Un recinto di identificazione: le mura sacre della città. Riflessioni su Firenze dall'età classica al Medioevo

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Un recinto di identificazione: le mura sacre della città. Riflessioni su Firenze dall'età classica al Medioevo
Creator
Silvia Mantini
Date Issued
1995-04-01
Is Part Of
Archivio Storico Italiano
volume
153
issue
2 (564)
page start
211
page end
261
Publisher
Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.
Language
ita
Format
pdf
Relation
Storia della follia nell'età classica, Italy, Rizzoli, 1963
Rights
Archivio Storico Italiano © 1995 Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.
Source
Archivio Storico Italiano © 1995 Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.
Subject
confinement
exclusion (of individuals and groups)
normalization
pathological
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Un recinto di identificazione: le mura sacre della città.
Riflessioni su Firenze dall’età classica al Medioevo1
Raccontano gli antichi, Varrone, Plutarco e altri che i passati loro erano soliti di disegnare le mura delle città con religione, e ordini sacri. Perciocché, havendo prima presi lungamente gli Auguri, messi ad un giogo un Bue, e una vacca, tiravano uno aratolo di Bronzo, e li faceva il primo solco, con il quale disegnavano il circuito delle Mura [...]. I vecchi Padri che doveano habitare la Terra, seguitavano lo Aratro e rimettevano nel sesso, le smosse e sparze zolle: e rassettandovele dentro, acciò non se ne spargesse alcuna; quando arrivavano a luoghi delle porte, sostenevano lo aratro con le mani acciò che la soglia della porta rimanesse salda e perciò dicevano che eccetto le porte, tutto il cerchio, e tutta l’opera era cosa sacra, e non era lecito chiamare le porte sacre. A tempi di Romulo, dice Dionisio di Alicarnasso, che i Padri antichi, nel principiare le Città, erano soliti, fatto il sacrificio di accendere il fuoco dinanzia a loro Alloggiamenti. E per esso far passare il Popolo, acciò che nel passare per le fiamme, gli huomini si purificassero e si purgassino: et pensavano che a così fatto sacramento, non dovessino intervenire quelli, che non erano puri e netti.2
Le mura separano la città, definendola nella sua diversità e nella sua peculiarità di universo sociale autonomo. La loro
1 Saranno presentate, nelle pagine che seguono, alcune riflessioni relative soprattutto all’immagine simbolica delle mura, con particolare attenzione al contesto fiorentino. Per quel che riguarda lo studio delle diverse tipologie costruttive in Italia e in Europa, e un’analisi diacronica di queste si veda AA.VV., La città e le mura, a cura di C. De Seta e J. Le Goff, Roma-Bari, 1989.
2 L. B. Alberti, De re aedificatoria, tr. C. Battoli, Firenze, 1560, p. 79.



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costruzione è un atto politico, prima che militare, perchè queste costituiscono un segno tangibile del potere urbano. D’altronde, di contro, la loro distruzione era l’annientamento dell’identità del corpo sociale, in esse racchiuso; sconfitta, la città medievale veniva punita ed umiliata proprio con la distruzione delle mura e la conseguente degradazione a vi-cus?
Ecco perché la cittadinanza era chiamata, attraverso uno sforzo finanziario enorme, a contribuire alla costruzione delle mura perimetrali che l’avrebbero protetta dai pericoli esterni, consolidata nella sua identità e segregata, tuttavia, in un cerchio di clausura nel quale entrare e dal quale uscire erano azioni soggette a profondi controlli. Dal terzo tocco della campana de nocte, a quello dell’alba che suonava prima, la città era raccolta in sè, quasi immobile, isolata dall’esterno, protetta dal suo «sacro» recinto: solo il suono del tempo dell’alba avrebbe permesso di attraversare le porte a tutti coloro che, arrivati con anticipo o di notte, attendevano fuori dagli ingressi, di penetrare nelle vie e nelle piazze, adesso animate dai rumori e dai colori della vita diurna.4
Come elemento di separazione tra uno spazio chiuso in cui la comunità si riconosce e l’esterno apaerto, le mura hanno lo stesso significato del solco tracciato per i riti di fondazione, che delimitano il territorio di appartenenza del gruppo sociale.5 Varrone stesso fornisce un’etimologia assai in-
3 M. Sanfilippo, Le città medievali, Torino, 1973, p. 43: «È col Comune che si dà ovunque mano alla ricostruzione, al riattamento dell’antica cerchia, alla fondazione di una nuova [...]. Le mura viterbesi sorgono nel 1099 «ex precepto consulum et totius populi», ricorda una lapide più recente; quelle della seconda cerchia fiorentina, del 1172-1173 vengono innalzate dopo l’aperta ribellione all’impero e la distruzione del castello di Montegrossoli, base strategica imperiale tra il Chianti e il Valdarno. Dieci anni prima, al contrario, Milano aveva visto le sue mura distrutte dall’imperatore».
4 S. Mantini, Per un'immagine della notte fra Trecento e Quattrocento, «Archivio Storico Italiano», 143, 1985, pp. 565-594.
5 A. Magnaghi, Dalla cosmopoli alla città di villaggi, in La città e il limite, a cura di G. Paba, Firenze, 1990, p. 29: «Le mura non proteggono solo dall’esterno,



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teressante per il termine urbs, e cioè da orbis (circolo) ed utvare (arare intorno). Un elemento che ricorda l’attribuzione sacra conferita alle mura è rappresentato anche dalla tradizione etnisca, che prevedeva la presenza di tombe e urne cinerarie nelle mura e, successivamente, dall’uso alto-medievale di murare reliquie nella struttura perimetrale o di costruire a ridosso di questa il tempio del Santo Patrono.
Nel percorso di formazione di una coscienza cittadina l’immagine paradigmatica della città viene sicuramente a rappresentare l’amalgama per la costruzione dell’identità collettiva dei soggetti in essa racchiusi: e questa è, spesso, emblematicamente l’immagine delle sue mura o la rappresentazione della città recintata, depositata nel palmo della mano del suo Santo protettore. Numerosissimi e noti sono poi gli esempi in cui Vurbis custos6 compare a difesa della città in momenti di pericoli incombenti (guerre, assedi, carestie e pestilenze), in piedi sulle mura o fuori da queste.7 Basti ricordare la statua di Celestino V, di Girolamo da Vicenza, in origine sulla facciata della Basilica di S. Maria di Collemaggio a L’Aquila, che tiene in mano il modellino della città (è importante ricordare che il santo patrono di L’Aquila è S. Massimo, ma i cittadini furono sempre legati alla protezione e al culto di Celestino e di Bernardino); e ancora i dipinti dei santi Massimo e Bernardino di G. C. Bedeschini (sec. XVII), conservati nel Museo del Castello Cinquecentesco a l’Aquila, che mostrano tra le mani il modellino della stessa città; ed anche l’immagine di S. Ercolano, di Meo di Guido da Siena, in cui la città di Perugia appare nella sua struttura medievale trecentesca. Ma moltissimi altri potrebbero essere gli esempi
ma dal non luogo, dal non essere. Si è soltanto dentro le mura. Il limite divide il territorio di Dio da quello di Satana».
6 A. M. Orselli, L'idea e il culto del Santo patrono nella letteratura cristiana antica, Bologna, 1965; H. C. Peyer, Stadt und Stadtpatron in Mittelalterlichen Italien, Zurich, 1955.
7 G. Kaftal, Saints in Italian Art, 3 voli., Florence, 1952, 1965, 1978.



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di raffigurazioni di urbis custos. Significativo, a questo riguardo, è il dipinto di Bicci di Lorenzo, San Nicola da Tolentino protegge Empoli dall’ira divina, in cui il Santo, che poggia un piede sulle mura della città, raccoglie nelle sue mani gli strali inviati dal cielo. Un altro aspetto del ruolo protettivo e apotropaico di santi, patroni o della Vergine è costituito dalla posizione rispetto alla cinta muraria. In un significativo dipinto del Tiepolo possiamo osservare S. Tecla che, adagiata sugli spalti delle mura, implora per la liberazione di Este dalla pestilenza. E ancora nel dipinto Gonfalone della Madonna della Mercede di Benedetto Bonfigli, nella Chiesa di S. Francesco al Prato a Perugia, possiamo notare la Vergine che camminando processionalmente fuori dal recinto perimetrale, protegge con il suo mantello la città degli strali lanciati dalla Peste. Grande interesse hanno suscitato i temi del ruolo protettore della Vergine, del significato simbolico del mantello e dell’ubicazione delle sue icone e di quelle dei santi cittadini, che vigilano, severi, sulla sicurezza della città; temi che, in questi anni, sono stati oggetto di ricerche specifiche e studi approfonditi.8 «Una nuvila bianca scendendo dal cielo aver coperto et abbracciata tutta Siena, né fuore dal circuito delle mura essersi ponto distesa; onde nel popolo s’ba per costante la gloriosa Vergine madre di Dio essere in quella nuvila discesa»,9 così la Vergine protettrice e fondatrice della città di Siena circonda il Champo col suo mantello protettore, «poggiandolo» sui confini delle antiche mura altomedievali, che saranno poi i percorsi degli itinerari delle processioni mariane senesi.10
Se lo spazio sacro della città racchiude così l’identità collettiva della comunità raccolta al suo interno ed amplifica
8 J. Delumeau, Rassurer et protéger: Le sentiment de sécurité dans LOccident d’autrefois, Paris, 1989.
9 G. Tomassi, Historie di Siena, Bologna, 1574, p. 323, in S. Pietrosanti, Sacralità medicee, Firenze, 1991, p. 17.
10 S. Pietrosanti, Sacralità cit., p. 19.



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il luogo del «buon governo», lo spazio fuori della città è quello dell’espulsione, del non riconoscimento, della non identità, in cui sono confinate le visioni infamanti o i corpi infamati.11 Infatti attraverso le porte della cerchia muraria passavano, non a caso, le processioni dei condannati a morte, che venivano accompagnati nei luoghi dell’esecuzione capitale situati, nella maggior parte dei casi, fuori dalle porte.12 I condannati a morte, in quanto peccatori esposti, attraverso il «viaggio», al pubblico ludibrio, ma anche all’espiazione (data dalla morte imminente, che dovevano accogliere con accettazione attraverso il «conforto»), si configurano come personaggi che si stanno purificando. Il loro percorso ricorda vivamente quello di Cristo verso il Calvario: le soste, le edicole lungo il cammino, costituite da tondi in ceramica che richiamavano le scene della passione di Gesù, avvicinano questi individui al Corpo Santo per eccellenza, durante la sua Via Crucis. Figure liminali tra la vita e la morte, (sono vivi che stanno morendo, o quasi morti ambulanti, che non possono tornare indietro) tracciano un itinerario che, dentro lo spazio sacro della città, è in parte fedele agli antichi perimetri di fondazione, ma che deve terminare al di fuori di questo tessuto urbano, sul patibolo esterno alle mura, in cui si compirà l’esecuzione. Solo successivamente, quando questi uomini non apparterranno più a questo regno, ma saranno diventati anime pentite e purificate dal giudizio, potranno essere riammessi a partecipare dello spazio sacro dell’urbe e trovare sepoltura in terra santa, chiaramente all’interno del recinto delle Compagnie preposte a tale compito. Il loro corteo segue le tappe dei luoghi della loro storia: a Firenze
11 A. Prosperi, Lo spazio nella chiesa tridentina. Qualche domanda, in La Corte e lo spazio: Ferrara estense, a cura di G. Papagno e A. Quondam, Roma, 1982, pp. 83-92.
12 Nel dipinto del Beato Angelico, La decapitazione dei SS. Cosma e Damiano, conservato al Museo del Louvre, possiamo osservare l’esecuzione dei due martiri, uccisi insieme ad altri tre compagni, fuori dalle mura della città, che espone, sullo sfondo le sue possenti mura.



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parte dal Bargello, «decorato» dalle pitture infamanti, che ricordavano i crimini commessi,13 attraversa piazza della Signoria, quindi gira intorno al Duomo, poi incrocia il cardo romano, dove, alla colonna dell’Abbondanza, venivano comminate le pene minori e, infine, imbocca Borgo Albizi, fino alle mura della città, che saranno oltrepassate in direzione del patibolo, posto fuori dalla Porta alla Croce;14 accanto a questa era situata la sede della Compagnia della Croce al Tempio,15 i cui affiliati, insieme a quelli della Compagnia dei Neri,16 si occupavano del conforto dei morituri, soprattutto durante l’ultima notte del condannato e durante il corteo che assumeva, il più delle volte, i caratteri di uno spettacolo di folla con attori e pubblico.17 Sembra, comunque, che il percorso abbia subito un mutamento, soprattutto, in seguito ai lavori fatti fare in vista delle fortificazioni cinquecentesche delle mura perimetrali. Infatti lo spostamento della Porta alla Giustizia, che era la porta che inizialmente ospitava il patibolo, verso il fiume determinò un arretramento della sona prescenta come luogo delle esecuzioni, che cominciarono ad essere eseguite nei pressi della Porta alla Croce.
In epoca medievale, dunque, c’è da supporre che il percorso dei condannati andasse dal Bargello, via del Proconsolo, Borgo Albizi, quindi via de’ Benci, S. Croce e, come ultimo tratto ancora all’interno dello spazio sacro, via de’
13 S. Edgerton, Pictures and punischment. Art and criminal persecution during thè Fiorentine Renaissance, «Ithaca», 1985, pp. 91-237; G. Ortalli, La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma, 1979, pp. 131-177; R. Davidson, Storia di Firenze, Firenze, 1966, IV, pp. 422-425.
14 Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, (da ora in poi BNCF), Poligrafo Gargani (L 604): «A Bettone Cini, gonfaloniere in aprile e maggio 1343, il Duca d’Atene gli fece cavar la lingua e lo cacciò fuori della porta»; e ancora BNCF, ms. Magliabechiano, XXV, cod. 27: «A dì 30 settembre andò a morire al solito patibolo fuori della Porta alla Croce Maddalena di Biagio da Montepulciano per aver ammazzato un suo figlio».
15 G. Richa, Notizie istoriche delle Chiese fiorentine, 1754, II, pp. 124-127.
16 Davidsohn, Storia cit., pp. 602-627.
17 V. Paglia, La morte confortata. Riti della paura e mentalità religiosa a Roma nell’età moderna, Roma, 1982, pp. 123-133.



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Malcontenti, proprio perché questa strada era testimone delle lamentazioni e delle angosce dei soggetti che andavano incontro alla morte. Riguardo all’ubicazione del patibolo, è interessante sottolineare che, evidentemente, in età medievale non esisteva un luogo preciso per l’esecuzione; bastava che fosse rispettata la disposizione degli Statuti del 1325, che indicava la distanza di mille braccia dalle mura come necessaria per mettere in atto una condanna a morte; chiaro segno, quindi, di espulsione, estraniazione pubblica dalla comunità del colpevole, che ricordava l’uso romano di porre il patibolo alla prima pietra miliare della città.
In ogni caso a Firenze il luogo, anche se non precisamente definito durante l’età medievale, fu sempre posto nell’area dell’attuale piazza Beccaria, come si può notare anche nella famosa carta della Catena.18
Un’ampia iconografia permette di osservare scene di esecuzioni, corpi pendenti dalle forche nella campagna antistante le mura della città. Questi stessi suppliziati, se impenitenti, venivano sepolti fuori dagli spazi comunitari (espulsi cioè dal territorio urbano), come pure gli eretici, gli ebrei e, a volte, le meretrici a sottolineare che neppure la morte, spesso, serviva a purificare sufficientemente l’anima per far parte, in spiritu, della terra degli uomini di «questo mondo».
All’interno della città murata, altri recinti chiudono e separano luoghi e realtà: come un sistema di scatole cinesi si
18 Sul tema dei condannati a morte si rimanda ai lavori di: F. Fineschi, La rappresentazione della morte sul patibolo nella liturgia fiorentina della Congregazione dei Neri, «Archivio Storico Italiano», 150, 1992, pp. 805-846; A. Prosperi, Il sangue e Vanima. Ricerche sulle Compagnie di giustizia in Italia, «Quaderni storici», 51, 1982, pp. 959-999; Id., Esecuzioni capitali e controllo sociale nella prima età moderna, in La pena di morte nel mondo, «Atti del Convegno Internazionale di Bologna del 28-30 ottobre 1982», Casale Monferrato, 1982, pp. 92-95; I. Rosoni, Le notti malinconiche. Esecuzioni capitali e disciplinamento nell’Italia del XVII secolo, in La Notte, a cura di M. Sbriccoli, Firenze, 1991, pp. 94-126; G. Rondoni, I «Giustiziati» di Firenze dal sec. XV al sec. XVIII, «Archivio Storico Italiano», serie V, 28, 1901, pp. 209-256; per una lettura interpretativa si veda anche G. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, 1969, p. 34.



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configurano i luoghi gerarchicamente ordinati per i valori simbolici e reali che rappresentano e si configurano anche gli spazi dell’esclusione e della separatezza. Il recinto dello spazio sacro è, così, il limen che separa dalla/nella società i luoghi dei folli,19 degli ebrei, dei poveri, dei lebbrosi.
Il lebrosario è proprio un recinto, una divisione nella quale le forme e gli spazi assumono l’immagine di ‘anti-città’. Il suo spazio interno è composto, infatti, da tutti gli elementi costitutivi lo spazio cittadino di quel momento storico con le sue mura, gli alloggiamenti, la piazza e la chiesa: si pensi addirittura che il Concilio Laterano nel 1179 decise appunto la creazione di un edificio di culto in ogni lebbrosario, sancendo così, la creazione di un luogo santo all’interno della comunità isolata.20
Simile discorso può essere fatto per il ghetto ebreo, che sottolinea, con la sua stessa esistenza, la realtà di uno spazio sacro nel sacro, con orari e confini, insula di separazione e di riservatezza, custode gelosa delle sue regole e dei suoi principi:
Dì gennaio 1570 il signor principe di Firenze Francesco de’ Medici cominciò a far murare il luogo dove abitano gli giudei, avendo prima compero case, magazzini e postriboli e botteghe et altre abitazioni dove erano state le pubbliche meretricie e mecaniche, grandissimo tempo. E vi fé’ fare tutte le abitazioni e botteghe che al presente si veggono in piazza giudea: che in su detta piazza di qua e di là erano le botteguzze, e stanzuzze delle meccanichissi-me meretrice, e si levorno e si murorno le stanze che vi sono; [...]. E si serrorno ogni sera, e più tardi e più a buon ora secondo i tempi; e la mattina a buon ora si aprono.21
19 M. Foucault, Histoire de la folie à Page classique, Paris, 1961.
20 M. Decani, A. Gorla, A. Mastinu, Recinti, macchine e altri disegni. Spazio e territorio delle istituzioni, Milano, 1982, p. 17.
21 A. Lapini, Diario fiorentino dal 12^2 al 1^69, a cura di O. Corazzini, Firenze, 1900, p. 171.



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Allo stesso carattere di separazione ed espulsione dallo spazio della città rispondeva l’obbligo, solo recentemente abrogato, di seppellire in luoghi appartati e sconsacrati dei nostri cimiteri i suicidi e i non battezzati: «I pagani debbono essere allontanati dai luoghi dei santi» tuonava l’arcivescovo di Canterbury.22
E ancora oggi a Firenze possiamo osservare che il cimitero ebreo, nel popolare quartiere di S. Frediano, è situato fuori dalla porta, quasi a ridosso delle mura e rigorosamente al di fuori del recinto della città.
Difendere le mura, difendere la città. - Se è vero che le mura sono il simbolo di uno spazio «sacrale» da delimitare, è vero anche che la loro difesa esprime la volontà di vivere della città: a Verona gli Scaligeri, per assicurare la propria Signoria nella città la circondarono di possenti mura; la fortificazione muraria di Lucca fu il simbolo della difesa della libertà dei suoi cittadini; La Rochelle, con la sua forte cinta, cercò di difendere anche la propria fede. Non a caso l’abbattimento delle mura segna la distruzione della città o la sua sottomissione: Federico Barbarossa, quando entrerà trionfalmente a Milano il primo di marzo del 1162, dopo averla sottomessa in seguito a lungo assedio, ne distruggerà le mura, cospargendole, dice la leggenda, ritualmente di sale.
Facendo un breve exursus indietro nei secoli, si può ricordare forse la più famosa distruzione di città dell’epopea classica, quella di Troia, in cui il vincitore Achille purificò (lustravi} la città vinta, trascinando per tre volte intorno alle sue mura il cadavere dell’eroe sconfitto Ettore.23 E ancora: quando Scipione conquistò Cartagine, dopo aver preso e di-
22 S. Bertelli, Il corpo del re. Sacralità del potere nell’Europa medievale e moderna, Firenze, 1990, p. 210.
23 J. Rykwert, L’idea di città, tr. it., Torino, 1981, p. 68.



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strutto la città, ordinò che il sito fosse arato, o meglio «disarato», cioè percorso da un aratro in senso orario, quindi opposto a quello con cui il fondatore aveva tracciato il solco.24
Tornando all’età moderna, Alfonso il Magnanimo, il 26 marzo del 1443, entrò a Napoli e, in segno di totale vittoria e per sottolineare la presa di possesso della città, fece il suo ingresso non per portas sed fracto muro iuxta portami cioè attraverso una breccia realmente e simbolicamente aperta per il suo ingresso. In questo modo la «ferita» aperta nelle mura assume un forte significato di sottomissione da parte dei cittadini e di potere da parte del vincitore: «Alfonso d’Arago-na era il conquistatore, così come un conquistatore andrà considerato dieci anni più tardi Francesco Sforza ingrediente in Milano attraverso un’altra breccia; Ferdinando d’Aragona sbarcando a Napoli nel 1507 e trovando parte del muro di cinta del porto abbattuta; Leone X entrando in Firenze nel 1515 per Porta Romana, il cui rivellino era stato smantellato e la porta tolta dai gangheri. Così ancora l’ingresso di Carlo V in Siena (1536) avvenne “non per l’entrata dell’antiporto dove passava la Signoria, ma per il rotto muro fatto a tempo di guerra”».26 Queste fratture e distruzioni provocate, così pure la consegna delle chiavi, sono il gesto di sottomissione della popolazione vinta al vincitore, atto simbolico di devozione e riconoscimento della condizione di inermi di fronte al dominante, volto ad indurre questi alla pietas e non alla persecuzione della barbarie e della vendetta.
Uguale valore semantico, abbiamo detto, era rappresentato dall’offerta delle chiavi delle porte, chiavi che erano vigilate da un’apposita magistratura urbana. E attraverso le porte — unico punto desacralizzato, come ricorda Leon Battista
« ibid.
25 A. Pinelli, Feste e trionfi: continuità e metamorfosi di un tema, in Memorie dell'antico nell'arte italiana, IL I generi e i temi ritrovati, a cura di S. Settis, Torino, 1985, pp. 279-350; p. 325.
26 Bertelli, Il corpo cit., p. 65.



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Alberti — che normalmente si accede all’interno della città. Ma questi ingressi, in momenti di particolare solennità (Ad-ventus) erano sottolineati con un aumento di passaggi (gli archi trionfali) o con un prolungamento prossemico dell’ingresso (incontro del notabile fuori dalle mura, un miglio o più, a sottolineare l’importanza del personaggio ricevuto).
Tra gli studi sui rituali pubblici quelli di Richard Trexler27 e di Eduard Muir28 permettono di evidenziare i percorsi dei cortei civili e religiosi a Firenze e a Venezia nei secoli XV e XVI: in molti casi si può osservare come questi coincidessero proprio con gli antichi perimetri di fondazione a sottolineare la scelta di un itinerario sovrapposto al solco primigenio e quindi a ricordare la presa di possesso della città.
Tuttavia alcune processioni, essenzialmente di tipo religioso, non si limitavano a ripercorrere l’antico perimetro, ma lo attraversavano per raggiungere le chiese «fuori le mura». È attraverso le porte che avviene questo contatto città-campagna, con il passaggio del corteo che, se condotto in occasione delle festività del Santo Patrono,29 sanciva nuovamente la sottomissione dei borghi extra-moenia, che dovevano adottare il protettore della città, pur avendone, loro, uno proprio.30 D’altronde la nascita di una coscienza collettiva opposta alla campagna sarà uno dei fenomeni salienti dell’età tardocomunale e della prima età moderna, che si esprimerà anche attraverso il culto del Santo Patrono: «protettore e quindi custode della città: e poiché la difesa della città era riposta nelle sue mura ecco che il Santo Patrono diverrà
27 R. Trexler, Public life in Renaissance Florence, New York, 1980.
28 E. Muir, Civic ritual Renaissance Venice, Princeton, 1981.
29 A. Benvenuti Papi, Pastori di popolo. Storie e leggende di vescovi e di città nell"Italia medievale, Firenze, 1988; Culto dei santi, istituzioni e classi sociali in età preindustriale, a cura di S. Boesch Gajano, L. Sebastiani, L’Aquila, 1984; Luoghi santi e spazi della santità, a cura di S. Boesch Gajano, L. Scaraffia, Torino, 1990.
30 S. Bertelli, Il potere oligarchico nello stato-città medievale, Firenze, 1978, p. 150.



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in modo specifico il protettore delle mura e il suo corpo, o una sua reliquia, sarà inumato direttamente nelle mura o immediatamente a ridosso di queste».31 A Perugia S. Erco-lano difese strenuamente la città durante l’assedio di Totila e per questo fu decapitato dall’alto delle mura. I concittadini lo seppellirono ai piedi delle mura stesse, dove dopo molto tempo, fu riesumato e trovato intatto a causa della sua santità. Quasi ruolo apotropaico sembra avere S. Tecla nel già citato dipinto del Tiepolo, in cui dall’alto delle mura difende Este dai pericoli della Peste. Come pure la Vergine Maria, nel dipinto di Benedetto Bonfigli, La Madonna del Gonfalone, camminando fuori dalle mura di Perugia, cerca di proteggere la città dai pericoli del contagio dello stesso morbo. D’altronde sono le mura che distinguono Yin dal-Vout, che «fanno» il tessuto urbano: «la città — un insieme di case, di monumenti, di mura — s’innalza sul suolo, s’oppone alla campagna e questa opposizione viene dalle sue mura, tanto che l’attributo araldico delle città è la corona di mura che la cinge [...]. La città medievale comincia con la costruzione della prima cinta di mura e finisce con la distruzione dell’ultima».32
Nel Rinascimento, nei trattati d’architettura, le mura sono sentite come il confine del corpo, come la membrana che avvolge la città antropomorfa: «Parmi di formare la città, rocca e castello a guisa del corpo umano è cche el capo colle corrispondenti membra abbi conferente corrispondenzia e’ cche el capo a rocca sia, le braccia le sue apricate e ricinte mura, le quali circulando essa ricigni ’l resto di tuto el corpo, an-prissima città, sì come Denocrate manifestamente a Lessan-dro in figura mostrò».33 Se è vero che dalla piazza, cuore
31 Bertelli, Il potere cit., p. 151.
32 Y. Renouard, Le città italiane dal X al XIV secolo, a cura di R. Perelli Cippo, Milano, 1975, pp. 12-16.
33 Francesco di Giorgio Martini, Architettura civile e militare, in Trattati di Architettura, ingegneria e arte militare, a cura di C. Maltese, Milano, 1967, III, 3.



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della città rinascimentale, si dipartono tutte le principali arterie, così come nell’ormai nota immagine del centro dell’uomo, dal quale si propagano le direttrici che convergeranno negli arti periferici, è vero anche che queste si arresteranno lì dove il confine interviene a contenerle, dove si innalza il recinto che separa questo spazio ordinato da ciò che, al di fuori, attende di esserlo.
La fondazione e le mura nell’antichità. — È stato detto che lo spazio urbano si definisce, perché racchiuso in un recinto, in un confine che ne evidenzia la peculiarità rispetto a ciò che è al di là. E noto come l’antico sistema normativo del mondo romano e germanico fosse puntuale e severo in questo campo, tanto che «una legge attribuita al (mitico) re Numa Pompilio condannava colui che arava fraudolentemente sopra una pietra terminale ad essere sacrificato agli Dei dell’ade. “Termino sacra faciebant, quod eius tutela fines agrorum esse putabant. Denique Numa Pompi-lius statuii, eum, qui terminum exarasset, et ipsum et boves sacros esse” [da Festus]».’4
I greci ritenevano intoccabili le orai (le pietre terminali), che credevano fossero sotto la protezione divina; ma queste non erano per loro oggetti di culto come per i romani. Nell’antica Roma, infatti, la tradizione culturale presentava differenti caratteri, che possono essere ricondotti a due principali motivazioni: nei resti di un vecchio culto della pietra e nel concetto religioso della santità dei confini. I termini, cippi, lapides, cioè le pietre terminali, erano considerate dai contadini romani sante. Quando era stata effettuata la termi-natio, cioè era stato stabilito un confine, si posava la pietra terminale con una cerimonia rituale. Questa consisteva, come descrive Siculus Flaccus35 nel Corpus agrimensorum scrit-
34 D. Werkmùller, Recinzioni, confini, segni terminali, in Atti del Convegno di Studi su (La città nell"Alto Medioevo’, Spoleto, 1974, pp. 641 e sgg.
35 Werkmùller, Recinzioni cit., p. 646.



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to nel II sec. d.C., nel deporre, nella fossa predisposta per il rito, vino, frutta varia, miele, sangue e le ceneri di un animale precedentemente sacrificato, prima di posare la pietra, che era stata unta e incoronata.36 Il 23 febbraio di ogni anno, quello che secondo il calendario romano era l’ultimo giorno dell’anno, si celebravano i terminalia e si ripeteva, quindi, la consacrazione delle pietre terminali, con la loro incoronazione, unzione e sacrificio. E in base a questo che la già nominata legge di Numa Pompilio dichiarava sacer, cioè escluso dalla comunità, colui che alterava un confine e che diventava res nullius: poteva cioè essere ucciso da chiunque. Nel suo studio sul?exilium romano Giuliano Crifò ricorda la definizione di Festo secondo la quale «homo sacer’ è ’is... quem populus iudicavit oh maleficium’ e la cui immolazione è nefas»?1 Nella coscienza medievale l’alterazione del confine ebbe un carattere anche più severo di quello delle fonti del diritto romano e germanico precedente. Un aspetto interessante è quello della «protezione preventiva dei confini» contro l’alterazione dei segni terminali.38 Si ponevano, cioè, sotto la pietra liminale dei testimoni segreti, quali cio-toli spaccati, che potevano essere riuniti, oppure vetro o carbone, ossa o piombo: inoltre il materiale e la sua disposizione era un segreto custodito da giuramento. Un altro passo della tradizione relativa alla protezione preventiva dei confini è quello relativo alle processioni annuali che tutta la comunità faceva lungo il perimetro del suo territorio (circuitus, ambitus), forse un’usanza di origine indogermanica, tramandata da tutte le tribù del periodo franco fino all’età moderna. Sappiamo, d’altronde, che le delimitazioni terminali, so-
36 Corpus agrimensorum romanorum, recensuit C. Thulin, voi. I, fase. I, Opu-scula agrimensorum veterum, Lipsiae, 1913, p. 104: «[...] unde aut diversa aut nulla signa inveniuntur, cum enim terminos disponerent, ipsos quidem lapides in solidam ter-ram rectos collocabant proxime ea loca, in quibus fossis fractis posituri eos erant, et unguento velaminibusque et coronis eos coronabant».
37 G. Crifò, L'esclusione dalla città, Perugia, 1985, p. 35.
38 Werkmùller, Recinzioni cit., p. 656.



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no, oltre che confini di diritto, gli unici elementi che conferiscono «territorialità». Infatti i confini del territorio di appartenenza non sono fissi: a seconda delle condizioni sociopolitiche e dei rapporti intercomunitari, questi si estenderanno dal villaggio alla regione, dalla regione alla nazione, dalla nazione addirittura a più nazioni, territorialmente e psicologicamente appartenenti al medesimo Stato. Ma confine non è solo ciò che si materializza in un elemento architettonico, quale ad esempio il perimetro di cinta; infatti ciò che fa limen può essere anche semplicemente una linea, un solco, un recinto ideale, purché questo sia stato reso simbolicamente rappresentativo attraverso un rito.
Oppida condebant in Latio Etrusco ritu multi... et oppida quae prius erat circumducta aratro ab orbe et urvo urbes; ideo coloniae nostrae omnes in litteris antiquis scribuntur urbis, quod item con-ditae ut Roma, et ideo coloniae et urbes conduntur, quod intra pomerium ponuntur:
così Marco Terenzio Varrone, nel De Lingua Latina (V, 143), evidenziava il termine pomerium, come elemento fondante il concetto stesso di città. La definizione che ne dà Livio arricchisce di elementi la configurazione del termine, aggiungendo spunti importanti per comprendere le varianti interpretative e le differenze che incisero sull’andamento storico del concetto:
Pomerium, verbi vim solam intuentes, postmoerium interpre-tantur esse: est autem magis ricamoerium, locus, quem in conden-dis urbibus quondam Etrusci, qua murum ducturi erant, certis circa terminis inaugurato consecrabant, ut neque interiore parte aedi-ficia moenibus continuarentur, quae nunc volgo etiam coniungunt et extrinsecus puri aliquid ab humano cultu pateret soli. Hoc spa-tium, quod neque habitari neque arari fas arat, non magis quod post murum esset, quam quod murus post id, pomerium Romani appellarunt, et in urbis incremento semper, quantum moenia pro-cessura erant, tantum termini hi consecrati proferebantur (Ab urbe condita, I, 44, 3).
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Secondo Livio, dunque, il pomerio era lo spazio inaugurato dall’approvazione divina per la costruzione delle mura: ecco perché le mura erano considerate sacre. La definizione di pomerio si fonda sul proposito di costruire le mura (due-turi come sostiene Livio) e non nella loro stessa edificazione.39 Le caratteristiche fondamentali del pomerio erano che doveva cingere la città senza interruzione ed essere unico, perché era considerato il confine délì’urbs, sia da un punto di vista giuridico che divino. Ecco perché tutta una serie di azioni erano considera extra urbem quando erano extra po-merium 40
Avvicinandoci all’età moderna, nel 1506 il testo di un «Weistum» tedesco, la procedura giudiziaria di Herrenbrei-tingen, riportava: «Chi consapevolmente sposta una pietra terminale, sarà interrato fino al collo. Poi quattro cavalli, non usi al lavoro dei campi, saranno attaccati ad un aratro nuovo e si arerà verso il collo del condannato fino a staccargli la testa».41 E probabile che nell’alto medioevo l’alterazione dei segni terminali non fosse più un crimine contro il culto, come nell’antica epoca romana: c’è da chiedersi, dunque, che cosa spinse gli scabini di Herrenbreitinger a emettere una sentenza così grave e insolita. Tale esecuzione, si chiede Dieter Werkmùller, aveva forse un carattere simbolico? e si può presupporre che derivasse da un delitto contro il «culto dei tempi lontani», prova di una continuità ininter-
39 P. Catalano, Pomerio, in Novissimo Digesto Italiano, XIII, Torino, 1966, pp. 268-271: «La definizione di Pomerio si fonda sul proposito di costruire le mura (ducturi come sostiene Livio) e non già nella costruzione stessa delle mura. Bisogna tenere ben distinte due azioni: L’inaugurazione che rende il luogo adatto alla costruzione delle mura, e la costruzione di queste: è la prima azione che costituisce il pomerio. Onde si apiega che in alcuni casi vi fosse il pomerio senza il muro e in altri il muro senza il pomerio».
40 Catalano, Pomerio cit., p. 271: «Una volta fondata Yurbs per modificare il tracciato del pomerio era necessaria l’inaugurazione della modifica. Poteva chiedere agli augures tale inaugurazione solo chi avesse lo ius proferendi pomerii».
41 J. Grimm, Weischumer, v. Ili, Gottingen, 1842, p. 590.



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rotta?42 Quando Remo prese a deridere suo fratello Romolo, che stava scavando il fossato in cui sarebbe sorto il muro di cinta della città, ad ostacolarne il lavoro e ad oltraggiarlo, santando poi al di là del confine tracciato, non prevedeva, forse, che questo sarebbe stato per lui un gesto fatale: ucciso da Romolo, come tramanda la leggenda e come ricorda Plutarco nella Vita di Romolo, passerà alla storia come l’autore di uno dei gesti più dissacranti che un uomo possa compiere. D’altronde, considerando anche solo alcuni tra i più famosi episodi di fondazioni, possiamo notare che spesso questi riti sono «sanciti» proprio da spargimenti di sangue: Eneo, dio del vino, uccide Toxeo, suo figlio, che aveva saltato il solco fatto dal padre intorno alla vigna; Poimandro uccide per sbaglio Leucippo scambiandolo per suo padre Policrito, l’architetto che in segno di spregio aveva saltato le nuove mura della città fortificata.45 Il solco sacro, che stabiliva il tracciato del pomerium, delimitava il territorio della nascente città e imponeva, quindi, il religioso rispetto all’area in, rispetto a quella out, posta al di fuori del sacro spazio. La ritualità connessa a questa cerimonia, con ogni probabilità, era stata ereditata presso i Romani dagli Etruschi, dato che molti autori latini fanno riferimento a questo evento; qualsiasi città aspirasse al titolo di urbs era legata alla necessità di tale rito di fondazione o rifondazione.44 La cerimonialità dell’evento
42 Werkmùller, Recinzioni cit., p. 642.
43 J. Rykwert, L'idea di città, Torino, 1981, p. 10.; D. Mazzoleni, Napoli e il rituale di fondazione in La città e il limite cit., p. 140: «TI taglio’, ‘l’individuazione’, la ‘nascita’ costituiscono, possiamo dire, le componenti separative del confine. A questo segue la violazione del confine, cioè il desiderio o la minaccia della refusione di ciò che è stato separato. Un evento che, nella tradizione mitologica, si risolveva con un duello. Si pensi al caso di Romolo e Remo: il fratello separativo è il fratello fusivo, quello che individua la città e quello che nega questa individuazione. La città può nascere solo a prezzo di una violazione, di una esorcizzazione del dramma attraverso un sacrificio. E non a caso la quadripartizione della città, scandita dall’incrocio tra platèiai e stenòpoi, ovvero cardines e decumani, rappresenta in modo simbolico esattamente questo sacrificio. La quadripartizione della città rappresenta infatti lo squartamento del corpo della vittima sacrificale».
44 M. T. Varrone, De lingua latina, V, 143 (ed. Riganti, Bologna, 1978).



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era codificata in un corpus di libri, sostanzialmente di derivazione etrusca, costituito da tavolette d’osso o di bronzo o da rotoli di lino, custoditi dal collegio dei pontefici. Queste preghiere avevano l’aspetto di formule rituali, prescrizioni e inni rivolti alle potenze divine.
Rituales nominantur Etruscorum libri in quibus perscribitum est quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur, qua sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae, centuriae distri-buantur, exercitus constituantur, ordinentur, ceteraque eiusmodi ad bellum ac pacem pertinentia:45
in questo modo Festo sottolineava l’importanza del rito di fondazione, presente con simili formule anche in Plutarco, Livio e molti altri autori latini. Questi cerimoniali sono raccolti nei Libri Tagetici (da Tagete folletto saltato fuori dall’aratro del lucumone Tarcone), che riguardavano l’interpretazione dei presagi e degli auruspici, e i Libri Vegoienses, che contenevano istruzioni per la lettura dei fulmini e di altri fenomeni naturali.46 Ab urbe condita, cioè dalla fondazione della città; è a partire da questo momento che comincia la storia di Roma. D’altronde spesso proprio i riti di fondazione forniscono la chiave per conoscere la storia di quella città: se ne possono capire i caratteri peculiari, l’antica forma urbana, le tradizioni religiose e le leggende legate al fondatore e al luogo della sua sepoltura, come pure alle reali e alle mitiche ragioni della scelta del sito.
45 Sexti Pompei Festi Rituales in De verborum significatu quae supersunt cum Pauli Epitone, ed. W. M. Lindsay, Lipsiae, 1913, p. 358.
46 Rykwert, L'idea cit., p. 259: «La data di celebrazione del rito doveva essere calcolata, come del resto era abituale a quei tempi, da un astrologo, in modo che coincidesse con un giorno di buon auspicio. Quando Alessandro de’ Medici fece costruire a Firenze la Fortezza da Basso, tanto odiata dal popolo, e che forse fu causa indiretta della sua uccisione, la complicata cerimonia della posa della prima pietra e quella della consegna si svolsero nel preciso momento determinato dagli astrologi. Nel corso della prima cerimonia, l’altare portatile su cui il vescovo officiante aveva appena finito di celebrare la messa fu calato nello scavo di fondazione, in attesa che due astrologhi (che in quell’occasione mancarono di sincronizzare i loro strumenti) dessero il segnale di posare la pietra».



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Il luogo magico: la scelta del sito. — È cosa importante individuare con premura ed attenzione un sito che garantisca un clima temperato per la città, essendo la salubrità il primo dei requisiti; così Vitruvio, nel De architectura (I. IV. 8),47 sottolinea il peso di una delle valutazioni fondamentali da effettuare prima di fondare una città, fornendo altresì le caratteristiche indispensabili per una migliore edificazione dell’urbe. «Non meraviglia quindi che un intero capitolo, il IV, venga riservato alla scelta del luogo dove fondare la città, con il logico corollario che tale sito sia igienicamente idoneo: ‘In ipsis vero moenibus ea erunt principia: primum electio loci saluberrimi’ (I, IV, 1); condizione ottenuta rispettando tanto gli insegnamenti della scienza alessandrina quanto le credenze dell’aruspicina etrusca».48 Infatti consiglia di costruire strade non parallele, affinché la furia dei venti, intrecciandosi nei vicoli, non funesti la città stessa; e questo contrariamente a quanto sosteneva Oribasio, revisore di Galeno, che suggeriva come migliore costruzione del tessuto urbano, strade parallele e lineari che garantissero una più adeguata areazione e salubrità, anche attraverso la luce e la circolazione. In realtà, al di là delle motivazioni climatiche, ambientali, geografiche ed anche militari e commerciali la scelta del sito era un fatto molto importante, da cui dipendeva il destino del popolo ed era per questo sempre affidata al volere divino. Probabilmente se Romolo fosse stato un greco avrebbe consultato l’oracolo di Delfi; mentre se fosse stato un sannita avrebbe seguito il lupo o il picchio, animali sacri. Ma essendo un latino, vicino agli Etruschi e consapevole dei principi della scienza augurale, chiese agli dei di rendere palese il loro disegno attraverso il volo degli uccel-
47 Vitruvii De Architectura, ed. F. Krohn, Lipsiae, 1912, p. 15.
48 G. Morolli, Vitruvio e la città dei venti regolari, in Architettura militare nell'Europa del XVI secolo, «Atti del Convegno di Firenze 25-28 novembre 1986», a cura di C. Cresti, A. Fara, D. Lamberini, Siena, 1988, p. 305.



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li:49 in questo modo avveniva una delle forme di inaugura-tio, (preghiera, descrizione di segni, individuazione del sito), che era seguita poi dalla conregio (disegno dello schema urbano fatto a terra con il lituus, bastone ricurvo), dalla con-spicio (in cui l’augure abbracciava con lo sguardo il territorio definito) e dalla cortumio (con la quale l’àugure leggeva l’evento verificatosi come auspicio).
Come il templum anche la città si presenta, spesso, di forma circolare (a volte quadrata), tagliata in quattro parti dal cardo e dal decumano, anch’essi calcolati con precisi strumenti di orientazione. Per quanto riguarda l’accampamento romano, e le città derivanti da tali accampamenti, quale Firenze, si sa che erano preferibilmente scelti terreni pianeggianti, anche se risultava assai complesso poter dare una vera definizione pianimetrica. Per ciò che riguarda l’orientazione questa si basava su vari sistemi di agrimensura; tra questi il più attendibile è considerato quello descritto da Vi-truvio (De architectura, I, 6.6-7): infatti, dopo aver preso uno sciòtherum (asta di bronzo usata per questa operazione) si collocava questo al centro di un cerchio su una tavoletta di marmo. E interessante notare tali elementi proprio perché perfettamente rintracciabili nell’affresco sulla fondazione di Firenze che il Vasari eseguì nella volta del Salone dei Cinquecento in Palazzo della Signoria, segno evidente quindi del desiderio di «recuperare» le origini romane della città. Venivano così calcolati il cardo e il decumano, in base alle estremità dell’ombra disegnata sul cerchio prima e dopo il mezzogiorno e collegate tra loro.50 Questo asse corrispondeva al decumano, mentre il suo asse, calcolato in base al centro del cerchio, costituiva il cardo. Se si legge la pianta fiorentina si possono ben individuare questi punti di riferimento: infatti il cardo maggiore risulta essere sull’attuale as-
49 N. D. Fustel De Coulanges, La cité antique, (ed. or. Paris, 1880), tr. it. Firenze, 1972, p. 153.
50 Vitruvii De Architectura cit., p. 22.



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se di congiunzione tra via Larga e, passando davanti al Battistero, via Roma e Calimala, mentre il decumano maggiore si situa sull’attuale asse di via Strozzi - via del Corso, che termina sulla colonna dell’Abbondanza, in piazza del Mercato Vecchio, possibile umbilicus, rappresentante il punto di intersezione tra gli assi maggiori ed anche il mundus, cioè il luogo ove era stata scavata la fossa concava sacra agli dei degli inferi,51 successivamente diventato il Foro e il Campidoglio. La croce risultante da quest’intreccio era il cuore del quadrato dell’accampamento romano primitivo, che escludeva il sito della cattedrale. Fondamentale ai fini della scelta del sito era, come si è già detto, consultare gli àuguri, fare cioè l’auruspicina: «per scegliere una zona in cui stabilire una città o un quartiere militare, i nostri antenati sacrificavano agli dèi alcuni capi di bestiame che pascolavano in quel luogo e ne osservavano il fegato. Se esso si presentava livido e corrotto, per verificare se questo fatto fosse dovuto a qualche malattia o alla cattiva alimentazione, sacrificavano altre vittime. [Solo] dopo aver effettuato più tentativi... dislocavano i loro insediamenti».52 In questo modo scelto il sito, era necessario predisporlo ad essere occupato, per fare ciò, come ricorda Dionigi di Alicarnasso e, riprendendo lui, Leon Battista Alberti, venivano accesi dei fuochi dislocati nello spazio prestabilito ed era imposto a coloro che sarebbero stati i futuri cittadini di saltare al di sopra di questi, affinché nell’entrare in città si purificassero delle loro impurità.53 In questo modo lo spazio della città era garantito in tutta la sua verginità e in tutta la sua sacralità.
Il castro romano. — Per i Romani organizzare un accampamento non era soltanto un evento militare, ma rispondeva a un rituale che prevedeva precise norme di cerimonia-
51 M. Lopes Pegna, Firenze dalle origini al Medioevo, Firenze, 1962, p. 63.
52 Vitruvii De Architectura, I, 4.9, p. 15.
53 Rykwert, L'idea cit., p. 55.



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lità. Per prima cosa si impiantava il vexillum del comandante, che serviva da orientamento per la direzione del cardo maximus (asse maggiore che conduceva verso la porta pretoria, cioè la porta principale) e del decumano maximus.™ Una volta stabilito l’impianto ortogonale, su questo venivano tracciate le strade in modo parallelo e intersecante, in modo da creare l’idea di un quadrato ideale, simmetricamente sezionato dai quadrati corrispondenti all’incrocio delle strade, tagliate ad angolo retto. Dionigi di Alicarnasso afferma che Romolo tracciò un quadrato intorno al Palatino, lasciando il tempio di Vesta al di fuori di questo confine.55 Questo potrebbe far pensare alla ragione per cui spesso il tempio non è incluso nel quadrato del recinto romano che esclude, inoltre, anche le chiese «fuori le mura». Il problema della pianta ortogonale di molte realtà urbane italiane non è esclusivamente derivante da un rituale etrusco, come spesso sostenevano i romani stessi, riconducendolo ai loro illustri predecessori. Infatti la disposizione quadrata si trova in America meridionale, in Cina, in India, in Egitto e in Italia a partire dalla fine del VI secolo avanti Cristo.56 E probabile che la stessa desinenza inglese Chester, derivante dal latino castrum, e presente in molti nomi di città come Winchester, Manchester, Chester sia proprio frutto del ricordo della consuetudine romana di fondazione dell’accampamento militare. Ma perché Roma quadrata e perché l’immagine ortogonale, solo parzialmente opposta a quella circolare, resteranno quelle riassuntive di una forma ideale e simbolicamente rappresentate la perfezione urbana, come possiamo notare poi nelle raffigurazioni anche delle città divine e di quella celeste per
54 Anche questi sono simboli importanti e ben evidenti nel già citato affresco della «Fondazione di Firenze» rappresentata nel Salone dei Cinquecento, in Palazzo della Signoria, ad opera del Vasari.
55 Dionisio Halicarnaseo, Delle cose antiche della città di Roma, tr. di F. Venturi, Venetia, 1545, II, 65.3.
56 Rykwert, L'idea cit., p. 80.



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eccellenza, Gerusalemme? A questo proposito Joseph Riyk-wert ricorda che «il rito di fondazione di una città richiama una delle grandi forme ricorrenti dell’esperienza religiosa. La costruzione di qualsiasi dimora umana o edificio è sempre in un certo senso un’anàmnesis, una rievocazione della divina «istituzione» di un centro del mondo. Perciò il sito in cui si costruisce non può essere scelto arbitrariamente, e neppure «razionalmente» dai fondatori, ma deve essere «scoperto» attraverso la rivelazione di un mediatore divino; e una volta avvenuta la scoperta, occorre assicurare, la permanenza della rivelazione di quel sito. Il dio o l’eroe raggiungono il centro dell’universo o la sommità della montagna cosmica dopo aver superato epicamente certi ostacoli; i comuni mortali possono trovare lo stesso luogo per anagogia, con la mediazione di un rito, che [...] sarà quello dell’orientazione».57 Meraviglia relativamente, dunque, il fatto che, come gli àuguri organizzassero ritualmente il templum in quadrati scanditi dal cardo e dal decumano, così pure i fondatori dividessero la città in modo analogo e i successivi rivelatori adoperassero il medesimo metodo di suddivisione del terreno in lotti. Tre differenti modalità di organizzare la medesima esperienza spaziale. I confini, infatti, erano sempre riferiti ad un ordine cosmico e questo intento resterà costante nei secoli: i decumani sono paralleli al corso del sole e i cardines hanno la stessa direzione dell’asse celeste. Molti scrittori antichi, come Frontino, Igino e Varrone,58 ricordano che con l’atto del tracciare la croce all’interno del cerchio, stando sull’alto della collina sovrastante il sito, l’àugure si poneva al centro del mondo sacro; gli abitanti del luogo, quindi, venivano a trovarsi all’interno dello spazio che aveva subito questo atto divinatorio e che inevitabilmente sanciva le proprie di-
57 Rykwert, L'idea cit., p. 102.
58 Corpus agrimensorum Romanorum cit., 1913.



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rettrici fondamentali sulle linee corrispondenti agli assi della croce stessa.
L’«imago urbis». — Le mura sono il simbolo per eccellenza dell’ideogramma urbano. Basti pensare alla presenza rassicurante e forte di quelle senesi, rappresentate nel Buon Governo, di Ambrogio Lorenzetti in cui i bastioni e la cinta appaiono come diaframma dialettico tra città e campagna: da un lato le abitazioni, la piazza, la società urbana, dall’altro i campi, il lavoro agrario, la wilderness, la natura.
Sappiamo che l’immagine della città che riusciamo a leggere nelle rappresentazioni tardo-medievali delle topografie urbane non è certo quella reale. Ai fini di una comprensione della realtà urbana appare però altrettanto significativa la simbologia con cui la città è rappresentata, spesso sintetizzata nei suoi essenziali elementi informatori: le mura, emblema della realtà terrena, la cattedrale, emblema della sublimazione di tale realtà. In questo modo Vimago urbis diventa proiezione imperfetta e corrotta del mondo ultraterreno, così come la città viene ad essere il simbolo di una realtà sacrale che la trascende: le mura, recinto sacro di uno spazio definito, e la chiesa, tempio terreno del divino, diventano sufficienti a definire la morfologia della città. E proprio questo, infatti, che si può osservare nel disegno di Baldassarre Peruzzi (1481-1536), che, pur non essendo la più antica rappresentazione di Firenze, nella sua essenzialità offre l’immagine della città come uno spazio evidenziato dalla cinta muraria con le sue porte, attraversato dal fiume con i suoi ponti, e rappresentato unicamente dal duomo e dal battistero. Tra le prime raffigurazioni di Firenze si possono ricordare quella del Bigallo e quella nell’affresco nella volta della sala delle udienze, nella sede dell’Arte dei Giudici e Notai in via del Proconsolo.
La prima, Civitas Florentie — particolare dell’affresco della Madonna della Misericordia, attribuita ad Antonio da Barberino —, risale all’inizio del Trecento ed è forse la più



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antica piazza di Firenze. In questa raffigurazione si può notare come, nonostante le norme adottate nel tredicesimo secolo per la riduzione di tutte le torri, l’area del centro della città fosse ancora caratterizzata da uno sviluppo visibilmente verticale dell’edilizia, con l’assenza dei «vuoti» e con la presenza di strade molto strette. Nel secondo affresco, invece, ci troviamo di fronte a qualcosa di notevolmente diverso. La struttura politica di Firenze si rispecchia in una complessa figura formata da cerchi e composta di elementi araldici: nel centro abbiamo gli emblemi del Comune, della parte Guelfa, del Popolo e delle comunità di Firenze e di Fiesole; nel secondo cerchio vi sono gli stemmi dei quartieri e dei gonfaloni; nel terzo, le immagini dei Santi Patroni delle Arti; nel quarto, gli stemmi delle Arti e alcuni elementi architettonici quali le mura della città, come cerchio più esterno della figura.59 La prima lettura di questo affresco ci porta subito a considerare la gerarchia spaziale riflessa nella raffigurazione, la prossemica presente nella distribuzione delle distanze dai poli di importanza e la connotazione simbolica delle principali rappresentanze politiche della Firenze di allora. Ma se si osservano con maggiore attenzione i particolari della forma prescelta dall’autore dell’opera, cioè quella circolare, si è costretti a fare alcune considerazioni sul significato della circolarità come adozione di schema rappresentativo nelle raffigurazioni urbane: infatti il concetto riporta all’ideale antico della città cosmica, come proiezione terrena della realtà celeste,60 affiancato e, in alcuni casi opposto, alla città quadrata. Citando Platone, L’Orange ricorda come la città cosmica, costruita da Zeus sull’Acropoli, fosse circondata da un circuito di mura e divisa in dodici parti, che sancivano una suddivisione interna in dodici sezioni relative agli spazi,
59 G. Fanelli, Firenze, Bari, 1988, p. 55.
60 H. P. L’Orange, Studies on thè Iconography of cosmic Kingship in thè An-cient world, Oslo, 1953, p. 9.



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ai tempi e ai suoi abitanti divisi in clan. Tra i Medi, i Persiani, gli Abassidi e altre popolazioni antiche orientali, questo schema ideale di circolarità si affermò non solo per la fondazione delle città, ma anche per la collocazione del palazzo reale e la distribuzione degli spazi interni, che prevedeva la collocazione dell’edificio residenziale reale al centro dell’area urbana, all’incrocio tra gli assi che si intersecavano all’interno del cerchio. E singolare, quindi, che l’ideale di città adottato dall’anonimo autore del dipinto fiorentino nella Sala dei Giudici e Notai abbia una morfologia circolare, ben strutturata nelle sue suddivisioni interne esattamente come secondo i parametri esposti da Platone nella rotonda città dell’Oriente antico. Questa idea di circolarità contrasta in parte con la simbologia adottata dal campo quadrato dell’accampamento romano che instaura, invece, una tradizione differente nell’ambito delle città di fondazione romana, derivanti dall’antico castro militare. Immutata è comunque la quadripartizione interna: «four quadrants wich reflect thè four quarters of thè world [...]: to thè imagination of thè Middle Ages this ground-plan constitutes a sort of ideal city — as shown in a Norwegian 13th century design of Holy Jerusa-lem».61
Nella Sala dei Giudici e Notai, Firenze appare raffigurata secondo l’ideale medievale della città cosmica, come andava affermando la tradizione dell’oriente cristiano, che sarà poi la Gerusalemme celeste. Nel ’400 le fonti iconografiche si fanno più numerose e ricche di particolari. Tra le più famose e suggestive sicuramente è da collocare la veduta «berlinese» o della Catena (1472), attribuita a Francesco Rosselli e risalente al 1471 circa. In questa compare un quadro dettagliato del panorama fiorentino del momento: le zone maggiormente edificate e quelle vuote, gli assi di riferimento viario (direttrice di via Faenza, di via S. Gallo, di via della
61 L’Orange, Studies cit., p. 13.



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Vigna Nuova e per l’Oltrarno di Ponte Vecchio, S. Felicita, palazzo Pitti, S. Felice, Porta Romana), i poli organizzativi intorno alle principali chiese, i palazzi pubblici e quelli privati, gli edifici ecclesiastici e assistenziali. Momento di passaggio tra la veduta della Catena e il tipo di rappresentazione del secolo precedente possono considerarsi le piante contenute nei Tolomei Vaticani (cod. Vat. lat. n. 5699 e cod. Vat. Urbinate n. 277) datate l’una 1469 e l’altra 1472.
In queste vedute (codici Tolemaici), il ruolo delle mura è determinante per l’individuazione della forma generale della città ed è evidente il valore attribuito alla porta come tramite sia reale che simbolico tra lo spazio interno urbanizzato e quello esterno. Se le piante vaticane sono così riassuntive dello scenario urbano, la veduta berlinese è sicuramente molto più descrittiva. Infatti propone un nuovo modo di percezione della città; con l’emergere della nuova borghesia legata all’attività bancaria e commerciale l’immagine dell’urbe diventa elemento di propaganda, tentativo di contrabbandare un’idea di potenza, di ricchezza e di floridità economica, che non sempre fa fede al reale. Di tutt’altro genere è l’immagine delle porte urbane che si trova nella Deposizione del Beato Angelico, conservata nel Museo di S. Marco a Firenze e datata 1435. Si tratta della raffigurazione di una città ideale, nella quale l’Angelico vede la città terrena volta ad incarnare la città celeste.62
62 Archivio di Stato di Firenze (da ora in poi ASF) Manoscritti, 119, cc. 29r-31r: in questo noto documento, che qui si riporta per permettere di confrontare gli elementi citati, la descrizione elogiativa del Dei può affiancarsi alle raffigurazioni pittoriche e grafiche: «Florentie bella à retto nella sua signoria a libertà anni millecinquecientoquarantacinque infino a oggi questo dì sanza mai mutare segni© o moneta o bandiera, perch’ella fu edifichata, chominciata e posta anni 72 inanzi all’avenimento di Christo, come se mostra chiaro e testimonianza vera lo duomo di San Giovanni del batesimo, lo quale era e fu il tempio di Marte, avanti che’ Fiorentini fussino christiani [...]. Florentie bella à 3600 palazzi fuori della città a miglia cinque, e qua palazi sono murati e achonci di pietre vive e chonci ischarpella-ti, adorni di posessioni e di bestiame da lavorargli [...]. Florentie bella è drento alla città chiese 108, le qua’ s’uficiano e mattina e sera, e sono a ordine e ’n punto



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Ma è sicuramente con la descrizione di Benedetto Dei che troviamo la piena rappresentazione di Firenze in tutti i suoi angoli e piazze e, soprattutto, nell’atmosfera serena della sua floridezza, che l’autore ha voluto far trapelare.63 Del 1520 è la pianta del Peruzzi, di cui si è già parlato, che illustra schematicamente lo stato delle fortificazioni fiorentine questa precede di pochi anni la relazione di Machiavelli Del fortificare Firenze e l’avvio degli interventi cinquecenteschi sul circuito murario, il cui fatto più appariscente sarà l’abbattimento delle torri. Il salto qualitativo, nelle rappresentazioni della città del giglio, è sicuramente rappresentato dalla pianta eseguita nel 1584 da Stefano Buonsignori, monaco olivetano e celebre cartografo dei granduchi Francesco I e Ferdinando I, in cui Firenze appare nel suo assetto definitivo cinquecentesco ed in cui chiare si dimostrano le scelte urbanistiche operate nel corso del XVI secolo, oltre che le definizioni delle aree di riferimento socio-politiche.
L’evoluzione delle piante fiorentine. — Non è possibile affrontare un discorso globale sulle trasformazioni di uno spazio urbano, senza preliminarmente ripercorrere le vicende alterne del suo perimetro. Come un organismo vitale, la città cresce, si espande, ma anche si ritira, a seconda delle
meravigliosamente chon chiostri e chapitoli e rifettori e ’nfermerie e sagrestie e librerie e chanpane e chanpanili e reliquie e chroci e chalici e argienterie assai e piene di paramenti d’oro e d’argiento e velati e domaschini, chome lo sanno benissimo li frati forestieri, li chuali venghono le chuaresime a predichare a Fiorenza [...]. Florentie bella à 23 palazzi drento alla città, là dove sono e signori e ufiziali e chan-cellieri e chamarlinghi e proveditori e notai e donsegli e famigli, e là dove sono le ventitré arte intere, le quale sono sopra la terra e quelle che bisogniano a una città perfetta [...]. Florentie bella à 50 paze drento alla città, nominate e in su ’n ogni piazza v’è chiese ed evvi palazzi e chase d’intorno de’ principali cittadini de’ reggimento, e piene di merchanti e di botteghe al bisognio [...]. Florentie bella à drento alla città 365 chasati e poarentele, che v’è chasato e parentado là dove sono 200 cittadini o più da portare arme [...].
63 G. Villani, Cronica di Giovanni Villani a miglior lezione ridotta coll’aiuto de’ testi a penna, a cura di F. Dragomanni, Firenze, 1884-85, L. Ili cap. II pp. 137-140.



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vicende storiche, che restano sedimentate nella memoria dei suoi abitanti e che presto si trasformano in mito. E il caso del racconto di molti cronisti fiorentini, primo tra tutti Giovanni Villani:
San Piero maggiore, al modo di Roma, e da quella porta seguirono le mura inverso il duomo, come tiene oggi la grande ruga che va a S. Giovanni infino al vescovado; e ivi avea un’altra porta che si chiamò porta del duomo, e chi la chiamò porta del vescovo; e di fuori da quella porta fu edificata la chiesa di San Lorenzo, al modo che è in Roma San Lorenzo fuor le mura; e dentro a quella porta è San Giovanni, siccome in Roma San Giovanni in Laterano. E poi conseguendo, come a Roma, da quella parte fecero Santa Maria Maggiore; e poi da San Michele Berteldi infino alla terza porta di San Brancazio, ove sono oggi le case de’ Tornaquin-ci, e san Brancazio era fuori della città, e appresso san Paolo, a modo di Roma, dall’altro lato della città incontra san Piero, come in Roma. E poi dalla detta porta di san Brancazio conseguendo ov’è oggi la chiesa di santa trinità ch’era fuori delle mura, e ivi presso, ebbe una postierla chiamata porta rossa [...]. E poi si vol-gieno le mura ove sono oggi le case degli Scali per la via di Terma infino in porte sante Marie, passato alquanto Mercato nuovo, e quella era la quarta mastra porta [...], e di sopra alla detta porta era la chiesa di santa Maria chiamata Sopra porta [...] E il borgo di santo Apostolo era di fuori della città, e così santo Stefano al modo di Roma; e di là da santo Stefano [...] fecero e edificarono uno ponte con pile di macigni fondato in Arno, che poi fu chiamato ponte vecchio, ed è ancora; e fu assai più stretto che non è ora, e fu il primo ponte che si facesse a Firenze. E dalla porta di santa Maria seguieno le mura infino al castello Altafonte, ch’era in sul corno della città sopra il fiume d’Arno; seguendo poi dietro alla chiesa di san Piero Scheraggio, che così si chiamava per uno fossato, ovvero fogna, che ricoglieva quasi tutta l’acqua piovana della città ch’andava in Arno, che si chiamava lo scheraggio; e dietro alla chiesa di san Piero Scheraggio avea una postierla che si chiamava porta Peruzza, e di là seguivano le mura per la grande ruga infino alla via del Garbo, e ivi avea un’altra postierla; e poi dietro alla Badia di Firenze ritornavano le mura alla porta di san Pietro. E di così piccolo sito si rifece la nuova Firenze con buone



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mura e spesse torri, con quattro porte mastre, ciò sono dette porta san Piero, porta del Duomo, porta san Brancazio, e porta santa Maria, le quali erano quasi in una croce; e in mezzo della città era santo Andrea al modo com’è in Roma, e santa Maria in Campidoglio; e quello ch’è oggi Mercato vecchio, era il mercato di Campidoglio, al modo di Roma. E la città era partita in quartieri, ciò sono dette le quattro porte; ma poi quando si crebbe la città, si recoe a sesti, siccome a numero perfetto, che si aggiunse in sesto d’Oltrarno dapoiché si abitò [...].64
Villani non è certo un archeologo; quello che qui riferisce deve essere considerato piuttosto la codificazione di una tradizione orale, non sappiamo quanto antica. Ciò che di certo risulta è che la colonia romana di Florentia nasce, come detto, intorno al 59 a.C. e si colloca all’interno della centu-riazione nell’area a Nord dell’Arno, sull’asse della via Cassia. L’aspetto quadrangolare obbedisce alla consuetudine sacrale di fondazione, che prevedeva il castrutn orientato in modo cosmico nella direzione dei punti cardinali. Il pome-rium circondava l’area urbana divisa in quattro parti dall’incrocio del cardo (asse Nord-Sud) e del decumano (asse Est-Ovest) nel Forum. Rispetto all’Arno Florentia era situata a poche decine di metri a Nord e ne controllava il porto e il ponte (Vecchio). Il perimetro periferico si sviluppava per circa 1800 metri con una lunghezza laterale, quindi, di circa 450 metri per ciascuno dei lati.65 Quasi a metà di ogni lato, in corrispondenza dell’uscita degli assi viarii principali, erano edificate le quattro porte: quella a Nord, contra Aqui-lonem, era situata nell’odierna via Roma all’incrocio con via dei Cerretani. Quasi a metà di via de’ Banchi il tracciato murario aveva una rotazione di circa 90° e si inseriva nel-
64 Lopes Pegna, Firenze cit., 1962.
65 Relazioni degli ambasciatori veneti al senato, a cura di A. Segarizzi, III, Bari, 1916, p. 39 (Relazion fatta per Marco Foscari nell’Eccellentissimo Conseglio di Pregadi della Legazione de Fiorenza, con qualche cosa adiuncta da lui nel scrivere essa legazione, 1527).



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l’attuale via Tornabuoni; lì, all’incrocio con via Strozzi e via della Vigna Nuova, era posta la porta Principalis sinistra. Proseguendo verso Nord e il ponte S. Trinità, le mura volgevano nuovamente verso Est, fino al lato Sud-Ovest di piazza S. Firenze. A metà di questo tracciato c’era la Porta Decumana, all’imbocco di via Vacchereccia; infine da piazza S. Firenze il percorso murario proseguiva in via del Proconsolo a metà della quale, all’inizio di via del Corso, c’era la Porta principalis dextra. Infatti la torre sulla quale si appoggia il palazzo del Bargello sembra sia una delle torri dell’antica cinta. Fino al V secolo, Firenze, posta in un punto nevralgico per i traffici lungo la valle dell’Arno, godrà di una notevole floridità e di un discreto prestigio legato anche al suo essere sede vescovile. La decadenza si avrà nel secolo successivo, in seguito alle guerre gotiche. I Bizantini, che governavano allora la città, per opporre una valida resistenza alle truppe del re Totila, dovettero ridurre il perimetro delle mura romane.
Questo momento storico verrà ricordato, nel Cinquecento, dall’ambasciatore veneto Marco Foscari, nella propria relazione al Senato: «Da poi, saccheggiata e mezza ruinata Roma da Totila re de’ Goti, Fiorenza anco fu ruinata e nudata de’ muri dal predetto Totila, e per 300 anni stette senza cittadini. Ma in capo de’ anni 300, che fu del 800, Carlo Magno imperatore instaurò Fiorenza e la circondò di mura, di modo che ritornorno cittadini ad abitarla».66 Benché lo dividano centinaia di anni dai fatti che riassume, Marco Foscari sa bene il valore di quell’annotazione. «Senza mura» equivale per lui a «senza cittadini»: il recinto di confine coincide infatti, lo si è già rilevato, col perimetro di identificazione dello spazio di appartenenza della comunità, ciò che distingue dall’anonima realtà esterna. Il senso giuridico, come è noto, rispettava questa differenza, conferendo il diritto
66 Davidsohn, Storia cit., I, p. 1089.
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di cittadinanza a tutti coloro che appartenevano alla comunità e vagliando attentamente la richiesta di coloro che chiedevano di entrare a far parte di essa. Marco Foscari ricorda che Firenze, privata delle sue mura, era res nullius, terreno senza una sua identità, senza suoi concittadini: ristabilito il confine tornò ad essere città ricca dei suoi cittadini.
Il tracciato di questa seconda cerchia aveva le mura settentrionali che, partendo dal Campidoglio (incrocio via Corsi-via de’ Vecchietti), attraversavano via Tosinghi e via delle Oche: a metà del lato, all’incrocio con via Roma, c’era la Porta Settentrionale, mentre quella Orientale era situata a metà delle mura orientali che correvano lungo via dei Cerchi, all’incrocio con via del Corso. Le mura meridionali, invece, attraversavano piazza della Signoria per giungere in via delle Terme: a metà di questo tragitto si apriva la Porta Meridionale in corrispondenza di Por S. Maria. L’ultimo lato delle mura, quello occidentale, percorreva via de’ Sassetti, via de’ Vecchietti e tornava in Campidoglio, dopo aver oltrepassato la Porta Occidentale situata a metà dell’attuale via Strozzi. La ragione di questa riduzione dell’area urbana fu probabilmente anche il risultato di una contrazione demografica, che avrà un trend ascendente, invece, nella successiva erà carolingia, quando la popolazione appare in discreto aumento.
La tradizione ha molto valorizzato l’edificazione della cerchia carolingia, sia legando il gesto di Carlomagno al ritrovamento della statua di Marte in Arno, sia all’arrivo in città di alcune reliquie provenienti dalla Terrasanta e in particolare quelle di Genesio e di Eugenio: spiegazione profana, la prima, cristiana la seconda. Il tracciato delle mura carolinge ripercorse ad Ovest e ad Est il perimetro della città romana, mentre a Nord conservò quello bizantino, avvicinandosi all’Arno nella direzione meridionale. A settentrione, quindi, il lato viene ad essere: Campidoglio, via de’ Tosinghi, via delle Oche con nel mezzo la porta contra Aquilonem, all’incrocio tra via Roma e via Tosinghi. Il lato orientale percor-



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reva via del Proconsolo, piazza San Firenze, via de’ Leoni e giungeva nei pressi di via de’ Neri, con la Porta Orientale all’inizio di via del Corso. Il lato meridionale, invece, da via de’ Neri andava verso via Lambertesca, il Castello d’Al-tafonte (sulla cui area sorge oggi il Palazzo de’ Giudici), fino a Borgo SS. Apostoli e l’attuale piazza S. Trinità. All’incrocio di via Lambertesca e via Por S. Maria era situata la Porta ad Pontem. Era questa la nuova area inclusa nel perimetro rispetto alla zona interna all’antico perimetro romano. Il lato occidentale andava da piazza S. Trinità a piazza Anti-nori attraverso via de’ Tornabuoni, intervallata dalla Porta Occidentale all’incrocio con via Strozzi.
Nel 1078 la contessa Matilde, per difendere Firenze dagli attacchi esterni, pensò di circondare la città di una nuova cerchia di mura, chiamata appunto ‘matildina’ o «cerchia antica di Cacciaguida», perché risalente al periodo del trisavolo dantesco. Questa quarta cerchia ristabilirà, allargandoli rispetto a quelli bizantini, gli antichi confini romani, dando un assetto all’area urbana più o meno definitivo anche rispetto ai successivi aggiustamenti tardo medievali. Non a caso sarà questo perimetro quello ricorrente, come si vedrà più tardi, nei percorsi processionali medievali e rinascimentali. Il lato Nord di questo tracciato era rappresentato, fino al Duomo, da via dei Cerretani, a metà della quale, all’altezza di Borgo S. Lorenzo, sorgeva la Porta del Vescovo. Proseguendo, all’angolo con via de’ Servi c’era la postierla dei Visdomini, dopo la quale il tracciato piegava di novanta gradi, proseguendo fino al Castello d’Altafonte passando, dietro al Duomo, per via del Proconsolo. A metà di questo percorso, all’incrocio con Borgo Albizi era situata la porta San Piero. Il lato meridionale prevedeva un rientro nella direzione in via Lambertesca e Borgo SS. Apostoli fino a S. Trinità. A metà di questo tragitto era situata la Porta Santa Maria, all’angolo con Por S. Maria. Il lato occidentale, partendo da S. Trinità, si indirizzava verso via de’ Tornabuoni e via Rondinelli, per ricongiurgersi con il lato settentrionale



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in via de’ Cerretani, nei pressi della postierla dell’Alloro. A metà di via de’ Tornabuoni si apriva la Porta San Pancrazio, nel punto d’incrocio con via della Vigna Nuova e via della Spada. La popolazione racchiusa nelle mura matildine pare si aggirasse intorno alle ventimila unità. L’aumento della popolazione aveva causato, la formazione di molti borghi davanti a tutte le nuove porte, mentre il terreno disponibile compreso fra il primo e il secondo cerchio si era rapidamente coperto di case».67 Nel 1172 il Comune decise di includere all’interno del perimetro di cinta tutti i sobborghi che nel frattempo si erano ingranditi, diventando zone di vasta densità demografica. Il fenomeno tuttavia implicò lo spostamento degli assi viarii e dell’orientazione stessa della città, che subì una rotazione di circa quarantacinque gradi rispetto al quadrato romano, orientato sui punti cardinali. Il lato occidentale andava dall’attuale piazza Goldoni al Canto de’ Nelli, in piazza S. Lorenzo. Su questo lato, tra via Palazzuolo e via de’ Fossi c’era la Porta S. Paolo; il tracciato settentrionale, invece, percorreva l’itinerario dal Canto de’ Nelli fino all’attuale piazza Salvemini, passando per via de’ Pucci e via S. Egidio; su questo lato le porte erano quelle di S. Lorenzo, su via de’ Ginori, e la Porta di Balla tra via de’ Servi e via de’ Pucci. Per ciò che riguarda il lato orientale il percorso prevedeva l’asse piazza Salvemini - via Verdi -via de’ Benci, fino al Corso de’ Tintori, per poi voltare verso piazza de’ Giudici; su questo lato c’erano le Porte S. Piero, Ghibellina e de’ Buoi. Infine il lato meridionale andava da piazza de’ Giudici fino a Piazza Goldoni, passando attraverso Borgo S.S. Apostoli: all’incrocio con Por S. Maria c’era la Porta di S. Maria. La popolazione che abitava quest’area si aggirava più o meno intorno alle quarantamila unità.
Le cinque cerehie fin qui descritte precedono l’ultima cerchia di mura (la terza medievale, seconda comunale), quella
67 F. Sznura, L'espansione urbana di Firenze nel Dugento, Firenze, 1975, p. 70.



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che, al di là dei numerosi aggiustamenti, arriverà invariata fino all’Ottocento. Di particolare valore appare il manoscritto, conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, attribuito a Zanobio Lioni e risalente alTincirca al 1575, in cui sono descritte tutte le configurazioni murarie e sono accennate alcune notizie relative alla fondazione della città:
La Serenissima Città di Firenze secondo la oppenione comune et [c. 2v] volgare fu principiata nel piano ove ancora oggi risiede magnificamente da i mercatanti per amor che i Fiesolani ne facevano i loro mercati et le loro fiere. Ma secondo la copiettura che si piglia da Ercole che ella portò già [c. 2r] per suggello, et dal Lione che essa ancora oggi porta per una delle sue insegne essa fu principiata da Ercole. Il Primo cerchio di mura le fu fatto dai soldati dei Triumviri settanta anni prima della nascita di Cristo Gesù ciò è milleseicento quarantacinque anni or sono. Il secondo cerchio le fu fatto dai propri cittadini, per la unione dei Fiesolani lo anno mille settantotto, imperando Arrigo terzo, [c. 3v] Il quarto cerchio le fu fatto lo anno milledugento novantotto imperando Adulfo [...]. [c. 4v] Il centro della città di Firenze è la casa dell’Arte della Lana perché dalla Porta alla Croce alla porta al prato è quattromi-lacinquecentocinquantabraccia, et dalla Porta a S. Gallo a quella di S. Piero Gattolini è braccia cinquemila. La onde dividendo la città il punto del centro viene à essere la suddetta casa [...] (cc. 2r-31r).
Negli anni del Primo Popolo, cioè fra il 1250 e il 1260, il movimento immigratorio dalle campagne accrebbe in modo considerevole la popolazione e intensificò la necessità di adeguare l’assetto urbano alle mutate esigenze della città. I borghi extra moenia, in prossimità delle Porte, diventavano sempre più numerosi e intensamente popolati, tanto da render necessario un ampliamento del circuito perimetrale, che prevedesse l’inclusione dei suburbia.6* Anche gli insediamenti degli ordini mendicanti, che avevano collocato i loro com-
68 Rykwert, L'idea cit.» p. 10.



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plessi in modo diametralmente opposto, scegliendo i domenicani Santa Maria Novella e i francescani Santa Croce, richiedevano ampie zone antistanti i loro complessi atte per le grandi assemblee di predicazione e imponevano, insieme agli altri nuovi soggetti emergenti, una distribuzione precisa dello spazio della città.
L’ultima cerchia e la disposizione delle porte
«... Io sono la porta; se qualcu-
no entra per me sarà salvato, ed entrerà e uscirà e troverà pastura»
Giovanni X 1-2 e 9
Già Plutarco si era chiesto perché mai i Romani considerassero sacre ed inviolabili le mura della città, ma non le sue porte: «forse — come ha sostenuto Varrone — dobbiamo considerare sacre le mura perché gli uomini siano pronti a dare generosamente la vita per difenderle... mentre non sarebbe possibile consacrare e benedire le porte, attraverso le quali si fanno passare molte cose necessarie».69 I Lupercali, le antiche processioni di purificazione che ripercorrevano, il 15 di febbraio di ogni anno, le mura di fondazione, sancivano l’importanza del rito di lustrazione e si imponevano quale cerimonia che si ripeterà nei secoli successivi. E chiara, quindi, la sacralità attribuita al confine perimetrale, così come invece ne sembrano chiaramente escluse le porte della città. Ma la questione è controversa: infatti se il sito dell’ingresso è più soggetto alla contaminazione con le cose
69 G. Cullino, Uomini e spazio urbano. L’evoluzione topografica di Vercelli tra X e XIII secolo, Vercelli, 1987 p. 48: «Le porte della perimetrazione antica rappresentarono [...] settori ben precisi dell’insediamento e costituirono una ripartizione del territorio di popolamento che andava progressivamente crescendo sia con l’aggregazione di altri nuclei di stanziamento, sia con la prosecuzione dei lavori di costruzione della cinta comunale».



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impure di questa terra, come dice Plutarco, è vero anche che è attraverso la porta che si compie il rito di passaggio dall’esterno «altro» all’interno consacrato e che quindi stabilisce implicitamente un patto solenne con chi si trova all’interno. In ogni città le grandi porte del perimetro esterno regolavano il traffico degli ingressi e delle uscite: ma non era certo solo questa la loro funzione.70 Infatti spesso le porte affiancavano le chiese che le proteggevano, vegliando in questo modo sulla città da difendere, come ad esempio S. Maria Sopraporta a Firenze. Se le porte proteggono dai pericoli, rappresentati dagli uomini, che possono venire dall’esterno, queste difendono anche dalle paure legate ai rischi che il mondo extra moenia può riservare alla città recintata, come la peste: 1’8 giugno 1481 a Firenze si chiuse la Porta a Faenza «perché la moria faceva gran danno di fuori di detta Porta, e in Firenze c’era in 3 o 4 case».71 Sempre a Firenze tre sestieri corrispondevano a tre delle principali porte della riva destra: Porta S. Pancrazio, Porta Duomo, Porta S. Piero. Queste porte furono le principali mète delle grandi battaglie di strada: nel 1260, quando i Ghibellini cacciarono di nuovo i Guelfi dalla città, i combattimenti avvennero sia presso il Palazzo del Popolo che, e soprattutto, presso Porta S. Piero a Est e presso Porta del Duomo a Nord:72 chiaro è il segno del desiderio di scacciamento della parte avversa dallo spazio di possesso della città, attraverso la Porta, confine di demarcazione tra lo spazio di identificazione del gruppo vincente e l’esterno anonimo.
Secondo la tradizione le porte dovevano essere tre, dedicate a Giove, Giunone e Minerva, cosa che mal si concilia con la divisione della città in quattro parti scandite dal car-
70 L. Landucci, Diario fiorentino dal 1450 al 1516, Firenze, 1883, p. 38.
71 J. Heers, Les partis et la vie politique dans roccident médievale, Paris, 1981, p. 86.
72 Rykwert, L’idea cit., p. 160.



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do e dal decumano che stabilirebbe, invece, una suddivisione in almeno quattro porte principali.73 Tutte, comunque, erano dedicate al dio protettore per eccellenza delle porte e cioè Giano, che con le sue due fronti poteva estendere la sua benevolenza (e malevolenza) sulle zone interne e su quelle esterne all’ingresso. Le porte delle città «terrestri», così come quelle delle città celesti e del mondo sotterraneo, erano quasi sempre custodite da statue o simboli di divinità protettrici o di mostri con funzione apotropaica. Ancor più carico di valore simbolico sacrale era il seppellimento di vittime sacrificali o di reliquie di martiri e di santi nel pome-rium o sotto le mura di cinta, spesso in corrispondenza delle porte. Di notevole interesse a questo riguardo è proprio il già citato dipinto di Benedetto Bonfigli, in cui è rappresentato il ritrovamento delle integre spoglie di Ercolano, vescovo, sotto le mura della città di Perugia, durante l’assedio da parte di Totila. In questo senso, il ruolo delle porte, come elemento determinante semanticamente una sacralizzazione che viene a coincidere con la sacralizzazione stessa dello spazio da queste racchiuso, sarà presente in molte cerimonie pubbliche in età medievale e moderna: per Firenze si pensi, ad esempio, alla processione della Madonna dellTmpruneta, di cui si parlerà più avanti, che in uno dei suoi molteplici arrivi «perlustrerà» il perimetro di cinta, toccando tutte le porte, senza, in quell’occasione, entrare in città. E ancora si pensi alla presenza dei conventi femminili accanto alle porte di Firenze, quasi offerta di purezza per la città «impura»,74 o anche alle numerose immagini della Vergine, sempre sugli archi degli ingressi, a sottolineare la necessità di vigilare sul punto di entrata in città.
Il numero delle porte era corrispondente, solitamente, a
73 Trexler, Public life cit., 1980.
74 S. Puccetti, Note sulla simbologia del Monastero, in AA.VV., Iconografia di S. Benedetto nella pittura della Toscana, Centro d’incontro della Certosa di Firenze, Firenze, 1982, p. 392.



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quattro o ad un multiplo di quattro fino a dodici a seconda della rappresentazione della pianta ortogonale della città. La relazione con tale numerazione aveva probabilmente oltre che valore reale, riferito al richiamo con la città quadrata romana, sicuramente un forte valore simbolico, relativo alla Gerusalemme celeste chiusa nel suo recinto dalle dodici porte, come è descritto anche nell’Apocalisse. In una miniatura dei Vangeli, detti dei Celestini, della metà del secolo IX, conservata nel manoscritto 1171 della Bibliothèque de l’Arsenal di Parigi, si può notare la figura di san Matteo nel recinto della Gerusalemme celeste; in questo le porte sono disposte nei punti cardinali della pianta che ha una forma classicamente ortogonale. Identica raffigurazione della Gerusalemme celeste abbiamo nella miniatura di Lamberto di Saint-Omer nel Lìber Floridus della seconda metà del secolo XII, in cui la città appare nel suo recinto (ortogonale), interrotto da ben visibili porte, una delle quali, probabilmente la principale, è osservata in primo piano dallo spettatore. Sappiamo che tra i numeri più cari al simbolismo cristiano c’è sicuramente il tre, il numero perfetto dei pitagorici, il simbolo della Trinità: ma «anche il quattro è particolarmente carico di significati nella trascrizione cristiana “Dio creò e dispose tutte le cose secondo numero, misura e peso, dovendo ogni cosa venire all’esistenza al tempo stabilito, e squadrò tutto l’universo, disponendo in precedenza i limiti con elementi quadripartiti” e per questo il quattro è il numero dell’uomo inteso come microcosmo, composto da quattro elementi e sviluppantesi attraverso quattro età, la cui anima, costruita anch’essa in forma quadrata, è paragonata da Ugo di Fouil-loy ad un chiostro in cui i lati sono le quattro virtù teologali, a forma di un cubo simbolo della costanza della virtù».75
Non è un caso che il numero dodici, come simbolo delle porte della città celeste, e della città terrestre che di questa
75 Villani, Cronica cit., t. II, p. 173.



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è rappresentazione, sia un multiplo sia del tre che del quattro. La Porta, cerniera solida tra l’esterno e l’interno, è simbolicamente il segno sia di ciò che è da espugnare, che di ciò che è difficile difendere. E per questo che la bellezza di una Porta possente e ricca rappresenta la forza stessa della città, così come il suo abbattimento segna la distruzione fisica e morale degli abitanti della comunità da questa protetta. Giovanni Villani ricorda quando le truppe imperiali di Enrico VII, discendendo in Italia, nel secondo decennio del quattordicesimo secolo, si trovarono alle porte di Firenze, racchiusa nella sua angoscia della conquista o dell’assedio: «(i fiorentini) erano smarriti per tema della loro cavalleria, quasi come sconfitti, che se lo ’mperadore o sua gente in sulla subita venuta fossono venuti alle porte, le trovavano aperte e male guernite; e per li più si crede che avrebbe presa la città». Presupponendo la catastrofe e consapevoli della debolezza delle loro strutture difensive i cittadini accorsero presso i cantieri per rafforzare le mura e le torri, i magistrati si inpegnarono nell’opera di mediazione e il pastore intervenne a simboleggiare la città raccolta: «el vescovo di Firenze s’armò, e trasse alla difensione della porta di santo Ambrogio e de’ fossi, e del tutto il popolo con lui, e serraro le porte, ordinarono i gonfalonieri e loro gente su per gli fossi alle poste alla guardia della città di di’ e di notte».76 Se la porta è il punto più vulnerabile della cinta, è vero anche che proprio per questo è il punto maggiormente rafforzato: diversi elementi architettonici, infatti, ne contraddistinguono i caratteri protettivi quali gli avamporti, i contrafforti, le torri laterali. E per questo che assume particolare importanza il controllo delle porte, compito affidato spesso ad un’apposita magistratura. In caso d’assedio o in periodi di particolare tensione politica e, quindi, di un acuirsi del fenomeno del fuoriuscitìsmo il timore del tradimento
76 Villani, Cronica cit., t. II, p. 282.



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aleggia costante ed insistente proprio tra coloro che sono preposti al servizio di vigilanza del confine. La sorveglianza delle porte diviene, attraverso tutta la letteratura politica, e non solo politica, una grande e sempre presente preoccupazione. Nell’agosto del 1323 un gruppo di ‘‘sbanditi” fiorentini, che stavano tramando per poter rientrare in città con il complotto più che con la forza, marciano numerosi verso la porta «che va verso Fiesole»; ma contemporaneamente nella città, avvolta nel buio, l’allarme si diffonde e i difensori si svegliano e si organizzano: «dubitandosi il popolo non tanto degli sbanditi di fuori che piccolo podere era il loro alla potenza della città, quanto di tradimento dentro si facesse per gli grandi»; si rinforzano tutti i punti di sorveglianza e «gli sbanditi ch’erano di fuori, veggendo la grande guardia e luminare sopra le mura, e che nullo rispondea loro dentro, si partirono in più parti e così per la grazia di Dio e di messer santo Lorenzo iscampò la città di Firenze di grande pericolo».77 L’apertura delle porte e l’offerta delle chiavi segna, d’altro canto, uno dei gesti di maggiore sottomissione all’entrante. L’abbattimento dell’antiporto o addirittura l’apertura di una breccia nella cinta muraria saranno il simbolo, come si vedrà più avanti, di uno dei gesti di maggiore onore e di più grande ossequio possibili nei confronti di personalità illustri nel corso delle grandi entrèes. Con la consegna delle chiavi della Porta principale, la città affidava all’augusto ospite anche il proprio destino.
L’anno 1284; vale a dire 206 anni dopo l’edificazione del comunemente detto cerchio secondo; trovandosi i Fiorentini in buono, e pacifico stato, ed essendo cresciuta assai la popolazione, e muratisi i Borghi intorno alla Città, si deliberò nel mese di Febbraio di rinchiudere i detti Borghi nella Città, ampliandola in tal guisa, e rendendola capace della cresciuta popolazione. Di questo terzo Cerchio fu Architetto il celebre Arnolfo di Lapo, che non
77 V. Pollini, M. Rastrelli, Firenze antica e moderna, I, Firenze, 1789, p. 245.



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ebbe pari in quei tempi nella sua professione, ma non visse tanto da vederle terminate perché il lavoro non fu fatto di seguito, ma in diversi tempi dall’anno 1284, suddetto, fino al 1327».78
L’aumento della popolazione, imponente attorno alla fine del XIII secolo per una forte ondata immigratoria, e la necessità di inglobare le estese aree degli ordini mendicanti, spinse la Signoria ad avviare la costruzione di nuove mura. Il progetto, secondo la tradizione, fu affidato ad Arnolfo di Cambio nel 1284 e vide la sua realizzazione nel 1333 a pochi anni dalla peste nera, che nel 1348 avrebbe inflitto un colpo durissimo alla città, fermandone definitivamente la crescita. Furono allora inclusi nell’area urbana i complessi di Santa Maria Novella, Santa Croce, la Chiesa d’Ognissanti, San Marco, la Santissima Annunziata. L’area così realizzata ospitò, prima dell’epidemia, fino ad ottantamila persone. Proprio perchè la peste stravolse il quadro demografico, possiamo considerare questo perimetro quello definitivo, salvo alcune modifiche dovute alle successive fortificazioni cinquecentesche. Ciò che resta attualmente di quelle antiche mura — salvo un breve tratto a Sud, da S. Niccolò per via di Belvedere sino a piazza Tasso lungo il giardino di Boboli — è ancora individuabile nel tracciato degli attuali viali di circonvallazione di fine Ottocento, del Poggi. Il lato settentrionale andava dall’attuale piazza Vittorio Veneto fino a piazza della Libertà, percorrendo il viale Fratelli Rosselli, il viale Filippo Strozzi e il viale Spartaco Lavagnini: su questo tracciato c’erano la Porta al Prato, la Porta a Faenza (poi inglobata nella Fortezza da Basso), la Porta San Gallo.
78 R. Manetti, M. C. Pozzana, Firenze: le porte dell"ultima cerchia di mura, Firenze 1979, pp. 42-54: «La città nuova colloca nel cuore dell’antica i propri centri vitali (la cattedrale, il palazzo dei Priori e quello del popolo, le sedi dei centri di potere economico), ma trova i propri nuclei propulsori, generatori di aggregazione e di organizzazione urbana, nei nuovi insediamenti religiosi sorti all’esterno della vecchia cerchia: Santa Maria Novella, la S. S. Annunziata, S. Croce, S. Spirito, il Carmine; sono questi i nuovi poli effettivi attorno ai quali si articola e si sviluppa la città nuova, secondo direttrici radiali che trovano il loro centro comune nel cuore antico della città».



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Il lato orientale andava dalla Porta al Prato a Porta alla Giustizia, percorrendo gli attuali viale Matteotti e viale Gramsci: su questo tracciato si incontravano la Porta a Pinti, Porta alla Croce e Porta alla Giustizia, quest’ultima non lontana dall’Arno e sulla quale si attestava via dei Malcontenti (così chiamata, per atroce ironia, visto che proprio i «malcontenti» condannati a morte la percorrevano per giungere al patibolo). Il lato meridionale andava dalla sponda del fiume opposta alla Porta alla Giustizia, nell’Oltrarno, partendo da Porta S. Niccolò sino a Porta S. Miniato, per poi salire al Forte Belvedere in Porta S. Giorgio e ridiscendere a Porta Romana. Da qui partiva l’ultimo lato, quello occidentale, che si ricongiungeva in piazza Vittorio Veneto, passando dai viali Petrarca ed Ariosto fino al fiume, in Porta S. Frediano, e poi riprendere da piazza Ognissanti fino in piazza Vittorio. Queste mura erano alte circa dodici metri e larghe un paio: le intervallavano torri di rinforzo in prossimità delle postiere e delle porte principali. Sulla cresta correva un camminamento che permetteva agli uomini della ronda di vigilare e percorrere a piedi il tratto delle mura a loro affidato per la custodia. Ogni porta maestra aveva un’antiporta, necessaria per una maggiore protezione, un Giglio del Comune, senza scudo, e, nei due stemmi posti fra questo ed i cibori dei leoni, da una parte la croce del popolo e dall’altra l’insegna della casa d’Angiò, protettrice della parte guelfa. Immediatamente sopra si trovavano le statue dei santi protettori, documentabili però solo per la porta Romana e per la porta S. Gallo; al centro sempre la Vergine con il Bambino in braccio, ed ai lati due gruppi di santi. Sappiamo che sulla porta Romana erano S. Giovanni e S. Niccolò, da una parte, e S. Pietro e S. Paolo, dall’altra; sulla porta S. Gallo, invece, da una parte S. Giovanni e S. Reparata, dall’altra S. Pietro e S. Lorenzo.79 Sulle porte erano, dunque, scoi-
79 F. Cardini, Le mura di Firenze: un profilo storico, in F. Bandini, Su e giù per le antiche mura, Firenze, 1983, p. 23.



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piti o dipinti i santi patroni e i simboli del potere politico, quasi ad ostentare, con valore apotropaico, dimostrazione di forza e al tempo stesso minaccia rispetto all’esterno. Ecco perché spesso si incontrano sugli architravi il Giglio del Comune, o il Marzocco, (più tardi anche le chiavi papali); mentre l’immagine della Vergine, protettrice della città con il suo manto, e quella del santo patrono simboleggiavano il bisogno degli uomini di quel tempo di voler contare anche su forze non di questa terra. Questa ultima cerchia rimase a lungo, e soprattutto dopo la Peste del 1348, come un abito troppo largo addosso alla città: gli spazi vuoti erano molti, in particolar modo le aree vicine alla Porta al Prato e alla Porta S. Frediano, come si può ben osservare nella pianta della Catena. Osserva Franco Cardini che siamo in possesso di varie notizie relative al suo finanziamento: a partire dal 1298 chiunque facesse testamento era obbligato a lasciare un contributo alla costruzione delle mura, e più tardi una lunga contesa fra il Comune e il clero fiorentino al quale era stata imposta per lo stesso motivo una pesante somma da pagare, costituì un intoppo nei rapporti fra il governo cittadino e il papa.80 Le forme di finanziamento, adottate per la costruzione delle mura, furono di vario genere:81 dalla tassazione comunale,82 alle confische dei terreni, all’ob-bligo di lasciti nei testamenti.83 L’aspetto relativo alla confisca dei terreni, poneva problemi non sempre di facile soluzione, dato che bisognava tener conto delle private esigenze dei singoli soggetti colpiti, che richiedevano adeguate forme di risarcimento:
essendo stata fatta una deliberazione dal Comune di Firenze a norma d’una domanda fatta dai seguenti Padri di Camaldoli, Rettore
80 ASF, Provvisioni (19 settembre 1299), 10, c. 103r.
81 ASF, Provvisioni (11 giugno 1298), 7, c. 50^.
82 ASF, Provvisioni (23 dicembre 1299), 10, c. 103r
83 G. Lami, Lezioni di antichità toscane, e spezialmente della città di Firenze, Firenze, 1766, p. 149 e sgg.



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della Chiesa di Verzaia, Monache di Monticelli, Priore e Capitolo di Santo Stefano al Ponte, Abbadessa e Monache di Santa Felicita e Spedale di San Sepolcro a Ponte a motivo d’indennizzare i detti luoghi pii dell’occupamento dei loro rispettivi terreni per la costruzione delle nuove mura, torri, fossi e strade, fatta dal fiume Arno alla porta di Verzaia (S. Frediano) e di lì alla porta Sanese, San Pier Gattolini, ed essendo stata fatta una deputazione di cittadini per esaminare e misurare di terreni, spettanti a ciascuno per la loro rata, si trova, che le terre occupate, e che detto monastero deve essere reintegrato per il prezzo equivalente. Tutto questo affare è compreso in quattro istrumenti, tutti uniti insieme, uno è del 9 ottobre 1332.84
La costruzione delle mura e la fortificazione e l’ultimazione dei tratti già iniziati era un problema davvero pressante, se talvolta si rendeva necessario devolvere i fondi stanziati per altre costruzioni verso questo obiettivo: è quanto testimoniano alcune provvisioni, in cui si delibera di deviare il flusso di certi capitali, destinati ad altre opere, alla costruzione di alcuni tratti di mura, spesso, già iniziati o da ultimare.85 Tornando alla ricognizione delle zone della città nel periodo dell’edificazione del terzo cerchio di mura si può ricordare che per ciò che riguarda l’Oltrarno, indubbiamente, uno dei luoghi più importanti era il Mons Florentìnus ove San Miniato aveva subito il martirio nel III secolo e dove, nel 1018, sorgerà la Chiesa in suo onore. Nella stessa area esisteva probabilmente un cimitero protocristiano, nella zona che fu poi occupata da S. Felicita, la chiesa più antica di Firenze insieme a S. Lorenzo, anch’essa extra moenia. Andando avanti per la direttrice che va da S. Felicita verso Ponte vecchio c’era tutta la zona di S. Frediano, che alla fine del XII secolo era il borgo più popoloso e importante dell’Oltrarno. Pare che il monastero di S. Miniato, con le
84 ASF, Provvisioni (25 ottobre 1368), 58 e 59.
85 ASF, Provvisioni (3 agosto 1294), 4, c. 56v.



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sue concessioni di edificazione, avesse molto influito sull’urbanizzazione delle zone dell’Oltrarno orientale. In queste aree si insediarono alcuni Ordini Mendicanti alla fine del Duecento: i carmelitani nella Chiesa del Carmine, gli eremitani nella Chiesa di S. Spirito. La costruzione del Ponte alla Carraia nel 1218 e del Ponte Rubacontis nel 1237 sottolineano l’importanza crescente dell’Oltrarno nell’assetto urbanistico della città e la necessità di creare canali di collegamento sempre più solidi tra le due parti.86 Alla fine del XIII secolo un’altra importante arteria segna il collegamento tra le due zone e cioè la via Maggio, che unirà il ponte S. Trinità a S. Felice in piazza: questa si sarebbe unita a quella che da S. Felice portava alla Porta S. Piero Gattolino, venendo a costituire, così, uno dei più importanti itinerari di Firenze, che sarà utilizzato trionfalmente anche per i solenni ingressi.
Firenze come Gerusalemme.
Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo [...]. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A Oriente tre porte, a Settentrione tre porte, a Mezzogiorno tre porte e ad Occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici Apostoli dell’Agnello. Colui che mi parlava aveva una canna d’oro per misurare la città, le sue porte e le sue mura. La città è a forma di quadrato, la sua lunghezza è uguale alla larghezza. [...] Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terzo cristallo. Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose [...] E le dodici porte sono dodici perle;
86 J. Smith, Jerusalem: thè city as Palace, in Id., Civitas religious interpretation of thè City, Atlanta, 1986, p. 25.



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ciascuna porta formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente» (Giovanni, Apocalisse XXI, 10-24).
Sia nella tradizione cristiana, che in quella giudaica la città è uno spazio sacro, delimitato dalle mura, confine del-l’urbs e confine della civitas. La Gerusalemme celeste, tutta d’oro, scende dal cielo a fondere su questa terra una città a sua immagine, con le sue porte, con le sue mura: nella tradizione ebraica l’Eden ha un sacro confine dal quale l’uomo viene espulso per il peccato, così come lo è la Gerusalemme nella quale Gesù entra da re la domenica delle Palme e come, quindi, lo sarà la Gerusalemme celeste. Il recinto discrimina, divide, separa il bene dal male, la sicurezza dall’insicurezza, l’ordine dal disordine.
La visione di Giovanni ebbe viva influenza nell’arte e nella sensibilità culturale cristiane. Per questo, a partire dall’arte paleocristiana fino a quella romana, l’Apocalisse ha sicuramente fornito alcuni dei temi maggiori nel mosaico, nella pittura, nella miniatura. La straordinaria fortuna della rappresentazione della nuova Gerusalemme trova spazio, in particolare, in età tardo-medievale: la Città di Dio, infatti, è legata alla ricreazione cosmica di «un nuovo cielo e una nuova terra» seguiti all’ultimo Giudizio.87 Questa città, che è la nuova terra degli eletti, è un quadrato perfetto, di cui l’Apocalisse ci fornisce precisamente anche le misure. Anche se Giovanni descrive infatti un cubo perfetto, la tradizione ne conserverà la forma quadra. La querelle sulla forma, quadrata o circolare, della città celeste fu lunga e di non rapida soluzione. In realtà la nuova Gerusalemme, fondata da Costantino attorno al Santo Sepolcro, aveva forma circolare e per questo le due facies convissero nell’immaginario medievale, senza che l’una si sostituisse all’altra. La nuova Gerusalemme è ad un tempo celeste e terrestre, perché il quadra-
87 E. Konigson, Les fetes de la Renaissance, Paris, 1975, p. 79.
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to e il cerchio simbolizzano entrambi il cosmo: segnati dagli assi cardinali della croce, il quadrato è la terra, il cerchio è il cielo.88 Il passaggio dal quadrato al cerchio segna una trasformazione nella concezione stessa della Gerusalemme dei tempi a venire, in cui l’aspetto celeste si affermerà su quello terrestre. Il modello della Gerusalemme celeste non rappresentò solamente un ideale teorico, ma fu sentito molto intensamente nel mondo reale; infatti il concetto della Civitas Dei fu il più possibile ravvisato negli elementi concreti delle città, nelle strutture architettoniche, nei caratteri istituzionali.89 Com’è noto uno dei più celebri incunaboli dell’Occidente è il De Civitate Dei di S. Agostino, stampato nel 1467 a Subiaco. In questo si osserva l’immagine del vescovo di Ippona sormontata da due putti sorreggenti una ghirlanda, e affiancata a destra da un angelo, a sinistra dall’immagine di una città cinta da mura: la città di Dio. L’iconografia riprendeva un’illustrazione piuttosto diffusa nei manoscritti medioevali e affermò una visione sempre più elaborata della città divina. L’opera agostiniana non era circoscritta certo alla sola descrizione della città ideale, che sarebbe divenuta poi il simbolo della chiesa di Cristo, tuttavia quasi sempre questa divenne l’immagine introduttiva delle prime pagine dell’opera.90 Ma quali erano gli elementi emergenti in questo simbolismo urbano e quale era il peso che veniva ad assumere la rappresentazione fisica della città raffigurata? A Firenze gli Statuti del 1339 parlavano della città come avente dodici porte. Nella realtà l’ultima cerchia muraria, del 1333, aveva quindici ingressi. La discrepanza potrebbe essere dovuta proprio al desiderio, in quei testi ufficiali, di far coincidere le mura fiorentine col sacro numero di dodici previsto
88 L. Puppi, Verso Gerusalemme, «Arte Veneta», 32, 1978, p. 73.
89 A. Chastel, Un épisode de la simbolique urbaine au XV siécle, Florence et Rome cités de Dieu, in Urbanisme et architecture, études écrites et publiés en l’hon-neur de P. Lavedan, Paris, 1954, p. 75.
90 C. Frugoni, Una lontana città, Torino, 1983, p. 26.



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dal disegno della Gerusalemme celeste.91 Certo è che il parallelismo costituitosi tra Firenze e Gerusalemme a partire dal XIV secolo è molto più carico di valori simbolici degli analoghi fenomeni che contemporanemente esistevano per altre città. Molto interessante, a questo riguardo, risulta un esemplare del De Civitate Dei eseguito a Firenze tre anni più tardi dell’incunabolo di Subiaco, attualmente conservato presso la Public Library di New York. L’iniziale della prima pagina, una grande «G» miniata in stile fiorentino, su un fondo blu, ha nel suo interno la figura del vescovo d’Ippona, seduto allo scrittoio, col capo sollevato verso il cielo, in ammirazione della città celeste, che si configura come un’isola dalla struttura ben distinta. In questa, all’interno delle mura di cinta e al di sopra delle torri più alte, è distinguibile una cupola poligonale, intervallata da finestre simili a occhi di gigante, sormontata da un tamburo a pannelli regolari. Questa forma e altri dettagli, portano a pensare al solo monumento che, nel 1470, poteva suggerire questa immagine: la cupola di Santa Maria del Fiore, la cattedrale di Firenze.92 L’unicità dell’opera del Brunelleschi la rendeva immediatamente simbolo della città di Firenze. Guidati da questa identificazione, potremmo spingerci oltre, identificando nella miniatura altri edifici fiorentini: la chiesa di Or San Michele, la torre del Bargello e quella della Signoria. Sicuramente, comunque, si può dire che questa illustrazione ha voluto dare alla Città di Dio il volto della Firenze contemporanea. Sin dalla fine del medioevo si era diffuso in miniatura il gusto del paesaggio urbano: sia le scene delle storie sacre, che quelle della vita dei santi diventano occasioni per raffigurare le città e i loro monumenti. Chastel ricorda come questa intrusione della vita urbana nell’arte religiosa desse a questa un’attualità nuova. Se è vero che, dopo Giotto,
91 Chastel, Un épisode cit., p. 76.
92 Ibìd.



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Pinturicchio, Ghirlandaio e Masaccio rappresenteranno vedute di città, è anche vero che questa caratteristica era stata fino a quel momento appannaggio dell’arte fiamminga:
L’imagination médiévale est hantée, par l’idée de cité: tous les aspects de l’univers, le ciel et l’enfer mème, sont des cités: Dante, d’étage en étage, d’enceinte, les parcours come des villes. Et, la cité parfaite etant naturellement ronde, dans Beatrice décrira la muraille ronde du paradis: vedi nostra città quant’ella gira (Paradiso XXX, 130). Le pian circulaire l’emporte décidément sur le pian carré de la Jérusalem céléste présenté dans l’Apocalypse (XXI 10-27).93
Per tutto il medioevo, fino e oltre la prima metà del XV secolo, la rappresentazione della Città di Dio aveva quasi sempre corrisposto alla raffigurazione dell’Urbe per eccellenza: Roma. E probabile che su tale simbologia avesse grande influenza l’immaginazione dantesca di quella Roma onde Cristo è romano (Purg. XXII, 102). Ne possono essere d’esempio alcune miniature, tra cui quella decorata da Giacomo da Fabriano (1456 Bibl. Vat. n. 1882) o quella copiata da J. Gobelin de Linz nel 1459 (Paris, Bibl. S. Geneviève, ms. lat. 218) in cui la città pontificia appare rappresentata nei suoi principali monumenti dopo la renovatio di Nicola V. Resta da chiedersi perché, in successive miniature, si vada perdendo la consuetudine di raffigurare i più importanti simboli dell’architettura romana e la città di Dio non proponga più in modo esplicito la facies dell capitale della cristianità.
In questo senso appare di particolare valore che il miniaturista fiorentino, nonostante l’esiguo spazio dell’iniziale, abbia voluto porre la cupola della sua cattedrale al centro della Città di Dio. La sostituzione di Roma con Firenze evidenzia
93 E. Caldarini, La città ideale nel Medio Evo: realtà, retorica, immaginazione, «Studi di letteratura francese», 192, 1985, p. 15.



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la tensione religiosa maturata dopo l’esperienza del concilio e l’emulazione della parva Roma con la sua più grande madre.
Il modello di Firenze come Gerusalemme celeste sarebbe tornato, in piena età savonaroliana, nella crocefissione di Bot-ticelli oggi al Fogg Museum of Art della Harvard University. La città sullo sfondo, inondata dalla luce che proviene dal libro tenuto aperto dal Padre Eterno sull’alto del cielo, e sulla quale piovono dal cielo scudi crociati (il simbolo della Parte guelfa), sarà di nuovo Firenze — come denotano la cupola brunelleschiana, il campanile di Santa Maria dei Fiore e il Palazzo della Signoria, distintamente riconoscibili. Tutto il dipinto è basato sulla predicazione savonaroliana e attesta la persistenza del mito.
L’immagine di Firenze, la città che aveva scelto Cristo come proprio signore, rex regum dominus dominantum, (come si legge sul portone d’ingresso del palazzo della Signoria), eretta a prototipo della città ideale, ebbe sicuramente una lunga fortuna. Il movimento piagnone l’avrebbe conservata intatta sino all’ultima repubblica, in opposizione ad una Roma che sempre più stava trasformandosi in Babilonia, sotto la spinta della predicazione ereticale. La persistenza dell’immagine è documentata ancora nel 1515, quando si allestì l’apparato trionfale per l’ingresso di Leone X: di nuovo i dodici archi eretti rimandarono alle dodici porte celesti e tutta la disposizione della città ricordò in pieno l’immagine della città santa.
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