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Title
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La sfida delle regole: La storia urbana tra nuovi naturalismi e antichi funzionalismi
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Creator
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Carlo Olmo
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Date Issued
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1998-10-01
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Is Part Of
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Contemporanea
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volume
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1
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issue
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4
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page start
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791
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page end
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803
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Publisher
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Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Language
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ita
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Format
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pdf
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Rights
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Contemporanea © 1998 Società editrice Il Mulino S.p.A.
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Source
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https://web.archive.org/web/20230923083347/https://www.jstor.org/stable/24651590?searchText=Foucault&searchUri=%2Faction%2FdoBasicSearch%3FQuery%3DFoucault&efqs=eyJsYV9zdHIiOlsiYVhSaCJdfQ%3D%3D&sd=1975&ed=2000&pagemark=eyJwYWdlIjoxMiwic3RhcnRzIjp7IkpTVE9SQmFzaWMiOjI3NX19&groupefq=WyJjb250cmlidXRlZF90ZXh0Iiwic2VhcmNoX2NoYXB0ZXIiLCJjb250cmlidXRlZF9hdWRpbyIsInJlc2VhcmNoX3JlcG9ydCIsInNlYXJjaF9hcnRpY2xlIiwicmV2aWV3IiwibXBfcmVzZWFyY2hfcmVwb3J0X3BhcnQiXQ%3D%3D&ab_segments=0%2Fbasic_search_gsv2%2Fcontrol&refreqid=fastly-default%3A5c8970f25c75e82a89f0c4262de63f2f
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Subject
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discipline
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surveillance
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apparatus (dispositif)
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extracted text
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La sfida delle regole
La storia urbana tra nuovi naturalismi e antichi funzionalismi
Carlo Olmo
Questo non vuol essere che un ragionamento, anche forzatamente schematico, sui tanti problemi della storia urbana di oggi. Problemi che hanno trovato, negli ultimi vent’ anni, sin troppi affreschi possibili1, ma poche, vere denunzie di una pratica scientifica scarsamente interdisciplinare2 e insieme di mercati pubblicistici, non solo accademici, che al contrario si sono venuti con-sohdando in rapporto soprattutto con le istituzioni locali ed il loro bisogno di memoria (un bisogno che andrebbe analizzato a fondo). Per sfuggire all’affresco o, peggio, al bilancio, questo ragionamento cercherà essenzialmente la strada della proposta, se non del programma di ricerca.
La storia della città vive sempre più di scomposizioni preliminari del proprio oggetto e di ricomposizioni virtuali della propria unità. Ormai non è più neanche inte-
ressante tracciare una tassonomia dei soggetti e degli oggetti della storia urbana, come degli espedienti per ritrovare nella città un’unità di tempo e di spazio (dalle vecchie mura e cinta daziarie, ai più innovativi attori e alle loro strategie economiche come simboliche3). Superata anche la stagione della città che attualizza i suoi materiali, ciò che si prospetta è il suggestivo e affascinante (anche economicamente) piacere delle retoriche. Dopo tanti esercizi di sistematizzazione (l’ecologia anglosassone e la new urban history, lafactual analysis e il romanzo, la morfologia e la biografia), lo storico sembra riscoprire il puro gioco intellettuale di dimostrare credibile ogni ragionamento e la sua sostanziale irriproducibilità. Non più interessato alle ricorrenze, annoiato da classificazioni, che alla fine sembrano produrre i risultati più scontati4,
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1 Una lettura attenta di una produzione che ha il suo annale (l’«Urban History Yearbook»), come le sue periodiche rivisitazioni (ad iniziare almeno da L. Bergeron a M. Roncayolo, De la ville prindustrielle à la ville industrielle, Essai sur Thistoriographiefrangaise, in «Quaderni storici», 27,1974), consente di completare l’attenta fondazione della storia urbana portata avanti da M. Roncayolo, Le Thème et le champ conceptuel, in Les grammaires dìine ville, Paris,1996, pp. 19 ss.
2 B. Lepetit, Les «Annales». Portrait de groupe avec revue, in Une école pour les Sciences sociales, Paris, 1996, p. 47.
3 II ripensamento recente sull’abuso del concetto di strategia da parte degli storici (J. Revel, Uhistoire sociale, in Une école pour les Sciences sociales, cit, p. 69), non deve far dimenticare l’intreccio tra azione volontaria e ricerca di un protagonista non individuale che sta dietro le kunstivollen e le sue diverse declinazioni, che per la storia urbana hanno ancora peso rilevante.
4 In questo, la storia urbana sembra procedere di pari passo con la crisi dell’urbanistica, con la riscoperta dei meccanismi processuali ed il loro collocarsi dentro sistemi di convenzioni (giuridiche come formali)
Contemporanea / a. I, n. 4, ottobre 1998
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lo storico urbano pare ritrovare soprattutto il piacere del racconto ed il narcisismo dell’ascolto, quasi che la regola, la ricerca di regole, magari precarie e transitorie, implichi di necessità la falsificazione del proprio mestiere. Ed in questa situazione sono tornate al centro dell’attenzione le soggettività (non solo artistiche) e la loro capacità di mettere in discussione l’esistenza di un contesto unificato e omogeneo, in fimzione del quale i singoli attori dovrebbero definire le loro scelte.
La città è stata letta, in questa riscoperta del ruolo delle azioni volontarie, in primo luogo come stratificazione, spesso inestricabile di tempi5. La città vede coesistere i tempi delle pietre e quelli degli attori, dei monumenti e dell’edilizia anonima, dei sovrani e del popolo. Una ormai consolidata storiografia ha studiato separatamente i diversi tempi, ritrovando in uno dei concetti più ambigui anche del recente dibattito storiografico, un accordo sovente non cercato: il concetto di tradizione6. Tradizioni si sono costruite in modi spesso al limite della contraddizione: isolando un attore della scena urbana (l’architetto come il medico, il mercante come il capomastro) e raccontandone le avventure, come, al contrario, ripropo-
nendo la ricerca di invarianti (morfologiche o tipologiche), come base da cui muovere, non come esito da dimostrare. Il plot di quelle storie è una città quasi per necessità sede di diverse forme di mercato, rete di scambi, di incontri, programmati o casuali. Tradizioni prima, politiche e stratificazioni poi: mano a mano che il singolo approccio storiografico si rivelava troppo parziale, lo storico urbano ricorreva a bagagh teorici (dell’economia come dell’archeologia, sino alla riscoperta di una filologia quasi da sola capace di sorreggere l’argomentazione storiografica), in grado di rappresentare una complessità che non pareva dominabile: sino a rinunziare alle gerarchie e a rovesciare la complessità da interpretare, nella legittimazione di ogni possibile racconto. Al tempo dell’architetto, del medico, del mercante, dell’artigiano, del burocrate, venivano così attribuite e riconosciute geografie non sovrapponibili7: esaltando la complessità e l’irriducibilità dello spazio urbano, si salvaguardava anche la separatezza delle storiografie di settore ed il ruolo preminente delle azioni volontarie: non a caso monografie e biografie sono ancora le forme più praticate della ricerca storica urbana. Un processo dove l’effetto di sorpresa per il pos-
stabili, con l’attenzione per le risorse in mano agli attori e per i conflitti che si definiscono tra attori e sistemi istituzionali (legislativi o amministrativi). I più interessanti passi avanti in questa direzione vengono dal lavoro di Ennio Poleggi (E. Poleggi e E Caraceni, Genova e strada nuova, in Storia dell’Arte Italiana, Momenti di architettura, Torino, Einaudi, 1983, pp. 301 ss.).
5 C. Olmo e B. Lepetit, La tela dello Shogun, in C. Olmo e B. Lepetit (a cura di), Se Erodoto tornasse in Atene?, La città e le sue storie, Torino, 1995, pp. 30 ss.
6 Proprio su questo concetto e sul suo uso dentro la letteratura architettonica, non solo urbana, sarebbe necessario fare il punto, dopo che un uso non sempre lineare degli spunti proposti dal saggio di E. Hob-sbawn, Mass-Producing Traditons: Europe, 1870-1914, in E. Hobsbawm e T. Ranger, Thelnvention ofTradi-tion, Cambridge, 1983, ha finito con rilegittimarre la considerazione di ogni tradizione come produzione di regole valide in se stesse, di far rivivere un’iconografia senza iconologia».
7 M. Roncayolo, Représentation et pratiques de la ville, in Les grammaires d’une ville, cit, p. 82.
sibile ribaltamento dei ruoli pare costituire il vero interesse per lo storico: sino a giocare con concetti «labili» come tracce, vestigia, gesti, mode. Ma è davvero impossibile costruire proposte di regole sui tempi delle città, più in generale sulle stratificazioni dello spazio urbano?
Le città sono organizzazioni gerarchiche, troppo spesso ridotte a fimzioni e a meccanismi, da sempre penalizzati da metafore organiche. Lo spazio urbano definisce comunque situazioni e relazioni, opportunità e valori. Il fallimento di modellistiche anche sofisticate8 non giustifica la rinunzia a sperimentare relazioni non episodiche tra valori che non rispettano le gerarchie ipotizzate dalle economie (politiche come monetarie) o dalle sociologie (weberiane come marxiste, parsonsiane come postrutturali-ste). Le gerarchie vanno ricostruite nelle pietre (e questo è già un primo vincolo, anche di fonti) e misurate su di un ulteriore tempo che l’architettura impone: quello de-gh usi. Una sovrapposizione che diventa distinzione dei tempi e dei soggetti, la cui risposta non sta unicamente nella scale, nelle strategie, nelle processualità, concetti alcuni anni fa ricchi di suggestioni, oggi solo più stanche ripetizioni9. Geografie e
storie sociah rafiinate possono ofirire suggestioni importanti, ma il problema resta come restituire una struttura di relazioni, mobile e mutevole, quando lo stesso arco ribassato o la stessa colonna possono essere in opera per ragioni opposte, quando gh usi possono attribuire a quei frammenti di architettura significati ancora differenti e mu-tevoh negli anni.
Il tempo della città costruita fissa una struttura di relazioni, dove a determinare le gerarchie non è il singolo attore (le sue strategie simbohche, non solo economiche o sociah), ma il realizzarsi di quell’ordine dentro un contesto di convenzioni che sono esse stesse oggetto di conflitto e di contrattazione10. La storia urbana non può essere ricondotta a metafora di altre storie, perché il gioco dei tempi che un’architettura propone e ripropone non è leggibile, se non in riferimento a codici (l’architettura è un’opera unica, che si realizza con materiali, fisici come intellettuali, seriali) e alla loro concreta traduzione in ordini tentati (soprattutto nelle costruzioni, ma già nei disegni) e continuamente attualizzati. Tempi che solo la conservazione del punto di partenza e della sua irriducibilità a forme (simboliche come sociah), può restituire. Ma non sono
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8 II riferimento non è solo alla breve stagione della new urban history statunitense, ma alla più ricca e complessa stagione delle diverse statistiche applicate alla storia urbana, con tutti i nessi che questa ricerca ebbe con le politiche urbanistiche, da Halbwachs a Alonso, dalla definizione dei limiti del territorio «ideale» per un agglomerato urbano alle scale sempre più complesse della pianificazione territoriale, all’abuso di un concetto di scala usato per definire, prima che sottoposto a reale prova di evidenza.
9 Limite già segnalato da B. Lepetit, Storia: questioni di scala, in «Società e storia», 5,1003, pp. 1209 ss. e da J. Revel, Micro-analyse et construction du social, in J. Revel (a cura di), Jeux d’échelles. La micro-anaylise à l’expérience, Paris, 1996, p. 25.
10 C. Olmo, Introduzione a Le nuvole di Patte. Quattro lezioni di storia urbana, Milano, 1995, p. 14. Il lavoro più complesso in questa direzione è indubbiamente quello di Donatella Calabi, da quello, in collaborazione con Paolo Morachiello sul Ponte di Rialto, a quelli più recenti sulle piazze e i mercati (Cfr. D. Calabi, H mercato e la città, Venezia, 1993).
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solo i tempi della città a richiedere forme proprie di narrazione, a rilanciare la necessità di un nuovo programma anche concettuale di storia urbana.
La città è stata rappresentata come il luogo per eccellenza della mobilità come dello scambio tra culture professionali e autonomia economica e sociale. I termini di questa rappresentazione sono molto mutati dalle mémoires di Menetra11 o dalle riflessioni di D’Angiviller12, ma anche dagli studi di Che-valier o Roche. La città appare, in maniera sempre meno scontata e necessaria, la meta finale di traiettorie personali o professionali13 (anche se ancora forte è la retorica manchesteriana sul racconto urbano), la sua costruzione sempre meno il dominio univoco di innovazioni tecniche e profes-sionafi. La città si presenta, al contrario, sempre più come un’opportunità diseguale, che può esaltare comunità d’origine e capacità d’iniziativa, mettendo in crisi forme di reclutamento e garanzie corporative14: i suoi cantieri, non solo quefli edilizi, mettono in moto insieme forme di apprendimento e unificazione dei processi produttivi, possono veder progettare maltre-maons e
carpentieri, mentre architetti e ingegneri faticano a definire le nuove frontiere simboliche che dovrebbero garantire insieme la loro identità e il modello di una città moderna sempre e quasi necessariamente da riformare15.
Lo spazio urbano, ancora una volta letto nel suo costituirsi fisico, rimescola profondamente ruoli e professioni, difficilmente riscontra una corrispondenza tra mestiere e funzione. Le forme di mobilità non sono solo quelle sempre meno univoche, soprattutto territorialmente, messe in evidenza dagli storici sociali16, ma anche quelle che si producono dentro mestieri e professioni. Le opportunità che il costruirsi della città contemporanea oflre, mettono in gioco non solo gli ordinamenti corporativi ed i diversi tentativi di governare il mercato del lavoro cittadino, ma le stesse barriere simbofiche tentate da accademie e scuole: il progettista di una lottizzazione, come il costruttore di un isolato, possono essere medici, avvocati, sacerdoti, carpentieri, capomastri. La costruzione della città, soprattutto contemporanea realizza indubbiamente un volano occupazionale, il filtering della popolazione
11 Mémoires de Menetra, Bibliothque Historique de la ville de Paris, MS 768.
12 A.N., A.A., 1776, 01 1930 1. Le riflesssioni legano riforma dell’Académie royale d’architecture alla crisi del mestiere intellettuale dell’architetto.
13 Dalla riflessione di Daniel Roche sulle «strade» che portano a Parigi stagionali o domestici (D. Roche, Le peuple de Paris, Paris, 1981, p. 30), una Parigi che «retient son peuple par le métter», la mobilità verso la città è stata oggetto di riflessioni più attente, soprattutto quando si sono cominciate a studiare le comunità d’origine e le strategie di diversificazione del lavoro dentro le famiglie protoindustriali.
14 In questo senso, anche il bel libro di S. Cerutti, La Ville et les Métiers. Naissance dime langage corporati?, Turin 17-18 siècle, Paris, 1990), può suggerire semplificazioni. I «cantieri» ad esempio juvarriani a Torino, aprono a forme di mobilità dentro proprio le corporazioni più legate alla costruzione edilizia, corporazioni troppo spesso rappresentate come chiuse e sostanzialmente immodificabili.
15 C. Olmo, Un’élite tra professionalità e liberalità, in R. Gabetti e C. Olmo, Alle radici dell’architettura contemporanea, Torino 1989, p. 192.
16 Cfr., ad esempio, M. Gribaudi, Itinéraires ouvriers. Espaces et groupes sociaux Tùrin au début du XX siècle, Paris, 1987.
e del lavoro, una definizione di forme di accumulazione economica primaria, ma ordina anche valori patrimoniali, strategie matrimoniali, codici simbolici, fortune e loro rappresentazioni sociali.
Il cantiere della città contemporanea crea, in realtà, gerarchie e opportunità per negarle, facendo della capacità di tradurre in opera progetti e disegni la vera discriminante non sempre del successo, ma anche del fallimento di molti builders dello spazio cittadino. La città un luogo di fortune ordinate dall’iniziativa, che aiuta a spiegare molti cosiddetti cicli delle attività edilizie. Ed anche in questo caso, la storia urbana, pur entrando da una porta secondaria, può dare un contributo non irrilevante ad una discussione oggi molto vivace: quella sulle pratiche17.
Per la storia urbana le pratiche più studiate, ma anche più ricche di esiti storiograficamente interessanti, riguardano essenzialmente gli usi di uno spazio quasi estraneo agh avvenimenti. Per riots come per processioni18 la città è un contesto prestato al conflitto o alla pedagogia, più o meno istitutiva di vecchi o nuovi ordini sociali. Pratiche che, oltre tutto, raramente consentono di ragionare sull’attualizzazione degli spazi, proprio per i caratteri rituali o emblematici che questi avvenimenti conservano e che
riconducono essenzialmente ad un richiamo alla molteplicità delle esperienze e delle rappresentazioni sociafi, attraverso cui gli uomini definiscono contesto e azioni19. Le pratiche che, curiosamente, sono invece rimaste ai margini della storia della città, sono proprio quelle dei tanti progettisti e costruttori. Non si tratta unicamente di riprendere le analisi sui salari dei muratori e sulla formazione dei prezzi delle aree20, sulle demografie di cantiere e sulle tecnologie costruttive. Le pratiche, soprattutto nella costruzione della città, partecipano all’istituzione dello stesso oggetto e ne vengono, a loro volta, delimitate. Restituire lo spazio di una città richiede allora un lavoro, forse tra i più interessanti, di contestualizzazione multipla21.
Ogni attore urbano non partecipa unicamente a processi di dimensioni e hvefli variabili: nel momento in cui, ad esempio, un promotore si muove, agisce a scala della lottizzazione, della città, della raccolta del danaro, su spazi fisici e astratti differenti, ognuno dei quali dà forma al suo isolato22. È questo intreccio di scale e gerarchie (e la propria, interna indifferenza ai modefli, non solo distributivi) che va aggredita. Conservare delle pratiche una concezione unicamente di messa in campo (sia pure contrattuale e non lineare) di saperi, significhe-
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17 Discussione riassunta (e aperta) in Italia da diversi numeri di «Quaderni storici».
18 I testi di partenza sono ancora quelli di Hobsbawn e di Ozouf, anche se un’attenzione diversa dovrebbe essere rivolta alle «processioni» barocche.
19 Osservazione che G. Levi muove a quelle pratiche storiografiche che derivano troppo direttamente il loro modello dalle riflessioni di Geertz: G. Levi, Ipericoli del geertzismo, in «Quaderni storici», 58,1985, p. 269.
20 Un esempio di come si definiscono i prezzi delle aree nella costruzione di una parcella rilevante, anche quantitativamente, lo dà il Lingotto, a Torino, C. Olmo, Un teatro di ombre, in II Lingotto 1911-1939, Torino, 1994, pp. 9 ss.
21 J. Revel, Micro-analyse et construction du social, cit, p. 26.
22 C. Olmo, Mille e una places Maubert, in Le nuvole di Patte, cit, p. 37.
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rebbe ritrovarsi nuovamente con uno spazio esito di processi estranei alla sua definizione.
Le pratiche vanno studiate per quanto traducono in pietre i valori di un suolo, di materiali, di convenzioni, del denaro, ma anche le rappresentazioni di uno spazio, di un servizio, di un’attrezzatura domestica23, il punto di equilibrio raggiunto nel conflitto tra diverse concezioni di ciò che è sano, conveniente, comodo: perché è anche dentro le pratiche che si definiscono quei valori. Lo spazio rappresenta una stratificazione in movimento di ordini che raggiungono equflibri, le cui durate sono definite dal persistere di quel punto di accordo in quella società ed economia urbana24. Per questo oggi è interessante ripartire dalla produzione di norme e leggi che riguardano lo spazio. Non per quanto ciò possano dire sul governo della città o sui processi decisionafi, ma in quanto rappresentano (con l’enorme bagaglio delle loro interpretazioni) una fonte privilegiata per leggere come il punto di equflibrio sancito si forma e agisce sui comportamenti dei diversi attori deWenjeu ur-ban, ma costituisce anche elemento essenziale di contrattazione tra tutti i soggetti coinvolti.
L’esito forse più interessante di questa con-testuafizzazione multipla dello spazio (e delle pratiche urbane) può essere una redi-finizione delle morfologie come esiti variabili e non come strutture permanenti, quasi forme primarie (da riconoscere criticamente) della città. Di fronte alle crisi evidenti (alle soglie della rinunzia) indotte dalla re-lativizzazione estrema della storiografia urbana, ma anche ai tentativi di definire improbabili autonomie dello spazio fisico25, si è riproposto, da parte degli studiosi più attenti, di ripartire da testi diversi di Maurice Halbwachs26. Gli spunti che soprattutto la Morphologie sociale27 offre sono indubbiamente interessanti, ma oggi forse insufficienti. Il problema, anche concettuale, è come aggredire una morfologia variabile nelle sue ragioni, senza ricorrere a spiegazioni analogiche o usando l’analogia solo per rompere interpretazioni non soddisfacenti.
Le città sembrano indubbiamente offrire semplificazioni nella lettura della propria storia, proprio attraverso il riconoscimento di morfologie comuni. La place royale, il boulevard hausmanniano, la città giardino, la Siedlung, per non fare che alcuni esempi, sono certamente schematizzazioni storio-
23 Sulle tracce ancora di D. Roche, Manières d’habiter, in Le peuple de Paris, cit, pp. 101-2.
24 In questo senso andrebbero ripensate sia le lunghe durate attribuite a certe morfologie sociali e fisiche, sia la vie desformes (anche in questo sociali come simboliche) costruite sulla loro autonoma dinamica.
25 Negli ultimi cinque-sei anni, la fortuna della letteratura urbana ha conosciuto una crisi che è legata essenzialmente all’incapacità di trovare un terreno di incontro con la storia dell’architettura. Valorizzate le morfologie (C. Olmo e B. Lepetit, Uno specchio incrinato, in La città e le sue storie, cit, p. 21), la storia della città doveva fare i conti con tradizioni che rivendicavano l’autonomia della storia dell’architettura, in quanto storia di una «fisicità* dello spazio, prodotto di culture e simbologie i cui linguaggi e codici sarebbero nati e cresciuti autonomamente.
26 Questo vale sia per M. Roncayolo, ultimamente ancora in Les Grammaires d’une ville, cit, p. 24, sia per C. Olmo e B. Lepetit, in Lo spazio dello scambio, in Le città e le sue storie, cit, p. 18.
27 M. Halbwachs, Morphologie sociale, Paris, 1938.
grafiche, ma anche elementi di un linguaggio comune ad alcune éhte, facilmente riscontrabile. Insieme al problema della circolazione dei modelli distributivi dello spazio in società progressivamente aperte, il nodo che resta da sciogliere è il permanere, dietro una cortina di forme simili, di ragioni diverse che possono portare a scelte formalmente equivalenti.
Il problema della produzione di soluzioni equivalenti è legato, nella città contemporanea, soprattutto ai processi di unificazione (a partire dal disegno tecnico) del pensare, del rappresentare, del costruire le architetture. Le pratiche stesse, in quanto istitutrici di valori, possono contribuire a spiegare alcune permanenze. Ma come si spiega un conflitto che può non risolversi in soluzioni formali differenti? La storia urbana è di fronte, in questo caso, ad uno dei suoi problemi, anche teorici, più interessanti. Conservare le concezioni di contesto, pratiche, strategie in uso, porta solo a convalidare l’autonomia possibile dello spazio fisico da quello sociale: a consolidare l’esistenza di possibili storie separate della città. Il conflitto (ad esempio sul valore economico di un suolo o di un immobile28) può, al contrario, essere rappresentato come indifferente ai
suoi esiti formali. Una volta conseguito il vantaggio (patrimoniale o finanziario), la soluzione diventa un problema di estetica o più sovente un non problema che proprio le retoriche dell’uniformità aiutano a negare. Ma tutta la storia della città, anche contemporanea, evidenzia come tra i valori maggiormente in palio, in ima contesa tra beni limitati, non bisogna dimenticarlo, vi sono quelli simbolici29. La risposta allora può essere ricercata nelle forme che la contrattazione sulla città assume, quando in discussione vi è ima morfologia urbana30: e del possibile ribaltamento di ruolo dei suoi diversi attori.
È la linearità presunta di processi decisionali a presupporre una consequenzialità tra forme di decisione ed esiti morfologici, n proprietario, il progettista, il costruttore, ognuno esercita un proprio ruolo (con le rispettive culture e pratiche), in una rappresentazione lineare (e frammentata) del processo di edificazione della città, che quasi mai trova riscontro nei casi studiati. Le normative estetiche possono essere imposte dal proprietario31, l’architetto può essere interessato soprattutto al processo di valorizzazione economica32, il promotore curarsi dei modi e delle tecnologie costruttive33. E questo non
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28 C. Olmo, Uno spazio sospeso tra tradizione e innovazione: la place Louis X a Parigi, in Le nuvole di Patte, cit, pp. 106-107.
29 Confronta, ad esempio, C. Olmo, La reconstruction de via Dora Grossa à Turin au XVIII sicle, in «Anna-les*2,1991, p. 651.
30 Cfr. C. Olmo, Turin et ses miroirsfels, in «Annales», 4,1989, ora in Le nuvole di Patte, cit, pp. 44-45.
31 È il caso, ad esempio, dei vincoli posti dal proprietario, Gay, ai developers nella costruzione di ST. James Square a Bath.
32 Pratica già riscontrabile, su base diffusa, all’inizio del Settecento. Nel 1710-12, ad esempio, Germain Bofirand avvia l’operazione immobiliare, acquisendo i terreni di rue Saint-Dominique, inizia immediatamente la costruzione, che vende, insieme al progetto di completamento, al diplomatico Michel Amelot de Gournay. AN, Minutier, L-254,24 maggio 1713.
33 È il caso, ad esempio, di Josiah Deely, esaminato da C.W. Chalkin, The Provincial Ibivns ofEngland, London, 1974, p. 169.
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avviene solo nella transizione dalla città moderna a quella contemporanea.
La morfologia è un esito variabile, anche dentro economie della serie34, proprio perché in patto è il valore simbolico, oggetto, a volte centro, di una contrattazione in cui i ruoli non sono definiti. La morfologia, ad esempio, dei civic centers nelle città statunitense del neiv deal appare quasi iterativa35: in palio, in luoghi che dovevano servire a ricostruire essenzialmente un mercato immobiliare, vi era anche la relazione tra città e sue memorie, relazioni tutt’altro che univoche nelle strategie delle diverse élites urbane, che si contendevano i benefici economici degli interventi cui proprio la retorica della ricostruzione doveva conferire un rilevante significato simbolico. Ma la morfologia variabile riporta in primo piano anche una discussione propria della cultura urbana di fine Ottocento36, spentasi progressivamente, nella convinzione che anche il mercato della terra fosse, nella città contemporanea, un mercato tendenzialmente perfetto, su cui si confrontavano valori astratti: il peso reale che ha il valore sociale del-l’«economia» nella costruzione della città contemporanea (e i confini di quest’economia, una volta riconosciuta la sua natura non unicamente monetaria ed astratta).
Tra le tante stratificazioni che la costruzio-
ne della città propone vi è forse, inattesa nelle sue forme, quella tra macro e microeconomie, tra economie morali (e simboliche) ed economie immateriali. La storia della città ha conosciuto sino agli ultimi dieci anni37 indagini massicce sui grandi aggregati economici e sugli strumenti di governo: la mobilità (sociale e territoriale), il valore dei suoli, i costi di costruzione, in un processo che tendeva ad assumere come uniforme (e riproducibile) lo spazio. Troppi fallimenti delle politiche (non solo urbanistiche) avviate per governare quegli aggregati, hanno iniziato a mettere in discussione anche quelle letture38. La riduzione degli spazi ad una riduzione economicista e, contemporaneamente, il peso assunto dai passati (simbolici, in primo luogo, ma anche fimzionali) nell’organizzare la domanda, hanno finito con mettere in luce singolari slittamenti tra macro e microeconomia.
Esistono spazi del mercato impersonale come della pianificazione che sono riscontrabili nella costruzione di frammenti delle città, come l’edilizia pavillionaire o i grand ensembles. Questi spazi dove formazione di un mercato impersonale e regolazione dei rapporti tra gli attori convivono, rimangono, nella storia della città contemporanea, congiunturali e periferici. Una grande produzione di piani e progetti, di indagini e stu-
34 II caso, forse, più interessante è quello relativo ai progetti di new toivns, durante l’economia di guerra, negli Stati Uniti tra 1940 e 1944.
35 Cfr. D. Albrecht, World Warlland thè American Dream, Boston, 1995.
36 Proprio il testo di M. Halbwachs, Les expropriations et les prue des terrains à Paris, 1860-1900, Paris, 1909, ne è forse la testimonianza più organica.
37 Sulle implicazioni anche metodologiche di questa (come di altre crisi) della ricerca quantitativa, cfr. B. Lepetit e J. Revel, L’expérimentation contre l’arbitraire, in «Annales ESC*, 47,1992, pp. 261 ss.
38 II nesso, che propone un altro dei molti livelli di attualizzazione della ricerca storica sulla città, si mette in evidenza, già a metà degli anni ’60 negli USA e alla fine del decennio in Europa, con il progressivo «fallimento* delle politiche di pianificazione alla scala territoriale, non più urbana.
di, di leggi e norme, ha cercato di generalizzare quelle «eccezioni». Ma i valori che contribuiscono a formare il prezzo (di un terreno o di un immobile), possono radicarsi nelle resistenze a vendere di un proprietario messo in condizioni di monopolio, ma anche legato ad una concezione patrimoniale del bene39, nell’appartenenza ad un gruppo professionale che vede nella terra garanzie al proprio status40, nelle strategie non sempre speculative dei gruppi che professionalmente trattano la terra41, nelle diverse attese di reddito o di mobilità, di fronte all’attività immobiliare42. Ad alzare ed abbassare i prezzi rispetto al presunto punto di equilibrio tra domanda ed offerta, possono cioè intervenire comportamenti (individuali o collettivi) che mettono in campo valori sociali o simbolici del suolo e dell’immobile, dove ciò che è economico non risponde interamente né all’attesa di reddito, né alla localizzazione, né al differenziale realizzabile tra costi e prezzi.
La città delle singole parcelle e dei lotti costruiti, presenta spazi economici governati da regole multiple, dove il contesto davvero decide e formalizza i valori anche monetari in gioco. Il problema resta, anche nella costruzione del racconto storico, come mette-
re in relazione la macro e la microeconomia urbana, come cioè mettere in relazione questi slittamenti di valori e significati, senza costruire nuove tautologie storiografiche. Tradizionalmente questi problemi hanno trovato, nell’invenzione di un’urbanistica dai confini (geografici e storici) alquanto sfumati, una possibile soluzione: tanto da proporre una storiografia specifica, sempre alle prese con il proprio statuto43. Ma la differenza di dimensione e di livelli che evidenzia anche la più semplice delle lottizzazioni settecentesche44, esclude questa scorciatoia consolatoria. Per la storia urbana il nodo è la produzione da parte di éli-tes in competizione tra di loro, di rappresentazioni, norme, politiche differenti sulla città: ed il loro intrecciarsi con le ragioni che per semplicità si potrebbero indicare come sostanziali e che muovono gli attori materiali dell’enjeu urbano.
Il teatro che brucia, la casa che crolla45 costituiscono l’occasione per imporre nuove soluzioni tecnologiche, ma anche distributive, costringere un’economia astratta ad incorporare non solo situazioni, ma valori convenzionali, oggetto di confronti e discussioni che ne possono variare nel tempo i contenuti. Così la lottizzazione che assu-
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39 Archivio di Stato di Torino, Atti di Società, anno 1894, voi. 3, fase. 65. In questione è una delle famiglie torinesi più presenti sul mercato fondiario, quella dei Momigliano.
40 C. Olmo, Une image presque parfaite, in Tùrin et ses miroirs fels, cit, pp. 772-773.
41 K.A. Lockridge, Land, Population and thè Evolution of New England Society, 1630-1790, in «Past and Presenta, 39,1968, pp. 62 ss.
42 Cfr., ad esempio, P. Pinon, Un architecte spéculateur à la Chausse dAntin. Alexandre-Thodore Brongniart, 1739-1813,Paris, 1986, p. 2 9.
43 La differenza tra storia urbana e storia dell’urbanistica è costruita dall’autonomia delle produzione di norme rispetto alla costruzione della città. Una differenza che soprattutto la storiografia italiana ha praticato, anche a livello istituzionale e «nominale».
44 P. Pinon, Un architecte spéculateur à la Chausse dAntin. Alexandre-Thodore Brongniart, cit, p. 30.
43 C. Olmo, Le catastrofi e la redistribuzione delle opportunità, in R. Gabetti e C. Olmo, Alle radici deirarchi-tettura contemporanea, cit, pp. 22 ss.
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me la qualità del singolo manufatto46 o la coerenza formale dell’insieme47 come strumento per aggregare la domanda, impone al mercato regole che la tendenziale ricerca dell’uniformità (della produzione edilizia, ma anche del valore sociale del bene) sembra negare. Gh ordini tra macro e microeconomia, tra economie astratte e sostanziali sono, nella città contemporanea, l’esito di tensioni che trovano i loro equilibri tra contesti che possono definire anche le regole degli scambi (ed in cui gh attori non hanno mai scelte univocamente indirizzate) e una produzione quantitativamente sempre più rilevante, che tende a negare l’autonomia dello spazio.
La città moderna (ma già la città di transizione della seconda metà del Settecento) sono imperfette nelle loro minute architetture come nel disegno delle strade, nella forma delle piazze, nelle altezze degli edifici, proprio perché queste convenzioni sono sostanzialmente mobifi e sempre in discussione48. Le imperfezioni della città sono, d’altro canto, per gli storici urbani, insieme gli enigmi da risolvere e le fonti più interessanti per non cadere in una storia fatta di presunte invarianti. Sono anche le chiavi per non gettare esigenze giustissi-
me, ed oggi dimenticate, di avere le serie sulle licenze edilizie, sulle quantità di vani costruiti, sui prezzi dei terreni da espropriare, insieme con la scoperta che lo spazio riordina anche quelle presunte linearità in ogni vicenda di un piccolo manufatto edilizio.
L’impossibilità per l’economia di mercato di unificare la costruzione della città contemporanea, trova riscontro in altre imperfezioni della/orma urbis, contribuendo ad arricchire, ma anche a definire, nuove regole di un possibile racconto. Le città (in realtà non solo quelle contemporanee) presentano una geografia molto complessa, e troppo spesso schematicamente identificata con quella della segregazione sociale dello spazio49, di spazi interstiziali, di aree cioè e di edifici apparentemente vuoti di funzioni e non governati da leggi riconosciute nelle altre zone della città50. La progressiva affermazione di un’economia astratta nella società contemporanea, sembra recare con sé, quasi come corollario, il progressivo affermarsi dell’organizzazione come principio di governo dello spazio urbano. Un principio che non è solamente contemporaneo51 (anche in questo slittamento di tempo pesa troppo la metafora manchesteriana) e
46 È il caso nella Parigi del secondo Settecento, della lottizzazione dei Porcherons per Brongniart, per Be-langer della rue de la Pinière, per Ledoux della rue des Petites Ecuries.
47 Cfr. P. Pinon, Lotissments spéculatifs,formes urbaines et architects à la fin de l’Ancien Régime, in Soyfflot et l’architecture des lumières, Paris, 1980, pp. 180-182.
48 È il caso, ad esempio, dei tipi disegnati da Benedetto Alfieri per la ricostruzione di via Dora Grossa a Torino, C. Olmo, La reconstruction de la rue Dora Grossa à Tùrin, cit
49 Andrebbe, a questo proposito, ripreso e ripensato il concetto di ségrégation mouvante utilizzato da Gabriel Désert in Coen pendant la seconde moitié du XIX siècle, Caen, 1979-80.
50 C. Olmo, Mille e una places Maubert, in Le Nuvole di Patte, cit, p. 15.
51 La lettura di quasi tutte, ad esempio le lettere patenti che riguardano la definizione di confini (dal medioevo, per Firenze e Bologna, ai giorni nostri), mette in luce come si cerchi di organizzare ogni aspetto della vita sociale nella città (dal mercato alla festa), per rendere lo spazio urbano.
che non si traduce unicamente nella genealogia delle «macchine»52.
Lo stesso funzionalismo, le sue retoriche ed i suoi tentativi ormai plurisecolari di rappresentare l’organizzazione dello spazio urbano, sono anche e soprattutto ricerche per rendere quello spazio economicamente astratto (e omologo). Eppure in ogni città e società contemporanea, lo spazio opaco alle regole e ai valori convenzionali costituisce un’esperienza non solo letteraria53. Dai giardini e dalle piazze della Parigi settecentesca di Retif agli isolati sigillati di Brooklyn di tanti Jilms noirs degh anni ’70, dai centri storici usati, nelle città europee come statunitensi, come primo ricovero per gli immigrati alle aree industriali dismesse, le geografie di questi spazi non seguono né le presunte teorie del valore delle aree centrali, né le regole di un’economia delle accessibilità. Non solo, queste aree sono spesso collocate in situazioni strategiche per lo sviluppo urbano, e, alle volte, la loro opacità si ripropone a distanza di decenni. Si tratta di aree, spesso di grande interesse per il mercato, dove convivono forme diverse di resi-
stenza all’omologazione economica: non sono solo frammenti di memorie non ancora attualizzate54.
Questi edifici, queste aree sembrano rispondere insieme ai bisogni di strati sociali che non si riconoscono nelle regole e nelle convenzioni prevalenti e conservare per le stesse élites urbane una nuova possibilità di progetto, quasi sempre dopo averci costruito sopra le retoriche urbane più negative55. Un’opacità che, proprio per l’impossibilità di ridurla a regole lineari può davvero aiutare lo storico a non cadere in nuovi fiinzio-nalismi, ma anche a precisare il ruolo e il peso delle diverse economie nella formazione della città contemporanea.
L’economia, nella storia della città contemporanea, risulta alla fine differenziare, non solo unificare prodotti, mettendo in crisi (non è un paradosso) il mercato come paradigma unificante della crescita urbana, produce una sovrapposizione di rappresentazioni di spazi in conflitto tra di loro, mette in moto forme di previsione (unicamente dello sviluppo) per governare la complessità, che si rivelano essenzialmente terreni su
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52 Cfr. M. Tafuri (Le macchine imperfette) e la sua lettura, ancor oggi utile, delle implicazioni (e delle semplificazioni) delle possibili traslazioni di Foucault nella storia urbana.
53 Anche se il dato letterario, da Retif a Mercier, da Fielding a Colquhoun, costituisce terreno di scambio continuo per le retoriche urbane, costruite sui saperi medici o ingegneristici, uno scambio di analogie che «costruisce» il racconto, forse più ancora dell’utopia, dei cortges, dei tableau, dei plans. Il riferimento, oltre che ad A. Farge, a M. Ozouf, a R. Chartier, andrebbe fatto ai molti lavori di Nathalie Zemon Davies e di alcuni suoi allievi. Cfr., ad esempio, M. Sluhowsky, Ora prò nobis beata virgo Genovarfa: The Pubblio Cult of Sainte-Genvieve in Late Medieval and Early Modem Paris, PhD Thesis, Princeton University, 1992.
54 In questa direzione, davvero esemplare è la complessiva vicenda del Lingotto a Torino, da edificio industriale ad area industriale dismessa, a monumento di memorie tutte da costruire. Cfr. C. Buffa e P. Ortoleva in C. Olmo (a cura di), H Lingotto, cit
55 La parabola del progresso in crisi di decadenza ripresa della città, costruisce non solo il paradigma fondamentale per legittimare l’esigenza di un’urbanistica riformista (B. Secchi, H racconto urbanistico, Torino, 1984, p. 41), ma anche elemento non secondario della letteratura storica manchesteriana sulla città industriale. Cfr. C. Olmo, Ipotesi e contraddizioni di una nuova storia delVarchitettura e della città industriale, in La città industriale, Torino, 1980, pp. 87-88.
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cui si misurano le capacità di un’élite di costruire interpretazioni condivise della crescita urbana. La città che emerge, anche dalle sue rappresentazioni economiche, è cosi uno spazio ordinato dalle opportunità e dalla capacità di saper far interagire contesto ed attori, convenzioni e forme, anche non monetarie, strategie sociah, non solo economiche. Una città che segna, dalla sua transizione verso la contemporaneità, la crisi delle teorie utilitariste e neo liberiste messe in campo per governarne la crescita e interpretarne la storia.
Questo non significa sposare un contrattua-fismo senza regole, sostituire ai funzionah-smi (anche mascherati), la necessità di riconoscere ogni volta le regole con cui «si gioca». La contrattazione può davvero significare, per la storia della città, sperimentare la contestualizzazione multipla, la possibilità di scelta non vincolata per ogni attore, la morfologia variabile, una metafora inquietante, ma che appare però in grado di tener lontano lo storico dalle secche delle analogie organiche.
La contrattazione è una pratica dove nulla (dal proprio ruolo al valore sociale dell’oggetto) è definito aprioristicamente, dove gli attori devono legittimarsi nei loro ruoli (che non sempre corrispondono alle parti che il copione vorrebbe assegnare loro), dove convenzioni, regole, norme costituiscono esse stesse materiali del contendere, dove cioè il contesto si forma e muta nella contrattazione. Come nella commedia dell’arte, queste parti apparentemente giocate senza
regole, nascondono norme che le architetture fissano e che gli usi rimettono in gioco. Il vero enigma storiografico che ancora la storia urbana lascia aperto, è l’apparente contraddizione tra una contrattazione che sembra congelata nelle pietre e una continua messa in discussione di quei punti di equilibrio nell’attualizzazione che ogni spazio, ogni architettura subisce con il tempo e gli usi.
Uno slittamento di tempi, di spazi, i cui confini sembrano sempre erosi, come i limiti della città moderna e contemporanea, che richiede la capacità per lo storico urbano di procedere per test d’hypothèse^, senza perdere il gusto per la sfida che le regole, sia pure provvisorie e sempre sottoposte a verifica, pongono a chi non si rassegna a descrivere un universo cosi ricco e complesso come quello della città contemporanea.
Regole che ogni frammento di città costruisce nel suo prodursi e nell’uso che ne accompagna le vicende, regole che generalizzano comportamenti, senza proporli come normativi, che individuano permanenze, senza risolvervi neanche un’intera facciata, che non escludono le soggettività, ma contemporaneamente propongono le convenzioni (linguistiche, distributive, funzionali) come materiali stessi di una contrattazione sempre in opera, che sembrano consolare con la permanenza di una morfologia o di un comportamento sociale, per poi proporne diverse ragioni. Una storia dove la regola deve misurarsi ogni volta con l’altezza di un marcapiano, con
56 Riprendo qui un suggerimento contenuto nel saggio E se Erodoto tornasse in Atene, cit, p. 15, che devo, nella sua possibile estensione alla storia urbana, a Bernard Lepetit
la collocazione di un busto o di un altare, con Finattesa presenza di una bottega, in un luogo di un arco, con un valore economico diverso per due beni omologhi: con la materia della città ed il suo resistere a riduzioni formaliste (simboliche come sociali). Una storia forse senza possibilità di generare quadri d’assieme, che non a caso si continuano a produrre, ma forse per questo più interessante da praticare. Una storia precaria per statuto, con regole che in ogni caso-studio devono riacquisire il
loro valore, ma una storia dove possono riacquistare valore le soggettività come le discontinuità temporali, le archeologie di un arco come i fallimenti di un lotissement urbano, il sogno di poter definire dei limiti e il quotidiano costruirsi dei prezzi su mercati comunque imperfetti. La sfida oggi è non disperdere questo patrimonio in mille, separati racconti, ognuno legittimo, nessuno capace di spiegare anche solo perché la copertura piana di un tetto può nascere e nascondere quasi infinite ragioni.
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