vitale sentenzierà «che non si deva credere a donna infame a pregiudizio di persone honorate» e il dubbio si insinuerà anche nella mente dei giudici, che condanneranno solo sette dei diciassette presunti correi. Il dubbio non sfiora invece Merzario. Eppure moltissimi processi, a cominciare da quelli dell’Inquisizione, ci hanno abituato a queste chiamate di correità.
Ma nemmeno il finale di questa cronaca nera convince. Negli archivi di Bellinzona, Merzario ha trovato le tracce di una Anastasia registrata, nei registri fiscali di Meride per il 1696, nella categoria dei «fo-rastieri abitanti». Anastasia Parrino una forestiera? Per sanare questa contraddizione, pur in mancanza d’un qualsiasi straccio di documentazione, Merzario postula (ennesima glissade) che la vedova fosse stata condannata al bando. Anastasia avrebbe così «perso un diritto fondamentale in questi tempi: quello di essere considerato “vicino”, cioè di avere delle generazioni di persone alle spalle, quindi di appartenere alle famiglie di origine del paese». Da dove lo si documenta? L’autore stesso ha riconosciuto, nell’introduzione: «non si può tralasciare il problema delle omonimie nel villaggio che abbiamo studiato [...] a distanza di una generazione si ripetono così regolarmente gli stessi nomi e cognomi abbinati alle identiche professioni, e, non raramente, alla medesima scrittura, in modo tale che nasce il dubbio che un uomo dato per morto sia risorto». Se fosse risorta anche una Anastasia Parrino «forastiera»? Possibile che il sospetto, adesso, non abbia sfiorato l’autore? Ma è proprio questo il modo con cui vengono narrate tante microstorie: supplire con la fantasia di fronte al silenzio degli archivi;
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
129
risolvere con un «non stupisce», «non fa a pugni» una contraddizione evidenziata dalle fonti. Merzario chiude il libro con la notizia della morte della «forastiera»: «la seppelliscono il 19 maggio» del 1712. Se era nata nel 1646 o poco prima, sarebbe stata sui settant’anni. Un’età più che rispettabile per il XVIII secolo, anche se non impossibile. Si domanda in chiusura Merzario: «Pioveva quel giorno? Non lo sapremo mai». Domando io: sarebbe importante saperlo? Ma che storia è mai questa? E appunto una microstoria, di quelle a cui la cotérie di «Quaderni storici» ci ha da tempo abituati.
Il gioco puerile della drammatizzazione dell’ovvio raggiunge il grottesco nel «ritratto» di Annibaie Cartacei, di Roberto Zapperi.123 Per pagine e pagine l’autore si interroga su quel nome - «segno di particolare distinzione» - che mastro Antonio, sarto bolognese, aveva voluto imporre nel 1548 al battesimo al suo primo figlio maschio. Lo stesso nome che a metà Quattrocento - «in omaggio al gusto snobistico per i nomi degli eroi antichi» - Anton Galeazzo [e non «Antonio»] Bentivoglio, signore di Bologna, aveva dato al proprio figlio. Insomma, Zapperi non capisce che i Cartacei, padre e figlio, ripetevano, sudditi fedeli, il nome dei loro antichi signori. Non solo, ma (poco pratico di Bologna) ignora che, pochi anni prima della nascita del pittore, sulla facciata di palazzo Fantuzzi, sulla strada San Vitale, eretto da Andrea Marchesi da Formi-gine fra il 1526 e il 1532, campeggiavano gli elefanti cartaginesi, segno che in città la storia del condottiero africano era ben conosciuta. E così via di questo passo, fra una serie continua di amenità, come quella a proposito dell’assenza dei Cartacei nelle matricole dei sarti: «evidentemente tralasciarono di farsi registrare».124
Messi su una simile strada, a che punto si possa arrivare lo dimostra il saggio di storia orale di Maurizio Bertolotti, ospitato anch’esso nella collana ginzburghiana di «Microstorie». Si tratta di una festa carnevalesca organizzata dalla sezione comunista di Governolo, nel Mantovano, nel 1950.125 Il saggio è una parodia della Storta notturna di Ginzburg, fatta senz’ombra d’ironia, andando a scomodare i pastori delle antiche civiltà subartiche, per spiegare i comportamenti di una manifestazione satirico/politica che sarebbe stata meglio capita prendendo piuttosto a
123 R. Zapperi, Annibaie Carracci. Ritratto di artista da giovane, Torino, Einaudi, 1989.
124 Ivi, p. 7.
125 M. Bertolotti, Carnevale di massa 1950, Torino, Einaudi, 1991.
9
130
Sergio Bertelli
modello, a piacere, o Caro Baroja,126 o Robert Muchembled,127 o infine Robert Darnton.128
Su un ben diverso displuvio si muove Angelo Torre, quando studia con particolare acume la devozione nelle campagne piemontesi nell’arco temporale di duecento anni (1570-1770). E il suo un libro che va accostato, non per tematica, ma per metodologia129 a quelli di Angela Groppi e di Gabriella Bonacchi, dei quali dirò più avanti. La ricerca è basata sulle visite pastorali dei vescovi di Asti, Alba e Mondovì, filtrate attraverso una lettura starei per dire stratigrafica.
Restando nell’ambito della microstoria, resta da segnalare il libro di Riccardo Bassani e Fiora Bellini, che ricostruisce la vita picaresca di Michelangelo Merisi da Caravaggio.130 Senza orpelli metodologici, essi ci narrano con grande vivezza, in una prosa fluida e avvincente, un’azione scenica romana con diversi comprimari: dalle cortigiane Annuccia Bianchini e Fillide Melandroni all’ambasciatore del re di Francia Philippe de Béthune, da Beatrice Cenci al suo persecutore implacabile, papa Aldo-brandini, dal libertinage erudii di Gabriel Naudé e Jean-Jacques Bou-chard alla miscredenza di Nicio Eritreo, con sullo sfondo un altro patibolo: quello di Giordano Bruno. Tutto un altro modo di scrivere di microstoria, con un solo, grande neo: una sgradevole disinvoltura nel piegare i documenti al proprio disegno narrativo, sino all’invenzione di un’ipotetica lettera che Francesco Maria Vialardi avrebbe potuto, ma mai scrisse, narrando la fine del pittore.
5. Devianti. - La storia dell’Italia religiosa è stata affrontata da due punti di partenza distinti che, come gli affluenti di un fiume, si sono poi ricongiunti in un alveo pressoché comune. Da una parte, gli
126 C. Baroja, El carnaval. Analisis historico-cultural, Madrid, Taurus Ediciones, 1965.
127 R. Muchembled, Culture populaire et culture des élites dans la France moderne (XVe-XVIir siècles), Paris, Flammarion, 1978. Ma si vedano anche gli atti dei tre colloqui ispano-francesi: Culturas populares. Diferencias, divergencias, conflictos, Madrid, Casa de Velasquez, 1986; Fiestas y liturgia, ivi, 1988; La fiesta, la ceremonia, el rito, ivi, 1990; nonché i saggi su Le trasformazioni della festa, raccolti in «Memoria e ricerca», III, 5, luglio 1994.
128 Cfr. R. Darnton, Il grande massacro dei gatti e altri episodi della storia culturale francese (1984), R. Pasta ed., Milano, Adelphi, 1988. Per i problemi che pone la storia orale cfr. P. Thompson, The Voice of thè Past. Orai History, Oxford UP, 1978.
129 Non va dimenticato che Torre è stato autore, assieme a L. Allegra, di un saggio su La nascita della storia sociale in Francia, Torino, Fondazione Agnelli, 1977.
130 R. Bassani, F. Bellini, Caravaggio assassino. La carriera di un «valentuomo» fazioso nella Roma della Controriforma, Roma, Donzelli, 1994.
Appunti sulla storiografìa italiana per l'età moderna
131
studiosi di segno «laico», dall’altra, quelli di matrice «cattolica». Per il primo gruppo, una data fondamentale deve essere considerata il 1938, quando, per i tipi Zanichelli, appariva lo studio di Federico Chabod, Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V. Ad appena un anno di distanza, faceva la sua comparsa un altro studio, questo presso l’editore fiorentino Sansoni: Eretici italiani del Cinquecento, di Delio Cantimori. Due testi fondamentali, due classici, che avrebbero aperto per la storiografia italiana un campo di studi che ancora oggi non cessa di affascinare.131 Proprio negli stessi anni, a questi storici si affiancavano i lavori di Luigi Firpo su Tommaso Campanella, su Traiano Boccalini, su Francesco Pucci, su Lelio Socino, su Giovanni Boterò.132
Chabod veniva dalla scuola di Egidi,133 ma con forti imprestiti dal magistero di Gioacchino Volpe, Cantimori era partito da presupposti idealistici, sotto l’influenza di Giuseppe Saitta e di Giovanni Gentile. Se Cantimori si avvicinò successivamente al marxismo (senza mai però concretamente applicarlo alla propria ricerca, tanto era predominante in lui l’influsso del filologismo germanico), Chabod volle invece «fare i conti» con Benedetto Croce, scrivendo un famoso saggio.134 Quanto a Cantimori, rileggendo oggi la prefazione da lui apposta nel dopoguerra al libro di Giuseppe Alberigo,135 sembrerebbe quasi di scorgervi un’autocritica, forse derivata non soltanto dai rapporti personali instaurati con l’autore, legato al magistero di Hubert Jedin. Scriveva Cantimori a dieci anni di distanza dai suoi Eretici: «I pregiudizi confessionali o da essi in-
131 Su Cantimori si veda il profilo tracciatone da G. Miccoli, Delio Cantimori. La ricerca di una nuova critica storiografica, Torino, Einaudi, 1970, nonché l’introduzione di L. Mangoni alla raccolta di scritti Politica e storia contemporanea, Torino, Einaudi, 1991; e R. Pertici, Mazzinianesimo, fascismo, comuniSmo: l'itinerario politico di Delio Cantimori, numero unico di «Storia della storiografìa», 31, 1997. In particolare, per questo suo studio, cfr. il numero monografico di «Studi storici», XXXIV, 1993, con saggi di A. Prosperi, M. Firpo, G. Miccoli, A. Rotondò, S. Seidel Menchi, C. Vivanti. Quanto a Chabod, si veda il Profilo tracciatone da G. Sasso, Bari, Laterza, 1961, nonché gli atti di due convegni tenuti a vent’anni dalla scomparsa: Per Federico Chabod (1901-1960), Atti del seminario internazionale. I. Lo Stato e il potere nel Rinascimento; II. Equilibrio politico ed espansione coloniale, S. Bertelli ed., Perugia, Facoltà di Scienze Politiche, 1980; Federico Chabod e la «nuova storiografia», 1919-1950, B. Vigezzi ed., Milano, Jaca Book, 1983.
132 Cfr. L. Firpo, Scritti sulla Riforma in Italia, in Biblioteca del Corpus Reformato-rum Italicorum, Napoli, Prismi, 1996, con un breve profilo di G. Spini.
133 Cfr. F. Chabod, In memoria di Pietro Egidi, «Rivista storica italiana», XLVI, 1919, pp. 353-369.
134 F. Chabod, Croce storico, «Rivista storica italiana», LXTV, 1952, pp. 473-530.
135 G. Alberigo, I vescovi italiani al Concilio di Trento, Firenze, Sansoni, 1949.
132
Sergio Bertelli
consapevolmente derivati hanno continuato ad operare per tutto il secolo che è trascorso [...] e così, gran lavoro di esplorazione e di ricostruzione analitica non se ne è fatto. Alcune ricerche (come quelle pubbicate dal sottoscritto) sono rimaste limitate ad alcuni aspetti (ereticali in senso particolare e ristretto) della vita religiosa della prima metà del Cinquecento: di “riforma cattolica”, dopo i lavori di H. Jedin, quasi tutti parlano in generale, ma ben pochi si occupano seriamente e concretamente in particolare».
Eppure proprio Cantimori avrebbe dato un grande impulso a queste ricerche, tanto che ancora oggi si deve in particolare ai suoi allievi la maggiore produzione in questo campo.136
Ugualmente vicino al magistero di Giuseppe Saitta era Luigi Firpo, mentre di diversa formazione intellettuale ci appare Giorgio Spini, valdese, altro maestro di questi studi, ma, sopra a tutto, studioso che, sulla scìa di René Pintard, seppe aprire la ricerca italiana su un campo sino ad allora mai arato: quello del libertinismo erudito.137 Se, come scriveva Gaetano Cozzi nel 1970, nel cantimoriano Eretici italiani «è sempre in primo piano il momento dell’inquietudine e della protesta, della sofferenza e della lotta»,138 possiamo aggiungere che altrettanto la Ricerca sui libertini faceva salire la protesta del laicismo contro la cappa di piombo dell’egemonia cattolica che dal 1948 si era stesa sull’Italia.
Si tratta di autori accomunati da un unico anelito: ricostruire la storia dei vinti, anziché quella dei vincitori. Studiosi attratti dalle vicissitudini di eretici e di libertini, di devianti in un mondo controriformistico; mentre Giuseppe De Luca139 e Hubert Jedin invitavano a guardare ad
136 Fra essi, Antonio Rotondò e Silvana Seidel Menchi.
137 R. Pintard, Le libertinage érudit dans la première moitié du XVIIe siede, Paris, 1943; G. Spini, Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano, Roma, Ed. Universale di Roma, 1950. Sulla loro scìa si pose Tullio Gregory, Scetticismo ed empirismo. Studio su Gassendi, Bari, Laterza, 1961; Theopbrastus redivi-vus. Erudizione e ateismo nel Seicento, Napoli, Morano, 1979; nonché D. Pastine, Jean Caramuel: probabilismo ed Enciclopedia, Firenze, La nuova Italia, 1975 e S. Zoli, Europa libertina tra controriforma e Illuminismo L’«Oriente» dei libertini e le origini del-rilluminismo, Bologna, Cappelli, 1989. Ma si veda anche il volume scritto a più mani e da me edito, Il libertinismo in Europa, Milano, Ricciardi, 1980. Di grande utilità, in questo campo, la Bibliografia delle opere di Gregorio Leti, curata da F. Barcia, Milano, F. Angeli, 1981 e il recentissimo Europa libertina. Bibliografia generale, curata da S. Zoli, Firenze, Nardini, 1997.
138 C. Cozzi, Rinascimento, Riforma, Controriforma, in La storiografia italiana negli ultimi ventanni, Milano, Marzorati, II, 1970, pp. 1191-1247.
139 Su questo prete «l’irregolare», che si disse uno dei cardinali in pectore di Giovanni XXIII, si v. L. Mangoni, In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1989.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
133
un’altra «riforma», quella cattolica del periodo iniziale di Trento, di Re-ginald Pole e dei Camaldolesi, travolta dalla controreazione del Carafa. Ed è proprio questo afflato che continua ancora oggi a sorreggere gli studi sulla religiosità cinque/seicentesca. Non vorrei adesso esasperare queste posizioni. E un fatto, però, che se le ricerche pongono al centro il movimento riformista cattolico, esse lo debbono anche al clima che si creò col Vaticano II, finendo per corrispondere a tendenze ideologiche, impersonate in particolare dal gruppo bolognese di Giuseppe Dossetti e di Giuseppe Alberigo. Possiamo ricondurre a quel filone Paolo Prodi, coi suoi studi sul sovrano pontefice;140 Gigliola Fragnito, che apre la sua raccolta di saggi con un esplicito richiamo a Jedin;141 Paolo Simoncelli,142 Giuseppe Trebbi, autore di un’ampia biografia di una delle figure preminenti della riforma cattolica, il patriarca di Aquileia Francesco Barbaro; 143 Achille Olivieri, autore di numerosi studi su Vicenza cinquecentesca.144
Autonomo da costoro, mi appare invece Massimo Firpo, che sarebbe troppo facile ricondurre al magistero del padre. Ma di lui occorre ricordare certamente i lavori sul cardinale Giovanni Morone,145 nonché il recentissimo saggio su Pontormo146 Quanto al versante libertino, non va dimenticata la grande scoperta compiuta recentemente da Silvia Berti:
140 P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna, il Mulino, 1982.
141 G. Fragnito, Gasparo Contarmi. Un magistrato veneziano al servizio della cristianità, Firenze, Olschki, 1978. Della stessa autrice si v. ancora Memoria individuale e costruzione biografica, Urbino, Argalia, 1978, a proposito della Vita del Contarmi stesa da L. Beccadelli.
142 P. Simoncelli, Il caso Reginald Pole. Eresia e santità nelle polemiche religiose del Cinquecento, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1977; Evangelismo italiano del Cinquecento. Questione religiosa e nicodemismo politico, Roma, Ist. Storico It. per l’Età moderna e Contemporanea, 1979.
143 F. Trebbi, Francesco Barbaro, patrizio veneziano e patriarca di Aquileia, Udine, Casamassima, 1984.
144 A. Olivieri, Riforma ed eresia a Vicenza nel Cinquecento, Roma, Herder, 1992. Dello stesso autore si veda ancora il precedente La riforma in Italia. Strutture e simboli, classi e poteri, Milano, Mursia, 1979; nonché il più recente «... visibilia e ... arcana». Ecclesiastici, eretici e vaticini nella Romagna del '500, Bologna, La Fotocromo emiliana, 1993.
145 M. Firpo, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul Cardinal Giovanni Morone e il suo processo d'eresia, Bologna, il Mulino, 1992; M. Firpo, D. Marcatto, Il processo inquisitoriale del Cardinal Giovanni Morone, Edizione critica, Roma, Ist. It. per l’Età Moderna e Contemporanea, 1987-1989.
146 M. Firpo, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I, Torino, Einaudi, 1997. Su questo studio, che esula dai limiti cronologici che mi sono imposti, interverrò prossimamente, in sede di recensione.
134
Sergio Bertelli
quella del testo del De tribus impostoribus^1 né gli studi recenti di Mario Turchetti,148 di Vittorio Frajese.149
Ricordo infine che dal 1970 ha preso avvio il Corpus Reformatorum Italicorum, sotto la direzione di Luigi Firpo (dopo la sua scomparsa sostituito da Cesare Vasoli), Giorgio Spini e John Tedeschi, col patrocinio dellTstituto Italiano per gli studi filosofici di Napoli e della Newberry Library di Chicago.150 Un’iniziativa parallela è quella diretta, a partire dal 1986, da Antonio Rotondò: la collana di «Studi e testi per la storia religiosa del Cinquecento»,151 cui si affianca ora, recentissima, la collana di «Studi e testi per la storia della tolleranza in Europa, nei secoli XVI-XVIII».152
6. Streghe e stregoni, fanatici e scettici. - La rassegna per questo settore non può non aprirsi con l’importante monografia di Giuseppe Bonomo, Caccia alle streghe, apparsa una prima volta nel 1959 e riproposta in terza edizione dieci anni or sono.153 Introducendo a quest’ultima, Bonomo osservava acutamente come il nostro mondo stia affondando di nuovo nell’occultismo, nel magico, nella taumaturgia. Del resto, si deve al pontefice Paolo VI il revival nel pensiero cattolico della figura del diavolo: «Nella crisi generale del pensiero razionale e della scelta di ragione che investe il nostro mondo, si aprono spazi sempre più grandi, attraverso i quali si infiltra sempre più profondamente lo spettro del diavolo, pauroso e affascinante». Bonomo non poteva immaginare, quando scriveva quell’introduzione, che il nostro mondo avrebbe assistito ai suicidi
147 S. Berti ed., Trattato dei tre impostori. La vita e lo spirito del Signor Benedetto de Spinoza, Torino, Einaudi, 1994.
148 M. Turchetti, Concordia o tolleranza? Francois Bauduin (1520-1573) e i «Mo-yenneurs», Milano, F. Angeli, 1984. Dello stesso autore si veda anche il successivo La li-berté de conscience et l’autorité du magistrat au lendemain de la Révocation, presentato prima come relazione al Colloquio di Mulhouse e Bàie del 1989, poi apparso nella collana degli «Etudes de Philologie et d’histoire», Genève, Librairie Dorz, 1991.
149 V. Frajese, Sarpi scettico. Stato e Chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento, Bologna, il Mulino, 1994.
150 Sono sino ad ora apparse le opere di Camillo Renato, Benedetto da Mantova, Mino Celsi, Antonio Brucioli, Francesco Pulci.
151 In questa collana, pubblicata sotto il patrocinio del Dipartimento di Storia dell’Università di Firenze, sono state edite le opere di Lelio Sozzini (1986), nonché saggi di Massimo Firpo, Cecilia Asso e Simonetta Adorni-Braccesi.
152 II primo volume apparso è la monografia di P. G. Bietenholz, Daniel Zwicker. 1612-1678. Peace, Tolerance and God thè One and Only, Firenze, Olschki, 1997.
153 G. Bonomo, Caccia alle streghe. La credenza nelle streghe dal sec. XIII al XIX con particolare riferimento allTtalia (1959), Palermo, Palumbo, 1985.
Appunti sulla storiografia italiana per l’età moderna
135
collettivi dei membri del People’s Tempie e dei seguaci della setta del Sole.
Un libro scritto a più mani e in cui compare, come coordinatore, Franco Cardini,154 tratta di un processo inquisitoriale istruito agli inizi del novembre 1594, a San Miniato al Tedesco, un villaggio dello stato fiorentino («al Tedesco» indica la sua dipendenza feudale dallTmpero), ma incorporato nella diocesi di Lucca. Davanti al vicario foraneo del vescovo, Tommaso Roffia, il 3 novembre 1594, comparivano alcuni testi, per denunciare una levatrice sospetta di praticare la «medicina».
L’importanza di questo processo risiede nel fatto che esso viene a confermare le tesi di Gustav Henningsen, e cioè che la caccia alle streghe che si scatenò nell’Europa cinque^seicentesca fu un immenso fenomeno di stregomania e non di stregoneria, circoscritto ad alcune ben identificabili zone: «Le epidemie di stregomania scoppiarono solo in alcune zone d’Europa, nei secoli XV, XVI, XVII [...] La stregomania collettiva si può definire come una forma esplosiva dell’impulso di persecuzione, provocata dal sincretismo fra le credenze popolari e le idee che sulla stregoneria hanno elaborato alcuni intellettuali. Nel caso dell’Europa, si può dire che fu una miscela fra le credenze nelle streghe propria delle popolazioni rurali e le teorie intellettuali che i teologi esponevano sulla stregoneria a turbare la mente di migliaia di persone. La demonologia, prodotto erudito discusso e studiato negli studi di teologi e giuristi, era inoffensiva finché non travalicava il piano intellettuale; il danno si verificò nel momento in cui il predicatore dal pulpito e il giudice in tribunale tentarono di applicare i loro concetti astratti alle cause popolari concrete, e viceversa. Situazioni di questo tipo favorivano i mutamenti mentali collettivi, creando nuovi modelli la cui rigenerazione accadeva rapidamente, e il cui risultato, la stregomania, colse di sorpresa tanto il volgo quanto l’élite colta».155 Come la Suprema di Madrid, nel caso basco studiato da Henningsen, anche il tribunale lucchese finirà per non credere nell’accusa di malìa rivolta ad una vecchia levatrice, straniera nel villaggio dove esercitava.
La confessione della donna, estrattale dopo i regolari tormenti, mostra troppe discrepanze con ciò che la teologia e la demonologia descrivono, sicché nel padre Inquisitore si rafforza la convinzione di aver a
154 Gostanza la strega di San Miniato. Processo a una guaritrice nella Toscana medicea, [trascrizione degli atti processuali, introdotti da M. Lombardi, S. Nannipieri, A. Orlandi, con un saggio di S. Mantini], F. Cardini ed., postfazione di A. Prosperi, Roma-Bari, Laterza, 1989.
155 Henningsen, L’avvocato delle streghe cit., p. 308.
136
Sergio Bertelli
che fare con una pazza: «tiene per certo che essa constituta sia fuora di cervello e impazzita a fatto, perché li diavoli sono deputati al fuoco eterno et stanno in continuo tormento». Appare più grave, ai suoi occhi, che la donna abbia esercitato la professione medica «non havendo ragione di medicare conforme alli canoni della medicina». Come ha dimostrato Giulia Calvi nelle sue Storie di un anno di peste™ nel Granducato di Toscana stiamo entrando in un periodo di maggior controllo dell’esercizio dell’arte medica ed è questa la trasgressione concreta di cui Gostanza diviene colpevole.
L’eccezionaiità del processo di Gostanza discende non tanto dalla sua interezza (già questa è una rarità), quanto dalla bravura del notaio, che ha saputo rendere fedelmente non solo le risposte dell’inquisita, ma tutta la scena drammatica della stanza della fune (si veda quando annota il sudore di Gostanza). Ma il fitto intreccio di domande e risposte ci dice anche un’altra cosa, assai importante: di quanto sia errato parlare di «cultura del basso», di contrapposizione tra un sapere popolare e una scienza ufficiale. Inquisitori e inquisiti parlavano la stessa lingua, ragionavano riferendosi a parametri culturali identici. L’incredulità del padre inquisitore, infine, non è destata dall’assurdità del fatto narrato, cioè da un barlume di razionalità, ma dalle discrepanze tra la corporeità del diavolo, asserita dalla donna, e quanto affermato dai testi sacri. Allora chiediamoci: senza un linguaggio comune, come avrebbe potuto esserci comunicazione?
A ridosso di questo libro si pone quello, subito successivo, di Giovanni Romeo.157 Libro «revisionista», nel quale è messa in risalto la cautela dell’Inquisizione italiana nell’affrontare i processi, còlta dal dubbio (che era già in Viteria) che le lamiae potessero recarsi al sabba «in solo spiritu et non in corpore», ma addirittura dal sospetto che l’intero racconto potesse essere illusorio158 Di quelle confessioni, ciò che risultava rilevante non era più la conclamata partecipazione al sabba, ma «le eventuali deviazioni di fede».159 Insomma, almeno in Italia, «al bagno di sangue purificatore si preferiva l’itinerario edificante della conversione; alla
156 G. Calvi, Storie di un anno di peste. Comportamenti sociali e immaginario della Firenze barocca, Milano, Bompiani, 1984.
157 G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell'Italia della Controriforma, Firenze, Sansoni, 1990.
158 Cfr. ivi, pp. 12 sgg.
159 Ivi, p. 84.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
137
punizione dei presunti complici del diavolo la protezione delle sue vittime».160
7. Peste e untori. Fra storia sociale e antropologia. - Studi che erano stati a lungo appannaggio delle cattedre di storia della medicina, dagli anni settanta sono venuti sempre più ponendosi al centro della ricerca storica. Il merito di tutto ciò lo si deve ad alcuni aurei libretti di Carlo M. Cipolla161 e ad una serie di operette edite in progressione costante da Piero Camporesi, suppergiù nello stesso torno di tempo.162 Le mie riserve su questi lavori le ho già esternate nella relazione del 1989163 e non ho qui che ribadirle. Non condivido il punto di partenza: noi sappiamo, perché veniamo dopo le scoperte di Pasteur, perché siamo razionali. Essi (i nostri antenati) avrebbero combattuto contro «un nemico invisibile», inviluppati nella loro pseudoscienza.164 E proprio l’opposto di quello che raccomandava Clifford Geertz: «to put onself into someone else’s skin». Sia Cipolla che Camporesi finiscono, così facendo, per perdere i parametri culturali entro i quali collocare i fenomeni storici esaminati.
Riconosciuto loro il merito di aver aperto una strada, osserviamo anche che hanno una ben diversa impostazione gli studi di Giulia Calvi;165 di Paolo Preto;166 di Alessandro Pastore;167 di Gianna Pomata.168 Qui le teorie della moral economy, esposte da E. P. Thompson, si uniscono al deep play e alla self-activity di Clifford Geertz, nonché al comparativi-
160 Ivi, p. 261.
161 C. M. Cipolla, Cristofano e la peste, Bologna, il Mulino, 1976; I pidocchi del granduca, ivi, 1979.
162 P. Camporesi, Il paese della fame, Bologna, il Mulino, 1978; Il pane selvaggio, ivi, 1980; Il sugo della vita, Milano, Mondadori, 1987; La carne impassibile, Milano, Il Saggiatore, 1983; Il brodo indiano, Milano, Garzanti, 1990. Postumo è Camminare il mondo. Vita e avventure di Leonardo Fioravanti medico del Cinquecento, Milano, Garzanti, 1997.
163 S. Bertelli, Il Cinquecento cit., pp. 40-42.
164 C. M. Cipolla, Contro un nemico invisibile. Epidemie e strutture sanitarie nell'Italia del Rinascimento, Bologna, il Mulino, 1986.
165 G. Calvi, Storie di un anno di peste cit.
166 P. Preto, Epidemia, paura e politica nell'Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 1987. Dello stesso autore si ricordi anche il precedente Peste e società a Venezia, 1576, Vicenza, Neri Pozza, 1978.
167 A. Pastore, Crimine e giustizia in tempo di peste nell'Europa moderna, Roma-Bari, Laterza, 1991.
168 G. Pomata, La promessa di guarigione. Malati e curatori in antico regime. Bologna XVI-XVIII secolo, Roma-Bari, Laterza, 1994.
138
Sergio Bertelli
smo storico di Marc Bloch. Si tratta inoltre di saggi che hanno tutti, chi più, chi meno, attenzione per l’antropologia simbolica. «Quando ho cominciato questa ricerca» ha scritto Gianna Pomata, «mi interessava la pratica popolare della medicina e il suo universo culturale, in quanto distinguibile da quello della medicina dotta dei libri e delle scuole. Volevo capire come e quando la pratica dei curatori e curatrici del popolo fosse stata resa illegale ed emarginata». Ma, accanto alla folla di guaritori incontrati negli atti del Protomedicato bolognese, è riaffiorata la folla dei malati con la loro personale lotta contro la malattia, evidenziando le strategie e le dinamiche nelle relazioni fra potere e gruppi sociali, all’interno di un complesso quadro di storia sociale della medicina (e qui il richiamo è agli scrittori anglosassoni, in particolare a Ivan Waddington e Dorothy e Roy Porter).
Al disciplinamento dell’arte medica aveva prestato attenzione in precedenza anche Giulia Calvi, affiancando alla ricostruzione dei meccanismi di difesa politico-sociale, posti in atto dal governo granducale della reggenza, l’analisi del piano simbolico, culminante nella vicenda del processo di canonizzazione di una «santa viva»: suor Domenica da Paradiso. Firenze e Bologna: due saggi che andrebbero letti in parallelo e che hanno, da un punto di vista metodologico, molti punti di contatto fra loro.
A Delumeau e al suo Le péché et la peur169 si rifà a sua volta Paolo Preto e la paura del contagio diventa nel suo libro il filo conduttore, dalle pesti seicentesche all’ondata di colera che colpì il Sud d’Italia nei primi decenni del XX secolo. A Marc Bloch e al suo incitamento verso una storia comparata rinvia invece Alessandro Pastore, introducendo il lettore al proprio libro: «L’intento di questa ricerca è quello di connettere i modi, ora tradizionali, ora innovativi, in cui la conflittualità si esprime nella durata della congiuntura epidemica». Segue un richiamo a Jacques Revel e alla sua ammonizione: «fare storia della peste è fare storia di una società come la rivela un evento nuovo» (Droysen avrebbe detto: «una narrazione catastrofica»). La peste, dunque, «come cassa di risonanza delle tensioni sociali, anzi come laboratorio in cui possiamo assistere, in uno spazio di tempo limitato, al sorgere di azioni individuali, di piccoli gruppi, collettive, che indeboliscono o scuotono i cardini dell’ordine sociale, ovvero che tentano di mantenerlo o di restaurarlo».170
169 J. Delumeau, Le péché et la peur. La culpabilisation en Occidente XIHe-XVIHe siècles, Paris, Fayard, 1983.
170 Pastore, Crimine e giustizia cit., p. xiil
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
139
L’addensarsi, negli anni ottanta, di così numerosi saggi sul tema del disciplinamento in momenti di catastrofe, non può essere spiegato se non con la diffusione, anche fra noi, delle opere di Michel Foucault. Ma non è da sottovalutare, a mio parere, la conoscenza degli antropologi Mary Douglas e Clifford Geertz, che Giulia Calvi è tra i primi ad utilizzare in Italia.
Un discorso diverso deve farsi per il settimo volume degli Annali della Storia d'Italia dell’editore Einaudi, pubblicato a cura di Franco Della Peruta.171 Mentre è infatti presente l’approccio sociologico, è qui completamente assente quello antropologico (si pensi alle ricerche sul campo degli etnometodologi, che avrebbero potuto essere valido punto di riferimento). Per verificare tutta la distanza che c’è tra l’approccio «istituzionale», dato a questo volume miscellaneo dal suo curatore e le più recenti tendenze socio/antropologiche, basterebbe mettere a confronto il saggio di Aurora Scotti, Malati e strutture ospedaliere dall'età dei Lumi all'Unità col libro di Gianna Pomata.
Non meno rilevanti mi sembrano gli studi di Ottavia Niccoli, partiti da un’indagine tipicamente warburghiana,172 per allargare in seguito il discorso alla cultura popolare e all’immaginario collettivo.173
Nel campo della social history e della anthropological history, con sconfinamenti tanto nella politologia quanto nella storia sociale dell’arte e nell’iconologia, sin dal 1974, va operando un gruppo, del quale non posso non far menzione. Intendo riferirmi all’attività dei seminari interdisciplinari di «Laboratorio di storia». Una équipe certamente eterogenea, nella quale si incontrano politologi e psicoanalisti, storici e giuristi, letterati e storici dell’arte, fisici e urbanisti, economisti e antropologi. Un gruppo lontano da ogni protagonismo, ma che con operosità costante è giunto a pubblicare sino ad ora qualcosa come quattordici volumi. Poiché io ne sono il coordinatore, mi limiterò solo a segnalarne qui l’esistenza, per un doveroso riguardo verso i tanti amici e collaboratori che al «Laboratorio» vengono dedicando, con tanto entusiasmo e da così tanti anni, e forze e tempo.174
171 F. Della Peruta ed., Malattia e medicina, Torino, Einaudi, 1984.
172 O. Niccoli, 1 sacerdoti, i guerrieri, i contadini. Storia di un'immagine della società, Torino, Einaudi, 1979.
173 O. Niccoli, Profeti e popolo nell'Italia del Rinascimento, Roma-Bari Laterza, 1987 (esemplare qui il saggio su Agnadello).
174 La serie, iniziata negli Studi Bompiani con un seminario su Norbert Elias (Rituale, cerimoniale, etichetta, S. Bertelli, G. Crifò eds., Milano, 1985) è poi passata alla casa editrice fiorentina Ponte alle Grazie. Ma il gruppo era sorto sin dal 1974 presso la Facoltà di Scienze Politiche di Perugia, pubblicando un primo volume collettaneo nel
31.26.158. ITh onThu,21Sep2023 1852:12 +00:00
140
Sergio Bertelli
Vorrei chiudere questa sezione ricordando che, tra il 1994 e il 1995, sono usciti numerosi nuovi saggi, a dimostrazione di quanto questi studi di storia sociale e di storia socio/antropologica vengano prendendo piede nella produzione storica italiana - almeno limitatamente alla modernistica. Ancora Giulia Calvi ha pubblicato uno studio sulle strategie femminili nella Firenze seicentesca;175 Oscar Di Simplicio si è occupato di rapporti giuridico/morali nella coppia tra Cinquecento e Ottocento a Siena, nonché di devianza del clero locale;176 Angela Groppi ha studiato il reclusorio femminile in Roma fra Sette e Ottocento;177 Gabriella Bo-nacchi, infine, ha messo a frutto l’archivio del Tribunale del Vicario di Roma per affrontare i temi della sessualità, del matrimonio e del controllo delle nascite, rimettendo in discussione YEuropean marriage pattern.™ Si tratta di un tribunale le cui competenze si estendevano dalla repressione della bestemmia al controllo della sessualità, ai delieta carnis. E questa intrusione sempre più capillare nella sfera privata che, paradossalmente, sostituendosi all’autorità del pater familiae, fa della Chiesa la maggior responsabile «della valorizzazione dell’individualità “personale” a discapito dell’identità collettiva: ossia dei vincoli comunitari e dinastici ancora prevalenti nell’Europa medievale e nello Stato dei ceti».179 In ter-
1979: Forme e tecniche del potere nella città (secoli XIV-XVII), come «Annali della Facoltà di Scienze Politiche», e due volumi di atti di un convegno internazionale organizzato in memoria di Chabod nel ventennale dalla scomparsa: Per Federico Chabod cit. Fornisco qui i titoli dei volumi della collana usciti sino ad ora: La Menzogna, F. Cardini ed., 1989; Gli occhi di Alessandro. Potere sovrano e sacralità del corpo da Alessandro Magno a Ceau^escu, S. Bertelli e C. Grottanelli eds., 1990; La Notte. Ordine, sicurezza e di-sciplinamento in età moderna, M. Sbriccoli ed., 1991; Una e divisibile. Tendenze attuali della storiografia statunitense, E. Fano ed., 1991; La Mediazione (Max Weber, Wir-tschaft und Gesellschaft, I, III, § 5), S. Bertelli ed., 1991; Infanzie. Funzioni di un gruppo liminale dal mondo classico all'Età moderna, O. Niccoli ed., 1993; Lo Straniero interno, E. Pozzi ed., 1993; Tracce dei vinti, S. Bertelli, P. Clemente eds., 1994; Il Gesto nel rito e nel cerimoniale dal mondo antico ad oggi, S. Bertelli, M. Centanni eds. 1995; L'Innovazione tecnologica, R. Giannetti ed., 1996; La chioma della vittoria. Saggi sull'identità degli italiani dall'Unità alla seconda Repubblica, S. Bertelli ed., 1997.
175 G. Calvi, Il contratto morale. Madri e figli nella Toscana moderna, Roma-Bari, Laterza, 1994.
176 O. Di Simplicio, Peccato, penitenza, perdono: Siena 1575-1800. La formazione della coscienza nell'Italia moderna, Milano, F. Angeli, 1994. Dello stesso autore andrà ricordato anche il più recente saggio Nobili e sudditi, in II libro dei leoni. La nobiltà di Siena in età medicea (1557-173 7), M. Ascheri ed., Monte dei Paschi di Siena 1996, pp. 71-129.
177 A. Groppi, I conservatori della virtù. Donne recluse nella Roma dei papi, Milano, F. Angeli, 1994.
178 G. Bonacchi, Legge e peccato. Anime, corpi, giustizia alla corte dei papi, Milano, F. Angeli, 1995.
179 Ivi, p. xi.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
141
mini eliasiani, assistiamo ad un «incivilimento confessionale» del credente, con una conclusione sorprendente: «controllo, consenso e persuasione sortirono l’effetto di ritardare ulteriormente l’accesso al matrimonio e ai rapporti sessuali».180
8. Marginali, pauperismo e disciplinamento. - Anche questo è stato un campo molto arato, per la storia italiana, dagli studiosi anglo-americani: dal pioneristico lavoro di Brian Pullan su Venezia,181 al più tardo studio di Ronald Weissman sulle confraternite fiorentine.182 Tant’è che, per la Storia d'Italia einaudiana, si è preferito ricorrere a due studiosi inglesi: il già ricordato Brian Pullan, affiancato da Stuart Woolf.183 Solo negli anni ottanta il tema è giunto sugli scrittóri degli storici italiani, con un convegno organizzato proprio all’aprirsi del decennio a Cremona, sul tema Timore e carità. I poveri nell'Italia moderna.™ A parte una miriade di saggi su aspetti parziali, su episodi locali,185 e a parte la bella introduzione di Piero Camporesi, del 1973, ad una raccolta di testi cinque/sei-centeschi sul vagabondaggio,186 è occorso attendere la fine di quel decennio per vedere apparire i primi studi italiani di un certo respiro.187 Eravamo stati informati, nel frattempo, delle ricerche di Bronislaw Gere-mek, polacco legato al gruppo parigino dell’École des Hautes études.188 Non però che egli fosse un esempio da imitare. Intanto, per quel suo sostenere che il problema del pauperismo si inquadrerebbe «nella storia dell’accumulazione originaria del capitale».189 Com’è stato giustamente osservato, «tutti gli approcci al pauperismo che rientrino a vario titolo
180 Ivi, p. XVII.
181 B. Pullan, Rich and Poor in Renaissance Venice. The Social Institutions ofa Ca-tholic State, to 1620, Oxford, Basii Blackwell, 1971.
182 R. F. E. Weissman, Ritual Brotherhood in Renaissance Florence, New York, Aca-demic Press, 1982.
183 Storia d'Italia, Annali I, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1978, pp. 979-1078.
184 Cfr. G. Politi, Poveri e potenti nell'Italia moderna, «Studi storici», XXI, 1980, pp. 855-864.
185 Essi sono elencati nella rassegna di G. Assereto, Pauperismo e assistenza. Messa a punto di studi recenti, «Archivio storico italiano», CXLI, 1983, pp. 253-271.
186 P. Camporesi ed., Il libro dei vagabondi. Lo «Speculum cerretanorum» di Teseo Pini, «Il vagabondo» di Rafaele Frianoro e altri testi di «furfanteria», Torino, Einaudi, 1973.
187 Penso al saggio di D. Lombardi, Povertà maschile, povertà femminile. L'ospedale dei Mendicanti nella Firenze dei Medici, Bologna, il Mulino, 1988.
188 B. Geremek, Il pauperismo nell'età preindustriale (sec. XIV-XVIII), in Storia d'Italia, V, I documenti, Torino, Einaudi, 1973, pp. 669-698.
189 B. Geremek, La popolazione marginale tra Medioevo e l'era moderna, in Agricoltura e sviluppo del capitalismo, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 201-216.
142
Sergio Bertelli
sotto le etichette di proletarizzazione e capitalismo incipiente possono risultare fuorvianti quando aspirano ad una comprensione globale del fenomeno nel corso dell’età moderna. Il pericolo è quello di appiattire tre secoli di storia e di semplificarli fissando un mitico punto di partenza (la carità “larga” e indiscriminata di un “medioevo” non meglio specificato) dal quale scaturiscono, in cicli ferrei e predeterminati, le sorti progressive e crudeli del capitalismo».190 Ma Geremek non può essere preso a modello anche per l’approccio «razionalista», per il suo rapportarsi al passato sottintendendo: «quanto erano diversi da noi». Constatare la diversità non vuol dire capire. Quella diversità che pure soprendeva Dar-nton, ha bisogno, come si suol dire, di essere storicamente inquadrata. Capire, per fare un esempio specifico, il furto simbolico. Quando un servo, una serva rubava le lenzuola del padrone scomparso, quando un apprendista portava via i ferri del mestiere del suo maestro defunto, non "rubava’, ma ‘si appropriava’ di biancheria, di utensili che considerava anche suoi, perché li aveva maneggiati, li aveva, in un certo qual senso, ‘posseduti’.191 Furti che dobbiamo catalogare nell’ambito dei saccheggi rituali.
Credo che, quando ci si accinge ad analizzare i comportamenti dell’uomo europeo di ancien régime (cioè avanti la rivoluzione scientifica e la rivoluzione industriale), ci si debba sempre rammentare dell’osservazione di Bronislaw Malinowski quando parlava dei suoi argonauti del Pacifico occidentale: «il guadagno non agisce mai come impulso al lavoro nelle condizioni indigene originarie [...] la forza reale che lega tutti gli individui e li vincola ai loro compiti sta nell’obbedienza al costume e alla tradizione».192 Che poi costume e tradizione si scontrassero col giure, che tendeva a difendere innanzitutto la proprietà privata, non modifica la comprensione, in sede storica, della simbologia di quei furti. L’assoluta mancanza di approccio antropologico porta così Geremeck a descrivere, senza mai comprendere.
L’altro modello potrebbe essere il Michel Foucault di Surveiller et
190 Assereto, Pauperismo e assistenza cit., p. 259.
191 Di questo «orgoglio» ho già parlato a proposito di saccheggi rituali in G. Calvi, S. Bertelli, La bocca del signore: commensalità e gerarchie sociali fra Cinque e Seicento, in P. Clemente ed., Il linguaggio, il corpo, la festa. Per un ripensamento della tematica di Michail Bachtin, «Metamorfosi», 7, 1983, pp. 206-207, nonché in II corpo del re cit., pp. 56-57.
192 B. Geremek, I bassifondi di Parigi nel Medioevo. Il mondo di Francois Villon (1972), Roma-Bari, Laterza, 1990.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
143
punir, tempestivamente riproposto in edizione italiana,193 se non vi fosse il rischio di dilatarne la chiave interpretativa oltre i limiti cronologici, come fa Daniela Lombardi che, a proposito della carestia in Toscana del 1629, parla di «un nuovo atteggiamento verso la povertà», di «una rottura decisiva con la tradizione assistenziale medievale, rigidamente fondata sul dovere dell’elemosina», basandosi sul fatto che le autorità granducali si preoccupano di creare spazi di lavoro per i più poveri.194 Sono d’accordo con Giovanni Assereto, quando fa notare che «il punto debole è l’illusione che ogni proposito di mettere i poveri al lavoro rappresenti un’innovazione decisiva ed acquisita una volta per sempre, quando in realtà questa aspirazione è molto tradizionale, ma solitamente si attua in forme contraddittorie ed episodiche».195 Altrettanto non si può che concordare con Edoardo Grendi, quando afferma che «La storia delle idee e dei sentimenti caritativi, delle iniziative e delle politiche assistenziali» diviene «fondamentale per la comprensione dell’evoluzione di una categoria che inquadra realtà diverse».196 Purché si avverta l’alcatorietà, l’irrazionalità dell’approccio che le società di ancien régime hanno avuto col problema dei marginali (le stesse che registriamo oggi nei confronti dell’immigrazione dal terzo mondo).
La summa della produzione storiogr. fica italiana in argomento può essere considerata la raccolta degli atti d; a altro convegno sul discipli-namento, tenutosi a Bologna nell’ottobre 993, curata da Paolo Prodi con la collaborazione di Carla Penuti.197 Come avverte il curatore, quei contributi non rappresentano «gli atti o resoconti di un convegno, che pur è stato molto intenso e vivace, quanto il risultato di un lungo percorso di un gruppo di lavoro che ha per anni discusso le ricerche condotte da ciascuno», ponendo al centro dell’attenzione «il problema della nascita del moderno», del disciplinamento sociale. Insomma, come in un cerchio che si chiuda, da un diverso punto di partenza torniamo donde eravamo partiti: alla domanda che la storiografia italiana di questa se-
193 M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975 (tr. it. Torino, Einaudi, 1976).
194 D. Lombardi, 1629-1631: crisi e peste a Firenze, «Archivio storico italiano», CXXXVII, 1979, pp. 3-50.
195 Assereto, Pauperismo e assistenza cit., p. 260.
196 E. Grendi, Pauperismo e Albergo dei poveri nella Genova del Seicento, «Rivista storica italiana», LXXXVII, 1975, pp. 521 sgg.
197 P. Prodi, C. Penuti eds., Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, Bologna, il Mulino, 1994.
144
Sergio Bertelli
conda metà del XX secolo ha reiteratamente posto a sè stessa: quella della nascita dello Stato.198
9. Storie di donne. - Come già dicevo all’inizio, in Italia questo settore d’indagine si è imposto assai tardi. Benché sin dal 1981 uscisse, a cura di un gruppo di giovani studiose, una rivista assai interessante, «Memoria»,199 solo dieci anni più tardi si è costituita una Società Italiana delle Storiche, la cui attività è documentata da una «Agenda»200 coordinata da Simonetta Soldani. Ma occorre chiedersi: siamo di fronte ad una delle tante lobbies accademiche, su modello statunitense, o abbiamo a che fare con una corrente storiografica? Un seminario tenuto a Fiesole su iniziativa della Società delle storiche nel gennaio/febbraio 1991, presso l’Istituto Universitario Europeo, su Gender as a category of histo-rical research, lascerebbe propendere per la seconda ipotesi, se però molti prodotti di questa storia delle donne non si rivelassero, invece, per dei contributi tradizionali, che solo grazie ai soggetti presi in esame intenderebbero caratterizzarsi.
«Ho appreso da una delle più profonde indagatrici dell’animo femminile, che fu Teresa d’ Avila, quanto sia difficile comprendere la donna»: con queste parole, nel 1987, Romeo De Maio introduceva il lettore al suo libro Donna e Rinascimento.201 Libro anticipatore, in Italia, d’una storia delle donne. Ma certo, un libro già datato, tutto basato sulla subalternità della donna (l’inferiorità fisiologica, l’inferiorità morale, l’inferiorità giuridica, l’inferiorità politica, i rapporti tra la donna e la Chiesa, l’Inquisizione e la donna).
È tempo di chiederci: che cosa intendiamo per storia delle donne? Una storia affrontata da angoli visuali diversi, con un metodologia attenta alla social history, oppure una storia che interessi le donne per i soggetti prescelti? Siamo di fronte ad una storia della donna in quanto gender, o più genericamente alla scelta di privilegiare storie di donne? Alla domanda di Simone de Beauvoir: «esistono le donne?» il "femminismo culturale’ risponde di sì, definendo le donne all’interno del contesto
198 Si veda, a questo proposito, la relazione introduttiva di Pierangelo Schiera, Disciplina, Stato moderno, disciplinamento: considerazioni a cavallo fra la sociologia del potere e la storia costituzionale, ivi, pp. 21-61.
199 «Memoria. Rivista di storia delle donne»: in redazione Luisa Boccia, Gabriella Bonacchi, Marina d’Amelia, Michela De Giorgio, Paola Di Cori, Yasmine Ergas, Angela Groppi, Margherita Pelaja, Simonetta Piccone Stella.
200 Ne sono usciti sino ad ora quattordici numeri.
201 R. De Maio, Donna e Rinascimento, Milano, Il Saggiatore, 1987.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
145
dato. Ma si resta interdetti, quando si leggono affermazioni come questa: «Il gesto di una storica che dà alle stampe il proprio lavoro è un gesto femminile pubblico, e in quanto tale non può essere considerato come un atto puro, originario e amorfo che si colloca all’interno di uno scenario asettico, vuoto e silenzioso».202 Verrebbe maliziosamente da chiedersi: e se questa ipotetica «storica» riceve un compenso per il proprio lavoro, come dovremo considerarla? Ma davvero siamo al punto da perdere ogni deontologia, da dimenticarci che cosa sia «il mestiere dello storico»?
Di contro alle tesi del «femminismo culturale» si pone il «post-strutturalismo» di J. Derrida, mettendone in discussione la soggettività. Due estremi, ai quali storiche quali Nathalie Z. Davis cercano di rispondere con la teoria del gender. Come scrive Linda Alcoff «il concetto e la categoria di donna rappresentano il necessario punto di partenza di ogni teoria femminista e di ogni politica femminista, cui spetta il compito di trasformare l’esperienza vissuta dalle donne nella cultura contemporanea e di rivalutare la teoria e la pratica sociale secondo prospettive femminili».203
Direi che avrebbero dovuto muoversi da questo punto di partenza i molti contributi raccolti nelle diverse collane di storia delle donne, proposti in Italia in rapida successione dall’editore Laterza. Per prima, la serie diretta da Georges Duby e Michelle Perrot e subito tradotta in italiano,204 seguita da altri volumi collettanei,205 affiancati quasi in contemporanea da una Storia delle donne in Italia206 che dovrebbe colmare le lacune dell’iniziativa editoriale francese. In realtà, nel primo caso, ci troviamo di fronte a contributi fra i più disparati, dove l’unico tratto unifi-
202 P. Di Cori, Introduzione a Altre storie. La critica femminista alla storia, Roma, Clueb, 1996, p. 19.
203 L. Alcoff, Cultural feminism versus post-structuralism, 1988, tr. it. in «Memoria» 25, 1989.
204 G. Duby, M. Perrot eds., Storia delle donne in Occidente, I. L'antichità; IL II Medioevo; III. Dal Rinascimento all'età moderna; IV. L'Ottocento; V. Il novecento, Roma-Bari, Laterza, 1990-1991.
205 F. Bertini ed., Medioevo al femminile, Roma-Bari, 1989; O. Niccoli ed., Rinascimento al femminile, ivi, 1991; G. Calvi ed., Barocco al femminile, ivi, 1992.
206 II primo volume uscito è quello edito da L. Scaraffia e G. Zarri, Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1994. Il piano editoriale prevede altri tre volumi: Storia del matrimonio, M. De Giorgio, Ch. Klapisch-Zuber eds.; Donne e lavoro, A. Groppi ed.; Storia della maternità, M. D’Amelia ed. Sui temi della religiosità femminile si veda ancora il volume miscellaneo, curato anch’esso da Gabriella Zarri, Finzione e santità tra medioevo ed età moderna, Torino, Rosenberg & Sellier 1991, nonché il recentissimo, voluminoso, Donna, disciplina, creanza cristiana dal XV al XVII secolo. Studi e testi a stampa, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1996.
io
146
Sergio Bertelli
cante è ...il gender dei collaboratori (mi correggo: delle collaboratrici). Nella maggioranza dei casi, sembra infatti che l’unico tratto distintivo sia quello che chi scrive è una donna, su argomenti nei quali le donne sono oggetto di ricerca. E ben vero che nella presentazione, firmata da entrambi i curatori, si dice che «Questa storia, innanzi tutto, si inscrive risolutamente nella lunga durata» e che «questa vuole essere storia del rapporto dei sessi più che storia delle donne», ma alle aspettative non corrispondono i risultati. Ha ragione Paola Di Cori, quando scrive che questa collana «del tutto priva di velleità radicali», trae il suo successo dall’essere stata presentata dall’editore italiano «come se si trattasse di un deodorante femminile o di un film vietato ai minori».207 Verrebbe da chiedersi: non è da male schauvinist pig voler collegare la donna alla sessualità? Ed è proprio vero che si tratterebbe di nuove ricerche? Forse non v’erano stati studi precedenti, condotti da uomini, che mai avrebbero pensato di scrivere una storia «al femminile»? Si pensi al vecchio Steven Marcus,208 al più recente e corposo libro di Lynda Nead209 o al (brutto) saggio di Jacques Rossiaud.210
Un’esperienza press’a poco simile la constatammo in Italia, negli anni cinquanta e sessanta, quando, sull’onda del successo dell’utopia comunista tra gli intellettuali italiani, molti storici di formazione cro-ciano/gentiliana si rivolsero entusiasti allo studio del movimento operaio. Ben lontani dalle tecniche della sociologia e dell’antropologia, ugualmente distanti da quel processo di revisione neo-marxista che sarebbe stato impersonato di lì a poco da E. P. Thompson (l’autore di The making of thè English Working Class) e portato avanti dal gruppo redazionale della rivista «Past and Present», essi produssero studi che in nulla si differenziavano da quelli che, contemporaneamente, venivano svolgendo i loro colleghi d’area liberale, se non per il soggetto prescelto.
Molti degli studi offertici da questa collana italo/francese ci appaiono altrettanto distanti dalle nuove metodologie proposte dalla storiografia di gender, di quanto lo erano gli studi sul movimento operaio dall’esperienza revisionista britannica. Sono saggi legati al primo periodo della rivolu-
207 P. Di Cori, Altre storie. La critica femminista alla storia, Bologna, Clueb, 1996, p. 19n.
208 S. Marcus, The Other Victorians. A Study ofSexuality and Pornography in Mid-Nineteenth Century England, London, Corgi Books, 1964.
209 L. Nead, Myhts of Sexuality. Representations of Women in Victorian Britain, Oxford, Basii Blackwell, 1988.
210 J. Rossiaud, La prostituzione nel medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1984.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
147
zione metodologica rappresentata dalla women history. il femminismo culturale. Negli anni settanta, gli women" s studies si erano sviluppati come un tentativo di costruire una categoria femminile in opposizione alla definizione che della donna fornivano gli uomini. Una corrente di pensiero che Alice Echols ebbe a definire appunto «femminismo culturale», dal momento che postulava la salvaguardia di una controcultura femminile legata al movimento per la liberazione della donna. Il femminismo culturale metteva infatti in discussione la definizione che della donna era stata data dalla cultura egemonica maschile, costruendo una serie di coppie di opposti: la sua «passività» come «pacificità», la sua «sentimentalità» come «maternità» etc. In sostanza, il femminismo culturale negava che la misoginia degli uomini potesse definire la donna, anche se, portando questa affermazione alle sue estreme conseguenze, si sarebbe potuto continuare dicendo che solo un cattolico avrebbe potuto scrivere di storia del cattolicesimo romano (tesi peregrina, che ebbe un giorno a sostenere Robert Mandrou), un protestante di storia della riforma, (un operaio di storia del movimento operaio?) e via di seguito.
Nel decennio successivo, l’incontro tra il postrutturalismo francese e quel particolare femminismo americano nato sull’onda del movimento per i diritti civili portò alla revisione delle posizioni del femminismo culturale, ma anche ad un punto di crisi negli studi di storia delle donne. Partendo da Foucault, Lacan e Derrida si cercò la definizione del soggetto femminile in termini profondamente negativi, venati di positivismo logico. Ancora più tardi, nel 1986, Mary Daly avrebbe sostenuto che «l’antica invidia, la soggezione, il terrore che l’uomo ha sempre provato per la capacità di procreare della donna ha ripetutamente preso la forma di odio per ogni altro aspetto della creatività femminile».211 Su questa posizione «militante» si era schierata anche Adrienne Rich: «la riappropriazione del corpo da parte delle donne provocherà nella società umana cambiamenti ben più importanti della conquista dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori [...] In un mondo siffatto le donne creeranno veramente nuova vita, partorendo non solo bambini (se e come noi vogliamo), ma anche le visioni e i pensieri necessari a confortare, consolare, modificare l’esistenza umana».212
Se il tentativo del primo femminismo culturale era stato quello di costruire un modello (o se si preferisce una «categoria»), i cui contorni si venivano delineando in misura e in rapporto all’uomo (al misoginismo
211 M. Daly, Al di là di Dio padre: verso una filosofia della liberazione della donna, Roma, Editori Riuniti, 1990.
212 A. Rich, Nato di donna, Milano, Garzanti, 1977.
148
Sergio Bertelli
maschile), ora le seguaci del post-strutturalismo minacciavano la fuoriuscita dall’analisi storica, nel momento stesso in cui si postulavano caratteristiche sessuali innate.
In risposta al femminismo culturale, la posizione più radicale, poststrutturalista, decostruttivista (e con venature marxiane), richiamandosi alla psicoanalisi di Lacan, all’analisi grammaticale di Derrida, all’archeologia del sapere di Foucault, negava ogni possibilità di definire la donna in quanto tale, al di fuori cioè di un discorso sociale e della pratica culturale (visti come unici possibili). Si trattava dunque di una posizione venata di determinismo marxista e che sfociò nel nichilismo di Julia Kristeva: «Una donna non può essere; è qualcosa che non appartiene neppure all’ordine dell’essere. Ne segue che una pratica femminista può essere solo negativa, in opposizione a ciò che già esiste, in modo che noi possiamo dire “non è” e “di nuovo non è”».213 Posizioni estreme che, per assurdo, finivano col coincidere con quelle dello storicismo idealista (un rampollo hegeliano), col pensiero classico liberale europeo, erede dell’universalismo illuminista e che ritiene irrilevanti le particolarità umane (la ricerca storica è ricerca della ‘libertà’, trascendendo concetti come razza, etnia, sesso).
Possiamo adesso cominciare a capire quanto lo scontro metodologico sia stato e continui ad essere profondo e trascenda i limiti d’un dibattito tra storici: coinvolge i nostri problemi quotidiani, il confronto col diverso. «Diverse», e da qui la loro battaglia, sono le donne nella nostra società, lo sono state nel nostro passato. Non a caso, sempre nel 1986, Teresa de Lauretis, introducendo ad una raccolta di saggi,214 aveva affermato che l’identità di un individuo (uomo o donna che sia) si costruisce in un contesto culturale, lungo un processo nel quale la propria storia «è interpretata o ricostruita da ciascuno di noi entro l’orizzonte di significati e di conoscenze disponibili nel contesto culturale di un dato momento storico, che comprende anche modalità di impegno e lotta politica». Un discorso i cui presupposti antropologici sono più che evidenti. E attraverso questo passaggio obbligato che si è giunti oggi alla definizione di gender come postulato intepretativo della storia. Il termine è stato introdotto da Joan W. Scott,215 in riferimento alla costruzione sociale del maschile e del femminile. La parola è intraducibile e sarebbe errato renderla con genere (ter-
213 J. Kristeva, Stranieri a se stessi, Milano, Feltrinelli, 1990.
214 T. De Lauretis, Sui generis. Scritti di teoria femminista (1986), Milano, Feltrinelli, 1996, p. 25. Ma si veda anche, della stessa, il precedente Alice Doesn’t: Feminism, Semiotics, Cinema, Bloomington, 1984.
215 J. W. Scott, Gender and thè Politics o/History, New York, Columbia UP, 1989; Il «genere»: un utile categoria di analisi storica, in P. Di Cori ed., Altre storie cit., pp. 307-347.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
149
mine grammaticale), anche perché non indica solo la sessualità, ma più latamente rindividualità (il mio essere uomo o donna, ma anche contemporaneamente il mio essere bianco o di colore, ebreo o musulmano, italiano o albanese). Il concetto di «politica dell’identità» (che non poteva germogliare che in una società multietnica quale quella statunitense) assume quindi un valore metodologico ed epistemologico fondamentale per la ricostruzione del passato e approda all’altro importante postulato: quello della «definizione posizionale». L’identità si stabilisce sulla base della «posizione» che ciascuno viene ad assumere in quella determinata società e in quel determinato momento storico (non è dunque «innata»)». L’affermazione è di importanza estrema ed è il contributo maggiore offerto dal movimento femminile americano alla metodologia dell’odierna ricerca storica. Esso va ben oltre il confine della «definizione posizionale» della donna, nel momento stesso in cui la si può estendere all’analisi del «diverso» (dello «straniero»).216 Il guaio è che, come spesso avviene, l’esasperazione del politically correct ha rischiato spesso di sfiorare il grottesco, con interpretazioni così disinvolte da far venire la pelle d’oca!217
In un saggio steso nel 1983, Gianna Pomata tentò di fare il punto su un problema che era e resta «di confine», insistendo sopra a tutto sul network socio/biologico, sulle dinamiche poste in atto nella «rete domestica», e parlando di «approccio bio/sociale» per una rete di relazione che investe il simbolico.218 La mia impressione è però che, tra noi, queste tematiche abbiano a lungo stentato a decollare, che le nostre storiche abbiano preferito rifugiarsi nella narrazione del «quotidiano», nella descrizione dell’evento «breve», del «microfenomeno» a sè stante e che solo ora, quasi un decennio dopo quel saggio, esse si aprano al confronto con le storiche statunitensi, liberandosi dalla soggezione verso la produzione francese. Una dipendenza favorita dalle iniziative editoriali prese in questo settore dalla editoriale Laterza, sull’onda del successo di mercato riscontrato con i volumi Duby-Perrot.219
216 Sul tema dello «straniero», partendo dal celebre excursus di Georg Simmel, si veda il già ricordato volume prodotto da uno dei seminari di «Laboratorio di storia»: Lo straniero interno, edito da E. Pozzi.
217 Valga per tutte il recente Titians Women di Rona Goffen, New Haven and London, Yale University Press, 1997.
218 G. Pomata, La storia delle donne: una questione di confine, in N. Tranfaglia ed., Il mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca. Questioni di metodo, Firenze, La nuova Italia, 1983, II, pp. 1434 sgg.
219 Un giorno sarà interessante tracciare la storia della dipendenza «provinciale» di certa storiografia italiana dai modelli d’oltr’Alpe, a scapito del contatto col mondo germanico o con quello anglo-statunitense, grazie proprio a simili iniziative editoriali.
150
Sergio Bertelli
Anche qui occorre però fare delle distinzioni. Nella serie «Storia e società», i volumi sono pensati per medaglioni. Nel primo, quello dedicato all’età medievale,220 abbiamo a che fare con delle brevi biografie, che nulla innovano, se si guarda alla metodologia. La serie prende quota con i due successivi volumi, curati rispettivamente da Ottavia Niccoli e Giulia Calvi. Anche questi, è vero, sono costruiti per tipiciz-zazioni: l’umanista devota, la monaca, l’ebrea, la gentildonna, la vedova, la strega, la prostituta; e ancora: la profetessa, la pazza, la buona moglie, la storica, la priora, la religiosa, la fondatrice, la «pittora», l’e-ducatrice. Ma il punto di vista sembra ora meglio precisato. Scrive Ottavia Niccoli nell’introduzione al volume da lei curato: «restituire, come si va facendo, le donne alla storia, non può non significare mitigare definizioni troppo nette, arricchire raffigurazioni troppo scarne, talora riformulare in modo profondo l’intera immagine di un periodo storico. Il procedimento può probabilmente essere considerato analogo a quello conseguente all’integrazione nella ricerca storica delle classi subalterne e dell’ovvia rilevanza concessa alla dinamica sociale: da una idea di tempo storico legato al meccanismo delle successive dinastie -di quegli elenchi di tanti re e di qualche regina - si è passati ad una immagine della storia attenta soprattutto all’affermarsi e all’evolversi di processi diversi, sociali, culturali, religiosi, economici e così via».221 Se nel volume curato da Ottavia Niccoli la scelta delle figure non è ancora pienamente motivata, in quello curato da Giulia Calvi le donne delle quali si ricostruisce la biografia mostrano un tratto comune, che rende più compatto il discorso: tutte le biografate hanno lasciato una traccia scritta, anche se «quasi sempre misconosciuta o dimenticata [...] Il rapporto fra queste donne e la scrittura ci muove a riflettere sulle relazioni che si diramano dal testo», sulle «relazioni che presiedono a questi testi», sulle «configurazioni umane e sociali che si pongono come parte attiva nella costruzione di questi scritti».222
Il discorso continua nel più recente volume, primo della serie Storia delle donne in Italia, curato da L. Scaraffia e G. Zarri. La differenza dalla precedente iniziativa Duby-Perrot balza subito agli occhi. Ora riusciamo a seguire una «storia delle donne» basata davvero sulle tecniche della social history. Scrivono le due curatrici: «La rivoluzione cristiana
220 F. Bertini ed., Medioevo al femminile, Roma-Bari, Laterza, 1989.
221 O. Niccoli, Introduzione a Rinascimento al femminile, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. vi-vii.
222 G. Calvi, Introduzione a Barocco al femminile, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. vi-x.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
151
della percezione del corpo, che attraverso la castità poteva “liberarsi dalle grinfie del mondo animale” e quindi diventare esso stesso strumento di redenzione e di evoluzione spirituale, ha fatto sì che le donne potessero trovare una via di uscita dallo stato di soggezione a cui le condannava il ruolo di mogli/madri, rifiutandolo e scegliendo la verginità»223 e il volume diviene una ricerca delle tracce della cultura femminile, attraverso l’analisi degli scritti agiografici, dei manuali comportamentali, dei testi di letteratura religiosa prodotti dalle stesse religiose, grazie infine a testimonianze processuali. A questo libro si accosti la precedente raccolta di saggi edita a cura di Giulia Barone, Marina Caffiero e F. Sforza Barcellona.224
10. Padri e madri. - E stato scritto: «Come linguaggio relazionale, l’onore delle donne non rappresenta tanto una proprietà del corpo femminile, quanto del corpo sociale a cui le donne appartengono: indica l’integrità del gruppo patrilineare, la sua forza sociale, la sua capacità di controllo [...] Dal simbolismo corporeo e sessuale possiamo dunque giungere alla configurazione dell’ordine sociale in genere».225 Queste indicazioni cominciano ad penetrare nella ricerca storica italiana, modificandone sensibilmente la prospettiva. La novità di queste tematiche, nel panorama storiografico italiano, è più che evidente. La demografia storica era sempre stata, in Italia, una specializzazione appannaggio delle Facoltà di Economia e Commercio. Occorreva che un grande storico inglese trapiantato a Princeton, Lawrence Stone, portatore delle posizioni metodologiche della scuola di «Past and Present», affrontasse il tema della famiglia,226 per imporre queste tematiche al centro della ricerca, allargando i vecchi confini della demografia. Si dimostrò pioneristico, in tal senso, il numero 44 di «Quaderni storici, curato da Luisa Accati, su Parto e maternità.221 Successivamente, la stessa rivista ha affrontato altre
223 L. Scaraffia, G. Zarri, Introduzione a Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1994.
224 G. Barone, M. Caffiero, F. Sforza Barcellona, Modelli di santità e modelli di comportamento. Contrasti, intersezioni, complementarità, Torino, Rosenberg & Sellier, 1994.
225 Ivi, pp. 1456 e 1460.
226 L. Stone, The Family, Sex and Marriage in England, 1500-1800, London, Wei-nefeld and Nicolson, 1977 (tr. it. Torino, Einaudi, 1983). Per un incontro con la sua metodologia si rinvia a The Past and thè Present, Boston, Routledge & Kegan Paul, 1981.
221 Parto e maternità. Momenti della autobiografia femminile, «Quaderni storici», 44, agosto 1980.
152
Sergio Bertelli
tematiche riconducibili a questo medesimo discorso: il volume su Maschile e femminile, curato da Renato Ago e Angiolina Arru;228 Fratello e sorella, ancora a cura della Arru, questa volta assieme a Sofia Boesch Gajano;229 Costruire la parentela, a cura della Ago, assieme a Maura Palazzi e Gianna Pomata.230
Non v’è dubbio come la storia della famiglia abbia ricevuto un grande impulso dalle ricerche antropologiche e dalla rielaborazione che di queste è stata effettuata proprio nell’ambito dei women studies. Rientra in questa visuale la recente opera di Giulia Calvi,231 mentre rimane sul piano tradizionale della ricostruzione di un genere letterario-trattatistico il precedente lavoro di Daniela Frigo sulla diffusione del? Oeconomica aristotelica.232 Mentre quest’ultima si richiama daccapo ad Otto Brunner, intendendo ripercorrere la trattatistica «nobiliare» secondo le tecniche della Kulturgeschichte, Giulia Calvi si rifà a David Herlihy 233 e a Jack Goody, con la mira di far «affiorare le reti informali dei rapporti parentali e la coesione delle strutture affettive», rimettendo in discussione le tesi di Philippe Ariès.
Penso di poter ricondurre a questa critica di Ariès anche l’indagine ultima di Ottavia Niccoli, che affronta un tema di devianza estremamente importante in ancien régime, come la storia dei fanciulli. Certamente un gruppo liminale, ma con funzioni ben precise nell’ambito della moral economy e dei rituali collettivi delle folle medievali.234 Quale differenza, fra quest’opera e la tanta letteratura sull’infanzia, sino ad ora apparsa, tutta ruotante attorno alla storia della pedagogia! Ambito, in-
228 «Quaderni storici», 79, aprile 1992.
229 «Quaderni storici», 83, agosto 1993.
230 «Quaderni storici», 86, agosto 1994.
231 G. Calvi, Il contratto morale. Madri e figli nella Toscana moderna, Roma-Bari, Laterza, 1994.
232 D. Frigo, Il padre di famiglia. Governo della casa e governo civile nella tradizione dell’«Economia» tra Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni, 1985.
233 Coautore, con Christiane Klapisch-Zuber, di Le Toscans et leurs familles. Une étude du catasto florentin de 1427, Paris, Ed. de l’Ecole des hautes etudes en Sciences sociale, 1978.
234 O. Niccoli, Il seme della violenza. Putti, fanciulli e mammoli nellTtalia tra Cinque e Seicento, Roma-Bari, Laterza, 1995; ma si veda anche il precedente saggio introduttivo al volume da lei curato, Infanzie. Funzioni di un gruppo liminale cit., nonché il più recente studio Baci rubati. Gesti e riti nuziali in Italia prima e dopo il Concilio di Trento, in S. Bertelli, M. Centanni eds., Il Gesto cit., pp. 224-247. Su questi temi è adesso tornato D. Lett, L’enfant des miracles. Enfance et société au Moyen Age (XIIe-XIIIe siècle), Paris, Aubier, 1997.
Appunti sulla storiografia italiana per l'età moderna
153
tendiamoci, degnissimo di essere trattato, ma certo già ampiamente scavato.235
Clan, famiglie, élites. Anche in questo campo certe vischiosità tutte italiane sono ben avvertibili. Ad esempio, nella completa separazione che si avverte fra storia évenementielle e politologia. Sono argomenti che vengono infatti trattati solo nell’ambito della storia del diritto (modelli aulici E. Besta e N. Tamassia), della demografia storica o della storia politica tout-court. Nonostante il grande lavoro socio-demografico di David Herlihy e Christiane Klapisch-Zuber sulla famiglia toscana,236 probante d’una simile sordità mi sembra l’esempio (per altri versi benemerito) del lavoro sin qui svolto dall’Associazione toscana della nobiltà italiana, assieme alla fiorentina Deputazione di storia patria e alla Sovrintendenza archivistica per la Toscana, nonché con la collaborazione delle cattedre di storia delle Università della regione. Il consorzio ha dato vita ad un «Comitato di studi sulla storia dei ceti dirigenti in Toscana», che sin dal 1978, partendo dall’età precomunale, ha sino ad ora pubblicato sei volumi, giungendo appena alle soglie del Cinquecento (è attualmente in preparazione il VII convegno, che affronterà il periodo repubblicano «avanti il principato»). Eppure, dovendosi parlare di gruppi dirigenti, è sintomatico che sino ad ora nessuno dei tanti relatori di questi incontri abbia affrontato il dato prosopografico e/o analizzato la struttura clanica dell’oligarchia fiorentina.
Una concomitante iniziativa è stata quella dell’Istituto di storia dell’Università di Udine, con la pubblicazione degli atti di un congresso tenutosi nel 1983: I ceti dirigenti in Italia in età moderna e con temporanea.231 Ancora una volta, in nessuno dei numerosi autori chiamati a dare il loro contributo si troverà la benché minima attenzione per le problematiche della politologia, della sociologia, dell’etnografia.
La notazione vale anche per Genova e i suoi «alberghi». Dopo il saggio di Jacques Heers sul clan familiare 238 e gli interventi di Diane Owen Hughes,239 ci si attenderebbe uno sviluppo di tematiche proprie della po-
235 Si veda, a questo proposito, il recente lavoro condotto sotto la guida di Egle Becchi sul Journal di Jean Heroard: Segni d'infanzia. Crescere come re nel Seicento, Milano, F. Angeli, 1991.
236 D. Herlihy, Ch. Klapisch-Zuber, Les Toscans et leurs familles cit.
237 A. Tagliaferri ed., Udine, Del Bianco, 1984.
238 J. Heers, Le clan familial au Moyen Age, Paris, PUF, 1974 (tr.it. Napoli, Li-guori, 1976).
239 D. Owen Hughes, Toward Historical Etbnograpby: Notorial Records and Family History in tbe Middle Ages, «Historial Methods Newsletter» 7, 2, March 1974, pp. 6168; Kinsmen and Neigbbours in Medieval Genoa, in M. Miskimin, D. Herlihy, A. L.
154
Sergio Bertelli
litologia e dell’etnografia. Al contrario, sia i numerosi saggi dedicati a questo argomento da Edoardo Grendi,240 sia il volume di Arturo Pacini241 si dimostrano refrattari ad un approccio che esca dai binari tradizionali della storia politica. Come dichiara lo stesso Pacini: «si è tentato di ricostruire il clima politico», senza chiedere alcun supporto metodologico che esulasse da un’impostazione strettamente politico-istituzionale.
11. A mo’ di conclusione. - Giunto al termine di questa rassegna, è difficile trarre un giudizio complessivo sull’attuale panorama della storiografia italiana relativa all’età moderna. Scomparse le vecchie e gloriose scuole, gli storici italiani delle nuove generazioni sembrano camminare in ordine sparso, privi di punti di riferimento precisi, se si eccettua lo sguardo rivolto oltr’Alpe, verso la vicina Francia. Per delineare il clima del dibattito culturale che si respira oggi in Italia, ci si potrebbe servire delle parole sconsolate di uno scrittore: Giovanni Moretti. In un articolo scritto per «Il Corriere della sera» del 13 marzo 1996, dal titolo sintomatico: Pagine culturali. Fine della critica, leggiamo fra l’altro: «Recensioni individuali, recensioni en masse, polemiche che ne conseguono: tutto questo occupa solo una parte dello spazio che i giornali dedicano al libri. Il resto - un resto che tende sempre più ad espandersi - è occupato da interviste e da anticipazioni. Se un tempo il punto di riferimento esterno più importante per le redazioni era costituito dal critico titolare, non c’è dubbio che oggi sia costituito dagli uffici stampa delle case editrici». I giornali, ha aggiunto Alberto Arbasino commentando quello sfogo, «non sanno più produrre qualcosa in proprio. E come se un grande ristorante che non ha più cuochi mandasse a prendere i piatti pronti alla vicina rosticceria».242
Ecco: lo stesso potrebbe dirsi delle pagine delle riviste specializzate. Tutti evitano di dissentire, di polemizzare, di prendere partito. Molto spesso, agli schieramenti ideologici e/o metodologici, si sostituiscono le appartenenze accademiche, ancor oggi dichiarate nelle varie festschrif-ten, ancora in voga. Per gli «avversari», il silenzio è la maggior condanna che possa colpirli.
Sergio Bertelli
Udovitch eds., The Medieval City in honor of R. S. Lopez, New Haven and London, Yale UP, 1977, pp. 95-111.
240 Essi sono ora raccolti in E. Grendi, La repubblica aristocratica dei Genovesi. Politica, carità e commercio fra Cinque e Seicento, Bologna, il Mulino, 1987.
241 A. Pacini, I presupposti politici del «secolo dei genovesi». La riforma del 1528, Genova, Soc. Ligure di Storia patria, 1990.
242 «Il Corriere della sera», 15 marzo 1996.