« Uno, due, tre, mille Menocchio »?

Item

Title
« Uno, due, tre, mille Menocchio »?
Creator
Paola Zambelli
Date Issued
1979-01-01
Is Part Of
Archivio Storico Italiano
volume
137
issue
1 (499)
page start
51
page end
90
Publisher
Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.
Language
ita
Format
pdf
Rights
Archivio Storico Italiano © 1979 Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.
Source
https://web.archive.org/web/20230921190624/https://www.jstor.org/stable/26259507?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxOSwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjQ1MH19&groupefq=WyJzZWFyY2hfY2hhcHRlciIsIm1wX3Jlc2VhcmNoX3JlcG9ydF9wYXJ0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfdGV4dCIsInJldmlldyIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmVzZWFyY2hfcmVwb3J0IiwiY29udHJpYnV0ZWRfYXVkaW8iXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3Ae7acfa35b7935c33e3f72676f52ea9a1
Subject
surveillance
individuals and individualization
history and historiography
exclusion (of individuals and groups)
extracted text
« Uno, due, tre, mille Menocchio »?
Della generazione spontanea ( o della cosmogonia * autonoma ’ DI UN MUGNAIO CINQUECENTESCO)
Il mito della generazione spontanea non fa fortuna fra gli storici: forse perché si presenta a prima vista come un caso eminente di materialismo volgare. Negli studi di storia della filosofia saprei indicare solo poche pagine che su questo mito hanno scritto alcuni medievalisti per il secolo dodicesimo, Bruno Nardi e Fulvio Papi rispettivamente per Pomponazzi e per Giordano Bruno.1 Per questo (ma non solo per questo) ha suscitato grande interesse il volumetto che di recente Carlo Ginzburg ha intitolato dalla metafora con cui un eretico finora sconosciuto designava il processo della generazione spontanea: Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del "500? Questo libro ha molti meriti e rappresenta il risultato più maturo (fino a oggi) di una carriera storiografica non lunga, molto coerente, piena di fascino e coronata da un meritato successo (che nel caso di questo libro è stato riconosciuto dalle recensioni di letterati raffinatissimi, come Pietro Citati, Manganelli, Piero Camporesi).
1 Per il medioevo, v. P. Duhem, Systèrne du Monde, III, Paris 1915, pp. 185-193; E. Garin, Studi sul platonismo medievale, Firenze 1958, pp. 44, 54-67; T. Gregory, La nouvelle idée de nature et de savoir au Xir siede, in J. E. Murdoch and E. D. Sylla, eds., The Cultural Context of Medieval Learning, Dordrecht 1975, p. 195 sgg (cfr. Id., Anima mundi, Firenze 1955, pp. 175 sgg., 244 sgg., e Platonismo medievale, Roma 1958, pp. 73 sgg., 133-136); B. Nardi, Studi su P. Pomponazzi, Firenze 1968, pp. 305-319; F. Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, Firenze 1968, pp. 3-10, 91 sgg., 221 sgg.
2 Ed. Einaudi, Torino 1976, pp. xxxi-188. (Indicherò fra parentesi nel testo la pagina cit.).



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Nessun lettore rimpiangerà il tempo dato a questo libro, che si avvale di un’invidiabile verve letteraria (per riprendere la definizione che Ginzburg usa per Lucien Febvre). Oltre a un notevole e persino eccessivo aggiornamento metodologico, alla grande spregiudicatezza nell’uso di tecniche e tematiche nuove, e a un gusto ben calibrato del paradosso Carlo Ginzburg ha mostrato - fin dal suo primo libro3 - di conoscere tutte le astuzie del mestiere di storico, ma anche di quello di scrittore: qui le domina con sempre maggior levità e sicurezza sfruttando anche un mezzo linguistico à la page, l’espressionismo dialettale dei costituti di un eretico friulano. La storia dei due processi inquisì toriali che subì nel 1585 e nel 1599 il mugnaio, contadino, musicante, ma anche maestro di scuola Domenico Scandella detto Menocchio (1532-1600) e l’insieme delle sue idee risultano chiare e interessanti nelle pagine del Ginzburg; tali idee non ebbero certo, neppure all’origine, il rigore o la sistematicità che avrebbero potuto, in uno dei casi più fortunati, ottenere da un bravo scolastico, ed io non vedo ragione di criticare come oscura la ricostruzione fattane qui (« disseminando le dichiarazioni del mugnaio ... e frammischiandole ed una quantità di proprie divagazioni esuberanti ... di erudite agudezas », come dice Giorgio Spini in una ampia recensione).4 In realtà il conglomerato delle idee di Menocchio è ricostruito con cura da Ginzburg, che pubblica anche letteralmente dai costituti alcuni memoriali e vivaci
3 I Benandanti. Ricerche sulla stregoneria e sui culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Torino, Einaudi 1966; terza ed. 1973, con un post-scriptum (salvo per le citazioni indicate come post-scriptum, uso sempre la prima ed. e ne preciso fra parentesi nel testo la pagina cit.). Un esempio del tipo di paradossi cari a Ginzburg è in Folklore, magia, religione, in Storia d’Italia: I. I caratteri originali, Torino, Einaudi 1972, p. 663: «Quello delle bande dei ‘lazzari’ al seguito del cardinale Ruffo fu l’ultimo grande moto religioso della storia d’Italia ». Tali paradossi e provocazioni hanno dato occasione della violenta reazione di un recensore (il gesuita G. Martina sulla « Rivista di storia della Chiesa in Italia », XXX, 1976, pp. 150-155), che ha accusato Ginzburg di « procedere dogmaticamente » e di costruire il suo « quadro individuando e insistendo su alcuni filoni invece di darci una sintesi »: il che è peraltro il pregio maggiore di questo saggio e in generale del lavoro di Ginzburg.
4 Noterelle libertine, « Rivista storica italiana », LXXXVIII, 1976, pp. 792802.



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scambi di battute fra l’inquisito e i suoi inquisitori sui punti più audaci delle sue credenze (pp. 8, 64-66, 101-104, 126-127): queste rifiutavano la Trinità divina, la divinità del Cristo e la Verginità di Maria, la creazione ex nihilo e l’autorità del papa e della Chiesa, per sostiturvi una complessa cosmogonia che dal caos suscitava Dio stesso, lo Spirito Santo (affine aU’^w/^ mundi), Cristo, gli angeli « lavorienti » di Dio nello sforzo materiale delTom^-f mundi, e infine gli uomini stessi, e poi teorizzavano chiaramente il ruolo non divinamente ispirato e garantito, ma puramente pratico-pedagogico delle religioni (spesso d’altronde abusate dai preti per « strussiare » i poveri). Gli accenti popolari di Menocchio contro l’oppressione economica che la Chiesa - ben più dei poteri civili - esercita sui lavoratori della terra, sono messi in giusta evidenza da Ginzburg, che a questo proposito ricostruisce a grandi linee i rapporti di produzione e la situazione sociale del Friuli cinquecentesco (pp. 16-20) e tratteggia anche la figura sociale del mugnaio tra Medioevo e Rinascimento (pp. 112-113, 138). Sottolineo queste pagine perché esse sono la spia di un arricchimento avvenuto negli interessi storici e metodologici del Ginzburg: quando ricostruì l’interessante episodio dei Benandanti, che egli considera ultima risorgiva di un remoto culto agrario seguendo l’interpretazione Mur-ray-Mayer-Runeberg della stregoneria (che non discuterò qui, ma che è stata brillantemente criticata anche per I Benandanti da Norman Cohn5) Ginzburg si trovava di fronte a un gruppo geograficamente e socialmente omogeneo. Infatti, salvo rare analogie stabilite con un lupo mannaro lituano e con una contadina modenese, trattava di contadini dello stesso territorio collinare friulano e all’inoirca di una generazione a cavallo fra ’500 e
5 Europei inner Demons. An Enquiry inspired by thè great Witch-Hunt, London, Sussex U.P. 1975, pp. 223-224: « What Ginzburg found in bis six-teenth-century archives was in fact a locai variant of what, for centuries before, had been thè stock experience of thè followers of Diana, Herodias or Holda. It has nothing to do with thè * old religion ’ of fertility postulated by M. Murray and her followers. Wath it illustrates is - once more - thè fact that not only thè waking thoughts but thè trance experiences of individuals can be deeply conditioned by thè generally accepted beliefs of thè society in which they live ».



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’600: eppure nel suo primo libro non risulta il minimo sforzo per collocare sullo sfondo dei reali rapporti di produzione -di quel tempo in quella regione la vicenda di quel « culto agrario » e della sua progressiva assimilazione alla stregoneria codificata e insinuata nella coscienza popolare dagli inquisitori. Non mi pare che quest’occasione perduta sia stata rilevata dai recensori solitamente assai favorevoli del primo libro di Ginzburg: infatti il disinteresse per il contingente quadro economico-sociale dei benandanti appare spiegabile e coerente se si dia per scontato che l’autore si interessa ad essi soprattutto come ad una delle ultime reincarnazioni d’un culto arcaico della fertilità o almeno di « un insieme di tradizioni più vasto e largamente diffuso per quasi tre secoli in un’area ben delimitata, compresa fra l’Alsazia e le Alpi orientali » (p. 65).
La sua ricerca ha preso le mosse dichiaratamente da una problematica di storia delle mentalità: nel Postscriptum 1972 (p. xi) per i Benandanti si legge che tale interesse si era « precisato attraverso la lettura delle note di Gramsci sul folklore e la storia delle classi subalterne, dei lavori di De Martino, nonché delle ricerche di Bloch sulla mentalità medievale ». Se l’autore stesso addita i limiti psicologistici (De Man invece di Marx) della nozione che Bloch dava di rapporti di classe, determinati dalla autocoscienza più che dai reali rapporti di produzione,6 nel caso di Gramsci (e di De Martino) il suo atteggiamento è più complesso. Occorrerà riparlarne, ma per ora vorrei sottolineare che quelle pagine (pp. 16-20) del Formaggio modificano (o promettono di modificare) l’immagine dello storico Ginzburg che - diversamente dalla generazione precedente e da molti suoi coetanei - appariva estraneo al diffuso interesse metodologico per il materialismo storico. In quelle pagine - strettamente funzionali all’interpretazione delle invettive di Menocchio contro il papa « fattore » di Dio - l’attenzione ai rapporti di produ-
6 Ginzburg, A proposito della raccolta dei saggi storici di Marc Bloch, « Studi medievali », s. Ili, VI, 1965, pp. 347-349; Id., prefazione a M. Bloch, I re taumaturghi, Torino, Einaudi 1973, p. xvn.



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zione sembra essersi maturata soprattutto a contatto con l’esperienza metodologica di « Past and Present » (con i saggi di N. Z. Davis più che con l’ampio e nuovo panorama di Keith Thomas; p. 183 n): questo è comprensibile se si pensa che in Italia la lezione gramsciana è stata accolta soprattutto e un po’ unilateralmente nella storia contemporanea, mentre anche a proposito del problema dell’alfabetizzazione o di altri aspetti della storia della mentalità delle classi subalterne Ginzburg osserva giustamente che i dati si presentano differentemente nel ’500 e nell’età industriale: il metodo elaborato da Hobsbawm o da E. P. Thompson non è trasferibile al Rinascimento (p. xxviii); d’altronde le tecniche dei medievisti come Le Goff o Manselli non sono proprie allo studio del Rinascimento.
Nel citato Posi scriptum 1972 rispondendo a chi gli aveva rimproverato di non aver analizzato accanto a quella dei benan-danti anche la mentalità degli inquisitori per mostrare « la sostanziale solidarietà dei rispettivi... contatti col soprannaturale », presenta un principio di metodo, che promette di sviluppare appunto nel caso della « cultura popolare » di Menocchio. « Insistendo sugli elementi comuni, omogenei della mentalità di un certo periodo, si è indotti - secondo Ginzburg - inevitabilmente a trascurare le divergenze e i contrasti tra le mentalità delle varie classi, dei vari gruppi sociali, annegando tutto in un’indifferenziata, interclassistica ‘ mentalità collettiva ’. In tal modo l’omogeneità, d’altronde sempre parziale, della cultura di una determinata società viene vista come dato di partenza anziché come punto d’arrivo di un processo intimamente coercitivo e in quanto tale violento (la storia dei benandanti di questo punto di vista è esemplare) ». Esemplare, cioè — se ben capisco — spia di una situazione universale anche se spesso mistificata: l’omogeneità della cultura di una determinata società può darsi - secondo Ginzburg - solo per via di repressione, sia essa l’insinuazione usata negli interrogatori inquisitoriali, sia anche l’indottrinamento che dallW^ cultura scenderebbe a violentare la cultura popolare. Il rapporto fra queste « due culture » è il problema metodologico di fondo che si è incarnato nel mugnaio Menoc-



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chio: e Ginzburg — come vedremo — lo risolve negando ogni rapporto, se non di « coincidenza sorprendente » o di pretesto.7 La tesi fondamentale o - a giudicare dalle recensioni dei letterati - meglio il sapore più allettante e piccante de II /omaggio e i vermi sta appunto in questa negazione, ossia nel mito della generazione spontanea ... in vacuo della cultura popolare.
Già nel suo contributo al volume einaudiano sui Caratteri originali della Storia d’Italia, Ginzburg aveva mostrato di identificarsi gioiosamente nel modello metodologico che Michail Bachtin aveva fondato per interpretare la cultura popolare del Medioevo e del Rinascimento nell’opera di Francois Rabelais: si tratta di un modello geniale, che Ginzburg ha adocchiato fra i primi e senza impoverirlo in termini schematicamente struttu-ralìstico-stilistici come Julia Kristeva, anzi estendendone progressivamente il campo di applicabilità.8 Infatti nel saggio su Folklore, magia, religione riprendeva la definizione di « cristianesimo carnevalesco » (p. 614) che Bachtin - pur riconoscendovi « qualche esagerazione » - aveva proposto per definire il « giullare di Dio » Francesco d’Assisi,9 o nell’esame della sua documentazione quasi tutta letteraria se ne serviva per identificare « livelli diversi del sacro » (p. 610). La lezione del Bachtin
7 Già nei Benandantì cit., p. 54, Ginzburg sosteneva che « ciò che caratterizza questo nucleo di tradizioni e di miti è il fatto di essere assolutamente privo di agganci con il mondo colto », anche se « non si tratta ... della ripetizione di archetipi religiosi metastorici » (p. 38). C’è una ben riconoscibile continuità problematica fra Benandantì e Formaggio, che vi si richiama e promette di riprendere « più ampiamente » il tema dello « sciamanismo » (p. 69 e n. pp. 172-173).
8 M. Bachtin, Lf oeuvre de F. Rabelais et la culture populaire au Moyen Age et à la Renaissance [1965], trad. frane., Paris, Gallimard 1970. Cfr. J. Kristeva, Bakhtine, le mot, le dialogue et le roman, « Critique », n. 239, 1967, pp. 438-465, criticata da M. Beaujour, Le jeu de Rabelais, Paris, l’Herne 1969, p. 7 sgg., e trad. in Ivanov, Kristeva e Altri, Michail Bachtin, Bari, Dedalo 1977.
9 Folklore cit., p. 614 (cfr. per Francesco, Bachtin, Uoeuvre cit., p. 66); altri cenni in Folklore cit., p. 659 (sulle processioni gesuitiche nell’Italia meridionale della Controriforma, che « recuperano la dimensione folklorica del carnevalesco») e p. 676, sulla rinascita del carnevalesco liberatorio nella politica e nell’arte sessantottesca. Si noti che Bachtin ha insistito sulla categoria della « carnevalizzazione » già a proposito di Dostoevskij [1929; 19632], trad. ital. Torino, Einaudi 1968, pp. 218-234.



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era però riconoscibile anche dietro alla tesi generale di una « continuità della vita religiosa — una continunità vischiosa, vegetale, che sembra riassorbire in sé le fratture e le lacerazioni che pure ci furono » (p. 603) o alla riconsiderazione del fenomeno della stregoneria: nel 400 « si verifica una sorta di differenziazione religiosa. Lo strato di superstizioni, credenze, pratiche magiche che si era conservato silenziosamente per secoli grazie alla paradossale fissità della tradizione orale, emerge in più punti come un magma sotterraneo affiorante attraverso una crepa del terreno » (pp. 627628, cfr. 649-650). Anche Bachtin infatti sostiene brillantemente « l’unità della cultura comica popolare del Medioevo », ed anzi di un più lungo periodo, quando non esita a far risalire Rabelais al grottesco romano, cioè a un frammento « dell’immenso universo deWimagerie grottesca che era esistita a tutte le tappe dell’Antichità e continuava a esistere nel Medioevo e nel Rinascimento », o vede in Sancho Panza un discendente diretto degli antichi demoni della fecondità.10 In questo senso
10 Bachtin, L"oeuvre cit., pp. 26, 42, 31; mentre riconosce che Rabelais è « à la fois savant érudit et auteur populaire » (p. 160 n.), Bachtin « si interessa nella sua opera alla grande linea principale della lotta di due culture, la cultura popolare e la cultura ufficiale del Medioevo », che « si combina organicamente agli echi dell’attualità... » (p. 432). Rabelais « ha occupato nella lotta del suo tempo una vera posizione popolare » (p. 433), anzi « le posizioni più avanzate e progressiste » (p. 448). Anche se Bachtin offre a Ginzburg l’ipotesi fondamentale su cui costruire il Formaggio e gli altri studi citt. (« la cultura popolare... sempre, in tutte le sue tappe, s’è opposta alla cultura ufficiale delle classi dominanti ... è esistita sempre e non si è fusa mai con la cultura ufficiale delle classi dominanti. Illustrando le epoche passate noi siamo troppo spesso obbligati a “ credere ogni epoca sulla sua parola ”, cioè a credere ai suoi ideologi ufficiali, in un grado maggiore o minore, perché non intendiamo la voce del popolo, perché non sappiamo trovare né decifrare la sua espressione pura e non contaminata (sans melanges) » Bachtin, op. cit., pp. 469-470), non mancano alcune sue critiche, proprio alla caratteristica progressiva che Bachtin vede nel carnevalesco: « egli attribuisce contradditoriamente un valore di rottura irreversibile col * vecchio ’ mondo feudale alla concezione del mondo carnevalesca rinascimentale ... Questa sovrapposizione di un tempo unilaterale e progressivo a un tempo ciclico e statico è la spia di una forzatura delle caratteristiche eversive della cultura popolare - forzatura che costituisce l’aspetto più discutibile di un libro che resta comunque fondamentale » (p. 180 n. 101). Ginzburg vede un altro grave « limite » nel « bellissimo libro di Bachtin ... i protagonisti della cultura popolare che egli ha cercato di descrivere - i contadini, gli artigiani -ci parlano quasi esclusivamente attraverso le parole di Rabelais. Proprio la ric-



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egli delinea le « radici folkloriche del romanzo » e il « riso popolare » come fenomeno di lungo periodo che fa « perdere le distanze assiologiche sociali ». Bachtin — autore di « una delle più ampie ed erudite critiche che mai fossero state fatte al formalismo da parte di un marxista »11 — ha costruito il suo metodo per reinterpretare e analizzate le origini del romanzo moderno, innanzitutto Gargantua e Pantagruel\ il suo esempio è stato opportunamente esteso a molti altri testi letterari di ispirazione comico-popolare, come Piero Camporesi, che d’altronde si richiama esplicitamente anche a Ginzburg, ha appena fatto per La maschera di Bertoldo,12 e come Ginzburg stesso fa legittimamente quando analizza le letture « popolari » di Menocchio
chezza delle prospettive di ricerca indicate da Bachtin fanno invece desiderare un’indagine diretta, priva di intermediari, del mondo popolare » (p. xv).
11 Bachtin, L'oeuvre cit., p. 17 sgg.; G. Lukacs, M. Bachtin e altri, Problemi della teoria del romanzo, a cura di V. Strada, Torino, Einaudi 1976, pp. 200-202 (« è proprio qui, nel riso popolare, che vanno cercate le radici folkloriche del romanzo») e p. xlvi (introduzione di V. Strada). Già Strada aveva citato le opere teoriche da attribuirsi nell’essenziale a Bachtin anche se pubblicate sotto il nome di due suoi allievi: Il metodo formalista nella scienza letteraria di P. N. Medvedev [1928], tradotto in piccola parte nella raccolta Marxismo e formalismo, a cura di H. Giinther, Napoli, Guida 1975, (pp. 27 sgg., 127-143), ed ora imminente nella sua completezza presso Einaudi che dichiara che « la critica al formalismo può e deve essere immanente »; Marxismo e filosofia del linguaggio, di V. N. Volosinov [1929], a cura di A. Ponzio, Bari, Dedalo 1976. Cfr. per il giudizio sull’appartenenza di Bachtin-Medvedev all’orientamento marxista, V. Erlich, Il formalismo russo, Milano 1966, p. 121 sgg.; I. R. Titunik, Metodo formale e metodo sociologico (Bachtin, Medvedev, Volosinov) nella teoria e nello studio della letteratura, in AA.VV., M. Bachtin cit., pp. 161-196 tende invece a definire eclettica la posizione di Medvedev. Sull’attribuzione a Bachtin di questi scritti teorici (ed anche di Volosinov, Freudismo [1927], Bari, Dedalo 1977) sono qui concordi (pp. 152, 253 n. 10, 259) Matejka, Ivanov, Titunik e Leont’ev. Cfr. la prefazione di R. Jakobson e l’intr. di M. Yaguello alla trad. fr. di Marxismo e filosofia del linguaggio ed. sotto il nome di Bachtin, Paris, Ed. de Minuit 1977. V. V. Ivanov, Significato delle idee di Bachtin su segno, Patto di parola e il dialogo per la semiotica contemporanea, in AA.W., M. Bachtin cit., pp. 100-101 riconduce Bachtin « ad una tendenza non formale, ma strutturale di analisi della semiotica del mito e del rituale, tendenza che per molti aspetti preannunciava l’antropologia strutturale ». « Ma a differenza dell’orientamento verso il prelogico... Bachtin persevera sulla strada che separava il carnevale dai rituali ‘ primitivi ’. Questo non gli impedisce di riconoscere che la tradizione carnevalesca, p. es. in Shakespeare, ...affonda le sue radici nel passato preistorico e assurge quindi ad archetipo culturale ».
12 Torino, Einaudi 1976; v. ora la sua raccolta di saggi II paese della fame, Bologna, Il Mulino 1978, ad es. pp. 28, 46, 188.



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in alcuni dei paragrafi più riusciti del suo nuovo libro. Ma accanto alla « letteratura carnevalesca », in Bachtin è stata isolata anche una categoria universale, una « metafisica » carnevalesca, che d’altronde è già stata invocata per esempio da Emmanuel Le Roy Ladurie per rendere in qualche modo comprensibile la sanguinosa « inversione di ruoli » che caratterizzò il tragico carnevale di Romans.13 Ginzburg indulge talvolta a questo fascino di Bachtin14 per definire il sabba come « mito religioso alternativo del folklore contadino » (dandone così un’immagine più originale e forse più convincente di quella murrayta di un rito di fertilità, ripetuto segretamente, ma continuativamente dall’età arcaica al 600), oppure per i riti carnevaleschi della cuccagna o del mondo alla rovescia (Folklore, pp. 649-650): direi però che ciò che Ginzburg fonda specificamente su Bachtin - direi anzi: al di là di Bachtin - è l’idea dell’assoluta autonomia e continuità della cultura contadina.
Se oggi si può dire « al di là di Bachtin » è perché grazie agli scritti teorici della sua scuola solo recentemente recuperati,
13 E. Le Roy Ladurie, Les paysans de Languedoc, Paris 1966, I, pp. 395399.
14 Un punto d’incontro fra le ricerche ginzburghiane su eretici cinquencen-teschi e quelle che egli sviluppa nel solco di Bachtin è dato dal recente saggio High and low: thè theme of forbidden knowledge in thè XVIth and XVIIth Century, « Past and Present », 73, November 1976, che prende le mosse da un passo paolino interpretato da Erasmo, ma sviluppa il discorso in base a « tidy, polar categories »: « These categories, of course, have a cultural or symbolic meaning, as well as a biological one. Anthropologists have begun to elucidate thè variable meaning of some of them ... But none of these categories is so universal as thè opposition between high and low » (p. 31). Se qui Ginzburg dichiara di aver preso a proprio modello Erwin Panofsky, non è certo rimasta senz’eco l’insistenza di Bachtin su alto e basso in Rabelais. Cfr. Ivanov, Significato delle idee di Bachtin cit., p. 97: «una delle caratteristiche principali del libro di M. M. Bachtin sulla cultura carnevalesca, caratteristiche che lo rendono indiscutibilmente strutturale negli orientamenti fondamentali, è il fatto che questo libro è costruito sull’analisi di alcune fondamentali contrapposizioni binarie, e in particolare della contrapposizione alto-basso, considerata contemporaneamente su diversi piani - sociale, gerarchico, spaziale, materiale ecc. ». L’ultimo piano (quello materiale o corporeo) è il più frequente, e fu privilegiato anzi isolato da V. Sklovskij provocando la sua « incomprensione » di Bachtin, egli d’altronde aveva polemizzato con in II metodo formalista nella scienza letteraria (Ivanov, art. cit., n. 81).



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valorizzati e tradotti si può penetrare meglio il presupposto metodologico delle sue stesse analisi concrete. Quando Bachtin-Volosinov sviluppano la teoria dell’ubiquità sociale della parola 15 e della sua multiaccentuatività non sembrano ammettere l’autonomia di qualunque subcultura o segno. « Il segno è - per i due teorici di Leningrado — un atto creativo interindividuale, un atto creativo all’interno di un ambiente sociale ... Per questa ragione, tutti gli accenti ideologici - nonostante il loro essere prodotti dalla voce individuale — ... sono accenti sociali ».16 « La classe non coincide con la comunità segnica ... Così classi diverse useranno la stessa lingua. Come risultato, accenti differentemente orientati si intersecano in ogni segno ideologico. Il segno diventa il campo della lotta di classe. Questa multiaccentuatività sociale del segno ideologico è un aspetto molto cruciale ... La classe dominante si sforza di assegnare un carattere eterno, al di sopra delle classi, al segno ideologico, per soffocare o per contenere la lotta tra giudizi sociali di valore che ricorrono in esso, per rendere il segno uniaccentuativo. Di fatto, ogni vivo segno ideologico ha due facce come Giano ».17 In
15 Volosinov, Marxismo e filosofia del linguaggio cit., p. 72: « Ciò che è importante della parola ... [è] la sua ubiquità sociale... È evidente allora che la parola è l’indice più sensibile dei mutamenti sociali, e quel che più conta di mutamenti ancora in via di sviluppo ..., non ancora adattati in sistemi ideologici già regolarizzati e interamente definiti ». Cfr. A. Ponzio, Semiotica e studio delle ideologie in M. Bachtin, in Ivanov, Kristeva e altri, M. Bach fin cit., p. 28 sgg.
16 Marxismo e filosofia del linguaggio cit., pp. 76-77; cfr. Ponzio, Semiotica cit., p. 30, e L. Matejka, Primi prolegomeni russi alla semiotica, in AA.W., M. Bachtin cit., p. 156: «egli era in evidente disaccordo con il dogma di N. Ja. Marr sul carattere di classe del linguaggio e sulla relazione causale fra linguaggio e lotta di classe ».
17 Marxismo e filosofia del linguaggio cit., pp. 78-79, ove prosegue: « Questa qualità dialettica interna del segno si estrinseca pienamente soltanto in tempi di crisi sociale o mutamenti rivoluzionari. In condizioni di vita ordinarie, la contraddizione racchiusa in ogni segno ideologco non può emergere interamente perché il segno ideologico di un’ideologia dominante istituita è sempre piuttosto reazionario e cerca, per così dire di stabilizzare nel flusso dialettico del processo generativo sociale il fattore precedente, accentuando la verità di ieri in modo da farla apparire quella di oggi. Ed è questa la ragione del carattere rifrangente e distorcente del segno ideologico nell’ideologia dominante ». Cfr. p. 102: « Ogni parola ... è un piccolo campo dello scontro e dell’intersecarsi di accenti sociali orientati differentemente ».



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sede tecnica tale multiaccentuatività sociale corrisponde al problema — centrale nel Rabelais — del ruolo della citazione, dei « diversi livelli di allontanamento e di assimilazione della parola altrui citata, [che] sono infinitamente multiformi ».18
In un convegno su « religione e religiosità popolare » tenutosi nell’ottobre 1976, Ginzburg, interrogato su « come è possibile, sulla base di quali fonti, ricostruire questa cultura contadina » - visto che nel Formaggio appena pubblicato « la fonte ... è pur sempre unica », esprimeva la sua fiducia nei dati ancora segregati negli « archivi della repressione », cioè nei fondi non consultabili dell’Inquisizione. In essi « sarà possibile trovare uno, due, tre, mille Menocchio ... Perché parlo dell’Inquisizione? Qui stiamo parlando di una cultura contadina, che era sostanzialmente orale, anche se sappiamo sempre meglio che il grado d’analfabetismo non era così grande come gli storici hanno a lungo pensato. Però quella cultura rimaneva sostanzialmente orale, anche la griglia che Menocchio sovrappone ai testi che legge è una griglia orale: quello che vien fuori dal caso di Menocchio è che, nel caso di questa cultura, 1 a cultura orale conta più della cultura s c r i t -t a anche se è la cultura scritta che contribuisce ad esplicitare, diciamo, i connotati di questa cultura orale [?] ...vorrei occuparmi di quell’elemento un po’ strano, scandaloso (intellettualmente scandaloso, voglio dire) che mi pare sia emerso dal caso Menocchio, che cioè certi elementi della sua cosmogonia non avevano un corrispettivo nella cultura scritta, ma piuttosto analogie sorprendenti con mitologie lontanissime, addirittura arcaiche ... ». Ginzburg si dice interessato a « ricostruzioni di lunghissimo periodo (non fenomeni atemporali: fenomeni di lunghissimo periodo) trasmissioni di fenomeni di lunghissimo periodo in aree estremamente ampie »,19 e l’evoluzione dei suoi
18 V. V. Ivanov, Significato cit., p. 80.
19 «Ricerche di storia sociale e religiosa», VI, n. 11, N.S., genn.-giu. 1977, pp. 167-168, 175-176; cfr. p. 91. Ginzburg afferma anche di « voler approfondire l’ipotesi di circolarità tra la cultura delle classi egemoniche e delle classi



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interessi (storiografici, ma anche - se è consentito il termine -metafisici) va in questa direzione.
Se in Folklore, magia, religione Ginzburg ammoniva che « non bisogna esagerare la gravità della dicotomia esistente tra religione ufficiale e religione popolare » (p. 608) e per esempio ammetteva una ulteriore subcultura religiosa, la religiosità « mercantesca » dei Datini, dei Rucellai, dei Colombini (pp. 626, 630), ora non sembra più disposto a tali distinzioni all’interno della cultura che non può dirsi popolare; anzi sembra non volersi rassegnare ad ammettere scambi, per timore di ricadere nella vecchia tesi del senso unico di questo tipo di acculturazione (dall’alto sempre verso il basso).
Alla conclusione de II Formaggio e i vermi (pp. 145-146) constata di aver « più volte ... visto affiorare, al di sotto della profondissima differenza di linguaggio sorprendenti analogie tra le tendenze di fondo della cultura contadina che abbiamo cercato di ricostruire, e quelle dei settori più avanzati dell’alta cultura cinquecentesca. Spiegare queste analogie con una mera diffusione dall’alto verso il basso significa aderire senz’altro alla tesi, insostenibile, secondo cui le idee nascono esclusivamente nell’ambito delle classi dominanti ». Questa è una delle rarissime pagine in cui l’autore si lascia scappare l’ipotesi che nell’alta cultura ci siano « settori più avanzati » ed altri retrivi: al contrario, tutta la costruzione del libro dà l’impressione di ipostatizzare Valta cultura come un blocco unico di repressione e di tradizione, senza prevedere in alcun modo che al suo interno possano esservi settori, partiti, con-
subalterne », e altrove (p. 126) insiste su questo motivo, che francamente non mi pare definire in modo realistico l’assunto del suo libro: « Tra cultura delle classi subalterne e cultura delle classi egemoni si sono instaurati nelle varie fasi storiche rapporti complessi, non unidirezionali ma circolari, come ha dimostrato benissimo Le Goff (e come ho cercato di dimostrare, per parte mia, nel Formaggio e i vermi) ». Nel convegno anche Jacques Revel prende per buona tale circolarità, e d’altronde la novità della sintesi cosmogonica di Menochio: « c’est quelqu’un qui, à partir de contenus culturels ‘ savants ’ (ou du moins trasmis par l’écrit), organise un remploi culturel qui n’a rien à voir avec le fonctionnement primitif des pièces et des morceaux qu’il a rassemblé dans sa cosmogonie» (p. 75). [Cfr. Postscriptum dicembre 1978 infra, pp. 87-90].



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flitti, o che d’altronde chi giunge a far dell’alta cultura anche nelle sue sedi istituzionalizzate non sempre vi era destinato per nascita, né vi è giunto necessariamente con il conformismo o col tradimento dei suoi interessi di classe o del suo retaggio di cultura popolare. Il caso di Giordano Bruno, su cui si chiude il libro grazie solo alla coincidenza della data del suo supplizio con quella di Menocchio, avrebbe dovuto far riflettere l’autore: dove collocare il Nolano? È un esponente della cultura popolare a scrivere De la causa principio ed uno e i poemi latini? E, se il perenne esiliato « accademico di nessuna accademia » può essere assimilato nella cultura delle classi dominanti: quale cultura? quella della controriforma italiana? quella « politique » di Enrico III? quella elisabettiana?).
In realtà fin dalla prefazione che fornisce uno status quae-stionis critico sugli studi circa la « cultura popolare », dopo aver criticato le opposte tesi di Mandrou, Bollème e Foucault, Ginzburg indica come « ben più fruttuosa l’ipotesi formulata da Bachtin di un influsso reciproco tra cultura delle classi subalterne e cultura dominante. Ma precisare i modi e i tempi di quest’influsso ... significa affrontare il problema posto da una documentazione che, nel caso della cultura popolare, è, come abbiamo detto, quasi sempre indiretta. Fino a che punto gli eventuali elementi di cultura egemonica riscontrabili nella cultura popolare sono frutto di una più o meno spontanea convergenza - e non invece di un’inconsapevole deformazione della fonte, ovviamente incline a ricondurre l’ignoto al noto e al familiare? » (p. xviii ). Come Ginzburg risolverà quest Interessante problematica, è chiaro al lettore fin da questa pagina che richiama i benandanti nei quali « attraverso le discrepanze tra le domande dei giudici e le risposte degli accusati... affiorava uno strato profondo di credenze popolari sostanzialmente autonome » (ibid.). Più complesso, ma non diverso appare già dall’anticipazione che ne dà qui l’autore, il caso attuale: « l’irriducibilità a schemi noti di una parte dei discorsi di Menocchio fa intravedere uno strato ancora non scandagliato di credenze 'popolari, di oscure mitologie contadine », che sarà



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identificato appunto nella cosmogonia che dal caos produce per fermentazione « i vermi » spirituali e animali. Vedremo come questo sia il punto archimedeo sia della singolare concezione del . mondo di Menocchio, sia del procedimento metodologico di Ginzburg. Già dai cenni preliminari questi appare orientato nettamente verso una tesi non diversa da quella dei Benandanti: « questi oscuri elementi popolari sono innestati in un complesso di idee estremamente chiaro e conseguente, che vanno dal radicalismo religioso a un naturalismo tendenzialmente scientifico [sic!, cfr. p. 68], ad aspirazioni utopistiche di rinnovamento sociale. L’impressionante convergenza tra le posizioni di un ignoto mugnaio friulano e quelle dei gruppi intellettuali più raffinati e consapevoli del suo tempo ripropone con forza il problema della circolazione culturale formulato da Bachtin ».
Una delle riuscite del Formaggio sta nella capacità di caratterizzare non solo stilisticamente la lingua di Menocchio (p. 66: il parlato « denso, grondante di metafore quotidiane », diverso dallo « scritto » di un suo memoriale, cfr. p. 105), ma anche di ricostruire la chiave di lettura « unilaterale e arbitraria » (pp. 44 sgg., 60-61, 66, 72) con cui egli avvicinava i testi molto «eterogenei» (p. 24) comperati o avuti a prestito. In tale « griglia », ricostruita in modo convincente, Ginzburg vede però un fenomeno unico, caratteristico se non di Menocchio, almeno della sua classe. « Dalla cultura del proprio tempo e della propria classe non si esce... Come la lingua, la cultura offre all’individuo un orizzonte di possibilità latenti, una gabbia flessibile e invisibile entro cui esercitare la propria libertà condizionata. Con rara chiarezza e lucidità Menocchio articolò il linguaggio che era storicamente a sua disposizione » (p. xx). Quanto all’impossibilità di uscire « dalla cultura del proprio tempo », ognuno ne resterà facilmente persuaso, ma è accettabile la stessa norma concentrazionarìa entro la cultura « della propria classe »? Non ho simpatia per l’interclassismo (né quello degli storici della « mentalità collettiva », né l’altro), ma non riesco a vedere il campo della cultura come l’ordinamento corporativo dell’impero romano della decadenza! Sono



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anzi convinta che non solo Menocchio, ma qualunque intellettuale « articola il linguaggio che è storicamente a sua disposizione » attraverso una sua chiave che non è modellata solo sul testo cui egli reagisce. D’altronde per riconoscere in Menocchio « una serie di elementi convergenti che in una documentazione analoga, contemporanea o di poco posteriore, appaiono dispersi o appena accennati » pare necessaria una ricerca che permetta (1) di escludere che tali elementi e la loro sintesi compaiano nella cultura delle classi dominanti, anzi (2) di trovare almeno qualche traccia di essi nei documenti popolari delle età precedenti. Solo questi sarebbero « sondaggi » capaci di confermare « resistenza di tratti riconducibili a una cultura contadina comune » (p. xx); ma nel libro di Ginzburg non vi è nulla circa le età precedenti, mentre - come cercherò di dimostrare - il rapporto con Yalta cultura contemporanea non è esaurito, ma ne vien tratta una conclusione in qualche modo esorbitante.
Per Ginzburg « lo scarto tra i testi letti da Menocchio e il modo in cui egli li assimilò e li riferì agli inquisitori, indica che le sua posizioni non sono affatto riconducibili a questo o a quel libro » (p. xxn): ma ciò potrebbe venir osservato per chiunque non sia un ripetitore passivo o un epigono insignificante rispetto a qualunque tipo di testo. È probabile che le posizioni del mugnaio « risalgano a una tradizione orale » e in qualche modo segreta, ma io trovo poco verosimile e comunque non dimostrato che questa sia « antichissima ». D’altronde il confronto con la cultura dei dotti contemporanei non può limitarsi a una direzione (la più cara allo studioso del Nicodemismo e del Beneficio di Cristo):20 io sarei meno drastica di Spini nel-
20 Pur intimamente legati alla problematica degli studi qui discussi, questi lavori del Ginzburg (I costituti di don Pietro Manelfi, Firenze-Chicago 1970; Il Nicodemismo. Simulazione e dissimulazione religiosa nell'Europa del '500, Torino 1970; Giochi di pazienza. Un seminario sul « Beneficio di Cristo », in collab. con A. Prosperi, Torino 1975) risentono meno del Leit-motiv populistico. Eppure questo ricompare almeno nel Nicodemismo - che anche a me pare come a Werner Kaegi (« Schweizerische Zt. f. Geschichte », XX, 1970, p. 697) « un piccolo capolavoro, che introduce un accento nuovo nel quadro del Sedicesimo secolo» - perché il suo periodizzamento assai diverso da quello tradizionale si 5



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rescindere che le idee di Menocchio « richiamino una serie di motivi elaborati dai gruppi ereticali di formazione umanistica »: tolleranza, tendenziale riduzione della religione a moralità e così via (p. xxii ), ma come lui ritengo indispensabile indagare anche in rapporto con una cultura ancor più istituzionalizzata, ma non per questo tutta quanta retriva. Spini ha sottolineato molte analogie fra le idee di Menocchio e quelle che risultano dal Sommario del processo di G. Bruno, arrestato a Venezia nel 1592: troppo tardi per ricondurre - sia pur mediatamente e congetturalmente - a lui alcune idee del friulano. Questi infatti le esprimeva già nel suo primo processo del 1585 e doveva aver cominciato a nutrirle dopo il 1564 (quando bandito dalla natia Montereale, in Carnia era venuto in contatto con alcuni eretizzanti) e prima del 1583 (quando a Montereale il pittore Niccolò de Melchiori da Porcia gli forniva libri e probabilmente idee sospette). Peccato che la cronologia non permetta di accostare Menocchio e Bruno, che da tutti i punti di vista erano fatti per intendersi! Fra i motivi di convergenza sottolineati da Spini alcuni puramente blasfemi che si accentuerebbero nel secondo processo (come quello di Cristo « piccato come una bestia » (p. 8) invece che crocifisso e di sua madre « puttana ») dovevano avere una circolazione vasta e forse — variando fra sinonimi ed eufemismi — interclassista. Altri motivi di maggior rilevanza teorica e religiosa vanno cercati a monte, fra gli aristo-
arresta alla sconfitta dei contadini nel 1525 ed alla crisi seguitane fra gli intellettuali vicini alla Riforma: visto che l’originalità di Ginzburg sta nell’aver arretrato di qualche lustro l’inizio del fenomeno della dissimulazione religiosa, l’essersi arrestato al 1525 sembra una scelta dettata da una certa disposizione populistica. Infatti alcuni dei maggiori intellettuali da lui studiati, come W. Kòpfel, avevano assunto e teorizzato tale atteggiamento vari anni prima. Così risulta dalla lettera di questi a Lutero del 16.3.1521 (Hutteni Operum supple-mentum, ed. E. Bòcking, Lipsia 1859-1861, II, 2, pp. 804-805; cfr. P. Kalkoff, Wolfgang Capito im Dienste Erzbiscbof Albrecht von Mainz (1519-1523), Berlin 1907, p. 2 sgg.). Su analoghi atteggiamenti sorti nel gruppo erasmiano-hutteniano che combatte gli « uomini oscuri » negli anni precedenti alla guerra dei contadini v. anche le osservazioni - molto ampie - di A. Biondi, La giustificazione della simulazione nel '500, in Eresia e Riforma nell'Italia del '500, Fi-renze-Chicago 1974, pp. 23-34, e di chi scrive, Magic and Radicai Reformation in Agrippa, « Journal of thè Warburg and Courtauld Institutes », XXXIX, 1976, p. 87 n. 43.



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telici eterodossi di Padova, come accenna Spini e come in due pagine sembra sospettare, ma poi lascia cadere Ginzburg. Tale sospetto gli avrebbe rivelato una traccia feconda, se non si fosse accontentato dell’immagine che in funzione di Rabelais ne presenta Lucien Febvre, in un libro che anch’io trovo affascinante e fecondo, ma che non userei mai per definire le posizioni padovane, sia perché è tecnicamente poco agguerrito nelle sottili distinzioni scolastiche, sia perché non tiene conto dei fondamentali studi di Bruno Nardi (l’unico studioso importante che Ginzburg sembra non aver letto; mentre considera « decisive » le considerazioni di Febvre sugli spiritus, p. 85 e p. 176 n. 85).
Spini ha contestato per la sua eccessiva audacia e raffinatezza l’ipotesi della lettura di una traduzione italiana perduta del De trinitate erroribus di Serveto (una congettura duplice, visto che la traduzione e il traduttore sono incerti, la lettura di Menocchio puramente congetturale) ed ha criticato anche il nesso suggerito da Ginzburg fra l’averroismo padovano e la dottrina ereticale del « sonno delle anime » (pp. 142-145). Per quest’ultimo tema, assai complesso, non mi sembra che la tesi — di G. Williams prima che di Ginzburg — che lo riconduce all’intelletto unico e alla beatitudine averroistica sia da rifiutarsi con tanto scandalo: anch’io penso però (come m’è accaduto di osservare altrove) che essa possa aver avuto origine negli stessi ambienti universitari di Padova e di Bologna, ma piuttosto fra pensatori di ispirazione platonica (anche se certo non digiuni delle vulgate teorie averroistiche). Nel caso di Serveto al contrario non è la raffinatezza della congettura che mi disturba, ma la sua inutilità. Non c’è bisogno di ricorrere ad alcuni cenni occasionali di Serveto — che hanno il loro significato solo nel contesto di una visione filosofica e religiosa di cui Ginzburg stesso non trova nessun’altra traccia in Menocchio (p. 23) -per spiegare due affermazioni di questi su Cristo profeta e sullo Spirito Santo. Tornerò sulla prima, che in Menocchio non è formulata nei termini di « umanità deificata » propri di Serveto, ma s’awicina piuttosto alla ormai vulgata formula averroistica (Cristo « fattore di Dio » e suo strumento in quanto pro-



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feta, cioè divulgatore di un insegnamento morale e con ciò mediatore dell’ordine sociale: in questo Menocchio non mi pare ispirato neppure alla « religiosità pratica imperniata sulle opere » e all’« esaltazione della tolleranza » caratteristiche di un anabattismo di discendenza umanistica). Ma quanto allo Spirito Santo che il friulano vede diffuso fra tutte le creature, un flatus inafferrabile e indefinibile (« Non si trova questo Spirito Santo »), ma ispiratore della vita e dell’animazione universale, che è appunto Dio, in quanto anche « Iddio non è altro che un può de fiato ... L’aere è Dio ... Nui semo Dei » (p. 79), non occorre pensare a Serveto. Non solo a questi « la differenza tra ‘ spiritus ’, ‘ flatus ’, ‘ ventus ’ ... apparve allora meramente convenzionale »: alla nozione stoica dello pneuma si erano ispirate molte visioni del mondo, che finivano analogamente col confondere lo spirito o anima del mondo con la terza figura della trinità. Già Abelardo e Guillaume de Conches erano stati condannati per questo: prima e dopo, appena un po’ più prudenti, molti neoplatonici avevano vagheggiato lo spiritus. Fra questi Marsilio Ficino fin dal commento al Simposio redatto anche in italiano (Sopra lo amore). Da questo autore - che certo non accenna alla Trinità se non con toni apologetici — o forse dai suoi seguaci che non mancavano neanche in terra veneta (dai Dialogi di Leonico Tomeo o dall’opera dì Francesco Zorzi) Menocchio avrebbe potuto più facilmente attingere questo motivo. Anche Ginzburg riconosce che « certo, il salto dalle parole del medico spagnolo a quelle del mugnaio friulano è enorme » (p. 79), perché questi accenna allo spiritus entro una dottrina cosmologica più che teologica.
In primo luogo lo spiritus è veicolo dell’anima, media il contatto dell’anima intellettiva con il corpo: per Ficino21
21 Ficino, Sopra lo amore, Lanciano 1934, p. 92 (Orazione VI, cap. 6); cfr. Commentaire sur le Banquet de Platon, éd. R. Marcel, Paris 1956, p. 207. A proposito di un capitolo della Oratio I (2° o 3° cap. a seconda della redazione: Sopra lo amore cit., p. 18 = Commentaire cit., pp. 138-140) che riconduce al caos l’origine del tutto, può venir richiamata la circolazione rinascimentale (Bes-sarione prima di Ficino) delle Glosae super Platonem di Guillaume de Conches (v. ora ed. E. Jeauneau, Paris 1965, pp. 119-122; cfr. Philosophia, PL, XC,



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« l’anima e il corpo sono di natura molto diversa e congiungonsi insieme per mezzo dello spirito, il quale è un certo vapore tenuissimo e lucidissimo generato per il caldo del cuore dalla più sottil parte del sangue. E di qui essendo sparso per tutti i membri piglia la virtù dell’Anima e quella comunica al corpo ». In un altro testo famoso di Ficino, il De vita, lo spiritus pone in rapporto individuo e cosmo:22 « Quod inter animam mundi et corpus eius manifestum sit spiritus eius, in cuius virtute sunt quatuor elementa. Et quod nos per spiritum nostrum hunc possimus haurire ... »: « omnino vi-vit mundum atque spi r a t, spiritum eius nobis haurire li-cet ».23 A questi testi ficiniani è stato ricondotto lo stesso Serveto, e indubbiamente la conoscenza - mediata o diretta - di quelli era infinitamente più agevole dato che essi erano vulgatissimi, anzi fonte del genere letterario volgare dei dialoghi d’amore, che contengono spesso - soprattutto in Leone Ebreo -
1157-1158 = PL, CLXXII, 55-56; Dragmaticon, ed. G. Gratarol, Frankfurt 1967, pp. 75-76) segnalata da R. Klibansky, The Continuity of Platonic Tradition, London 1936, pp. 35 sgg., 43 n. 5.
22 De vita, 1. Ili, cap. 3, in Opera omnia, Basilea 1576, I, pp. 534-535. Di questo terzo libro « magico » (De vita caelitus comparanda) non è stata stampata, né finora rintracciata in manoscritto la traduzione italiana di Lucio Fauno promessa nel frontespizio della versione dei 11. I-II: De le tre vite, Venezia 1548. Si tratta comunque di una delle opere più diffuse di Ficino, come risulta dai dati raccolti da A. Tarabochia Canavero, Il « De triplici vita » di M. Ficino. Una strana vicenda ermeneutica, « Rivista di filosofia neo-scolastica », LXIX, 1971, pp. 698-706. D’altronde in un’operetta giovanile in volgare (del gennaio 1457 secondo Kristeller, Supplementum, Firenze 1937, I, p. CLIX § XLIII; cfr. Id., Studies in Renaissance Thought and Letters, Roma 19692, p. 49 e passim) De Dio e anima Ficino elenca una dossografia su questi temi e sull’origine della vita, dalla quale risulta non solo un « purely eclectic character », ma anche quella ispirazione naturalistica poi quasi del tutto abbandonata nelle sue opere più mature: « Almeone vuole che dalla substanza del Sole per vigore de razzi ne terreni chorpi si producha natura et forma al Sol consimile, la qual sia anima chessi mova continuamente in quel modo e ordine che Sol discorre »; dopo aver ricordato la forza spermatica come origine della vita secondo Ippo-crate ed anche Senofane, questo Ficino recentemente inurbato conclude citando Prometeo per cui principio e materia del « corpo [è] di terra putrefacta et l’anima di focho celeste » ed espone ampiamente le teorie di Leucippo e Democrito sugli atomi (Ms. Laur. XXVII, 9, ff. 89v-90r e 91v-92r).
23 De vita cit., Ili, cap. 4, p. 535. Su Serveto e Ficino, cfr. Cantinori, Eretici italiani, Firenze 19672, pp. 46-47, e C. Manzoni, Umanesimo e eresia: Michele Serveto, Napoli 1974, pp. 128-131 e cap. IV.



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spunti cosmologici; Menocchio d’altronde sembra voler confermare quest’ipotesi aggiungendo altre parole che fanno pensare nuovamente al De vita: « credo che [gli uomini] siano fatti di terra, ma però del più bel metal che si trovasse ... Siam composti delli quattro elementi, [che] participano delli sette pianeti: per questo uno participa più de un pianeto de un altro, et che uno [è] più mercuriale et [uno] più gioviale, secondo che nasse in quel pianeta » (p. 81). È ovviamente un topos, come è anche l’immagine del microcosmo che Menocchio stesso riferisce come tale: « Si dice che l’huomo è formato a imagine et similitudine de Dio, et nel huomo è aere, foco, terra et acqua; et da questo seguita che aere, terra, foco et acqua sia Dio »; ma per queste parole di Menocchio si trova una corrispondenza e spiegazione più adeguata in Ficino che nel Fioretto della Bibbia, nel quale non risulta la corrispondenza con i sette pianeti e la prevalenza di uno di essi a caratterizzare l’individuo.
Un’altra dichiarazione di Menocchio all’inquisitore è più chiara della prima citata sullo spirito, che era riferita da un testimone: « credo che altro sia l’anima et altro sia il spirito. Il spirito vegna da Iddio, e sia quello che quando havemo da far qualche nostra faccenda n’inspira a far la tal o la tal cosa o non farla ». Lo spirito dunque in termini scolastici corrisponderebbe ^ intellectus e alla voluntas. L’inquisito soggiunge e precisa, infatti, che « nell’homo vi è intelletto, memoria, vo-luntà, pensiero, creder, fede e speranza; le quali sette cose Iddio l’ha date all’homo et son come anime per le quali bisogna far le opere et questo è quello che io diceva: morto il corpo, morta l’anima », mentre lo « spirito è separato dal homo, ha l’istesso voler del homo et regge et governa questo homo ». Se l’elenco delle sette « anime » combina le tre facoltà distinte da Agostino (intelletto, memoria, volontà) con due virtù cardinali (fede e speranza), Menocchio, che qui riecheggia confusamente la tradizione teologica più banale, pensa evidentemente soprattutto al principio dell’azione morale, ma anziché vedervi il fondamento dei meriti morali e della retribuzione nell’aldilà (che altrove egli nega), vi vede una ragione in più per sostenere la



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mortalità dell’anima individuale. Infatti la dichiarazione successiva sullo spirito solo apparentemente contraddice questa convinzione più volte (p. 83) ribadita da Menocchio: lo spirito « separato » (come in Aristotele), che regge e governa l’uomo « dopo la morte ritorna a Dio », ma solo perché in realtà è Dio stesso diffuso nell’universo, principio dell’universo (e solo illusoriamente intelletto individuante e acquisito dall’individuo). Certo in questa psicologia di Menocchio sembra risuonare un’eco sbiadita, ma chiaramente riconoscibile delle distinzioni degli scolastici ed insieme di alcuni motivi platonici: c’è una schematicità e rozzezza comprensibile in un autodidatta, che avrà appreso questi motivi topici da qualche frate o medico reduce dall’università di Padova e non direttamente dai maestri aristotelici o dai loro scritti latini e troppo tecnici. Che egli confonda e oscilli nella terminologia non meraviglia, dato che ciò accade anche a chi aveva avuto una regolare formazione universitaria: nel Cinquecento gli scambi fra il sistema aristotelico e quello lato sensu platonico erano ormai continui e profondi. Accade spesso di trovare anche nei testi culti delle contaminazioni non meno incoerenti in sede teorica.
Con questo richiamo a Ficino e alla scuola di Padova non vorrei ripetere quell’errore degli inquisitori, che secondo Ginz-burg mostrerebbe « il profondissimo fossato, evidente in tutto il processo, che separava la cultura di Menocchio da quella degli inquisitori » (p. 109). Questi infatti avevano sentenziato che l’inquisito ripeteva una serie di eresie antiche: la cosidetta apo-catastasi di Origene (« quod omnes forent salvandi, ludei, Turci, pagani, christiani et infedeles omnes, cum istis omnibus aequa-liter detur Spiritus sanctus »), il manicheismo (per aver asserito che di contro a Dio, « il diavolo è autore del male et non fa bene ») e soprattutto le dottrine dei naturalisti greci sul caos originario (« opinionem illam antiqui philosophi, asserentis eternitatem caos a quo omnia prodiere quae huius sunt mundi » p. 108). Ma non sono queste le colpe degli inquisitori: figli della scolastica, ovviamente non prestano attenzione alle « griglie » che filtrano queste antiche nozioni per Menocchio (il



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quale certo non avrà saputo i nomi di Mani o di Origene: l’antico filosofo naturalista però restava anonimo anche per loro). Quel che gli contestano non è però una diretta lettura dei testi origeniani, manichei o aristotelici (soltanto tramite questi poteva venir ricostruita la teoria antica sul caos); non sta qui, neppur per noi, la questione. Menocchio non aveva raccolto certo di prima mano questo tipo di dottrine, ma mi par legittimo che gli inquisitori, lettori di Tommaso e d’Aristotele, le identificassero con le nozioni loro disponibili: Menocchio per altro aveva davvero raccolto — con tutte le mediazioni che si vuole - un’eco fedele della dottrina democritea, e la caratterizzava proprio con l’espressione tipica di Aristotele e dei suoi commentatori: « questo mondo è fatto a caso » (pp. 172, n. 67).
Qui giungiamo ormai al nucleo fondamentale della concezione di questo eretico: se « tutto quello che si vede è Iddio, et nui semo dei », se « cielo, terra, mare, aere, abisso et inferno, tutto è Iddio » (p. 7), se come in Eraclito « è per tutto il fuocho, come è Dio, ma quelli altri tre ellementi sono le tre persone: il Padre è l’aria, il Figliuolo la terra et lo Spirito santo è l’aqua » (p. 122; ma cfr. 14, 76, 83, 119), se Dio è l’universo, appare coerente che la natura possa essersi organizzata « a caso ».
« Quanto al mio pensier et credere — dice Menocchio (p. 8) — tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece ima massa, appunto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi et quelli fumo li angeli; et la santissima maestà volse che quel fosse Dio et li angeli; et tra quel numero de angeli ve era ancho Dio creato anchora lui da quella massa in quel medesmo tempo, et fu fatto signor con quattro capitani, Luci-vello, Michael, Gabriel et Rafael ». Dopo la cacciata del superbo Lucivello « con tutto il suo ordine », « questo Dio fece poi Adamo et Èva et il ipopulo in gran multitudine per impir quelle sedie delli angeli scacciati » (p. 8). Sotto interrogatorio Menocchio confessa di aver letto nel Fioretto della Bibbia qualcosa su questo tema, anche se « l’altre cose ch’io ho detto circa questo chaos le [ho] formate da mio cervello » (p. 61). Nel



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Fioretto infatti la cosmogonia dal caos non è sviluppata così specificamente, e soprattutto la divinità non è generata dal caos al pari della natura, ma « Dio circa il principio fece una grossa materia, la quale non haveva forma, né materia [questa è la definizione aristotelica di caos], et fecene tanta che ne poteva trarre e fare ciò che voleva et divisela et partilla sì che ne trasse l’homo formato di quatto elementi ». Se nel Fioretto sono parafrasati alcuni capitoli deWElucidarium di Honorius Augustodunensis, un altro libro caro a Menocchio, il Supple-mentum supplimenti delle croniche di Jacopo Filippo Foresti si ispira a Ovidio e questa volta chiama il caos con il suo nome. Nella biblioteca selecta, ma significativa di Menocchio sono dunque presenti per interposta lettura Ovidio e Onorio, due momenti essenziali dell’evoluzione storica dell’idea del caos cosmogonico. Anche senza congetturare che Menocchio avesse, su questo tema che l’appassionava, altre letture (ma aveva letto certamente altri libri e nel 1599 gli vengono sequestrate anche « scritture » sue o d’altri) è facile che chi gli indicò questi libretti potesse forse recitargli e tradurgli i versi ovidiani, e — per gli sviluppi del suo mito che secondo Ginzburg non troverebbero rispondenza se non nel Veda (p. 68) — non mi pare che « sia impossibile non pensare a una trasmissione diretta - una trasmissione orale, di generazione in generazione », a « un’eco, magari inconsapevole di quell’antica cosmogonia indiana » (p. 69). In questi sviluppi della cosmogonia (dovuta a una fermentazione spontanea, da cui sorgono vermi), secondo Ginzburg « vediamo dunque affiorare, come da una crepa del terreno uno strato culturale profondo talmente inconsueto da risultare quasi incomprensibile » (p. 69). La « coincidenza stupefacente » fra Menocchio e i pastori dell’Altai (gli unici prima di lui — o di Pomponazzi - che ricorrono alla fermentazione del cacio, pur combinandolo con l’altra metafora della spuma del mare) non può esser casuale, né venir spiegata con l’inconscio collettivo junghiano. Ma Ginzburg che trova questo « inaccettabile », introduce una spiegazione non meno aprioristica, un altro deus ex machina. « Non si può escludere che essa [coincidenza] costi-



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tuisca una delle prove, frammentarie e semicancellate, dell’esistenza di una tradizione cosmologica millenaria che, al di là della differenza dei linguaggi, congiunse il mito alla scienza » (p. 68). Proprio questa mancanza di precedenti se non remotissimi alla metafora della fermentazione casearia, questo vuoto serve a Ginzburg come punto archimedeo per poi fondare l’ipotesi che - indipendentemente dalle riconosciute affinità con temi e tesi dell’alta cultura coeva — Menocchio sia la spia che rivela le tendenze autentiche, che in altri popolani eretici, come Pi-ghino o Scolio, potrebbero apparire mediate da materiali culti. « Di qui il valore sintomatico di un caso limite come quello di Menocchio. Esso ripropone con forza un problema di cui solo ora si comincia a intravedere la portata: quello delle radici popolari di gran parte dell’alta cultura europea, medievale e postmedievale. Figure come Rabelais e Breughel non furono probabilmente splendide eccezioni. Tuttavia esse chiusero un’età caratterizzata dalla presenza di fecondi scambi sotterranei, in entrambe le direzioni, tra alta cultura e cultura popolare » (p. 146).
Visto che tale è l’importanza, tante le conseguenze che ne discendono per la storia e la periodizzazione della cultura europea, merita analizzare da vicino questo motivo. In primo luogo mi par necessario distinguere Vimmagine del formaggio che fermentando produce vermi, dall’z& della fermentazione e della conseguente generazione spontanea. Anche per Spini « senza dubbio il paragone del formaggio e dei vermi ha il sentore del folklore rurale »,24 ma poiché qui non è proposta una ricerca
24 Noterelle libertine cit., p. 93. La fermentazione del formaggio è d’altronde citata da Pomponazzi nel contesto della sua prima lezione sulla generazione spontanea, tenuta a Padova tra il 1503 e il 1509 e conservata nel ms. della bibl. Nazionale di Napoli, VIII.D.80, f. 71v: « Natura caseus potest coagulati ex coagulo eius et etiam aliis floribus et pinguedine muris; tamen ista agentia sunt diversa secundum speciem, licet producunt eundem effectum ut in pluri-bus ». Se il contesto generale è quello della generazione spontanea e della cosmogonia, l’esempio caseario è però invocato solo per confutare la tesi che da cause agenti diverse non possano provenire effetti identici; ma non è inverosimile che applicando la consueta griglia di lettura Menocchio o il suo informatore abbian esteso il valore dell’esempio, che d’altronde rientra nella problematica in que-



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stilistica sull’origine d’una metafora, la distinzione di questi due livelli sembra imporsi. Certo tutti sappiamo che tante volte una metafora felice è il veicolo e la garanzia di diffusione d’una teoria complessa, ma sappiamo anche che nei rami della tradizione di un’idea secolare spesso si notano biforcazioni. Per la fermentazione che produce animali viventi, oltre al formaggio vanno citati almeno - virgilianamente - i cadaveri putrefatti delle vacche che generano api.25 Ginzburg (p. 171, n. 67) promettendo « prossimamente » una ricerca sulla fortuna della cosmogonia che apre la Biblioteca storica di Diodoro Siculo, sembra invece escludere un suo rapporto con il caso Menocchio dato che non vi « si parla di formaggio, anche se si accenna alla generazione degli esseri viventi dalla putredine ». È un peccato che l’autore abbia rinviato questa ricerca su Diodoro, perché nel Rinascimento - nello stesso Giordano Bruno - il suo testo ebbe risonanze certo non solo ripetitive, ma anzi a loro volta originali e feconde.
Proprio per l’intrecciarsi di motivi scientifici, filosofici e religiosi, il tema della generazione spontanea si presta all’analisi come un caso esemplare. (1) Dal punto di vista delle scienze biologiche la generazione « sponte seu casu » delle specie inferiori dalla materia in putrefazione è un topos che si perpetua incontrastato al di là della conclusione del periodo qui studiato: esso è accettato senza discussione da scienziati eminenti come Mattioli, Rondelet, Fabrici d’Acquapendente e ancora da Harvey e Gassendi. (2) Dal punto di vista filosofico l’estensione di tale concetto — un conglomerato risultante da spunti di Ippocrate, di Aristotele e dei naturalisti precedenti con la nozione stoica e neoplatonica di spirito vitale - sarà diversamente modificata dai più diversi pensatori. Alcuni infatti estrapoleranno dalle specie animali inferiori, per supporre che all’origine del mondo (o della sua « renovatio » dopo i cataclismi dovuti ai cicli del
stione (può l’uomo generarsi da due diverse cause agenti, ossia dalla terra in fermentazione e dalla specie umana?).
25 Cfr. M. Detienne, Le mythe: Orphée au miei, in J. Le Goff - P. Nora edd., Faire de l’histoire, Paris 1974, III, p. 56 sgg.



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grande anno), la terra in putrefazione e fermentazione formi bolle, cavità o escrescenze rigurgitanti varie forme di vita: in queste - come in una vera e propria cavità uterina - si formeranno anche gli animali superiori e l’uomo stesso. (3) Dal punto di vista religioso, questa nozione viene posta — più o meno esplicitamente - come alternativa a quella di creazione. Se — come disse Lucrezio e ripeterà Giordano Bruno — l’origine della vita sulla terra avviene in base a processi dovuti al caso o al fato, essi non implicano un intervento intelligente, volontario e onnipotente di Dio (anzi possono ripetersi e rinnovarsi ciclicamente dopo ì cataclismi di fuoco o di acqua, di aria o di terra causati dalle congiunzioni massime dei pianeti).
A dire il vero, questo motivo circola nei commenti aristotelici fin dal XIII secolo, anzi fin da Avicenna che nella sua parafrasi dei Meterologici (I, t. c. 14) aveva sviluppato un codi-cillum de diluviis che circolò automamente e fu considerato poi un commento super Pimaeum Platonis. Non solo qui Avicenna aveva ripreso quest’antica cosmogonia: anche nel De animalibus trodotto da Michele Scoto (XV, 1) vi era tornato sopra, suscitando vivaci critiche di Averroè (Metaph., II, c. 15; Phys., Vili, c. 46) che varranno a perpetuare la questione nei commenti dei latini. Infatti Pomponazzi affronta il problema in quattro corsi diversi e come ha notato Bruno Nardi, può fare riferimento a Tommaso, a Duns Scoto, al Burleus, ma soprattutto a due autori chiaramente schierati con Avicenna contro le obiezioni di Averroè, proprio perché improntati ad una forte mentalità astrologioa: Alberto Magno nel De causis prò prieta-tuum elementorum et planetarum e Pietro d’Abano nel Conci-liator (diff. 29) e in molti capitoli del commento ai Problemata pseudoaristotelici (soprattutto X, 13 e 66). La circolazione del mito risaliva all’antichità, investiva filosofi, medici, storici e poeti, ed era tanto vasta che anche Ficino e altri platonici vi facevano cenno. Infatti - come il ruolo fondamentale assunto da Avicenna ed il titolo stesso che la tradizione impose al suo De diluviis fanno supporre - si tratta d’un tema che non può esser considerato né esclusivamente aristotelico, né puramente



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platonico ... sebbene certo i testi platonici ed ermetici vi abbiano dato un grande contributo.
Oltre al Timeo (30 a, 38 e) il Politico (269 a segg., 270 a-b) offrì spunti molto suggestivi con il suo mito dell’età saturnia e dell’eterno ritorno. Questo si riallaccia al grande anno astrologico, che determina una « retrogradazione » tale da invertire assolutamente il senso di rotazione di tutti i corpi celesti per un intero ciclo: anche nelle cose inferiori si determina di conseguenza un’assoluta inversione. Invertitosi il moto degli astri, cambia senso anche la macchina del tempo biologico: chi è canuto riacquista una bella chioma giovanile, da giovani si torna ad essere imberbi, poi fanciulli, poi bimbi. Ma questo processo ha delle vittime soprattutto al momento del terribile impatto che avviene quando gli astri innestano la marcia indietro. « Ca-davera praeterea illorum qui caelestis mutatione vertiginis subito corruerunt, idem patiuntur et simili ratione clam et brevi putrescunt ». Potrebbe così estinguersi la vita o almeno la memoria degli eventi precedenti: ma Platone non esclude che vi siano rari superstiti, e soprattutto ammette un procedimento compensatore. Lo testimoniano « primi illi progenitores nostri », la prima generazione dopo tale catastrofe. Se i vecchi tornarono bambini e morirono, è consentaneo « quod ex mor-tuis sed terra conditis illi iterum tum restituti reviviscentesque quidem sequuntur rationem illam caeli sive saeculi, generatione in contrarium revoluta, ac t e r r i g e n a s hac ratione necessario editos ». La traduzione di Ficino, che qui ho usato, circolò com’è noto dappertutto, e con essa un « argumentum » che però è sbrigativo su questo tema, rinviando d’altronde allo svolgimento datogli nella Theologia platonica come anche nel De vita.™ In un’altra delle sue traduzioni, quel Pimander, che prestissimo il suo amico Tommaso Benci volgarizzò per suo suggerimento e che l’accademico fiorentino Carlo Lenzoni stampò a Firenze nel 1549, si trova un’analogo mito che dal caos originario non trae solamente la vita animale ed umana, ma
26 Platonis, Opera a Ficino trasl., Venezia 1571, p. 120.



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anche quella natura angelica che ha tanta importanza nella concezione ermetica della natura, e che torna nel mugnaio Menocchio.
Il primo sermone raffigura in questo modo l’origine dei Sette governatori, gli angeli-demiurghi dai quali ha origine ogni forma e organizzazione della vita. « La generazione di questi... fu fatta in questo modo. Imperò che egli era la [terra] femmina e l’acqua possenti a congiungersi, prese la maturità dal fuoco e dal Cielo lo spirito, e la natura raccozzò i corpi ad informare la spezie dell’huomo. Ma l’huomo da la vita e da la luce procedette in anima e in mente: certo da la vita ricevette l’anima, e da la mente la luce. Così certamente stavano tutti i membri del mondo sensibile, inaino al fine del circuito de’ principi e delle generazioni ».27
In questo testo ermetico volgare (cito dal Benci invece che dal più chiaro Ficino, per usare un documento più « popolare »), oltre alla persistenza del tema ciclico, c’è una tesi che apparirà gravissima e che pochi oseranno ripetere: dal caos ha origine non solo la vita biologica, animale, puramente sensitiva o per così dire materiale, ma proprio quella « spirituale ». Ne vengono dunque i Sette demiurghi e le anime umane. Questo punto solleva problemi nella tradizione cristiana fin dalla rielaborazione datane da Guillaume de Conches: senza risalire fin lì, basti notare che il fascino di questa cosmogonia era tale che non vi resistevano né Ficino, né il Diacceto, né il Verino II, tutti intenzionati al massimo zelo ortodosso. Ai loro tempi però il tema era passato nelle mani sgarbate degli aristotelici, che vi traevano spunti per la loro miscredenza sulla creazione del mondo, sull’anima e sulla stessa cristologia.
In fine di questo processo vengono i libertini e Cesalpino: sostiene anch’egli « ex principiis Aristotelis omnia animalia, etiam
27 II Pimandro di Mercurio Trismegisto, trad. T. Benci, Firenze 1548; cfr. Corpus hermeticum, éd. Nock-Festugière, Paris 1945, I, p. 12 sgg. Si noti che anche per Menocchio (p. 7) « la terra è madre ». Anche per Diodoro Siculo (Delle antique bistorie, Firenze, Giunta 1526, p. 8) la terra è madre, ricettacolo di vita, matrice fisiologica: come vuole il topos se non l’archetipo...



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hominem oriti posse ex putti materia », ma deve mettere le mani avanti proprio per non esser condotto alla più evidente eresia circa l’origine dell’anima. Anche qui, nelle Peripateticae quaestiones (1. V, q. I), non è dubbio che Cesalpino sta rielaborando - come gli accade altre volte, p. es. nel De daemonibus -le pagine di Pomponazzi. Queste a tutt’oggi inedite avevano avuto una notevole circolazione clandestina, permessa dall’autore e promossa con entusiasmo da discepoli e ammiratori. Poco meno di lui aveva parlato della generazione spontanea il suo concorrente Agostino Nifo: e un discepolo di entrambi, Tiberio Russilliano Sesto Calabrese, un provocatore che divulgò anche a stampa nel 1519 le loro idee più scandalose, aveva ripreso una quaestio pomponazziana per discorrere dell’origine della vita del caos, nel quadro delle catastrofi cicliche del grande anno platonico, le quali « mundi confusione ... ammalia quae-cumque diruunt; verum postmodum terra mollis solis ardore densior facta in pelliculas ventriculis similes rupisse, a quibus secundum mixtionum variationem varia prodiere animalia, le-viora quidern in volatilia, graviora in terrestria; postmodum magis densa facta quidern in nobiliores ventriculos prorupit, ex quibus animalia perfecta emersere, ex ventriculis perfectioribus homines genitos esse autumant ».28
Tiberio dedica molte pagine - condannate dall’inquisitore Gerolamo Armellini - alla generazione spontanea indicando le proprie fonti in Lucrezio e Diodoro Siculo; anch’egli designa gli uomini non creati da Dio, ma partoriti dalla terra in fermentazione con il termine speciale di terrigenae, che già abbiamo letto in Ficino e che era usato comunemente. E certo quando un tema è tanto vulgato da far coniare una parola speciale in lor latino, non occorre andare a supporre una discendenza di-
28 Tiberii Russiliani Sexti Calabri Apologeticus, s.l.a. [Parma 1519], f. 20r; ho analizzato la cosmogonia di Tiberio e altri suoi temi in Une réincar-nation de Jean Pie à l’époque de Pomponazzi, « Abhandlungen der Mainzer Akademie », Jahrg. 1977, N. 10, ed ho ricostruito la biografia di questo aristotelico sconosciuto in Una disputa filosofica ereticale proposta nelle Università padane nel 1519, in Società e cultura nel Rinascimento ferrarese, Bari, De Donato 1977, p. 330 sgg.



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retta, e puramente orale, dall’India. Già un onesto studioso di folklore come il Cocchiara ammoniva a non voler sempre « scoprire nell’India ... la patria d’origine ».29
Nel caso della fermentazione cosmogonica di Menocchio la patria era molto più vicina, fra Padova e Venezia; lì spadroneggiavano i seguaci del Peretto e Menocchio si è recato più volte sulla laguna, anche se Ginzburg non ha trovato le date e le motivazioni di questi viaggi, dai quali comunque egli tornava con qualche libro. Del resto per il tema della mortalità o se si preferisce del sonno dell’anima, Ginzburg ammette un rapporto: « dai professori dello Studio di Padova a un mugnaio friulano, questa catena d’influenze e di contatti è certo singolare, ma storicamente plausibile » (p. 86). A me pare che non solo nella psicologia Menocchio si sia appropriato - con un’originalità e libertà di scelta che non è esclusivamente sua, ma che lo avvicina a professionisti della cultura indipendenti e rispettabili -la concezione del mondo dell’aristotelismo pomponazziano; ma questa — come cercherò di mostrare altrove — aveva già fatto i conti con il retaggio platonico fiorentino.
Secondo Ginzburg, Menocchio « con inconsapevole spregiudicatezza si servì dei rottami del pensiero altrui come di pietre e mattoni. Ma gli strumenti linguistici e concettuali di cui potè entrare in possesso non erano neutri né innocenti. Qui è l’origine della maggior parte delle sue contraddizioni, delle incertezze, delle incongruenze dei suoi discorsi. Con una terminologia imbevuta di cristianesimo, di neoplatonismo, di filosofia scolastica Menocchio cercava di esprimere il materialismo elementare, istintivo di generazioni e generazioni di contadini » (pp. 7273). Nessuno può minimizzare le restrizioni e stratificazioni del lessico di questo autodidatta, che d’altronde solo in un caso marginale redige le sue idee, normalmente filtrate dalle testimonianze dei compaesani più ignoranti di lui o dalle sue risposte all’interrogatorio inquisitoriale, che certo non favoriva lo sviluppo ordinato e coerente d’un sistema quanto avrebbe potuto
29 G. Cocchiara, Il paese di Cuccagna, Torino 1956, p. 4.



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farlo la disputa dialettica nei circoli padovani. Ma fra le sue contraddizioni o incertezze e quelle dei contemporanei io vedo solo una differenza quantitativa, di frequenza: d’altronde un materialismo che si radicalizza sempre più con l’avanzare della sua esperienza è stato segnalato nel Pomponazzi già da Francesco Fiorentino; risulta inoltre che questo pensatore indulge spesso a espressioni popolareggianti e fa lezione pressapoco in maccheronico, tanto che le sue teorie linguistiche — esposte dal discepolo Speroni - sono state accostate alle teorizzazioni del Folengo e prendono comunque chiara posizione per l’uso scientifica del volgare e la sua sostituzione al latino ...30 proprio come invocava Menocchio che vedeva in questo « un tradimento dei poveri » (p. 12). Sul Pomponazzi risulta soprattutto che più d’una pagina del De immortalitate animae, delle apologie e del De incantationibus, è frutto del suo confronto appassionato e approfondito con il cristianesimo e con il neoplatonismo di Fi-cino, di Pico, di Bessarione e di Lefèvre d’Etaples.
Non pretendo di annoverare Menocchio fra i suoi seguaci, che secondo Postel infestavano tutto il Veneto:31 ma a voler sostenere un tal paradosso, Menocchio meriterebbe questo titolo più di molti di quei « libertini » cari a Busson e a Spini. Nella sua cosmogonia a me sembra infatti di riconoscere una coerente presa di posizione ateistica (a parte qualche comprensibile tentativo di attenuazione prudenziale). « Io credo che siano stati insieme, né mai siano stati separati, cioè il caos senza Iddio, né Iddio senza il caos ... Così Iddio mentre era con il caos era imperfetto, non intendeva né viveva, ma poi allargan-
30 E. Bonora, Dallo Speroni al Getti, in Retorica e invenzione, Milano, Rizzoli 1970, p. 35 sgg.; L. Lazzerini, « Per latinos grossos ». Studio sui sermoni mescidati, « Studi di filologia italiana », XXIX, 1971, p. 254 sgg.; cfr. F. Bruni, Sperone Speroni e l’Accademia degli Infiammati, « Filologia e letteratura », XIII, 1967, p. 32 sgg. e, riprendendo lo studio della Lazzerini, I. Paccagnella, Me-scidanza e maccaronismo, « Giornale storico della letteratura italiana », 1973, pp. 363-381.
31 Cfr. le dichiarazioni rese da Postel nel suo processo inquisitoriale veneziano del 1555, pubblicato da A. Stella sulla « Rivista di storia della Chiesa in Italia », XXII, 1968, pp. 432-433.
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dosi in questo caos lui comenzò a vivere et intendere ... come crescette [in] lui la cognitione, così crebbe [in] lui il volere et potere » (pp. 64-65). Certo, l’idea che Dio si « allarghi » è un curioso sviluppo dell’emanazione neoplatonica, che molti testi della tradizione ficiniana avevano presentata in immagini e in forme accessibili anche agli indotti, mai però con le metafore di Menocchio: « Questo Iddio era nel caos come uno che sta nell’acqua si vuol slargare, et come uno che sta in boscho si vuol slargare: così questo intelletto havendo conosciuto si voi slargare per far questo mondo » (p. 64). Tale emanatismo non implica però una priorità di Dio rispetto al caos o una sua superiorità rispetto alla materia. Menocchio infatti non crede « che si possa fare alcuna cosa senza materia et Iddio anco non harebbe potuto far cosa alcuna senza materia ». Infatti egli « riceve il moto nel movere del caos, et va da imperfetto a perfetto ». Alla domanda dell’inquisitore su chi muova il caos, Menocchio risponde fermamente « da sé » (p. 66).
Se il naturalismo è dunque ben radicato sia in Menocchio sia in Pomponazzi, le loro teorie sul ruolo della religione non hanno minori rapporti. Già Spini ha ricordato la libertina « impostura delle religioni » per caratterizzare sia le bestemmie che le teorie del friulano; senza, da capo, supporre letture dirette, io credo che questi abbia potuto attingere per qualche via traversa la dottrina averroistica in una formulazione non libertina, ma vicina alla fonte, a quella Destructio destructionum commentata a Padova nel 1497 dal Nifo e poi ristampata molte volte.32 Quando Menocchio ammette « che ognun creda che sii la sua fede buona, ma [anche che] non si sapi qual sii la buona », e dichiara per di più: « perché mio avo, mio padre et li miei sono stati christiani, io voglio star christiano et creder che questa sii la buona » (pp. 58-59), va al di là dall’idea medievale
32 Ne ho commentate alcune pagine in I problemi metodologici del necromante A. Nifo, « Medioevo », I, 1975, p. 137 sgg. Si noti che nei documenti citati nel Formaggio le religioni sono sempre chiamate « leggi » secondo l’uso averroistico (pp. 12, 13, 27, 48 n., 49, 52, 168) ed è ammessa la loro relatività (p. 55).



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di tolleranza come l’aveva letta nella novella boccaccesca dei tre anelli, ma resta al di qua della negazione libertina della religione. Quando ribadisce: « se io fossi turco, non vorria diventar chris tiano, ma son christiano et non voglio diventar neanco turco» (p. 115) è infatti letteralmente vicino alla De-structio di Averroé. La sua interpretazione dell’umanità di Cristo ricorda più questo stesso modello che quelli anabattistici: « homo come nui, nato de homo et donna come nui... haven-dolo Idio eletto per profetta et datoli grande sapienta e mandato de Spirito santo, credo habbia fatto delli miracoli » (p. 89). Averroè e dopo di lui Pomponazzi nel De incantatio-nibus hanno appunto caratterizzato il profeta come ruolo essenziale alla religione, ossia al mantenimento del consenso e dell’ordine nel volgo bestiale, che i ragionamenti dei filosofi non potrebbero mai tener a freno. A questa funzione rispondono le prediche e i miracoli che commuovono il volgo; a questo scopo secondo Menocchio « li preti e li frati, li quali hanno studiato, hanno fatto li Evangeli per bocha del Spirito santo » (p. 121). Alla concezione averroistica del ruolo sociale della religione si ispira d’altronde Machiavelli (« il Machiavelli dei Discorsi che nella religione individua soprattutto un potente elemento di coesione politica »), che per il tramite di un testo evangelico del Crispoldi o di dottrine analoghe Ginzburg considera forse noto a Menocchio (p. 48). A me sembra che l’eco di Machiavelli avrebbe potuto raggiungere il mugnaio friulano più difficilmente di quella delle discussioni di Padova; supporre poi che sia stato filtrato da un collaboratore del vescovo Giberti viene a snaturare lo spirito delle battute frequenti e ferocissime di Menocchio. Secondo Ginzburg « esisteva nell’Italia del Cinquecento, negli ambienti più eterogenei, una tendenza (intravista con acutezza dal Crispoldi) a ridurre la religione a una realtà puramente mondana, a un vincolo morale o politico. Questa tendenza era espressa in linguaggi diversissimi, partendo da presupposti diversissimi. E tuttavia anche in questo caso è forse possibile intravedere una parziale convergenza tra gli ambienti più avanzati dell’alta cultura e i gruppi popolari di ten-



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denza radicale » (pp. 48-49). Se Ginzburg distinguesse la posizione evangelica che riduce la religione a vincolo morale da quella averroistica (e machiavellica) che vi vede solo un necessario vincolo politico, e se questa ammissione della convergenza fra la parte più avanzata dell’alta cultura e il radicalismo popolare non fosse limitata a un singolo caso, se egli avesse ammesso che anche nel tema essenziale della cosmogonia almeno « si incontrassero, in modo e forme ancora da precisare, filoni dotti e filoni popolari » (p. 59), sarebbe riuscita più equilibrata la sua ricostruzione del caso di Menocchio. È un caso certo assai rappresentativo proprio perché non riducibile al « contadino medio » del Cinquecento (pp. xix sgg., 39). « Menocchio non ripeteva pappagallescamente opinioni o tesi altrui » (p. 59), ma questo non fanno neppure gli intellettuali tradizionali. Menocchio si vanta « d’es-ser fillosopho, astrologo et propheta » (p. 124): dell’astrologia non risulta come la esercitasse, ma la pretesa alla « profezia » è chiara appunto nell’accezione averroistica di ammaestramento del volgo con la forza delle immagini. Dopo la prima condanna il mugnaio ridotto in miseria aveva anche « tenuto scolla di abacho et di legere et scrivere a putti » (p. 120), ma soprattutto si era sempre proposto nel villaggio come « maestro di dottrina e di comportamento » (p. 8), mirando a far proseliti (p. 94) e adattando per questo le sue idee agli altri contadini vista la « profonda separazione che si era verificata ormai da tempo, in Italia, fra città e campagne» (p. 25). Ginzburg ha ragione di sottolineare queste circostanze, ma rispetto all’autore del Settenario, semi-inedito poema popolare redatto nel 15631572 a Lucca sotto lo pseudonimo di Scolio, non avrebbe dovuto solo notare che questi « appare serrato in un ambiente contadino, privo o quasi di contatti con la città », mentre Menocchio viaggia e conosce la cosmopolita Venezia (p. 136): doveva tener conto della notevole differenza che consiste nella scelta dell’insegnamento orale rispetto alla forma poetica. Se anche di Menocchio ci fosse pervenuto un poema, sarebbe legittimo attribuire alle sue metafore più importanza che ai suoi con-



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cetti, sforzarsi di rintracciarne i modelli per esempio in Dante (ma i « vermi nati a formar l’angelica farfalla », cioè i corpi che si dissolvono per liberare l’anima dal suo carcere, sono dunque diametralmente opposti a quelli che si formano spontaneamente dalla fermentazione del « formaggio » elementare, p. 67) e ricorrere senz’altro alla tradizione orale quando non vengono identificate fonti precise; ritenere dunque che « l’elemento decisivo è dato da uno strato comune di tradizioni, miti, aspirazioni tramandati oralmente da generazioni », tanto che il « contatto con la cultura scritta » avuto da Menocchio e da Scolio non sia valso ad altro che << a far affiorare questo strato profondo di cultura orale » (p. 135). Se ammettiamo che Rabelais — raffinato umanista rotto a tutte le astuzie scolastiche — operasse una scelta significativa quando costituiva il romanzo moderno sul retaggio folkloristico, non finiamo con l’applicare una discriminazione di classe negando al popolano Menocchio di aver potuto fare l’inverso?
Sembra strano dover ricordare, a chi ha indicato che di lì ha preso origine la propria formazione, un passo fondamentale di Letteratura e vita nazionale (cfr. Quaderni, pp. 679-680). Eppure, poco prima di considerare severamente sia gli studi sbrigativi di R. Mandrou sulla « cultura imposta alle classi popolari » e sulla « acculturazione vittoriosa » ottenuta tramite il colportage, sia quelli ingenui e improbabili di G. Bollème sulla « creatività popolare » (pp. xiii-xiv e nn. p. xxvn) Ginzburg nella prefazione metodologica aveva citato un libro di Lombardi Satriani, che — dopo Santoli — riprende e fa proprio il canone stabilito da Gramsci per la letteratura popolare.33 A
33 V. Santoli, Tre osservazioni su Gramsci e il folklore [1951], ora in I canti popolari italiani, Firenze, Sansoni 1968; L. M. Lombardi Satriani, Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna, Rimini, Guaraldi 19763, pp. 24-25. Anche J.-C. Schmitt, « Religione popolare » e cultura folklorica, « Ricerche di storia sociale e religiosa » cit., p. 11 pone il problema, caro sia ai medievalisti che ai folkloristi, se popolare « designa ciò che è creato » dal popolo (concezione romantica), ciò che è ricevuto dal popolo o ciò che è destinato al popolo ». Ibid., p. 75 cfr. le osservazioni di J. Revel, p. 141 il rifiuto di tale nozione da parte di K. Thomas (« contatto di persone colte e analfabete... poche persone appartenevano a una cultura strettamente orale o letteraria ...



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proposito dei canti popolari e dei tre tipi in cui li aveva distinti E. Rubieri, Gramsci osservava che tutti andavano ricondotti alla categoria di « quelli scritti né dal popolo né per il popolo, ma da questo adottati perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire ». Ciò che contraddistingue la forma popolare « nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto con la società ufficiale ... il popolo stesso non è una collettività omogenea di cultura, ma presenta delle stratificazioni culturali numerose, variamente combinate ».
Menocchio - come osserva acutamente Ginzburg (p. 33) — « non vantava rivelazioni o illuminazioni particolari. Nei suoi discorsi metteva invece in primo piano il proprio raziocinio ». Alla fine del Cinquecento siamo cronologicamente lontani dal momento dell’impatto fra tradizioni folkloriche e cultura clericale che Le Goff ha indagato nelle età merovingia e carolina con grande rigore;34 può darsi che nei pastori di Eboli e nei
erano esposte, sebbene in modo disuguale, all’influenza di entrambe le culture ») e, pp. 100-101, la ripresa gramsciana di C. Gailini: « La cultura dei ceti subalterni trae il proprio lessico prevalentemente dalla cultura prodotta (nel passato o attualmente) dai ceti dominanti, peraltro selezionandola e rielaboran- ' dola in funzione dei propri bisogni ».
34 J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, Einaudi 1977, che per la cultura popolare richiama alcune considerazioni di Ginzburg, ma solo quelle negative (p. xu). Dello stesso Le Goff mi sembrano fondamentali i cenni metodologici sul « long retentissement des systèmes de pensée » in Les mentalités. Une bistoire ambigue, in Faire de l’bistoire cit., Ili, pp. 81, 89: « l’histoire des mentalités oblige l’historien à s’intéresser de plus près à quel-ques phénomène essentiels de son domaine: les héritages dont l’étude enseigne la contìnuité, les pertes, les ruptures (d’ou, de qui, de quand viennent ce pii mental, cette expression, ce geste?) »; « L’histoire des mentalités doit se din-tinguer de l’histoire des idées contre laquelle elle est en partie née ... Mais il faut aller plus loin que ce repérage de la présence d’idées abàtardies au sein des mentalités. L’histoire des mentalités ne peut se faire sans ètte étroitement liée à l’histoire des systèmes culturels, systèmes de croyances, de valeurs, d’équi-pement intellectuel, au sein desquels elles se sont élaborées, ont vecu et évo-lué». Cfr. G. Duby, Histoire sociale et idéologies des sociétés, ibid., I, p. 149; su tali ideologie come « systèmes complètes ... naturellement globalisant », che « ont donc entretenu d’étroites correspondances avec les cosmologies et les théo-logies, et apparaissent ainsi inséparables d’un système de croyances »; vicino al problema metodologico di Ginzburg è Duby a p. 154, a proposito delle « traces



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contadini friulani possa riconoscersi una « tenace persistenza di una religione contadina insofferente ai dogmi e alle cerimonie, legata ai ritmi della natura, fondamentalmente precristiana ... ». A me sembra però che tutto l’essenziale delle idee di Menocchio abbia un rapporto vivace e critico, ma innegabile con alcune tendenze avanzate dell’alta cultura contemporanea, persino con quelle diffuse dall’accademia fiorentina e dalla scuola padovana. Egli non le ignorava, ne riconosceva istintivamente i conflitti e le contaminazioni che avvenivano nell’opera di quegli intellettuali, non solo per « sorprendente coincidenza » ne riproponeva le idee fondamentali: « semplicemente, li ritraduceva in immagini che aderivano alla sua esperienza, alle sue aspirazioni, alle sue fantasie » (p. 130). Perché dunque negargli di esser stato davvero « fillosopho, astrologo e propheta »?
Paola Zambelli
POSTSCRIPTUM (DICEMBRE 1978)
Solo dopo la stesura di questa nota nell’autunno 1977, ho potuto leggere i due più recenti contributi di C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma scientifico, « Rivista di storia contemporanea », 1978, pp. 1-14, e in collaborazione con M. Ferrari, « La Colom-bara ha aperto gli occhi », « Quaderni storici », n. 38, maggio-agosto 1978, pp. 631-639 (uscito anche in Alfabetismo e cultura scritta nella storia della società italiana, Perugia, Univ. degli Studi ed., 1978, pp. 311-319, da cui si citerà fra parentesi la pagina). Quest’ultimo scritto riprende con sfumature sensibilmente
fugitives, altérées et ténues » lasciate dai sistemi ideologici del passato, sia da quelli contestatari, sia da quelli popolari: quest’ultimi corrispondono a « tous les milieux sociaux qui n’eurent point accès par eux-mémes à des Instruments culturels capables de traduire dans des formes durables une visione du monde. Seule l’attention que leur ont éventuellement prétée les strates dominantes per-met parfois de les deviner, mais l’image qui se révèle par ce truchement est toujours floue, partielle et singulièrement déformée ».



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diverse il problema metodologico della cultura popolare e dà delle « considerazioni formulate » nel Formaggio una definizione che a me torna meglio, ma che non mi sembra rispecchiare fedelmente il libro (« rapporto tra cultura delle classi subalterne e cultura delle classi dominanti... un rapporto complesso, fatto di scambi reciproci, oltre che di repressioni a senso unico», p. 311). Giustamente fermo nel « ricordarci l’insostenibilità di ogni visione riduttiva della cultura delle classi subalterne » (p. 319), suppone invece « una circolarità dal basso verso Paltò » e anche una circolarità « dall’alto verso il basso » (p. 318). È certamente un lapsus calami quello che considera « singolarità » del ciarlatano Costantino Saccardino « l’uso non passivo che egli fa delle sue fonti » (p. 316), come se ora Ginzburg - tanto convinto dell’originalità della griglia applicata da Menochio alle sue letture - pensasse che gli autori popolari (o « intermediari tra la cultura delle classi popolari e la cultura medio-alta », come furono appunto i ciarlatani) siano di norma passivi. È scontata nella storia della medicina la reale « esistenza di due tradizioni medicinali parallele, l’una scritta e l’altra orale, differenziate socialmente, ma sostanzialmente simili nel contenuto » (p. 317), ma questo fatto non permette di escludere « una catena quasi bimillenaria di mediazioni scritte, risalenti in definitiva a Dio-scoride » (p. 317), anche se non merita invocarla per spiegare le — deboli — analogie fra le ricette per curare le scottature, ricette composte di sostanze emollienti che nella gamma limitata del ricettario antico e medievale hanno considerevoli varianti fra quelle degli « sparapizzi » nostri contemporanei e quelle di... Dioscoride.
Ginzburg e Ferrari identificano felicemente nel ciarlatano Saccardino l’affinità con posizioni libertine, cioè con quelle del dialogo XXXVII: De prima hominis generatione del De admirandis naturae arcanis di Giulio Cesare Vanini. L’accostamento è seducente, non fosse altro per la coincidenza fra i supplizi dei due: bruciato Vanini a Tolosa nel 1620, impiccato Saccardino a Bologna nel 1622. Ma la coincidenza - che merita ricordare esplicitamente - si ferma al dato cronologico, perché il De admirandis uscito in Francia nel 1616 nel suo testo latino non è certo diffuso a Bologna dai colporteurs, e perché soprattutto il Vanini stesso riferisce che dopo Diodoro « altri non mancano i quali hanno inghiottita per vera questa storiella » (Opere di G. C. Vanini, trad. G. Porzio, Lecce 1912, III, p. 200) e menziona esplicitamente almeno una delle sue numerose fonti « atei-



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stiche » (cioè Cardano per il De subtilitate). Ma proprio l’edizione Corvaglia (Opere di G. C. Vanini e le loro fonti, Città di Castello 1934, pp. 178-179), che i due autori citano, ha la caratteristica paradossale di dissolvere il testo di Vanini in innumerevoli fonti, fra le quali, a parte Machiavelli o Della Porta, emerge VApologia scritta da Pomponazzi per il suo De immortalitate animae, uno dei testi più sensazionali e chiacchierati della prima metà del 500, un testo indubbiamente più noto e vulgato di quelli vaniniani, che d’altronde ne dipendono (Cfr. E. Namer, Documents sur la vie de Jules-César Vanini, Bari s.d. e i numerosi studi di A. Nowicki su Vanini, e per Pomponazzi i dati indicativi per le opere inedite - ma a fortiori per quelle edite -diG. C. Zanier, Ricerche sulla diffusione e fortuna del « De incantationibus » di Pomponazzi, Firenze 1975, e — meglio — F. Graiff, I prodigi e l’astrologia nei commenti di P. P. al De caelo, alla Meteora e al de De Generatione, « Medioevo », II, 1976, pp. 331-361). Per entrambi questi poli cronologici del cosidetto libertinismo, per Pomponazzi come per Vanini, Diodoro Siculo e i suoi volgarizzamenti e commenti certo rappresentarono uno stimolo: ma come dichiara lo stesso Vanini dopo di lui molti spunti s’erano conglomerati nell’idea della generazione spontanea dell’uomo, che era ormai un topos. L’estensione dalla generazione ex putri di topi, rane o rospi (menzionati dal paraclesiano Fioravanti, fonte accertata, ma non esauriente del Saccardino) a quella dell'homo sapiens - di cui Vanini discute, come Pomponazzi, la dignità in rapporto agli animali bruti — era passata per una serie di fasi che non escludono lo stesso Paracelso, e che mi riprometto di ricostruire minutamente in uno studio imminente. Molte di queste fonti erano note a quel compilatore spudorato, spregiudicato ed eclettico del Vanini. È vero che i « libertini eruditi » francesi studiati dal Pintard per il maturo 600 sostenevano questa tesi « con un segno di classe rovesciato » rispetto a quello popolare del ciarlatano Saccardino e dei suoi tre complici blasfemi: « per i libertini eruditi la consapevolezza dell’impostura della religione doveva essere limitata — pena il crollo dell’edificio sociale — a un’élite intellettuale e politica » (p. 318). Ma questa tesi non era nata con loro, anzi era stata di Averroè nel XII secolo e di Agostino Nifo nel 1497: quando da questi del 1520 passerà nel Pomponazzi, così largamente e clandestinamente ascoltato negli anni delle crisi religiosa e politica italiana - si avvertirà se non un rovesciamento di valenze so-



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ciali, una perplessità, un realismo e un pessimismo dell’intelligenza, che non si spiega solo con le fonti stoiche invocate per il De fato, e che qui non cito solo per sottolineare la affinità con l’eresia e le provocazioni scatologiche di Saccardino e compari: « si qui recte con-sideraverit, et universum inspiciat, videbit quod in universo non sunt nisi fatui et viri scelerati, et multi qui habentur sapientes sunt alis stultiores, et qui habentur meliores multotiens sunt alis de-teriores ... infra autem globum Lunae, cum omnia tendant ad inte-ritum, fetida sunt et putrentia. Veluti enim in animali aliquae partes sunt nobiles de necessitate et aliquae ignobiles, sic mundus est unus animai et de necessitate habet ista sublunaria tanquam stercora ». L’uomo è uno fra gli escrementi dell’universo, non più nobile degli altri enti contingenti: questo spiega, ma anche demistifica e denuncia le ingiustizie che appaiono evidenti nella società (« Non plus enim crudele est, si anima est mortalis, quod aliqui conculcentur ab aliis, aliqui dominentur, aliqui serviant, quod etiam unus d e v o r e t alium, quam quod lupus devoret ovem et ser-pens interficiat alia ammalia ... »; ed. R. Lemay, Lugano 1957, pp. 452-453, 451).